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Il bambino che disegnava la luna

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Se volessi ricordare la prima volta in cui presi in mano una matita, per quanti sforzi possa fare, non credo che ci riuscirei. Con una certa plausibilità potrei solo ipotizzare che sia accaduto sui banchi di scuola. Durante il primo anno delle elementari, magari. Dubito che prima di allora potessi aver utilizzato una matita poiché una cosa che ricordo bene è che non mi piaceva il colore generico del suo tratto. Una tinta che poteva deviare dal grigio spento all’argento vivo per poi mutarsi in un buio assoluto. E io del buio avevo una paura disperata. 

Preferivo le tinte colorate dei pastelli. Anzi, adesso che mi ci fai pensare, erano i pennarelli ad avere la preferenza su tutto quando si trattava di colorare i miei disegni. Tuttavia, ora che ci rifletto, non avrei potuto colorare senza prima aver disegnato e di certo i primi disegni che avrò realizzato saranno stati degli schizzi a matita. 

 

Sì, senza dubbio devo aver utilizzato una matita anche prima di andare a scuola. Forse all’asilo o più facilmente a casa, sul tavolo della cucina o steso sul pavimento della mia cameretta, tracciando scarabocchi su qualche agenda logora, sulle pagine di un vecchio quaderno inutilizzato o sul retro del foglio bianco del mese precedente del calendario. 

Segni sgorbi e incomprensibili. Finché, adesso sì che lo ricordo bene, non imparai a fare i cerchi o qualcosa che ci assomigliasse. Luna. Da piccolo disegnavo la luna. Di continuo. Riempivo un foglio dopo l’altro di circonferenze irregolari e spicchi di varia grandezza che poi mostravo euforico a mia madre dicendo che era la luna. La luna! Un’altra luna! 

E oggi non ho dubbi circa il fatto che per tracciare quei segni utilizzassi una matita. Un oggetto sproporzionato per quella mano piccina, tutto considerato. L’idiosincrasia per le matite deve essere arrivata dopo, perciò, un’intolleranza sviluppata non tanto verso lo strumento quanto per quel colore imprecisato, vorrei presumere.

 

 

Delle matite apprezzo il fatto che lasciano segni che si possono cancellare. Questo verosimilmente poiché a scuola ci facevano riempire pagine intere di vocali, consonanti, sillabe, ripetute all’infinito e righe su righe di nomi, vocaboli, verbi e tutto il resto. Quando accadeva di fare uno sbaglio era una catastrofe poiché la penna non si poteva cancellare. E allora, siccome trovavo abominevole rovinare la pagina barrando gli errori con pesanti tratti di inchiostro, per contro avrei apprezzato la possibilità di correggere cancellando gli errori con la gomma come potevo fare con le matite e non abbandonare il foglio al dominio delle macchie e degli sbuffi d’inchiostro, ovvero al caos, rendendolo simile alla superficie della luna con i suoi crateri, le sue dune e le sue ombre infinite.

C’è stato un momento quindi in cui sono tornato a considerare la matita uno strumento privilegiato e unico. Quando ho iniziato a scrivere i primi racconti provando a diventare un autore. 

La matita dava l’opportunità di cancellare e riscrivere in modo rapido quando una frase non mi convinceva. Soprattutto la matita è più leggera di qualsiasi penna e affatica la mano in misura inferiore. Con la matita riesco a scrivere in maniera veloce riuscendo a tallonare i pensieri, spiarli mentre prendono forma in testa, catturarli e trasportarli sul foglio di carta. 

 

La matita ti permette di ritrattare. Di cambiare versione. Di rimangiarti quel che hai appena scritto. Di riscrivere non solo il passato e il presente ma soprattutto il futuro. Di alterare la realtà. Di mentire, in definitiva, e raccontare balle facendola franca. E ancora inventare. Simulare. 

Persino oggi che utilizzo la tastiera del computer come strumento di scrittura, la matita rimane per me uno strumento privilegiato. Il mezzo con cui abbozzo i punti fondamentali, ma anche quelli superflui, per le trame delle mie storie e gli elementi essenziali dei miei personaggi. È con la matita che traccio le osservazioni basilari per la correzione e la revisione dei miei testi. 

Quel grigio mutevole è diventato il colore delle cose in mutazione capace di trasformare le lettere di un intero alfabeto. Le parole di un vocabolario dall’inizio alla fine e viceversa. La matita diventa il dispositivo di un potere assoluto. Quello della fantasia.

 

Appartengo ad una generazione di scrittori che è passata dai quaderni di carta direttamente allo schermo di un computer, senza passare perciò attraverso la romantica ma obsoleta macchina per scrivere. Eppure pochi giorni fa, mentre ero intento a mettere in ordine i cassetti della mia scrivania mi sono imbattuto in un piccolo astuccio di paglia intrecciata.

 

Non ricordavo come fosse finito lì dentro, men che meno quando. Tuttavia quel che mi stupì in misura maggiore fu trovare al suo interno decine di piccole matite affastellate come mozziconi di sigarette di legno. I moncherini che rimangono a forza di temperare una matita fino allo spasimo. Rimasugli messi insieme nel corso del tempo. Testimoni e reduci di anni di scrittura. Se ne stavano là dentro occultati, esiliati come inconsapevoli sensi di colpa. Li ho osservati a lungo. Nella mia mente si rincorrevano immagini legate a eventi ormai passati. Lampade, scrivanie improvvisate, camere in affitto e polvere di gesso. Taccuini, quaderni a quadretti, fogli di carta e tovaglioli. Quindi li ho gettati nel cestino. 

Uscendo di casa pensai che era ora di comprare una scatola di matite nuove. Avevo in mente di mettere giù gli appunti per un breve racconto che volevo scrivere. Questo.

 

Le altre matite:

 

Anna Toscano, Facendo la punta

Gianni Montieri, Breve storia di alcune matite

Mauro Zanchi, 2H

Francesco Lauretta, Breve storia delle mie matite

Francesca Serra, Simonio e Lyndiana

Chiara De Nardi, Matita. Strumento divinatorio

Giuseppe Di Napoli, L'anima nera del carbone

Aldo Zargani, La matita del fato

Giovanna Durì, La prima matita e le sue compagne

Francesca Rigotti, Matita: veloce e lenta, giovane e antica

Maria Luisa Ghianda, Histoire d’H (di B e di F)

Guido Scarabottolo, Perdonare gli errori

La redazione, Una matita per l'estate. Il concorso doppiozero

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Una matita per l’estate
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Feudalesimo universitario

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L’ampia eco mediatica data all’arresto di sette docenti universitari in Diritto tributario, per aver truccato concorsi, rischia di indurre nel pubblico una falsa immagine dell’università italiana: fa pensare che la falsificazione dei concorsi accademici sia una rarità, mentre in realtà è la regola. Chiunque (come me) conosca un po’ il mondo accademico sa bene che i concorsi all’Università e in molti istituti di ricerca sono quanto più lontani dall’accertamento del merito. E questo specialmente nelle facoltà più corrotte, Medicina e Giurisprudenza. 

Il sistema semi-feudale della cooptazione degli accademici è la spia della mediocrità del sistema universitario e scientifico italiano. Per capirci però qualcosa occorre sgombrare il campo da un certo fake knowledge.

Intanto ci si lamenta che molti studiosi italiani se ne vadano a far carriera in Gran Bretagna, Germania, Francia o Svizzera. In paesi che appartengono o sono appartenuti all’Unione Europea, o sono stati cooptati da essa. Questo dimostra lo scarso spirito europeista di questi commentatori: l’Unione Europea non era stata fatta proprio per far circolare facilmente non solo i lavoratori, ma anche gli intellettuali? 

Si parla sempre della produzione scientifica di un paese come di un vantaggio e mai anche come di un costo. A parte le scoperte che riguardano direttamente la sfera militare e che quindi restano segrete, una scoperta scientifica e un’invenzione tecnologica sono patrimonio di tutta l’umanità, e conta in fondo poco dove sia stata fatta. L’invenzione del cinematografo in Francia non ha impedito poi a Hollywood di diventare la maggiore macchina di produzione di merce filmica. Il fatto che la meccanica quantistica sia stata creata soprattutto da scienziati tedeschi non ha avvantaggiato specialmente la Germania (anzi, la prima bomba atomica è stata costruita dagli americani, per fortuna, non dai tedeschi). In effetti, produrre un premio Nobel è molto costoso, perché per uno che vince il Nobel altri cento ricercatori non sono riusciti a scoprire granché. Ogni paese dovrebbe chiedersi piuttosto: Quanto io paese sono disposto a spendere per contribuire al progresso scientifico e culturale dell’umanità? Un po’ come ogni paese deve chiedersi quanto voglia contribuire agli aiuti per le nazioni povere.

 

È vero che molte scoperte si concretizzano in brevetti. Ma non è detto che chi usufruisce degli introiti di un brevetto viva dove ha inventato la cosa brevettata. Può darsi che un italiano scopra e brevetti qualcosa negli USA e che poi se ne vada a vivere in Cina, paese dove riceverà i soldi del brevetto.

Comunque, università e istituti di ricerca italiani attraggono ben poco studenti e ricercatori stranieri. Evidentemente perché abbiamo un insegnamento superiore di basso livello, comunque poco prestigioso. Secondo la classifica THE delle migliori università nel mondo, due sole università italiane appaiono nella classifica delle prime 200, entrambe a Pisa: la Scuola Superiore Sant’Anna (155a) e la Scuola Normale di Pisa (185a). Contro le 62 università statunitensi, le 31 britanniche, le 20 tedesche, le 13 olandesi, le 8 australiane, le 7 svizzere, le 4 belghe… che appaiono tra le prime 200. 

 

Abbiamo anche un tasso molto basso di persone (tra 25 e 64 anni) che hanno completato la loro educazione terziaria: solo il 17% (nel 2014). Contro il 54% del Canada, il 48% del Giappone, il 44% degli USA, il 42% della Gran Bretagna, il 35% della Spagna, il 32% della Francia, il 27% della Germania. Si laureano più di noi anche i portoghesi (22%) e i greci (28%). Insomma, insegniamo male a poche persone. Tra i paesi sviluppati, siamo tra i meno colti.

Siamo tra gli ultimi posti anche nella Ricerca & Sviluppo. E siamo solo decimi (nel 2015) per numero di brevetti, dopo – nell’ordine – Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud, Germania, Taiwan, Cina, UK, Francia, Canada. E a grande distanza da essi. 

Si dice che questa nostra mediocrità dipenda dal fatto che spendiamo poco per l’istruzione e per la ricerca. E in effetti spendiamo per l’educazione in generale il 4,08% del PIL, contro il 5,73 del Regno Unito, il 5,49 della Francia, il 5,39 degli USA, il 5,28 del Canada, il 4,95 della Germania, il 4,27 della Spagna.  Che spendiamo meno di quanto potremmo, è bene illustrato da questo grafico sui paesi OCSE:

 


 

La linea mediana centrale segna la congruenza tra il PIL pro capite dei vari paesi e le loro spese per l’istruzione universitaria. I paesi che si trovano sopra questa linea sono quelli che spendono oltre questo livello, insomma sovra-investono nell’istruzione terziaria; i paesi che si trovano sotto questa linea sono quelli che sotto-investono nell’istruzione terziaria. Come si vede plasticamente dal grafico, i paesi che spendono di più per l’istruzione rispetto alla loro ricchezza sono Regno Unito, Stati Uniti e Svezia, che ottengono anche i risultati più lusinghieri in termini di qualità riconosciuta dell’insegnamento superiore. L’Italia invece appartiene al plotone dei paesi che sotto-finanziano l’istruzione superiore, assieme a Corea, Islanda, Irlanda e Austria. Dovremmo quindi dedurne che in Italia dovremmo spendere di più per l’istruzione.

 

 

Ma basta spendere di più per avere un paese più colto? Il Giappone, ad esempio, spende meno di noi (3,95% del PIL), ma con risultati molto migliori dei nostri. Certamente sarebbe fondamentale investire più danaro nell’istruzione, ma il punto è come spendere questo danaro.

 

Occorre premettere un discorso di sfondo, altrimenti si finisce nella triviale polemica giornalistica. 

Chi è abituato a leggere statistiche e cifre di ogni tipo, sa bene che i paesi del mondo possono essere catalogati per rango. Il rango di un paeseè determinato da una serie di fattori fondamentali, che di solito tutti, di sinistra o di destra o di altro, consideriamo positivi. Il rango di un paese è tanto più alto quando rispetto agli altri paesi:

 

- Ha un maggiore livello culturale (migliore istruzione, più laureati, migliore risposta degli studenti ai test di capacità in lettura scienze e matematica)

- Si leggono più libri e media che altrove

- Ha il PIL pro capite più alto e minore disoccupazione

- Ha il sistema sanitario più efficiente e più accessibile a tutti

- Gode di una maggiore eguaglianza di genere, più donne lavorano, più donne in posizioni dirigenziali

- Ha più alta speranza di vita, minore mortalità infantile

- Il più alto indice di democrazia e di libertà dei media

- Maggiore produttività e competitività in campo economico

 

Ora, un paese di solito – a parte alcuni aspetti che possono divergere – è facilmente assegnabile a un rango perché tutte queste qualità si raggruppano più o meno allo stesso livello per ogni paese. Se un paese è di quinto rango, mettiamo, per eguaglianza di genere, sarà di quinto, o tutt’al più di quarto o sesto, in tutti gli altri aspetti. Ad esempio, Italia e Spagna appartengono allo stesso rango, anche se per certi aspetti l’Italia supera la Spagna e in altri è il contrario. 

Ora, anche per quel che riguarda il suo sistema educativo, l’Italia conferma il proprio rango: ovvero risulta tra gli ultimi paesi OCSE, e supera sistematicamente Grecia, Cipro, Romania, Bulgaria e Malta. Insomma, l’istruzione superiore e la produttività scientifica fanno parte di un “sistema paese”, e tendono a essere in linea con gli altri aspetti di questo stesso sistema. Del resto, abbiamo ranghi diversi all’interno di uno stesso paese. In Italia, come è noto, in tutti questi aspetti troviamo ai primi posti le regioni del Nord, al centro quelle del Centro, e agli ultimi le regioni del Sud e le Isole. 

 

Sarebbe davvero ingenuo pensare che il rango di un paese è determinato solo da scelte politiche, insomma, dalla qualità od onestà dei suoi politici. La teoria dei sistemi – il modo più intelligente di guardare alla realtà sociale – ci insegna che la politica non è qualcosa al di fuori del sistema sociale, ma è parte di esso. Anche nel senso che, se un paese è di basso rango, i suoi politici saranno di bassa qualità in linea col rango del paese. Del resto i politici sono eletti dai cittadini, i quali così esprimono quello che sono. Se un paese è relativamente ignorante e corrotto come il nostro, esprimerà dei politici relativamente ignoranti e corrotti. Ma esprimerà anche dei professori universitari relativamente ignoranti e corrotti. Siamo propri sicuri che abbiamo così poche università eccellenti solo per colpa dei politici che non danno abbastanza fondi?

Significa questo che non c’è speranza nell’azione politica? Non tanta speranza quanto ci vuol far credere la demagogia. Ma significa che bisogna agire mirando a salire di rango, per dir così, in tutti gli aspetti fondamentali della vita, e non solo attraverso la politica. Per esempio, i paesi del Nord Europa (paesi scandinavi, Germania, Olanda, più Australia e Canada) occupano i primi ranghi in assoluto nel mondo. Ma non sono stati sempre così. Un tempo la Scandinavia era la parte depressa del continente. Poi queste società sono cresciute e sono divenute le prime al mondo, ma non grazie a politici geniali: hanno prodotto poco a poco i politici che meritavano. 

 

La teoria dei sistemi complessi non ci permette di dire da dove bisogna cominciare per far salire una nazione di rango. Di solito si pensa che occorra partire dalla politica, ma non è affatto detto. In un sistema ogni ambito – come l’istruzione – è condizionato da tutti gli altri. Ma ciascuno, nel proprio piccolo e nel proprio campo, può provare a cambiare le cose.

 

Che cosa si dovrebbe fare allora nell’istruzione per aiutare l’Italia a salire di rango? Certamente si dovrebbe spendere di più, abbiamo detto, anche senza arrivare alle vette di UK, USA o Svezia. Ma non basta. È la struttura dell’insegnamento superiore che dovrebbe cambiare.

L’istruzione universitaria svolge di fatto tre funzioni fondamentali ma distinte. Una è quella di fornire un sapere professionale specifico – cosa che fanno soprattutto facoltà come ingegneria o medicina o giurisprudenza.  Un’altra è quella di elevare il più possibile il livello di cultura della massa: per questa ragione più laureati ci sono in un paese, più esso ne mena vanto. Il famoso slogan di Tony Blair – “Education, education, education” – significava appunto questo: per far fronte alla competizione crescente dei paesi in via di sviluppo, noi paesi più industrializzati dobbiamo puntare al massimo sul capitale umano, cioè su un livello elevato di istruzione.

 

La terza funzione è quella di dare un’istruzione speciale ai più dotati, a chi è capace di prestazioni scientifiche o culturali di alto livello. Ora, una certa demagogia egualitaria in Italia nega questa terza funzione, che invece viene esaltata nei paesi con maggiore produttività scientifica. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – ma anche in Francia con le Grandi Scuole – c’è una gerarchia tra gli istituti universitari; non tutti possono entrare a Oxford e Cambridge, non tutti ad Harvard e Stanford, non tutti all’Ecole Normale Supérieure francese. Ovvero, per accedervi occorre superare una selezione. E in effetti in America non si chiede a una persona “In cosa hai la laurea?” bensì “Dove hai preso la laurea?” L’importante è il livello di istruzione che hai avuto, non tanto in che cosa. L’importante è aver imparato a imparare. Mi capita talvolta di incontrare dirigenti di banca o manager di grandi aziende americani che hanno magari un degree in sinologia o in teologia o in letteratura americana, ma quel che conta è che lo abbiano preso a Yale o alla Columbia, università Ivy League. Allo stesso tempo però gli Stati Uniti forniscono una laurea al 44% della popolazione adulta, mescolano insomma un approccio democratico e uno aristocratico. 

 

È vero che le università americane più prestigiose – quelle cioè che selezionano accuratamente i loro studenti all’entrata – sono molto care. Ma quando uno studente è ammesso in un’università prestigiosa, gli si aprono tutte le porte davanti: potrà avere una borsa di studio che gli pagherà le tuitions, gli sarà facile avere un prestito quarantennale a tasso ridotto, ecc. 

La polemica sul numero chiuso delle facoltà è quindi completamente mal posta. Perché se si pensa che la funzione dell’università sia quella di far crescere il livello culturale medio, il numero chiuso è un controsenso. Ma se si pensa che la funzione dell’università sia di fornire una formazione di altissima qualità, allora il numero chiuso è un’assoluta necessità. Ora, sarebbe ora di capire che questa duplice funzione non può essere svolta da una stessa facoltà! Occorre distinguere facoltà di élite (a numero chiuso) e facoltà per tutti (aperte). 

 

Mi sembra già di sentirli gli oppositori: “Così si creeranno università di serie A e università di serie B!” Ma certo, i paesi che hanno il maggiore potere scientifico nel mondo, in tutti i campi, hanno università di serie A, di serie B, e anche di serie C. Volere che le università siano di altissima qualità e che allo stesso tempo siano aperte a tutti è volere la botte piena e la moglie ubriaca.

Si dirà: che valore sul mercato del lavoro potrà avere una laurea di serie C? Certo di più che non avere alcuna laurea. Il fatto che molte aziende prendano solo laureati per certe mansioni non è dovuto al fatto che l’università abbia dato loro un sapere professionale specifico. Ogni grande azienda sa che il vero sapere professionale si acquisisce lavorando, in loco. Ma avere una laurea è segno che quella persona è riuscita a portare a termine qualcosa nella vita. Che si è fatta valutare da professori e che questi l’hanno promossa. Avere una laurea è un marchio psicologico, non prova di chissà quale sapere (tranne che nelle facoltà strettamente professionalizzanti).

 

Ne discende l’eliminazione del valore legale del titolo di studio, che del resto fu già proposto in tempi non sospetti, negli anni 70. Con questa abolizione, si verrebbe assunti non sulla base del pezzo di carta, ma sulla base delle proprie effettive capacità, sulla base insomma di quello che si sarà davvero imparato. Sarebbe quindi interesse di ogni università alzare il livello della propria offerta formativa per immettere sul mercato dei laureati in grado di trovare lavoro qualificato.

Se fossi ministro dell’istruzione, cercherei di creare in Italia alcuni centri universitari di massima eccellenza – e non solo a Pisa – con corsi interamente in inglese, e offrendo lauti salari a esperti di ogni paese per attrarli in Italia. E allo stesso tempo – scelta non contraddittoria – cercherei di allargare il numero delle università minori in modo da incoraggiare tanti a intraprendere un percorso universitario.

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I mali della istruzione italiana
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Salviamo la comunicazione sul web

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Salvare il digitale da se stesso. Può sembrare un proposito paradossale, nell'epoca della sua massima espansione economica. Proprio mentre scrivo, intellettuali e politici di tutto il mondo costatano ancora una volta l'enormità del potere accumulato dai colossi del web. Messi insieme, è stato calcolato, i soli Google Amazon Facebook Apple e Microsoft adesso valgono il quinto stato più ricco del pianeta, peraltro privo dei debiti delle nazioni. Anche il Financial Times si chiede se questo schieramento non sia ormai too big per accettare regole. Senza contare il gigantesco influsso, non solo economico, che l'online ha raggiunto nella vita di ognuno di noi. Di quale aiuto dunque può mai aver bisogno il web?

 

E di quali consigli per di più potrà aver bisogno la pubblicità digital, da anni proclamata in costante incremento di fatturato? Attenti innanzitutto a considerarlo un tema specialistico. Nascoste sotto le mentite spoglie di argomento tecnico, le inserzioni su internet sono al momento l'unico motore economico non solo dell'intrattenimento ma anche della libera informazione online. Quanto basta per considerarlo un tema persino politico, d'importanza collettiva. Altro che materia per esperti. Val la pena insomma di interessarsi ai suoi destini. Anche perché, se l'impero è in evidente espansione, altrettanto sono visibili le sue crepe.

 

Prendiamo il successo di AdBlock. Per chi tra voi non dovesse saperlo, si tratta di un'estensione – ossia di un programma che amplia browser come Chrome o Safari – creata per liberare la navigazione sul web dalla miriade di banner, pop up, interstitial e via elencando i pullulanti formati della pubblicità digital. Il suo ideatore fu un giovane programmatore, Michael Gundlach. AdBlock fa esattamente ciò che promette nel nome: vieta l'accesso durante la propria navigazione alla terribile pubblicità web, come per esempio i pre-roll, ossia le inserzioni da sorbirsi prima di vedere un video, oppure quelle, ancora più invadenti, intromesse tra noi e l'articolo, magari anche complicate da rimuovere.

 

Nonostante gli AdBlock – quello di Gundlach è stato solo il primo esempio del genere – abbiano ricevuto poca attenzione dai grandi media, la loro diffusione sta crescendo sui computer di tutto il mondo, compresi quelli italiani. Nel 2016, sette milioni di nostri concittadini risultavano, nel silenzio, avere adottato questo vero e proprio dispositivo di autodifesa la cui utilità si è così affermata da diventare "di serie": è il caso di Samsung e Apple, che a breve distanza l'uno dall'altro hanno offerto ai propri utenti la possibilità di scaricare sistemi di adblocking. E il segnale a questo punto si tramuta in allarme.

 

Anche perché, per gli editori, tutto ciò può rappresentare un danno notevole. Non ci vuol molto a capire come, di questo passo, gli spazi pubblicitari online possano diventare sempre meno appetibili. Ora, cosa dovrebbero fare i marchi davanti a un fenomeno del genere? Invece che disperarsi o, peggio ancora, come si legge, studiare nuove tecnologie che aggirino gli AdBlock, farebbero bene a riflettere sulle parole dello stesso Gundlach – il quale durante una conferenza già nel 2010 ha dichiarato "poiché la pubblicità è così fastidiosa per così tanta gente che vuole eliminarla, la pubblicità dovrebbe cercare di essere meno fastidiosa". Geometrica chiarezza.

 

 

A me gli AdBlock ricordano in verità qualcosa di ben poco digitale, ossia quei cartelli che spesso capita di leggere sui portoni dei palazzi: "Niente pubblicità per favore". Hanno un tono perentorio, ma si potrebbe anche considerarli come degli inviti a cercare modi meno sgradevoli per far arrivare quelle informazioni. Non a caso Gundlach dichiara che il suo "risultato ideale sarebbe dover ritirare questa estensione, quando tutto il web sarà ricoperto solo da pubblicità che alla gente piace e che a nessuno viene in mente di bloccare".

 

Internet si annunciava, lo sappiamo, come la possibilità straordinaria di realizzare ciò che si è sempre cercato, ossia un paritario rapporto "one to one" con il pubblico. Anche Zuckenberg presentò così Facebook agli inserzionisti: eccola, finalmente, la conversazione tra brand e pubblico. Su queste basi i social network hanno costruito platee nuovissime, raccogliendo grandi audience a scopi pubblicitari. Il fenomeno AdBlock, però, parla chiaro: l'occasione è stata persa. La pubblicità sul web replica i peggiori schemi del passato, martellanti e disinteressati a qualunque forma di relazione rispettosa. E, a dirla tutta, sembra che lasciar fare ai citati giganti del web non sia stata una grande idea. 

 


Risultato? La gente oggi detesta la pubblicità su internet e la rifugge appena può. Anzi, quella sregolata aggressività rappresenta il ribaltamento delle promesse iniziali della rete. Sul web il pubblico non ha ricevuto più libertà di prima ma più pressione. Il suo lettore non è considerato un soggetto attivo ma un passivo ricettore di valanghe di messaggi inutili. E certo non è visto dagli inserzionisti come una persona ma, più che mai, un numero da conteggiare, pedinare, intercettare in ogni momento. Un dato.

 

E non ci riporta, questa involuzione, ai deliri della pubblicità scientista che Bernbach già alla fine degli anni '40 decise di contrastare? Davanti all'onnipresenza insistente di certi banner sembra di risentire quel Rosser Reeves che negli anni cinquanta confidava nel bombardamento tv fino a dire "la gente guarderà la pubblicità, che sia interessante o no". Tutto questo sforzo tecnologico non ha portato una nuova idea di pubblico e di linguaggio. Siamo ancora agli anni cinquanta. Anzi, è stupefacente proprio vedere come la quasi totalità dei marchi, davanti a rifiuti espliciti quali l'adblocking, non riesca neanche a concepire una risposta qualitativa e non sia sfiorata dalla possibilità di poter cambiare approccio linguistico preferendo il chiuso della propria autosufficienza.

 

Eppure non è solo il pubblico a inviare segnali di saturazione. Per quanto i media non lo raccontino volentieri, e preferiscano un'acritica e ormai invecchiata vulgata entusiastica, anche gli inserzionisti non sono più in luna di miele. È il caso degli investimenti in Programmatic, ossia degli acquisti automatizzati di spazi pubblicitari, che pongono problemi di trasparenza finora irrisolti: per i committenti è quasi impossibile tracciare la dislocazione delle proprie campagne, in parole povere capire che fine facciano i propri soldi. E ancora. Una recente inchiesta del Times ha scoperchiato il tema della Brand Safety, cioè di inserzioni che attraverso assegnazioni automatizzate si collocano su siti web volti a finanziare terroristi o gruppi neonazisti. Marchi come Land Rover o L'Oreal, giusto per citarne un paio, non hanno gradito, e le piattaforme Google hanno subito le defezioni illustri di molti grossi account.

 

 

Problemi di non diversa natura, sempre legati all'autosufficienza, all'intangibilità, all'impossibilità materiale di verificare, sono legati anche alle impression fraudolente e al traffico fakeuna ricerca valuta in 16,4 miliardi di dollari il costo delle frodi pubblicitarie nel 2017 – così come alle performance delle inserzioni sui social: chi controlla il loro rendimento? Può essere credibile che a certificarlo sia il loro stesso venditore? Si pensi a Facebook, che ha recentemente ammesso di aver alterato al rialzo il conteggio delle view dei propri video pubblicitari. L'inafferrabilità del web è non a caso alla base della clamorosa decisione di un cliente non proprio minore – Procter & Gamble– che ha deciso per il 2017 una stretta sui propri investimenti nel digitale. “Mio papà mi ha insegnato che se anche tutti i miei amici decidessero di gettarsi dal ponte, io non devo farlo”, ha dichiarato Marc Pritchard, Chief Brand Officer della corporation.

 

Un quadro troppo fosco? Solo gli inevitabili assestamenti di un mondo, quello digitale, che in fondo muove in questi anni i suoi primi passi? Di certo non è impensabile che con l'andamento attuale il web – con i suoi cookies, i suoi big data, con il suo opaco desiderio di tracciare ogni nostro movimento – finisca per condannarsi lentamente al suicidio, ovvero alla sua estinzione così per come l'abbiamo conosciuto. Non sarebbe imprevedibile cioè se l'intrattenimento e le relazioni – oggi così fitte – domani trovassero un modo per uscire da lì. Vorrebbe dire che il web non sarà più percepito come spazio neutro, di autonoma condivisione, ma che sarà diventato agli occhi di tutti ciò che già oggi fa intravedere: un luogo perennemente interessato a usarci, la patina gradevole di una trappola multiforme.

 

Può darsi insomma che siano destinati a restare in rete solo i servizi; i biglietti da acquistare, i pacchi da farsi recapitare, la spesa online... e non stupirebbe, a quel punto, se i nostri figli guardassero all'internet del futuro un po' come i giovani vedono oggi la tv generalista, ossia un media essenzialmente vecchio, finto, saturo di brutte inserzioni, uno spazio "in posa" incapace di creare fatti nuovi. La cultura digitale sarebbe così vittima della propria autosufficienza, dell'idea che la comunicazione sia un evento tecnologico invece che umano. Ma è proprio qui che si ridefinisce il ruolo degli autori pubblicitari in epoca digitale.

 

 

Se una cosa ci hanno insegnato, il vecchio Bernbach e altri come lui, è che la sfida dei bravi pubblicitari non è imbottire il pubblico suo malgrado, ma creare momenti d'incontro sorprendenti ed emozionanti, rispettandolo, considerandolo su un piano paritario, per intavolare con lui una conversazione basata sulla reciproca umanità. Perché è un modo migliore e più onesto di lavorare ma anche perché il contrario ha scarse possibilità di funzionare. Per questo oggi è fondamentale ricucire con quel sapere di qualche decennio fa, per recuperare insegnamenti cruciali più che mai.

 

E dunque, di quali competenze c'è davvero bisogno ora? Qual è il compito dei creativi adesso, sul web? Lasciamo che a dirlo siano alcuni tra i grandi protagonisti dei successi digitali di questi anni. Il primo è John Mescall, australiano direttore creativo di "Dumb Ways To Die", l'operazione che sbancò Cannes 2013 in forza di una viralità senza precedenti. Forse la ricordate, fu il loro modo per dire nella Metro di Melbourne "non oltrepassate la linea gialla". Mescall tradusse in "è un modo troppo stupido per morire" e nacque un video il cui humor nero ha deliziato il mondo. Leggiamo questo estratto da un'intervista.

 

 

"Qualche anno fa l’aspettativa era che se facevi un annuncio abbastanza divertente e interessante, le persone sarebbero andate a vederlo da qualche parte. Vi ricordate l’ascesa dei minisiti, piccoli siti dedicati a singole campagne? Ogni campagna aveva un minisito e dovevi andarci. Le persone non vogliono più farlo. Si rifiutano di viaggiare fino a te. Le persone vogliono trovarsi di fronte al tuo contenuto, e non solo per il loro divertimento; vogliono condividerlo tra di loro, controllarlo, possederlo. Non vogliono più doverti raggiungere. (...) La pubblicità online non deve basarsi sull’interruzione. (...) E non è questione di età: è questione di psicografia non di demografia, è questione di atteggiamento. Ci sono sessantenni che vivono intere vite online e ci sono ventenni che chiudono le pagine Facebook e si spostano deliberatamente offline. Ciascuno è diverso."

 

In breve, Mescall ci sta dicendo che con modi nuovi ha cercato un incontro antico: creando un contenuto per un tipo di pubblico attivo, reattivo, da rispettare e intrattenere. A proposito: non tutti conoscono una campagna dei primi anni sessanta, firmata dalla DDB di Bernbach, che parlando di sicurezza stradale mostra un sorpasso in curva e lo definisce un "dumb way" di rischiare la vita. Non vuol dire che Mescall ha copiato, vuol dire una cosa più importante: entrambi hanno cercato lo stesso tipo di rapporto con il pubblico. Franco, onesto, coinvolgente.

 

Il secondo caso è quello di van Damme e del suo Epic Split per Volvo. Campagna che totalizzò oltre 100 milioni di view, firmata dall'agenzia svedese Forsman & Bodenfors. Sono i creativi stessi a raccontarlo: in un primo momento pensavano a una pianificazione tradizionale, ma poi, vista la scarsità del budget, si decise di investire tutto nella produzione di una serie di commercial visibili solo su Youtube. E cosa scriveva qualche decennio prima il nostro Bernbach? «La creatività, se usata in modo corretto, darà come risultato numeri più alti nelle vendite, a fronte di un investimento più ridotto. Se applicata in modo corretto la creatività riesce a fare il lavoro di dieci. Se applicata in modo corretto la creatività farà uscire il claim della marca dalla palude del tutto uguale per renderlo un concetto accettato, convincente, credibile ed immediato».

 


L'ultimo caso è di una delle agenzie digitali più importanti del mondo: AKQA. Il suo ex direttore creativo, Rei Inamoto, racconta questa storia affascinante: "Una delle lezioni più importanti della mia vita non è stata in una classe, e credo lo stesso valga per molte persone. È stato un gesto semplice di mia madre. Avevo circa dieci anni; a quel tempo ero affascinato dalla musica e volevo che i miei genitori mi comprassero un sassofono. Non sapevo suonarlo, credo che fosse più una cosa di tendenza. Mia madre, invece di comprarmi uno strumento, mi ha comprato un libro su come costruire uno strumento. Come a dire: prima impara suonare lo strumento che ti fai tu, poi chiedimi di comprarti un sassofono. Ecco, più che una tecnica credo sia importante insegnare a pensare in un certo modo. (...) credo che l’elemento umano sia imprescindibile. Penso che molte delle attività degli uomini saranno svolte da software, ma in fin dei conti — mi dimentico la citazione esatta — “le persone non dimenticano come gli altri le hanno fatte sentire” (cit. Bernbach, ndr). Gli esseri umani sono esseri emotivi, e non credo che le macchine abbiano ancora scoperto qual è il trucco. Credo che ci arriveranno, ma non so tra quanto, se fra dieci o cinquant’anni. Essere capaci di parlare al cuore è ancora il nucleo di quello che facciamo".

 

Insomma, i grandi protagonisti di questi anni "virali" dimostrano che i requisiti non sono cambiati. Ci ricordano che c'è ancora bisogno di insegnare il latino e il greco della pubblicità. I suoi originali perché. Compito degli autori pubblicitari sul web oggi è quindi ricreare un ambiente linguistico e contenutistico nel quale possa vivere, sopravvivere e persino esaltarsi l'anelata conversazione, il rapporto paritario tra chi comunica e il pubblico, un ambiente nel quale le idee non necessitano, come dice l'inventore di AdBlock, di essere imposte. Anche perché, vista da un buon pubblicitario, la stragrande maggioranza delle inserzioni web oggi non ha alcun senso, né commerciale né comunicativo.

 

È curioso il modo in cui il pubblico di internet viene dato per scontato. Come fosse ormai una realtà definitiva. Come se non fosse composto da persone. Persone che, se si continuerà a far finta di nulla, finiranno per svuotare il contenitore, lasciando i banner a lampeggiare da soli. E sappiamo già che ci saranno, nel mondo intorno, cento, mille cose più interessanti da fare. Sì, in questi anni si è raggruppata una grande quantità di persone davanti a nuovi schermi e sì, tutta questa gente è un potenziale pubblico cui rivolgersi. Ora però bisogna insegnare agli autori pubblicitari a fare in modo che non diventi l'ultimo posto nel quale desiderare di trovarsi.

 

Ecco perché il libro di Diego Fontana – Digital Copywriter, Franco Angeli, 2017 – è uno strumento fondamentale, una vera cassetta di pronto soccorso per chi lavora e lavorerà alla pubblicità sul web. Non solo i medicamenti che suggerisce sono utili, ma i suoi riferimenti sono nobili e preziosi. Esulano spesso dal digitale e lo riconnettono con la più ampia sfera del linguaggio pubblicitario. Riconosce le specificità del web ma non lo concepisce come sacrale mondo a parte, e cerca semmai di includerlo in una ricerca di senso che dovrebbe accomunare tutta la buona comunicazione. Se altrove si celebra il suo gergo specialistico per iniziati, qui si vuol fare del digital una nuova, rispettosa occasione d'incontro, cogliendo in esso la nuova chance di applicare quella fantasia, quell'originalità, quella freschezza che dai tempi di Bernbach i buoni comunicatori cercano di introdurre nel linguaggio pubblicitario. Il che fa di questo libro un contributo molto generoso alla sopravvivenza dell'ambiente digitale come spazio di comunicazione. Non so se i colossi del web se lo meritino. Tutti noi certamente sì.

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In soccorso dei più forti
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Conversation with Daniel Blaufuks

Italian Version

 

Laura Gasparini - Almost all your work is based on memory and the various forms that it encloses and represents. Do you think photography is the most suitable language for working on the concept of memory?

Daniel Blaufuks– Not really, I think literature and some cinema are more suitable, since they demand from the viewer a larger span of attention and immersion. Nevertheless, photography is already memory by its own essence, so memory is inherent to the photographic process.

 

LG In This Business of Living, you make a clear reference to the literature, particularly to the diaries of Cesare Pavese published under the title This Business of Living. What has struck you for that work?

DB – Well, Pavese is a wonderful writer and his diaries are beautiful in his musings of everyday life, which I am very interested in. The word mestiere, which does not translate well into English, speaks of this necessity to live, to reinvent life on an everyday basis. This can be a difficult task at some times and for Pavese it ended tragically with his suicide. The last annotations in his diary are to the point, but also on a day where he just writes: “today, nothing.” So, at a time when I had my own sorrows, I worked on a series of photographs that related to this idea of time unfolding day by day. Later it was an exhibition, even later a book, and is, to a certain extent and along with another writer Georges Perec, also the basis for the series “Attempting Exhaustion”

 


LGSome images of this project are real Still Lifes that have the charm of those of the seventeenth century, which behind the formal aspect hide deep meaning and symbolism. Is it so also for your pictures? Some images of this project are real Still Lifes that have the charm of those of the seventeenth century, which behind the formal aspect hide deep meaning and symbolism. Is it so also for your pictures?

DB– Yes, I am interested in a kind of photography that has some depth and meanings beyond its surface. I am certainly not keen on photographs that only are what they seem to be.

 

LGLiterature, the word is very important for you. Sometimes it is a strong mediation with reality. I am referring to your project on Terezín from which you started from the collection of W.G. Sebald to go then to investigate those places of memory.

DB– The meanderings of literature are platforms from which you can project thoughts and images. When a writer, such as Sebald, uses photographs as well, many other possibilities of images are born. In Terezín I followed one of many possible paths starting with one photograph published in his last book Austerlitz. The image was made by a German photographer Dirk Reinatz in the former concentration camp of Theresienstadt in the Czech Republic and that path took me in the end to make my own book about it.

 

 

LGIn your work you also use other forms of memory such as historical photographs, anonymous authors that you extracted from the archives life to assign other meanings, other reading modes.

DB – Every image can have many possible readings, according to where, when and by whom it is seen and by whom it is distributed. This is the danger of photography, that the same image can be used for all types of information, that it can be misused, misquoted, altered, reframed, etc. One should handle this fragile material with extra care and that is what I try to do.

 


LGMany exhibits are made of different materials: words, posters, historical photographs, objects and of course your photographs. I refer in particular to the exhibition at Toda a Memória do Mundo, Part One (All World Memory, Part One). However, it seems to me that you prefer the form of the book, the notebook, the diary, an object held in your hand, and it comes with its own times of perception and reading.

DB– An exhibition is something very temporary and geographically quite restricted, while a book can last and can travel. A book is democratic because it can be more easily accessible than an artwork. The book might be the greatest invention of mankind. It is public and private, it can be seen in a café or in a library. It can be given as a gift. It is a memory in itself: where did I get this book, where did I read it first, what is this piece of paper I kept inside?

 

LGGoing back to the places, looking at the past, as Gaston Bachelard says in The Poetics of Space (La poétique de l'espace) allows to recreate a poetic image that is not the echo of the past, but a projection in the future. Do you find yourself in this statement?

DB– There is nothing but past and future. In fact, it is the present that does not exist.

 

LGYou have often declared that photography is a highly subjective medium and in this respect you appreciate the uniqueness and poetic aspect. Are you a collector?

DB– I am more and more a collector of immaterial things, but, yes, I am attracted to many objects, because of its past use, of their form, and of their beauty. But I refrain from collecting, since I don’t have the space one needs for that kind of serious hoarding.

 

LG– You recently exhibited at European Photography in Reggio Emilia's part of your work Attempting Exhaustion inspired by George Perec's book, An Attempt at Exhausting a Place in Paris where the writer observes the marginal aspects of reality in Place Saint-Sulpice, the infra ordinary. Even Cesare Zavattini, through the poetics of qualsiasità/everything, supports the opportunity to find interesting things anywhere in any subject. Poetry that found a fertile field also in the work of Paul Strand of Un paese in Luzzara and later in Luigi Ghirri. A truly singular coincidence.

DB– The coincidence lies in the fact that we are all searching for the same thing: a reason to live within ourselves without being overtaken by the speed of things around us. That is the poetry, to stop for a single moment and breathe in and out.

 


LGThe narrative capacity of photography is important to you. Did you even approach the language of the movie and the video?

DB– Yes, I have done a few films and video work. Even the Terezín project has now two works with moving images: Theresienstadt (2007) and As if (2014-2016), which is a film lasting almost five hours. One needs patience…

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Milo Rau e gli altri

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Racconti nella Terra dei Feaci

 

Nel romanzo di Vladimir Makanin, Underground. Un eroe del nostro tempo, Petrovic è uno scrittore che ha attraversato la stagione della letteratura sovietica non ufficiale ed è approdato nella Russia post-comunista in veste di custode di appartamenti: ha smesso di scrivere (ma il suo unico bagaglio è una macchina da scrivere di fabbricazione jugoslava che si porta appresso legata alle spalle a mo’ di zaino), tutta la sua attività letteraria consiste nell’invitare gli amici nelle cucine delle case che occupa occasionalmente e lì scambiarsi con loro confessioni e racconti. Anche in Empire di Milo Rau, il terzo capitolo della trilogia europea del regista svizzero presentato in prima nazionale al Festival Contemporanea di Prato, tutto si svolge in una cucina; all’inizio, a dire il vero, gli spettatori del Fabbricone si trovano davanti a un’altra ingombrante scenografia, è la riproduzione di una casa diroccata immersa nella penombra – la porta a vetri illuminata le dà un bagliore da Presepe – ma gli attori la girano e, aperta verso il pubblico, appare la sezione di una cucina, piccola, ristretta, concentrata, arredata con una scrupolosità naturalistica e piena di oggetti: fornelli, pentole, mensole, un tavolo, le sedie, ma anche un mappamondo, una statuina della Madonna, degli ingenui acquarelli appesi alla parete e persino una branda coperta da una stoffa di fattura orientale (o greca, o balcanica, o sarda, una diplopia mediterranea, nell’accezione ampia che a questo aggettivo ha dato Predrag Matvejevic, sfuma contorni e distanze nella geopoetica di Rau). 

 

Empire, Milo Rau, ph. Marc Stephan.


È in questa intimità squadernata che gli attori narrano le proprie storie, poiché Empire, volendo, non è che questo: quattro attori, di età diverse e di diverse provenienze, che riuniti in una cucina raccontano la propria vita dall’infanzia fino al momento che li ritrova lì, su quel palcoscenico, tra quella gente, in una continua torsione del presente nel passato. Solo che raccontano in una babelica confusione delle lingue, perché Ramo Ali, un simpatico ragazzo allampanato con la barba nera e foltissima, è un kurdo siriano, che per la prima volta, dice, può finalmente parlare la propria lingua su un palcoscenico, Rami Khalaf, che geograficamente e culturalmente è il più vicino a lui, viene anch’egli dalla Siria, ma è arabo, Maia Morgestern, una bella signora dai tratti vibranti, è un’ebrea rumena che ha mosso i suoi primi passi nel teatro yiddish di Bucarest (e molti spettatori riconoscono in lei, non subito, ma nella lenta agnizione del suo volto, l’attrice che interpretò Maria di Nazareth nella Passione di Mel Gibson), mentre Akillas Karazissis  è un accattivante affabulatore greco nato a Salonicco da una famiglia che veniva da Odessa. Ciascuno di loro intona il racconto nella propria lingua madre e i sottotitoli traducono gli idiomi, ma senza omologare quella sonorità intraducibile – la parte sensibile, la più interna, di ogni lingua – che, assieme a un breve motivo musicale più volte ripetuto, resta fino alla fine il sottofondo melodico dello spettacolo, la segreta tessitura, dolce o gutturale, morbida o cantilenante, della grana della voce senza la quale, nessuna narrazione, e nessuna singolarità, sarebbe possibile. 

 

Quando uno degli attori prende la parola, ce n’è un altro che lo inquadra in una videocamera e su un grande schermo sistemato sopra la scenografia appare l’immagine del rapsodo di turno, un primo piano in bianco e nero, stretto e allungato come una fiamma. La scena è immobile, il racconto e l’immagine si spostano in quella che, in capo ad alcuni minuti, è un’odissea che si allontana nel tempo e nello spazio, lungo le direttrici di un esilio frastagliato, che batte e ribatte sulle rive di un approdo impossibile, di una patria infedele. Rifugiato in Francia, Rami Kalo ritorna clandestinamente sulle rivi del Tigri – filmate con una telecamera nascosta – nella cittadina semi-distrutta dai bombardamenti dove ha vissuto la sua infanzia, nel paese che lo ha imprigionato nella giovinezza, ma è tardi per seppellire il padre (è tardi per tutti i padri e le madri di questi racconti in cui gli uomini e la terra invecchiano di colpo nella ruggente accelerazione della Guerra e della Storia): si limiterà a leggergli un biglietto tra le lapidi bianche di un cimitero, e poi a vomitare, perché da sempre la sua è una tristezza senza pianto. Rami Khalaf ha trascorso le sue nottate parigine a cercare il volto del fratello tra le immagini di un sito internet dove sono raccolte le fotografie dei dodicimila giovani assassinati dal regime di Bashar El Assad: sullo schermo passano le foto di teste fasciate e volti tumefatti – alcuni sembra che dormano, che finalmente riposino dopo giorni e giorni di torture – ma restano il tempo strettamente necessario, a fare in modo che non si volti lo sguardo da un'altra parte o che non si indugi nella compiacenza dell’orrore. 

 

Empire, Milo Rau, ph. Marc Stephan.


Come già in Five Easy Pieces, è nell’equilibrio del montaggio, cioè nel rigore di una forma, che Milo Rau asciuga la violenza che i suoi spettacoli rivelano – e nell’ordito di una recitazione auratica e introspettiva, senza un urlo, senza una lacrima, se non quelle che il pubblico non riesce a non immaginare in certi trasalimenti del volto (che è uno sterminato paesaggio di sentimenti) di Maia Morgenstern, quando parla del padre o della figlia che le è stata tolta. Lei e Akillas Karazzisis vengono da ancora più lontano: dall’esilio interiore dell’essere ebrea (con un padre comunista sfegatato) nella Romania antisemita di Caeusescu e dal disorientamento di un giovane greco che, in fuga dal regime dei colonnelli, sbarca a Francoforte negli anni settanta, confuso alle ondate migranti dei gastarbaiter che hanno scandito la storia del suo paese. 

 

Tutti si fanno attori, per volontà o per caso, come il picaresco Karazzisis, teorizzatore in gioventù del “minimalismo depressivo” che si ritrova ad amare quello che considerava insopportabile, pur restando, da interprete, al di qua dell’immedesimazione, un narratore che prima di ogni battuta apre i due punti – tutti si fanno attori perché il teatro è l’unico luogo in cui l’infranto può essere provvisoriamente ricomposto nella flagranza di una condivisione, un luogo di liberazione nell’impero in cui la libertà, sempre agognata, finisce per spiaggiarsi (dice sconsolatamente la Morgenstern), nella solitudine più acuta. 

Ma il modo in cui le bolle di queste memorie private e singolari riescono a non sbriciolarsi in se stesse, e nei loro approdi fallimentari, bensì a issarsi sull’aerostato di una leggenda collettiva – che è la nostra non meno che la loro – è il vero miracolo della messinscena di Empire. E viene dagli echi, dai riverberi che ogni storia, proprio come nell’universo dell’epos, ritrova e depone nell’altra, sia nei monologhi interni che nella circolazione extracorporea delle immagini: così l’incredibile amore che il musulmano kurdo Ramo Ali vota alla figura della Vergine Maria, spingendosi fino a custodirne una medaglietta persino nella cupa prigione di Palmira, si riapre nel racconto che l’ebrea Morgestern fa della sua interpretazione della Madre di Cristo nel controverso film di Gibson, disegnando un’altra linea – materna – di una devozione senza integralismo (la religione delle cucine, se volete). 

 

Così, tra le immagini proiettate sullo schermo, ne appare una di un’ampiezza inusitata che corre su un fiume: una grande chiatta trasporta un colosso bianco fatto a pezzi e imprigionato dalle corde, solo la sua testa si alza dalle spalle, e una mano aperta che sembra quella di un santo anchilosato nello sforzo di un’ultima benedizione. È una statua di Lenin nel piano sequenza di un vecchio film di Theo Angelopoulos, Lo sguardo di Ulisse (ah, come era lento e sovrano quello sguardo capace di abbracciare l’indugiare di più tempi in una sola frase, come era ampia e generosa, benché già immersa nella nebbia dell’Ade, l’Europa senza proclami di Angelopoulos, di Tonino Guerra, di Petros Markaris che, in piena guerra dei Balcani, spingevano Harvey Keitel sulle tracce delle “immagini viventi” del cinema primordiale dei fratelli Manakis…). 

 

Nel “teatrofilm” di Empire, quell’immagine non è solo un omaggio, è l’origine di un’irradiazione musicale (nelle note del “tema di Ulisse” di Eleni Kalaindrou, infatti, è anzitutto cristallizzata) che pervade ogni accento del sommesso, dolente conversare tra stranieri nella terra dei Feaci. E non deve ingannare – o allora deve supremamente ingannare – il dispositivo che sdoppia nel cielo del visivo la terra sottostante degli attori, non solo perché è sulla scena che questa contemporaneità può essere e viene comunque celebrata (e Milo Rau è un regista fortemente rituale). Ma perché quello spirito in bianco e nero che si solleva sui corpi a colori seduti in cucina, proprio come le ombre degli inferi omerici, può vaticinare solo alimentandosi del sangue vivo della loro presenza (è verso il cielo che sale, al cielo che parla, è vero, ma al cielo e contro il cielo bisogna di nuovo saper parlare: ci aveva avvertito George Steiner molti anni fa). 

Quando Akillas Karazzissis, che più volte è stato Giasone, e Maia Morgenstern, che è stata un’indimenticabile Medea, duettano sulla partitura di Euripide, uno in greco e l’altra in rumeno, hanno l’aria di capirsi alla perfezione, come in un giorno di pentecoste. E anche il pubblico sembra capirli perfettamente. 

 

(Attilio Scarpellini)

 

Se sentir vivant, Yasmine Hugonnet, ph. Ilaria Costanzo.


Dante, rap e stracci di identità

 

Movimento immobile. Chirurgico e passionale, il gesto di Yasmine Hugonnet sa fermare il tempo. Se sentir vivant / Canto primo, al debutto nazionale a Contemporanea Festival 2017, è un magnetico solo con e del corpo, una preghiera muta che rende grazie a muscoli, tendini, giunture. Sogno, pensiero, allucinazione o trance, l’impercettibile, l’attimo sfuggente è visibile nel suo passo. È il suo passo. Allora, sentirsi vivo – questo significa il titolo – è avere il pieno controllo di sé, in scienza, coscienza e immaginazione.

Un rettangolo bianco, un libro al limite del lato destro. La danzatrice svizzera, maglia bianca e pantaloni blu, scalza, comincia di profilo, il sinistro. Alza lentissimamente il braccio e la mano destra e questi ‘guidano’ il piede e la gamba corrispondenti. Un filo intangibile pare legarli nel più assoluto silenzio, rotto soltanto dal ronzio dei fari accesi e dalla realtà esterna. La dipendenza degli arti è totale, il suo volto è serio, ma disteso.

 

Adesso con entrambe le mani prende ‘possesso’ del piede, si gira frontalmente, si abbraccia e anche le gambe fanno lo stesso. Scompone il moto a tal punto da immobilizzarlo, come nella ‘fotografia stroboscopica’ di Harold Eugene Edgerton o nel ‘paradosso della freccia’ di Zenone: il movimento è la perfetta padronanza su punti e istanti indivisibili di immobilità.

Il busto, prima inanimato, prende vita attraverso il respiro, sempre più pronunciato, che comprime e rilascia il ventre, percorrendolo come una vibrazione. Un suono soffocato risale dalle viscere: gli urli ordinari e dimostrativi delle gradazioni della paura in Bang! del francese Herman Diephuis, altra prima nazionale al festival pratese, sono qui ingoiati in una contorsione di membra. Se sentir vivant, infatti, è anche una discesa agli inferi della corporeità vocale.

 

Va a prendere il libro, poi si siede, le gambe divaricate, una mano tra di esse, l’altra a tenere aperte le pagine. “Mi ritrovai per una selva oscura”. Risuona il canto I della DivinaCommedia – a questo si riferisce il sottotitolo –, eppure Yasmine Hugonnet ha le labbra serrate. Perché, approfondendo la comprensione del movimento in rapporto all’attenzione, della germinazione di figure e dell’idea delle posture come contenitori, ha sviluppato la pratica del ventriloquismo.

È la porta verso un altro mondo, il braccio destro, indipendente, alieno con una sua propria intelligenza, pare il serpente tentatore, il diavolo all’Inferno. Ripete il canto in francese, in inglese e la selva oscura si ripercuote su di lei in spasmi, tic, è come se si svegliasse e addormentasse continuamente.

Se sentir vivant / Canto primo non ha bisogno di musica, ‘suona’ quella voce interiore che la danzatrice ‘dirige’ con le dita della mano nell’aria. Accenti che partono dai piedi e arrivano fino in cielo. Così, la testa ‘tirata’ su dall’ennesimo filo invisibile, oscilla come un fuscello al vento, la ‘canna’ di cui parla Pascal. Fragile, ma pensante.

 

Mash, Annamaria Ajmone e Marcela Santander Corvalán, ph. Ilaria Costanzo.


Da una premessa tutta musicale deriva, invece, Mash di e con l’italiana Annamaria Ajmone e la cilena Marcela Santander Corvalán. Con il termine mash-up, infatti, si intende una canzone o composizione realizzata unendo due o più brani, spesso sovrapponendo la parte vocale di una traccia a quella strumentale di un’altra. Mash intende, diciamo, adattare il medesimo processo all’arte coreutica.

Un rettangolo nero, per terra due vestiti colorati, a destra e a sinistra, insieme a due paia di scarpe. Inizia Santander Corvalán in platea, su un rap arabeggiante fa una sorta di danza del ventre, dinoccolata e ammiccante, finché non va sul palco, le gambe che fanno giacomo giacomo, la lingua di fuori, le sopracciglia su e giù. Quando entra, Ajmone esegue movimenti che ricordano l’altra, ma sono rallentati, la qualità è più riflessiva, controllata.

 

Si accompagnano a specchio, squadrate, marziali, la musica è un loop asfissiante, i corpi virgole di un discorso in affanno, preso, perso e ripreso all’infinto. Tentano di dare un’identità fisica, individuale e comune, ai brani che mixano, campionano provenienze e generi diversi: sono ora animalesche, ora eteree, ora suadenti, ma la sensazione rimane quella di stare assistendo a un esercizio di perizia coreografica.

Mash potrebbe finire in qualsiasi momento senza pregiudicarne la riuscita, perché l’esito finale non è che la ripetizione dell’intento iniziale, cioè focalizzarsi “sulla dinamica che scatta quando i frammenti – dichiarano le due danzatrici – si concatenano tra loro generando qualcosa di totalmente nuovo, ricco di significati inediti”. L’esposizione del processo prevale sul raggiungimento del risultato, i “significati inediti” sono prestiti, citazioni, sovrapposizioni di atti già ‘editi’, visti e conosciuti.

Il nodo centrale è che manca un legame scenico che vada al di là dell’immagine riflessa. Paradossalmente, Annamaria Ajmone e Marcela Santander Corvalán incontrano una presenza e un ascolto reciproco nei rari istanti in cui la musica si ferma, e restano in luce i passi e i respiri. Ma è solo una pausa per poter alzare i volumi e i gesti ancora più forti e identici.

 

Good Lack, Francesca Foscarini, ph. Laura Farneti.


Il peso che ci portiamo dietro è il Tetris di un trasloco perenne: Back Pack (Zaino) è il primo dei tre soli, con l’asettico John Tube e l’estenuante Let’s Sky, del progetto Good Lack di Francesca Foscarini, un trittico giocato sull’ambiguità buona fortuna/buona mancanza.

Una teoria di scatole sul fondo, come nello sgombero de La vita ferma di Lucia Calamaro. La danzatrice di Bassano del Grappa, in nero, entra con uno zainetto vintage, regola le spalle, il busto, le gambe, i piedi. Cerca di resistere meglio che può a quel carico, finché non cade all’indietro, tartaruga sul suo guscio.

Si rialza, viene avanti, svuota per terra una palla di vestiti che, trovandoci a Prato, non possono non ricordarci i cenci, gli stracci della Plutocrazia di Archivio Zeta. Reggiseni, pantaloni, maglie, manicotti, giacche, un giubbotto di salvataggio: indossa un capo sopra l’altro, si mette l’intero contenuto dello zaino. Lo gonfia anche quel giubbotto, ma non c’è acqua intorno: evidentemente si sta preparando al peggio. Ha più gomme da masticare in bocca, i cerotti alle mani, le infradito con i calzettoni.

Back Pack pare burlarsi delle astrazioni concettuali di certa danza contemporanea (per poi esserne preda, a sua volta, nei capitoli John Tube e Let’s Sky). Francesca Foscarini assomiglia a una bimba birichina, scoppia le bolle fatte con i chewing gum, gioca a volare senza ali, correndo in tondo.

 

Alla fine, però, si spoglia di questa specie di ‘armatura’ da buffo, bizzarro, scalcagnato supereroe. Si abbassa perfino i primi pantaloni e si leva la maglietta nera: i sé che è stata nel tempo l’hanno lusingata e poi dopo l’hanno lasciata in mutande e reggiseno.

Oltre lo scotto della solitudine, la sorte ci mette dell’ironia amara: quel cumulo di roba è molto più ingombrante ora che è fuori dallo zainetto. Indossare chi eravamo ieri non ci aiuta a diventare chi saremo domani. Crescere è scegliere. Essere tutto, invece, equivale a essere niente.

 

(Matteo Brighenti)

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Festival Contemporanea Prato
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Il Contro Design di Ettore Sottsass

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Una storia piccolina

 

In nessuno dei numerosi libri pubblicati negli anni su Ettore Sottsass (Innsbruck, 1917 - Milano, 2007) e neppure nelle migliaia di articoli a lui dedicati, troverete la piccola storia che state per leggere, semplicemente perché non è mai stata scritta, in quanto la conoscono soltanto i diretti protagonisti, insieme a una ristretta cerchia di persone. Il contesto generale in cui si colloca è invece arcifamoso e riguarda un gruppo di designer milanesi (d’adozione), capeggiati dal loro leader carismatico (Ettore Sottsass, appunto) che l'11 dicembre del 1980, aveva dato vita a quel Movimento Culturale battezzato con il nome di Memphis, in omaggio alla canzone “Stuck in a mobile with the Memphis blues again” di Bob Dylan.

 

A forza di camminare nelle zone dell’incerto … a forza di colloquiare con la metafora e l’utopia … a forza di toglierci di mezzo, adesso ci troviamo con una certa esperienza, siamo diventati bravi esploratori … adesso possiamo finalmente procedere con passo leggero, il peggio è passato.”

Così scrive Sottsass, in quello che può essere considerato il certificato di battesimo di Memphis, ovvero nel testo di presentazione della prima mostra di “Memphis, the New International Style”, allestita in Corso Europa 2, a Milano, nello showroom Arc ‘74 di Mauro e Brunella Godani.

All'inaugurazione, quel 18 settembre 1981, c'era un mare di folla, convenuta per essere testimone dell'evento (sull’evento, sulla biografia e sulla poetica di Sottsass si legga qui il bel testo di Marco Belpoliti).

 

Inaugurazione della mostra Memphis, the New International Style, nello showroom Arc ‘74 di Mauro e Brunella Godani, Milano, Corso Europa, 2, 18 settembre 1981.


La piccola storia che ancora si ignora, perché rimasta nascosta tra le pieghe di quella più grande e più nota, concerne il luogo in cui questo manipolo di audaci sperimentatori dell’impossibile, del fantasioso e dell’inconsueto, del finalmente policromo dopo la monocromia razionalista, mise in atto materialmente molte delle proprie creazioni di Contro Design. A spiegare il concetto di Contro Design è lo stesso Sottsass nel catalogo della mostra allestita nel 1983 al Philadelphia Museum of Art, intitolata “Design since 1945”:

Il cosiddetto movimento del Contro Design sostiene l’idea che il design non finisce con l’oggetto messo in produzione dall’industria, ma inizia quando entra nelle nostre case, nelle nostre strade, città, cieli, corpi, anime. Il design inizia quando diventa rappresentazione visiva, fisica, sensoriale della metafora esistenziale sulla quale fondiamo le nostre vite”. 

 

Ebbene, il luogo in cui hanno visto la luce molti pezzi di quella coraggiosa collezione che sfidava il “buon gusto” borghese e che dopo aver stupito il mondo, sarebbero subito diventati dei must del design di tutti i tempi, era la bottega di mio padre. È lì, nel grande e luminoso spazio de “il Ghianda” che Ettore e i suoi li hanno messi a punto. Il passaggio dal modello, al prototipo, fino al numero zero della produzione fino a quando hanno acquistato il loro volume, le loro proporzioni e la loro forma definitiva è avvenuto nei capannoni di Bovisio-Masciago in Via Desio al 53. Dalla libreria Carlton, al tavolo Spider, alle sedie Bridge e Mandarine, progettati da Sottsass, alle sedia Palace di George Sowden, a Mercedes e alle altre sedie-poltrone di Nathalie du Pasquier (di cui lei stessa, con George Sowden, è diventata produttrice di una serie limitata di sei pezzi), alla First di Michele de Lucchi, agli sgabelli di Matteo Thun, al tavolo Brazil di Peter Shire, alla poltrona Lucrezia di Marco Zanini e ad altro ancora, disegnato da Aldo Cibic, da Martine Bedin e dai vari designer che si sono accostati di volta in volta al team (lo studio contava più di trenta collaboratori, tutti molto giovani) hanno compiuto lì la loro mutazione da progetto a oggetto. Ci sono le foto inedite, alcune delle quali si pubblicano qui per la prima volta, a testimoniarlo, anche se purtroppo sono di qualità scadente perché digitalizzate da vecchie Polaroid (molto in voga negli anni ottanta). 

 


Ettore Sottsass, Francesca Ghianda, Pierluigi Ghianda e Marzo Zanini nel laboratorio di falegnameria di Bovisio-Masciago; Marco Zanini, Ettore Sottsass, Pierluigi Ghianda al lavoro in bottega, 1982-86. (Archivio Ghianda)

 

Francesca Ghianda verifica gli imballi di un prototipo della libreria Carlton di Ettore Sottsass prima della spedizione; Ettore Sottsass “collauda” il prototipo di una poltrona nella bottega di Pierluigi Ghianda a Bovisio-Masciago; 1982-83. (Archivio Ghianda).


Estratto da una nota di Judith du Pasquier, sorella di Nathalie, del gruppo Memphis, 1986. (Archivio Ghianda).


E poi ci sono i prototipi che “il Ghianda” ha gelosamente conservato fino all’ultimo dei suoi giorni (e dopo di lui noi figlie) difendendoli strenuamente dai famelici “avida dollars” (ho preso a prestito come pseudonimo il bell'anagramma del nome di Salvador Dalì, notoriamente avido di denaro, coniato da André Breton), anche a costo di feroci e dissanguanti battaglie legali. Esistono. Son salvi e a breve saranno finalmente a disposizione di chiunque li voglia studiare presso l’Archivio Storico del Politecnico di Milano, della cui collezione stanno per entrare a fare parte. Un pezzo importante della storia del design, un impegnativo lascito morale, oltre che materiale, riemerge dall’ombra in occasione del centenario della nascita del maestro.

 

Nel laboratorio dei Pierluigi Ghianda: prototipo della sedia Mandarina e studio delle gambe del tavolo Spider di Ettore Sottsass. (Archivio Ghianda).


Nel laboratorio dei Pierluigi Ghianda: i primissimi prototipi di una sedia pieghevole di Marco Zanini (mai entrata in produzione); primo prototipo della sedia Bridge di Ettore Sottsass; primissimo prototipo della sedia First di Michele De Lucchi. (Archivio Ghianda).


Nel laboratorio dei Pierluigi Ghianda: secondo e terzo prototipo della sedia Bridge di Ettore Sottsass (si notino le differenti altezze dello schienale) (Archivio Ghianda).


Son cento. Son dieci.

 

Quest’anno, infatti, ricorre il centesimo anniversario dei natali di Ettore Sottsass, per di più, sono già trascorsi dieci anni dalla sua morte e il mondo, giustamente, lo celebra con cinque mostre a lui dedicate in luoghi istituzionali e numerose altre, altrettanto prestigiose, in spazi privati.

 

La prima mostra apertasi in ordine di tempo in un luogo istituzionale è quella di New York, visitabile dal 21 giugno all’8 ottobre, negli spazi del Met Breuer (quelli progettati da Marcel Breuer affacciati sulla Madison Avenue e sulla 75th Street), dal titolo: Ettore Sottsass Design Radical”.

Dal 14 luglio al 21 settembre, presso il Vitra di Weil am Rhein, si è tenuta invece la rassegna intitolata Ettore Sottsass – Rebel and Poet, ospitata nel nuovo edificio dello Schaudepot, progettato dallo studio Herzog & de Meuron e inaugurato appena un anno fa.

Il terzo evento espositivo è finalmente una rassegna italiana, attualmente in corso alla Triennale di Milano, fino all’11 marzo 2018, con il titolo di: There is planet.

L'altra mostra allestita sul nostro territorio nazionale, dal titolo: Ettore Sottsass, Oltre il design, prenderà avvio il 18 novembre e sarà visitabile fino all’8 aprile 2018 presso l’Abbazia cistercense di Valserena. Curata dall’Archivio-Museo CSAC dell’Università di Parma, attinge al vastissimo materiale del fondo Ettore Sottsass Jr in esso conservato che conta quasi 14.000 progetti su carta (tra schizzi, bozzetti e disegni) e 24 sculture.

Il quinto appuntamento, infine, aprirà i battenti nell’aprile 2018 ad Amsterdam allo Stedelijk Museum.

 

New York, Met Breuer, Ettore Sottsass: Design Radical

 

Con la curatela di Christian Larsen, la mostra di New York illustra la carriera del maestro nell'arco dei sei decenni in cui è durata, esponendone le opere chiave, nella poliedricità della sua produzione, dai disegni architettonici, ai progetti d'arredo; dai mobili, alle macchine; dagli oggetti in ceramica e in vetro, ai gioielli; dai tessuti, ai dipinti, alle fotografie. Vi si possono ammirare: il calcolatore elettronico Elea 9003, per Olivetti, del 1957 (Compasso d'oro 1959); la mitica Valentina, la macchina per scrivere, anch’essa della Olivetti, progettata nel 1968 insieme a Perry A. King (Compasso d'oro nel 1970); una cospicua selezione di mobili Memphis, proveniente dalla collezione permanente del Metropolitan stesso; i cinque totem in ceramica: Menhir, ZigGurat, Stupas, Hydrants Gas Pumps (esposti per la prima volta alla Galleria Sperone di Milano, nell’aprile del 1967; vedi qui sotto il manifesto e la foto di quello storico allestimento); il sistema di armadi modulari (che venne presentato a New York nel 1972 in occasione della mitica mostra Italy, the new domestic landscape, ospitata dal MoMA, curata da Emilio Ambasz) e molto, molto altro ancora. In alcune sezioni, gli oggetti creati da Sottsass sono messi in relazione con opere d'arte del passato, da quello egizio, a quello greco, ed anche con manufatti della cultura indiana, di quella del sud est asiatico e di quella dei nativi americani, dai quali Sottsass potrebbe aver tratto ispirazione o molto più semplicemente per una sorprendente analogia formale. Il connubio risulta essere molto seducente, anche perché il dialogo avviene con autentici capolavori, quali solo un museo ricco di dovizie come il Metropolitan poteva mettere a disposizione. Altrove il colloquio con le creazioni di Sottsass tocca alle opere dei maestri della Secessione Viennese (che forse attengono di più ai suoi trascorsi familiari), da quelle di Koloman Moser e Josef Hoffman, a quelle di Otto Prutscher. E ancora, ai lavori di Donald Judd, di Roy Lichtenstein e di Frank Lloyd Wright (qui la liaison appare un poco forzata), di Paul Klee e di Wassily Kandinskij e di altri. Chiudono infine la rassegna i pezzi meno noti al grande pubblico, messi a raffronto con quelli di quattro importanti artisti e designer del XX secolo: Piet Mondrian, Jean Michel Frank, Gio Ponti e Shiro Kuramata.

 

Larsen, quale titolo della rassegna, ha scelto il termine radical, di mendiniana memoria, da lui inteso però in senso lato: 

Sottsass è stato un radicale, qualcuno che ha rotto le regole e ha proposto delle alternative; e poi mi piaceva il termine radical perché significa anche radice, dunque andare alle origini. (…) Credo che sia importante celebrare questo autore poco riconosciuto negli Stati Uniti, anche alla luce del momento politico che stiamo attraversando. Si respira tra i giovani una voglia di cambiamento, di cambiare il mondo e Sottsass incarnava questa idea. La sua estetica sta tornando. C’è una relazione diretta tra i nostri valori e le cose che creiamo”.

 

Ettore Sottsass: Design Radical, New York, Met Breuer.


Weil am Rhein, Vitra Design Museum, Ettore Sottsass – Rebel and Poet

 

Del maestro, ribelle e poeta, nella mostra del Vitra Design Museum si potevano ammirare una trentina di opere tra cui: il sofa Califfo (1964), il comò Cubirolo (1966-67), alcuni pezzi dalla serie Mobili Grigi (1970) per Poltronova, ed altre rarità come la sedia Tappeto Volante (1974), la Sedia Seggiolina da pranzo (1979-80) per Alchimia, oltre ai più famosi pezzi siglati Memphis, come la libreria Carlton (1981), le lampade Ashoka (1981) e Tahiti (1981) e la scrivania Tartar (1985).

A proposito dei suoi oggetti d’arredo, così scrive lo stesso Sottsass: 

Ho provato a disegnare oggetti, cose, mobili e farli costruire. Li ho fatti grandi e pesanti con zoccoli e basamenti per sottrarli al kitsch dell’arredamento borghese e piccolo borghese. Non stanno quasi da nessuna parte e comunque non legano, non possono neppure produrre coordinati. Stanno soltanto da soli, come i monumenti nelle piazze, e non riescono neanche a fare stile. Sono anche decorati perché così riesco a comunicare stati culturali (in senso antropologico) diversi, a seconda dei casi e a seconda di reali necessità funzionali”.

 

Altrove aggiunge:

Certamente chi mi lascia fare qualcosa è sempre gente molto ricca, perché i poveri non vengono da me, ma non vanno da nessuno, i poveri ricevono quello che il potere gli dà come abitazione, come distacco dal centro delle città. Ho anche questo problema: parlo di case per la gente, però poi queste persone sono miliardari.”

Accanto agli oggetti di design, nella mostra svizzera, figuravano anche alcuni estratti del vasto repertorio di testi critici e poetici di cui Sottsass è stato autore, insieme a numerosi suoi disegni realizzati per Olivetti, per Alchimia e per Memphis. Concludeva il percorso una serie di fotografie tratte dalla raccolta Metafore (1972-1978), composta da cinquanta scatti in bianco e nero realizzati durante un suo lungo viaggio intorno al mondo. Suddivisa in: Disegni per i destini dell’uomo, Disegni per i diritti dell’uomoDisegni per le necessità degli animaliFidanzatiDecorazioni, si incentra sulla ricerca della spiritualità e in particolare sul rapporto tra uomo e cosmo che Sottsass ha sempre perseguito.

 

Manifesto della mostra Menhir, ZigGurat, Stupas, Hydrants Gas Pumps, alla Galleria Sperone, Milano, 1967, alcuni disegni di progetto, una foto dello storico allestimento. A fianco: riscrittura del testo del manifesto.


Milano, Triennale, Ettore Sottsass: There is a planet

 

Curata da Barbara Radice, con la direzione di Silvana Annichiarico, la mostra allestita alla Triennale da Michele De Lucchi e da Christoph Radl è suddivisa in nove stanze tematiche e cronologiche: Per qualcuno può essere lo spazio (fino al 1955 circa), Il disegno magico (anni ’50 e ‘60), Memorie di panna montata (anni ‘60), Il disegno politico (anni ‘70), Le strutture tremano (anni’ 70 inizio ‘80), Barbaric design (anni ’80), Rovine (anni ’90), Lo spazio reale (anni ’80 e ‘90) e Vorrei sapere perché... (fino al 2007).

Il titolo della rassegna è quello di un progetto elaborato da Sottsass per l’editore tedesco Wasmuth negli anni Novanta ma mai realizzato che oggi viene pubblicato da Electa.

Alla conferenza stampa, Barbara Radice, compagna di vita e di lavoro di Sottsass, ha dichiarato:

 “Il suo lavoro è stato vasto, abbiamo selezionato l’irrinunciabile, sperando di aver scelto bene, per far apparire la sua curiosità, ma anche la sua malinconia e le sue nostalgie, per festeggiare bene la sua bella vita.”.

 

Confidenziale, anzi “sentimentale” a detta dei curatori, la rassegna milanese ha un tono volutamente sommesso e non celebrativo. “Una mostra molto particolare”, scrive Silvana Annichiarico. “Intima, più che monumentale. Piena di echi segreti, di suggestioni sotterranee, di fili nascosti. Poco accademica, forse, ma con l’ambizione di far emergere anche quegli aspetti dell’opera di Sottsass che uno sguardo più ‘scientifico’ avrebbe disdegnatoo. La poesia, le tenebre, il magico...

Prelude alle nove stanze la Galleria della Architettura, dove sono mostrate opere del maestro attinenti ai temi che le stanze presentano, insieme a fotografie scattate da lui stesso, tra cui una raccolta inedita dei primi anni ’60 intitolata Le ragazze di Antibes.

 

Michele De Lucchi, come sua abitudine, in conferenza stampa ha parlato poco, però per l’allestimento ha fatto molto e lo ha fatto in modo eccelso. Da profondo e rispettoso conoscitore dell’opera di Sottsass, con il quale ha condiviso una stagione importante della sua carriera professionale, quella di Memphis, senza interferire con le opere che doveva presentare, ha saputo creare loro attorno quell’aura di magia che le sospende nello spazio e nel tempo, rafforzando la loro carica poetica. La mostra di sviluppa su un percorso planimetrico a forma grande U, lungo il quale si aprono le nove stanze tematiche. De Lucchi ha creato all’inizio e alla fine del percorso due camere di decantazione quasi rituali, l’una che preannuncia il sacro/mostra, l’altra che aiuta il visitatore ad allontanarsi da esso, cioè dal mondo onirico-giocoso di Ettore Sottsass, tuttavia talmente profondo da essere denso di afflati etici, Unheimliches insomma. La prima camera, quella che immette nella mostra, ha quasi la stessa funzione che aveva il quadriportico nelle basiliche paleocristiane: uno spazio in cui spogliarsi metaforicamente dei gravami del mondo sensibile, dei suoi rumori, dei suoi colori, dei suoi odori, prima di entrare nel luogo sacro. Analogamente il primo ambiente della mostra milanese è una stanza quasi vuota, in cui galleggiano sulle pareti solo pochi riferimenti a ciò che ci aspetta, che ci annunciano la meraviglia a cui stiamo per assistere, ma lo fanno a bassa voce, appena con qualche sussurro. L’ultima camera, quella che conduce all’uscita, è invece la stanza del silenzio più assoluto e del vuoto più totale. Nulla è appeso alle pareti, niente ingombra il pavimento, non immagini, non oggetti, affinché allontanandosi dalla mostra, il visitatore possa portare con sé l’incantamento che hanno prodotto su di lui le idee e le cose che ha appena finito di ammirare.

 

Amsterdam, Stedelijk Museum, Retrospective van Sottsass in Nederland

 

Quella di Amsterdam sarà la prima retrospettiva olandese dedicata a Sottsass, promossa, oltre che per celebrare il suo centenario, anche per mostrare al pubblico le recenti acquisizioni del museo, consistenti in un corpus di sue opere datate agli anni sessanta, tra cui il gigantesco Superbox (1966; rimesso in produzione nel 2005) e l'altrettanto voluminoso Cabinet n. 70 (2006). La mostra consterà di circa ottanta pezzi che ripercorreranno in serie cronologica la sua carriera artistica, evidenziando le influenze esercitate su di lui dalle diverse culture con cui è entrato in contatto durante i suoi viaggi o nel corso dei suoi studi. 

Nell'intenzione dei curatori, al centro della mostra, sarà soprattutto il suo audace sperimentalismo, la sua continua ricerca di nuovi materiali e di nuove forme, con un occhio particolare rivolto alla sua filosofia di vita e di lavoro a quella sua malinconia, così in contrasto con la gaiezza delle sue creazioni. Una “malinconia dissolutoria”, come ebbe a definirla Aldo Rossi, perché Sottsass, con i suoi piani raramente ortogonali al suolo, i suoi montanti diagonali, l’inversione gravitazionale, quasi magrittiana, del pesante e del leggero, posto in alto il primo e in basso il secondo, ha distrutto per sempre i solidi presupposti su cui da sempre si fondava “un'architettura stabile” andando invece “alla ricerca di un superiore livello di ricomposizione”.

 

Dulcis in fundo: al primo piano della Triennale è in corso una mostra assolutamente da non perdere: Intrecci del Novecento. Arazzi e tappeti di artisti e manifatture italiane.

Qui, tra le magnifiche opere esposte, che vanno dal futurismo ai giorni nostri, vi è un piccolo gioiello: si tratta di un dipinto di Ettore Sottsass del 1947 (Senza titolo, tecnica mista su cartoncino). Se osservato attentamente, il dipinto rivela la sua parentela con lirismo di Paul Klee e con il suo Realismo Magico. In essa, in più, si possono già ravvisare in nuce alcuni degli elementi che ritorneranno nella poetica di Sottsass degli anni a venire, dall’acceso cromatismo, all’estrema libertà formale, alla estrosità compositiva. Chi visitasse la sua mostra al piano di sotto, ci guadagnerebbe ad andarlo a vedere.

N.B. Si tratta del progetto per un tappeto, presentato al Concorso di disegni per tappeti Premio MITA (Manifattura Italiana Tappeti Artistici). VIII Triennale di Milano, 1947. Genova Nervi, Archivio MITA. 

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Povertà, status sociale e beni relazionali

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È stato presentato di recente il “Rapporto Coop 2017” (si legge all’indirizzo www.italiani.coop) sulla vita quotidiana degli italiani curato dall’Ufficio Studi COOP. Sono dati che fotografano la situazione dei consumi, ma anche quella economica delle famiglie italiane. Il 28,7% delle famiglie è a rischio povertà e esclusione sociale, un italiano su 4, poco lontano dal 35,7% della Grecia. Mentre i consumi crescono: più 1,2%. Domina l’ossessione della salute e della rincorsa al benessere: cosmesi e chirurgia estetica; poi emerge l’abbandono progressivo delle religioni tradizionali a favore di forme più soft di spiritualità (buddismo, yoga, vegan); si fuma meno e anche il desiderio sessuale sembra in calo; si mantiene alta la propensione al gioco d’azzardo, una vera piaga sociale. Il 68% si dice disposto a farsi curare dai robot; mentre aumenta il timore per le catastrofi ambientali e quello verso l’immigrazione. Il cibo terapeutico è in cima alle ricerche alimentari degli italiani e il “carrello del lusso” supera l’8% di crescita nel primo semestre dell’anno. Ne abbiamo discusso con Marco Revelli, sociologo, storico e politologo. Dal 2007 è presidente della Commissione di indagine sull'Esclusione Sociale (CIES). Insegna all’Università degli Studi del Piemonte Orientale. I suoi ultimi libri sono: Non ti riconosco più. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia (Einaudi 2016) e Populismo 2.0 (Einaudi 2017). 

 

Il rapporto Coop comincia dalla povertà, fornisce un rapporto che immagino tu conoscerai, visto che ti sei occupato a lungo di questo tema: un italiano su quattro è a rischio povertà. Cosa significa “rischio povertà”?

 

Ci sono molti indicatori della povertà che spesso si confondono l’uno con l’altro. L’espressione “rischio di povertà” è usata da Eurostat, l’istituto di statistica europeo, ed è una misura intermedia che come dice la parola stessa non misura in valori assoluti la dimensione della povertà, la misura come distanza da una media che è considerata invece la media disponibilità di spesa degli individui e delle famiglie del Paese.

 

Puoi tradurlo in termini concreti? Significa che chi rientra in questo rischio non può andare al supermercato, non ha l’auto, non fa le vacanze…

 

Queste sono le misure di privazione assoluta. La povertà assoluta è misurata da un paniere di beni che sono considerati il minimo indispensabile per condurre una vita dignitosa. È in povertà assoluta chi non può fare due pasti normali al giorno, chi non può permettersi un tetto sulla testa e quindi pagarsi una casa, chi non può spostarsi liberamente e quindi non ha i soldi per i trasporti e non ha mezzi di trasporto. Sono beni e servizi stimati indispensabili. Questo pacchetto di beni ha un valore diverso a secondo della parte del Paese in cui si risiede. A Milano il costo di questo set di beni e servizi è alto; in un piccolo comune della Sicilia è molto più basso, in un capoluogo di provincia ha un valore relativo. Al Nord, al Centro e al Sud cambia. L’Istat ha costruito una tabella con molte variabili, per ogni tipologia di famiglia e di località c’è un valore. Chi sta sotto quel valore misurato in euro, è un povero in senso assoluto.

 

Quanti sono gli italiani in questa condizione?

 

Sono 4 milioni e mezzo. Come si legge molto chiaramente nel Rapporto Coop sono raddoppiati dal 2008 al 2016. Sono quasi 2 milioni di famiglie, in prevalenza famiglie numerose, famiglie con minori, e questa è una piaga della povertà italiana per cui i minori sono la zavorra che portano a fondo le famiglie; la presenza di uno o più minori è la situazione che determina sovente la discesa sotto la soglia. 

 

Perché?

 

In Italia non esistono servizi, non esistono sussidi, non esistono politiche di sostegno. La povertà minorile è la piaga italiana, noi siamo agli ultimi posti in Europa riguardo a questo.

 

E il “rischio di povertà” cosa comporta? 

 

Quelle che Eurostar definisce a “rischio di povertà” sono le fasce di popolazione che hanno una spesa mensile media o una disponibilità di reddito che si colloca o al 60% o al 50% o al 40% rispetto alla media nazionale. Se la media nazionale è 2000 euro al mese è considerato a rischio di povertà chi ha solo il 60 o il 50 o 40% della cifra; dipende dalla scelta di quale soglia si vuole evidenziare nel calcolo statistico. Equivale un po’ al concetto di povertà relativa che in Italia l’Istat registra. È relativamente povero o in condizioni di povertà relativa quella coppia che ha una spesa media mensile pari al 50% delle coppie “normali” o pari a un singolo. Si tratta più di una misura di esclusione sociale che non di povertà. Chi si trova in questa situazione, ma vive in un contesto molto solidale con l’orto, con un vicinato che si aiuta, potrebbe anche non essere una persona a cui mancano molte cose, ma come capacità di acquisto si trova lontano dalla media dei suoi simili, quindi è un “diverso”. 

 

Quanti sono in Italia queste persone?

 

Più di 8 milioni, tre o quattro volte una città come Milano.

 

In questi dati ci sono anche gli stranieri che vivono in Italia?

 

Sì, sia nella povertà assoluta che in quella relativa. L’Istat li registra. Gli stranieri sono gli svantaggiati tra gli svantaggiati.

 

Hai dei dati di incidenza degli stranieri?

 

Ho dei dati sull’incidenza della povertà relativa tra gli stranieri. Una incidenza più del doppio di quella italiana. Non esistono dati sulla povertà degli stranieri rispetto alla popolazione italiana. Averli comporterebbe dei problemi complessi, la possibilità di censirli tutti, per esempio.

 

A fronte di questi dati negativi che evidenziavi anche tu, il rapporto Coop ci dice che continua il trand positivo nei consumi: sono aumentati…

 

Prima di risponderti vorrei aggiungere una cosa sulla deprivazione, che nel Rapporto Coop è utilizzato a ragione: è una misura reale che si colloca a metà tra la misura della povertà assoluta e la misura della povertà relativa. È considerato deprivato chi accumula più di quattro fattori di deprivazione: chi non è in grado di alimentarsi adeguatamente con un pasto almeno due volte alla settimana, e così via; ma anche chi nel corso dell’anno non ha fatto nessuna vacanza o chi dichiara di far fatica ad arrivare alla fine del mese. Ci sono una serie di indicatori di deprivazione. Chi ne accumula almeno quattro è considerato deprivato. Un deprivato potrebbe anche essere uno che non è in condizione di povertà relativa, infatti la percentuale dei deprivati è maggiore della percentuale dei poveri relativi, ma per una serie di ragioni famigliari, ad esempio perché ha un disabile a carico, perché ha la coppia di anziani con l’Alzheimer e metà del suo reddito gli va in badanti, perché nel suo quartiere non c’è l’asilo nido e la moglie non può lavorare, sono tutti fattori che determinano questa situazione, anche se tu tecnicamente non saresti un povero assoluto o un povero relativo. Sei un deprivato.

 

E a fronte di questa situazione che stai descrivendo, dice il Rapporto che crescono i consumi…

 

Molto interessante il ragionamento che viene fatto nel Rapporto, sia a fronte dell’estensione, e crescita, non tanto della povertà relativa ma quella assoluta, su questa discrepanza. Ma anche in rapporto alla crescita del PIL, della ricchezza complessiva, perché in alcune fasi i consumi risultano in rapporto alla crescita generale, il che significa che le famiglie intaccano i risparmi.

 

Ricorrono al prestito…

 

Questo è l’elemento strategico che conferma e approfondisce un fattore potenziale di crisi e di costruzione di bolle. La crisi del 2007 e del 2008, la sua dimensione, è stata determinata proprio da questo: una curva delle remunerazioni e una curva dei consumi che si sono aperte a forbice, mentre le remunerazioni sono rimaste al palo o addirittura sono diminuite, la curva dei consumi ha continuato a crescere, in modo addirittura preoccupante. C’è un interessantissimo rapporto di Mario Draghi su questo di più di sette anni fa, che mostra esattamente il grafico con questa apertura. Com’è possibile che i consumi crescano con una dinamica prima dell’impatto devastante della crisi così superiore alla dinamica dei redditi? È il credito, in particolare il credito al consumo, dall’uso dalle carte, dalla concessione senza controllo dei mutui, e così via. Qui entriamo nel meccanismo che ha innescato la crisi, ma questo vuol dire dagli anni Ottanta in poi. In tutto l’Occidente, non solo in Italia, i salari si sono raffreddati. Possiamo individuare una data globale: il settembre del 1979, il discorso di insediamento di Paul Falker, Governatore della Federal Reserve, nominato da Carter, non ancora da Reagan. Tiene il suo discorso d’investitura in una situazione del capitalismo internazionale molto grave; eravamo nel pieno della stagflazione, cioè nella situazione di stagnazione, se non di depressione caratterizzata da alti tassi di inflazione, superiore alle due cifre. Falker dice: è finito un lungo ciclo iniziato nel 1929, quando il primo punto dell’agenda di tutti i governi era la piena occupazione; si viveva con l’incubo delle file dei disoccupati davanti agli uffici di collocamento nelle metropoli americane, e poi europee. Per cinquant’anni questo è stato il primo obiettivo dei governi: sostenere l’occupazione accettando e sostenendo una dinamica salariale calda. Da oggi si cambia, dice il Governatore, il primo nemico diventa l’inflazione. Mettere sotto controllo l’inflazione, abbatterla, voleva dire sfondare la rigidità salariale, ovvero entrare a piedi uniti nella composizione sociale e nel mondo del lavoro, diminuirne o annientarne il potere di contrattazione. E così è stato fatto. Quello che ha fatto poi Reagan era in qualche misura scritto in quel discorso d’investitura: la delocalizzazione, lo smantellamento della cintura dello Steel Belt dell’acciaio, la fine di Detroit e delle grandi concentrazioni industriali, la fine di Torino, dell’Alsazia-Lorena, della Ruhr.

 

Tutto questo come si rapporta con l’aumento dei consumi?

 

Questo attacco frontale al salario e in generale al reddito da lavoro ha marciato di pari passo con la coazione al consumo. Il problema era: continuare a sostenere i consumi, anzi farli crescere. E questo è stato l’altro must delle élite governanti ed economiche e politiche: il sostegno dei consumi in una situazione di remunerazioni stagnanti. Il primo discorso che fa Bush dopo l’11 settembre, dopo l’abbattimento delle Twin Towers, non invita gli americani alla guerra, quello lo farà dopo. La prima cosa che dice è: uscite di casa e andate a comprare. Come garantisci la crescita quasi illimitata dei consumi senza salario e senza remunerazione? Con il credito. Sostituisci al reddito il credito. Il meccanismo dei subprime ha funzionato come grande macchina di generazione di ricchezza virtuale, per cui gli americani con il mutuo compravano la casa, la casa aumentava di valore, la vendevano incassavano il surplus, pagavano il mutuo, facevano un nuovo mutuo maggiore, compravano una casa di maggior valore, e questa cresceva ulteriormente, e producevano denaro senza lavoro. Il meccanismo è stato questo e poi le carte di credito hanno fornito un impatto enorme. Siamo arrivato alla soglia della crisi del subprime in cui c’erano nazioni in cui la popolazione era indebitata per il 70-80% delle proprie possibilità.

 

Dalle prime righe del Rapporto emerge che l’oggetto del desiderio non è più tanto la casa, bensì la salute, e che il cibo è ora parte sostanziale del benessere in generale. Questo cambiamento introduce a tuo avviso qualcosa di nuovo?

 

Introduce senza dubbio qualcosa di nuovo che sta totalmente dentro questa nuova struttura sociale nella quale c’è una parte di popolazione che sta sotto le soglie, una parte, molto ampia, che sta a metà della scala del reddito sociale e anche dello status, stagnante come reddito, e una parte sempre più sottile che schizza in alto. Questo è il meccanismo che ha governato l’ultimo quarto di secolo e forse di più. Da una struttura a botte, nella quale c’era una piccola e media porzione sul culmine in alto, una grandissima pancia, un ceto medio che si era alimentato assorbendo una parte della classe proletaria che si era “cetomedizziato”, per usare l’espressione di De Rita, e una parte piccola di poveri. Questa era la struttura nel trentennio dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il 900 maturo è stata questa cosa qui. Prima si è asciugata la pancia e una parte consistente, come nella clessidra, è scesa ad allargare la base, l’esercito degli impoveriti, e poi si è anche assottigliata la punta; la punta si è molto allontanata, è molto salita verso l’alto, una bottiglia alla Modigliani con un lunghissimo collo, in cui il vertice è salito alle stelle. Questa dinamica dei consumi riflette una situazione nella quale c’è una parte di società che esce fuori, che scende in basso, che consuma junkefood, quella che va ai discount, che non si cura della salute perché come ha teorizzato Amartya Sen la povertà è una perdita di progettualità su se stessi: povero è chi non ha più la capacità di progettare su se stesso la propria traiettoria sociale, in primo luogo su ciò che mangia, sul proprio corpo. E poi c’è una parte medio-alta di società, quella che ha mantenuto una capacità di spesa, di acquista che si qualifica, a differenza dell’esercito della povertà, a partire dalla composizione del proprio paniere della spesa.

 

 

Che quantità numerica ha questa parte medio-alta della società attuale in Italia?

 

Dobbiamo parlare d’indice di status e non tanto di indicatore di reddito per identificarla. Sempre di più tu sei quello che mangi, tu sei il tuo sistema di relazioni sociali; la conversazione quotidiana ruota intorno a questo, il sistema delle amicizie e delle relazioni si costituiscono in palestra, si costituiscono sul campo da golf, al tennis.

 

Ma non è sempre stato così?

 

Il ceto medio non si qualificava necessariamente su questo negli anni Sessanta e Settanta. Si qualificava sullo status professionale, la scolarizzazione, se vuoi le letture, il vicinato; ancora adesso in buona misura dove abiti dice chi sei. Il processo di gentrification sta dentro questo meccanismo. Questo tipo di consumi, che sono beni relazionali, prima ancora che beni finalizzati all’alimentazione o all’abbigliamento, che producono sistemi di relazione…

 

Sono dei luoghi?

 

Sì, luoghi che ti qualificano e che entrano nella tua biografia e che ti rendono quello che sei. In presenza di un processo di impoverimento, che è il fenomeno con cui ci misuriamo oggi, non è l’emergenza povertà il problema principale. Quello che ha caratterizzato il ceto medio è un processo di stagnazione del reddito d’impoverimento. In questo processo chi deve selezionare i propri consumi tenderà a sacrificare una parte di consumi essenziali pur di salvare i beni relazionali.

 

Puoi fare qualche esempio?

 

La famiglia che fino al 2005-2006 era benestante, perché il marito manager di una media impresa guadagnava parecchie migliaia di euro, la moglie impiegata con un ruolo di quadro intermedio o esecutivo, che portava il suo contributo: 2000-2.500 euro che entravano in famiglia, per un totale di 7-8-10.000 euro al mese, e si era comprata la casa con il mutuo, anche bella, a un certo punto deve dimezzare il proprio bilancio perché la moglie perde il lavoro, perché i benefit del marito diminuiscono, o addirittura viene licenziato. Ho conosciuto tanti ingegneri che da un mese all’altro sono finiti in cassa integrazione, in lista di mobilità. Costoro taglieranno tutto, ma non la palestra, o il circuito alimentare, rinunceranno alla carne, diventeranno magari vegani, e continueranno a consumare nei luoghi in cui vengono venduti questi beni, così come per i figli non rinunceranno alle scarpe firmate, che sono un simbolo di status, e che gli amichetti e le amichette riconoscono, non rinunceranno all’ultimo modello di smartphone, sacrificando alcuni beni essenziali, magari la cultura in qualche caso, cioè tutto ciò che non produce conferma di uno status che invece si è eroso, ed è sceso. Questa situazione produce ricollocazione nel sistema dei desideri e dei bisogni, ma produce anche mentalità e politica.

 

Qualche esempio? 

 

Non c’è dubbio che la sindrome populista è in strettissima connessione con i processi di estensione della deprivazione e soprattutto con il meccanismo dell’impoverimento. Non lo definirei disagio sociale, è un’espressione ambigua, perché richiama categorie di ieri. Quello che accade è qualcosa di diverso dal disagio sociale, è quello che determina l’atteggiamento rancoroso, rabbioso, frustrato, depresso, che sta al di sotto di questi nuovi comportamenti politici. Se tu sovrapponi le mappe del voto con le mappe della velocità di scorrimento delle aree territoriali, trovi una corrispondenza quasi perfetta. Là dove restano aperte piste a scorrimento veloce e dove l’ascensore sociale continua a funzionare in modo non così spaventosamente selettivo, e riesce a trainare verso l’alto una parte consistente di popolazione, si ha un voto pro establishment; là il meccanismo di ascesa sociale si è rotto, o si è aperto un piano inclinato che comunica un senso di deprivazione, e che non è solo deprivazione materiale, è deprivazione di status, di senso di sé, di autostima, di riconoscimento, di essere all’interno del racconto sociale prevalente, là dove questo non avviene, tu hai lo smottamento.

 

Quanto a tuo parere è reale o quanto è immaginaria questa caduta?

 

Il senso principale della caduta, come ho scritto su doppiozero commentando il voto torinese, è la narrazione. Se tu sei dentro o fuori dalla narrazione prevalente o quasi unica che viene fatta.

 

Quali sono i fattori che fanno sì che questo venga percepito dalle persone?

 

Il senso del fallimento. Basta niente. La paura è in conseguenza di un senso di nientificazione, di nullificazione. La sensazione di essere “rien”. Cosa sono? Niente. Perché il racconto sociale parla di altro e io non ci sono dentro. Il racconto sociale parla di un paese che tiene, di opportunità che si aprono, di voltar pagina, di cambiare passo, e io non riesco a cambiare passo, e resto al margine, e sono fallito. Se io sono fallito, c’è la depressione, e vado tra gli scoraggiati oppure c’è la chance della rivolta: se sono fallito è colpa di qualcuno, che mi ha portato via quello che mi spettava. Chi è questo qualcuno? O sono le multinazionali o quelli dei vaccini o dei farmaci o la lobby ebraica. Ma questi sono lontani. Oppure il marocchino che ha degradato il mio quartiere, il nero che immagino stia nell’albergo 5 stelle, e allora: perché a loro sì e a me no? E parte lo sguardo trasversale, il malocchio invece dello sguardo verticale. L’invidia dei poveri. Sono i serbatoi dell’odio di cui parla Sloterdijk che crescono, non ci sono più le banche dell’odio che lo stoccavano, la Chiesa e i partiti che promettevano in modo differito nel tempo il momento in cui tutte le cose sarebbero tornate in equilibrio, la giustizia…

 

La promessa del futuro è passata dai partiti alle carte di credito?

 

Quando la banca ti dice: il suo credito è esaurito, tu sei nulla.

 

Già, ma la carta di credito è verificabile, mentre le ideologie non lo erano.

 

Però con la carta di credito hai le esplosioni non differite dell’ira, che sono il flashmob contro il Tiburtino tre o la ronda contro le prostitute che hanno fatto crollare il valore immobiliare della tua residenza. Un’ira molecolare che non viene più differita ma che esplode.

 

Questi fattori esistevano già, ma com’era gestito il conflitto sociale? Che tipo di narrazione funzionava?

 

Funzionava un’immagine verticale del conflitto, pur nella infinita complessità dei conflitti s’immaginava una verticalità. L’operaio Fiat che non ce la faceva più sulla catena e che si prendeva la multa, se riusciva a mettersi insieme agli altri andava sotto la palazzina degli uffici o in Corso Marconi e urlava a Valletta, ad Agnelli, a Romiti, alla figura apicale di turno che stava nello stesso territorio e era attingibile. La tua ira aveva un suo oggetto materiale che stava sopra di te. Poi c’era il terrone con cui prendersela; il piemontese che difendeva il suo status contro il terrone, ma veniva riassorbito dentro la verticalità, anche politicamente. La dialettica maggioranza-opposizione era comunque una dialettica verticale e chi si sentiva sotto poteva in qualche misura attraverso il voto sfidare chi stava sotto e sperare. Oggi questo è saltato completamente. Il conflitto è tutto orizzontale o, quando è verticale, è verso il basso. Io che ho perso la mia autostima come lavoratore perché la mia professionalità non vale più niente o non viene più considerata, ho perso una parte del mio reddito, non posso più permettermi quello che ci permettevamo come reddito famigliare, io maschio che ho perso il mio status perché le donne ci ridicolizzano…

 

Nel rapporto non solo si dice che le persone oggi sono ossessionate dal problema della salute, ma che il desiderio sessuale è diminuito: si vendono meno profilattici.

 

È il 6% in meno nelle vendite, ma mi apre che anche i siti porno siano meno visitati. Anche se raccolgono una parte consistente di traffico, sono in riduzione.

 

Quel desiderio dove va?

 

In risentimento. La libido frustrata va in risentimento o in auto sabotaggio, va in psicofarmaci. Le vendite schizzano in alto. Una società che deve curare la propria frustrazione da declassamento.

 

Ma c’è un’altra cura a tutto questo?

 

La cura sta nel discorso che abbiamo fatto prima. Parliamo un attimo di Torino, la città dove vivo, dalla mappa. Oggi servono più le mappe che non le tabelle statistiche. Mi ero riproposto di ricostruire la mappa dei conflitti sociali e capire dove si esprimono. E sono andato a cercare le vecchie statistiche degli scioperi che avevo usato negli anni Settanta. Ho scoperto che l’Istat dal 2009 non censisce più gli scioperi. La statistica degli scioperi in Italia si inaugura nel 1892 perché il codice Zanardelli aveva depenalizzato lo sciopero e la nostra nascente statistica ha cominciato a registrare. Tolto il periodo fascista, in cui lo sciopero era vietato, abbiamo la serie statistica che arriva sino al 2009 e poi l’Istat comunica che il rapporto costi e benefici è diventato sfavorevole e non vale più la pena di spendere soldi per censire le giornate di sciopero, le ore, la dimensione, il numero. Nessuno fa queste statistiche oggi in Italia, mentre la povertà sono in tanti che la misurano. Le raccolgono ancora nel Regno Unito e il Dipartimento del lavoro americano. Sono precisi: mettono i principali scioperi e sono per lo più nel settore dell’assistenza medica, nei servizi e nei trasporti. Questo per dire un altro elemento, per dire come ci è cambiato il mondo intorno. Torniamo alle mappe. Queste parlano coi colori. Per esempio il ballottaggio alle amministrative o quella del referendum promosso da Renzi, sono perfettamente sovrapponibili. Disegnano un centro pro establishment, che a Torino ha votato Fassino e ha fatto prevalere il Sì, poi hai a macchia d’olio, dal centro verso la semi-periferia, una non clamorosa prevalenza dell’Appendino e una media prevalenza del No, poi la periferia per il 60-70% 5Stelle e No. Lo stesso a Roma. Se prendi la mappa dei Municipi di Roma, anche lì Parioli e centro pro establishment e periferia pro 5 Stelle; e c’è una correlazione con il reddito medio: man mano che scende, cresce il voto di vendetta, non di protesta. Chi vota per far male a quello che ritiene sia la causa dei suoi male o colui che avrebbe dovuto rappresentarlo e non l’ha fatto. Meccanismo del Michigan per Trump. Votavano tradizionalmente democratico e questa volta tu che dovei rappresentarmi, rappresenti gli altri: Hollywood, Amazon, Silicon Valley, Wall Street, e io voto per il più brutto e il più sporco e cattivo che c’è. Perché ti faccio più male. Questo è il meccanismo.

 

Qual è l’anticorpo possibile?

 

Se tutti questi problemi non dipendono solo da una variabile sociale, socioeconomica, legata al reddito, ma da qualcosa che attiene più strettamente all’identità delle persone, dall’autostima, quello che ha fatto la differenza è il discorso pubblico: chi si sente dentro e chi si sente fuori, chi si sente raccontato dal discorso pubblico e chi non si sente raccontato, o chi invece si sente raccontato dalla invettiva pubblica. Non c’è un altro racconto dall’altra parte, ma una invettiva pubblica. Mentre c’è un racconto edificante degli avatar che stanno nei posti di responsabilità politica e i loro referenti mediatici. Quel racconto edificante che dice che le tue opportunità sono infinite, ti esclude. Se si crede a quel racconto, l’escluso si sente un fallito.

 

Il tuo ragionamento si basa sul fatto che una fetta sempre crescente di popolazione non crede a questa narrazione, ma di cosa è fatta questa narrazione? Esiste davvero come esisteva un tempo? Per esempio, le agenzie di valori, la Chiesa di Papa Francesco, il volontariato, fanno parte anche loro di una narrazione pubblica, e allora come è possibile identificare così esattamente una narrazione?

 

Quando parlo di narrazione pubblica mi riferisco alle voci potenti o alla politica, i governanti, al racconto fatto dai governanti, che poi non si è rivelato giusto, com’è accaduto a Torino. Il racconto romano e torinese. Il racconto televisivo dei talkshow accreditati, il racconto del Presidente del Consiglio quando va da Bruno Vespa. Il racconto che viene accreditato formalmente come autorevole e che di fronte al disagio diffuso viene totalmente destituito di autorevolezza, ma in quel momento lascia le persone sole, perché non hanno autorità a cui riferirsi, e quindi alimentano i serbatoi dell’ira. Senza una proposta alternativa. L’antidoto? È il ritorno a una narrazione del basso. Un nuovo patto scrittori e popolo. Esiste una letteratura che ritorni a raccontare il sociale tale che chi lo abita si possa riconoscere e possa assumere la propria controfigura dentro una narrazione accreditata? Oppure il minimalismo dei narratori contemporanei ha cancellato questa possibilità? Se non si riparte da una operazione culturale in cui gli esclusi tornino a essere inclusi, ma non manzonianamente, ma recuperando una vena da grande letteratura europea, si scrivono libri in cui si dice: come sono orrendi gli abitanti delle Vele, che fa sensazione, produce dopamina nel leggere. 

 

Ti riferisci a romanzi come quelli sulla banda della Magliana o simili?

 

Il noir sociale non funziona perché conferma gli inclusi su quanto sono orrendi gli esclusi.

 

Ma non è abbastanza logico che sia così? Se la realtà è quella che racconti, è abbastanza naturale che gli scrittori raccontino questa situazione. I libri di Walter Siti sono così.

 

Vero. Ma l’impoverimento del ceto medio chi l’ha raccontato? Il ceto medio come poteva essere raccontato da Mastronardi, la sua crisi esistenziale, chi la racconta oggi?

 

Ci sono libri di giovani narratori sulla condizione del precariato, Falco ad esempio, tanti libri sulla condizione giovanile. Un’intera generazione si riconosce in questi libri. Il modello letterario prevalente resta Siti. Ho letto lo splendido romanzo sul capitalismo finanziario, Resistere non serve a niente. L’ho trovato straordinario, l’intreccio criminale economico-finanziario. Ma non dice niente agli esclusi attuali, non ci sono. Quelli di Vanchiglia, quelli che vivono l’erosione del proprio ruolo, la loro marginalità. A loro non dice nulla. C’è una bella descrizione della nuova morale delle élite dominanti, di chi sta in cima alla piramide.

 

Non produce reazioni o ripulsa? Produce ammirazione secondo te questa narrazione?

 

Orrore e ammirazione. Il mito di Briatore è questo. Produce persino desiderio d’identificazione. Mi piacerebbe essere in quel giro, sniffare coca, avere quelle donne, e così via. Si tratta di una droga sociale. Non è Zola. Non voglio dire che occorre ritornare al realismo. Se però non si afferma una dignità di racconto “normale”, non dell’eccesso, che socializzi il disagio, che riveli quanto di comune ci sia nel disagio con gli altri, si continua a fare maquillage della propria condizione sociale.

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Marina Abramović. Corpo senza limiti e confini

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Danica e Vojin Abramović avevano l’abitudine di dormire con una pistola carica sul comodino. Ex combattenti partigiani comunisti ai tempi di Tito, i genitori di Marina Abramović vivevano in un perenne stato di allerta, anche in tempo di pace. Addestrata come un soldato dalla madre, la figlia ricevette una ben singolare educazione all’autodisciplina, dalla quale deriva il suo stoico e imperturbabile esporsi al pericolo e al dolore senza lamentarsi. Nella performance Rhythm 0 eseguita presso lo Studio Morra a Napoli nel 1975, Marina espose il suo corpo alle conseguenze di qualsiasi azione compiuta dai visitatori utilizzando 72 oggetti posati su un tavolo, tra i quali una pistola e un proiettile. “Se qualcuno voleva caricare la pistola e usarla, ero pronta alle conseguenze” scrive nella sua autobiografia (Attraversare i muri, Milano, 2016, p. 84). 

 

Nelle sue performance Abramović mette a rischio la sua incolumità saggiando la resistenza e i limiti del proprio corpo, un corpo senza limiti e confini spiega l’artista nel corso della lecture alla quale sto assistendo nella suggestiva sala storica del Teatro Sociale Giorgio Busca di Alba. “Attraverso il corpo sento l’anima” racconta utilizzando le parole di Ruda Iandê, un indigeno erborista incontrato in Brasile nel corso di un suo road movie artistico e spirituale che è diventato un documentario: The Space in between. MarinaAbramović and Brazil (2016). 

 

Lecture di Marina Abramović con la proiezione di alcune fotografie scattate nel corso della performance Rhythm 0 del 1975.


Mentre ascolto la lecture dell’artista penso che la sua idea di anima, la cui solidarietà con il corpo è messa alla prova dalle ordalie alle quali si sottopone con indifferenza degna di uno stoico, sia per certi versi aderente alla concezione che ne aveva lo stoicismo stesso. Sembra che i primi filosofi della Stoà abbiano preso a prestito dalla scuola medica siciliana il concetto di pneuma inteso come soffio, respiro, spirito vitale, usato per indicare il principio sia del movimento del corpo che della conoscenza sensibile. Questo spirito vitale diverrà per gli stoici l’anima umana concepita come qualcosa di corporeo (Maria Tasinato, Tempo svagato. Marco Aurelio: il savio, il distratto, il solitario, Milano, 1990, p. 44). Al sorgere del primo stoicismo il pneuma si presenta solidale con il corpo e con l’intero cosmo, animato dallo stesso pneuma che vivifica il corpo secondo un principio di necessità al quale bisogna conformarsi. Da qui l’etica dello stoicismo con la sua analisi delle azioni: quelle perfette del saggio e quelle guidate dal senso del dovere dell’uomo comune sprovvisto di saggezza. 

 

La sconcertante puntualità e stoica imperturbabilità con la quale Abramović conduce a termine le sue performance tradisce un’etica del fare assunta, nella sua estrema radicalità, in una dimensione artistica. “Una legge della performance è che, una volta che entri nello stato fisico e mentale che hai concepito, le regole sono quelle: punto e basta”, scrive nella sua autobiografia. Quanto l’ha indispettita il fatto di non aver potuto concludere all’ora esatta, anzi al secondo esatto la performance The Artist is Present eseguita al MoMa di New York nel 2010! A causa del curatore Klaus Biesenbach, che otto minuti prima della fine ufficiale della performance si alzò dalla sedia e la baciò, non le fu possibile star lì fino all’ultimo secondo come avrebbe dovuto. Stoica come sua madre e suo padre, intrepidi partigiani comunisti dotati di una determinazione “capace di farli passare attraverso i muri” (autobiografia, p. 22)? Sì, certo, Abramović è stoica, non è masochista, come invece sostengono coloro ai quali sfugge il senso filosofico del suo sopportare ad ogni costo.

 

Lecture di Marina Abramović con la proiezione di alcune fotografie scattate nel corso della performance The Artist is Present eseguita al MoMa di New York nel 2010.


Nella filosofia della Stoà, come si diceva, lo stesso pneuma che anima il mondo anima anche il corpo , un corpo perciò senza limiti e confini, ma già con Marco Aurelio Antonino, e prima ancora con Posidonio, il termine pneuma (soffio, respiro, spirito vitale) subisce una mutazione semantica. Nel medio stoicismo viene introdotto un dualismo tra la parte superiore dell’anima e quella inferiore, animale, sensuale e corporea. Al formarsi di questa diversa concezione del pneuma concorre anche lo sviluppo della medicina, in seno alla quale la pneumatologia era stata ulteriormente rielaborata: al soffio vitale era stata sottratta ogni funzione che non fosse puramente fisiologica. Nel suo bellissimo saggio, Tasinato analizza la deprecazione del respiro (pneuma), che si accompagna alla stigmatizzazione di quanto nell’esistenza vi è di transitorio. Da qui in avanti lo spirito si emanciperà dal corpo: “sangue guasto, ossicini, intrico sottile di nervi, venuzze, arterie”, animato da un “soffiuccio” destinato a disperdersi. 

 

Performance Balkan Baroque eseguita in occasione della Biennale di Venezia del 1997.


Per associazione con “nervi”, “ossicini” e “sangue guasto” balena nella mia mente l’immagine di una sanguinolenta opera di Abramović. Seduta su una montagna di ossa bovine, intenta a ripulirne la cartilagine nella performance Balkan Baroque eseguita in occasione della Biennale di Venezia del 1997, l’artista porta l’attenzione non solo sulla tragedia dei Balcani ma – mi permetto di pensare con la licenza ermeneutica che ogni opera d’arte rilascia d’ufficio – anche sulla fine di una concezione del mondo in cui la carne è spirito, energia nel flusso della quale l’artista s’immette durante le sue performance. Per la sua natura polisemica l’opera d’arte indica sempre una cosa e, insieme, anche un’altra, diversa se non contraria, in questo caso la difficile e dolorosa ricomposizione sociale dopo le stragi balcaniche e l’altrettanto dolorosa perdita del respiro nella nostra cultura.

 

A questo punto ho l’impressione di essermi spinto troppo in là con le congetture. Allora alzo una mano e chiedo: “ho l’impressione che il suo sforzo di sopportare la fatica e il dolore sia in relazione con lo stoicismo”. Abramović m’interrompe: “con che cosa?”. Preciso: “con l’antica filosofia fondata da Zenone di Cizio ad Atene”. Abramović fa cenno di aver compreso e proseguo: “se dovesse essere così, visto che in quella filosofia questa sopportazione ha una dimensione etica, è possibile dire che nella sua opera vi sia una componente etica?”. Dopo una breve pausa Abramović risponde: “L’opera d’arte deve avere diversi livelli: etici, morali, politici. Se si hanno tutti gli elementi necessari allora l’opera avrà lunga vita”. È un concetto chiave, espresso anche nella sua autobiografia: “Solo significati stratificati possono dare lunga vita all’arte: in questo modo, la società prende ogni volta dall’opera ciò che le serve”, in caso contrario l’opera si riduce ad essere “come un giornale. Può essere usata solo una volta, e il giorno dopo è come una notizia ormai priva di attualità” (autobiografia p. 97). 

 

Dal progetto The Kitchen, Homage to Saint Therese del 2009. 


Come non essere d’accordo con l’artista? A dispetto dell’attuale trend dell’arte giornalistica, illustrativa e didascalica, spesso concepita esclusivamente come denuncia e testimonianza sociale, destinata perciò ad eclissarsi insieme ai fatti ai quali di volta in volta si riferisce, quella di Abramović è insieme sociale, politica, spirituale, etica ed estetica; è contradditoria, dialettica, per nulla didascalica, come nel caso del progetto The Kitchen, Homage to Saint Therese (2009) nato dall’interesse di Abramović per i fenomeni di levitazione attribuiti a Santa Teresa d'Ávila. Si racconta che, mentre stava cuocendo una minestra nella cucina del convento, Santa Teresa ebbe una levitazione involontaria e rimase a mezz’aria sopra la pentola in ebollizione senza la possibilità di scendere, come avrebbe preferito perché aveva fame. “Era talmente incazzata…”, sottolinea l’artista a un certo punto della lecture. Abramović è affascinata dall’idea che la santa abbia potuto arrabbiarsi con la forza di Dio introducendo in una esperienza spirituale un elemento dialettico e in un certo senso anche politico. Nella sua opera, dunque, livelli diversi entrano in rapporto dialettico tra loro, compreso quello etico al quale continuo a pensare con insistenza mentre l’artista si alza portando la mano destra al cuore per salutare. 

 

La lecture si è conclusa e il pubblico sciama come una nuvola di cavallette verso il rinfresco. Alcuni se lo sono meritato (il rinfresco) perché nella stessa giornata hanno partecipato anche all’incontro con William Kentridge alle Officine Grandi Riparazioni di Torino. Io non sono tra questi meritevoli stacanovisti dell’arte contemporanea e inoltre non ho ancora visto l’opera video The Kitchen V, Carrying the Milk, della serie The Kitchen, Homage to Saint Therese di Abramović, esposta nel coro della chiesa di S. Maria Maddalena (fino al 12 novembre). Devo sbrigarmi perché è piuttosto tardi.

Mentre mi sposto a piedi dal teatro alla chiesa, rifletto sul fatto che la stratificazione dei significati nell’opera, come suggerito da Abramović, permette a chiunque di prendere dalla stessa quello che gli serve. Nel mio caso l’idea che la perdita del respiro, del pneuma che anima sia il corpo che il mondo, permeandoli entrambi secondo un principio di necessità al quale bisogna adeguarsi assumendosi la responsabilità delle proprie azioni, come fecero Danica e Vojin Abramović nella resistenza e poi nella Jugoslavia di Tito, sia stata dolorosa tanto quanto la ricomposizione sociale dopo le stragi balcaniche. Per consolarmi acquisto in un negozio lungo la via un pezzo di torrone piemontese (il migliore, senza dubbio) e proseguo sgranocchiandolo con piacere. 

Ecco la chiesa! 

 

Opera video The Kitchen V, Carrying the Milk, della serie The Kitchen, Homage to Saint Therese, esposta nel coro della chiesa di S. Maria Maddalena ad Alba.


Entro nel coro. Sotto un Crocifisso ligneo del XVI secolo è allestita l’opera video girata nella cucina di un ex convento certosino. Sullo sfondo di una finestra luminosa che incornicia la sua testa, come uno dei nimbi quadrangolari dei Beati, Abramović regge un contenitore colmo di latte. L’impianto compositivo richiama la luce e la geometria di Piero della Francesca. Il corpo dell’artista oscilla nello sforzo compiuto alla ricerca di un equilibrio. La tensione è molto forte. Ogni tanto il latte gocciola cadendo a terra. Verso la fine della performance il latte, cadendo, macchia di bianco la veste nera dell’artista. L’opera video è molto ricercata nella composizione così come nella scelta dell’allestimento, che dialoga con la geometria del coro e con quella della croce lignea sovrastante formando una video-installazione colta e raffinata. L’opera ha una bellezza rinascimentale tutta italiana. È molto bella, forse troppo: la tensione della performance dell’artista che regge il contenitore ricolmo di latte fino all’esaurimento delle sue forze si è estetizzata in una curatissima video-installazione lontana anni luce dal colpire velocemente gli spazi tra le dita di una mano con un coltello nella performance Rhythm 10 del 1973, dall’inspirare nei polmoni l’aria emessa da un ventilatore industriale fino a svenimento in Rhythm 4 del 1974, dallo strapparsi i cappelli con un pettine in Art Must Be Beautiful, Artist Must Be Beautiful del 1975. Dov’è finita la radicale etica del fare che caratterizzava l’arte di Abramović nelle performance degli anni Settanta? Dove sono finite le pistole cariche sul comodino? 

 

Opera video The Kitchen V, Carrying the Milk, della serie The Kitchen, Homage to Saint Therese, esposta nel coro della chiesa di S. Maria Maddalena ad Alba - Soffitto del coro con affreschi.


È finita l’epoca in cui Vojin Abramović, il padre di Marina aveva il coraggio di denunciare pubblicamente la borghesia rossa jugoslava buttando la sua tessera di partito in mezzo alla folla riunita in piazza Marx e Engels a Belgrado (autobiografia, p. 53), e inoltre siamo a corto di fiato, ci manca il respiro che unendo l’anima al corpo e alle cose del mondo dà vita, forza e coraggio, in breve ci anima.

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L’albero secco, la guerra, gli uccelli

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Torna nel Salento, dove nacque più di ottanta anni fa, Eugenio Barba, il regista inventore di mondi, esploratore di teatri vicini e lontani. Ha il fisico asciutto, dritto, scattante, l’intelligenza sottile, come un soldato dell’esercito guerrigliero di utopia. Ha portato in prima italiana ai Cantieri Teatrali Koreja di Lecce L’albero, il nuovo spettacolo dell’Odin Teatret. Un albero secco che qualcuno vuole disperatamente far fiorire, perché possano tornare sui suoi rami gli uccelli fuggiti lontano e dispersi nel mondo; quei rami che qualcun altro vorrebbe segare e ridurre a legna da bruciare. È un Tannhäuser senza il senso del peccato individuale: dove la colpa è attribuibile a un’umanità feroce, che uccide, che distrugge, contro cui si schierano i semplici, i tenaci, i bambini che nel crescere non hanno dimenticato i sogni e gli insegnamenti dei padri poeti.

 

Questo spettacolo colpisce per l’asciutta distillazione dei segni, allontanando dal ricordo di un Odin prorompente, provocatorio, tutto fisico, corporeamente emozionale, in cerca dello shock dello spettatore. Conquista come una favola amara e ribadisce il credo del gruppo danese (ma innestato di presenze e di lingue teatrali di tutto il mondo) in una scena che contagia per magia, per risonanze profonde raggiunte andando a toccare le regioni più segrete con distillazione tecnica raffinatissima e immaginazione coinvolgente. Si dichiara la terza tappa della “Trilogia degli innocenti”, dopo La vita cronica e Le grandi città sotto la luna, sguardi di traverso al nostro mondo, con occhi che non si rassegnano al dolore, al conformismo, al consumismo, alla sofferenza, alla rinuncia. Che coltivano il sogno, anche nelle terre grigie dell’incubo.

 

The tree by Rina Skeel. 


Lo spettacolo è riservato a 104 spettatori, 57 per lato, in una tribuna che può essere contenuta in valigie ed essere trasportata in aereo. È disegnata da Luca Ruzza, lo stesso architetto che ha riadattato a teatro e luogo di incontri una vecchia fabbrica di mattoni creando gli spazi multipli di Koreja, dove Barba in questa occasione ha tenuto vari incontri e presentazioni di libri (il teatro come opificio, come luogo di cultura dinamica e non solo di rappresentazione: è proprio il modello che persegue da sempre l’Odin). Lo spazio scenico contrasta, con i suoi colori freddi, il grigio del tappeto, un arancio sbiadito, l’azzurro delle sedute, con i toni dei costumi e delle azioni degli attori. La tribuna circonda, come in un teatro anatomico, lo spazio della storia; è costituita, per ogni lato, da due anelli formati da grandi tubi di plastica gonfiabile disposti su due piani. Sembra di essere in un gommone di migranti, ma un gommone high-tech, che richiamerà la situazione delle carrette del mare con scosse, vibrazioni di terremoto o maremoti, in certi momenti dello spettacolo che all’improvviso ti smuovono, ti scuotono, ti scossano. Stiamo forse rivelando troppo, ma confidiamo nel fatto, purtroppo, che questa grande creazione non ha al momento altre date italiane oltre Lecce (un assurdo): quando qualche grande città o media o piccola si sveglierà e deciderà di metterla in cartellone, i lettori avranno già dimenticato questo resoconto.

 

Sul soffitto della struttura (un vero teatro portatile) teli bianchi bucati che sembrano paracadute. E un’aviatrice sarà il personaggio centrale, la figlia del poeta da vecchia, sdoppiata in se stessa da giovane. Per lei il padre piantò un pero, promettendole che da grande avrebbe volato come un uccello per vincere il Barone Rosso. E ora si aggira desolata tra i rami secchi, spezzati, ricordando la gioventù, vivendo quello che avviene nello spettacolo – lei, l’ingenua, l’innocente, la desiderante – come un sogno dalle tinte e dai clamori di incubo, con momenti meravigliosi di abbandono e altri in cui appaiono figure spiritate che dispensano morte e odio come signori della guerra e delle stragi, padroni di bambini-soldato, sacerdoti di sacrifici umani.

 

The tree by Rina Skeel. 


La scena o il sogno di Iben (è lei, Iben Ragen Rasmussen, l’attrice simbolo dell’Odin, la piccola principessa aviatrice) si popola di figuri sinistri dal naso rosso di clown, buffoni sanguinari che governano la guerra ed esigono tributi di vite umane alla loro grottesca, terribile sete di potere. Uno è la tigre Arkan, il macellaio di Srebenica, il profeta della pulizia etnica nell’ex Iugoslavia, con i capelli drizzati schizzati verso l’alto come un sinistro punk, con la fisarmonica e la tromba, con una dizione scandita, martellante, militaresca. “Avete il diritto di uccidermi, ma non avete il diritto di giudicarmi”, dirà. L’altro rappresenta un signore della guerra africano, Joshua Milton Blahyi, a capo di un esercito di bambini-soldato, che spinge alla ferocia con sacrifici umani, promettendo l’invulnerabilità. In scena appare, presenza costante, una donna igbo, del Biafra (ricordate: la secessione dalla Nigeria, la guerra tra il 1967 e il 1970, le foto dei bambini ridotti alle ossa, la morte per fame?). Lei, di bianco vestita, porta sempre un fagotto con sé: diventa ventre gravido, peso da portare in equilibrio sulla testa, cesto contenente la testa del figlio morto, da piangere, da cullare.

 

Si parla degli orrori della guerra e di tutto ciò che causano: lutti, fughe, dispersioni di popoli, frontiere passate come uccelli senza casa, senza patria, senza albero. Di esseri umani allo stato ferino. Ma ci sono anche due monaci del deserto siriano, zoroastriani perseguitati da tutte le fazioni in lotta, che vogliono far rifiorire l’albero, che non credono che il Male possa vincere sul Bene. E compiono piccoli, teneri, tenaci rituali. C’è un servo di scena e ci sono due cantastorie, una biondissima violinista uscita da qualche roco punk-movie e una antica cantrice indiana col tamburo e con uno strumento a corda dal suono metallico, stellare, le uniche due senza naso rosso, le voci sofferte, dolci, ironiche, smagate, che ricostruiscono, che tessono i fili, ricordano, insinuano. 

Tutto qui. Il signore della guerra africano è interpretato da un grande danzatore attore balinese: parla la sua lingua, a noi incomprensibile, come una litania che diventa canto, ruggito, rombo della terra, meditazione profonda, vertigine; avanza con un lungo coltellaccio o corta spada e affetta teste di pupazzi, mentre incita alla battaglia e mentre noi siamo – come i personaggi – coperti dal telo bianco caduto dal soffitto, con le teste spuntanti dai suoi buchi, decollati, con la tribuna che si scuote, si muove, ci smuove, ci terremota.

 

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“Vola, Iben, vola” diceva il padre. E con i canti, con uova, con pietre macchiate di sangue, con umili sculture di cartapesta di case di uccelli, i monaci, con teli verdi, cercano di far rifiorire quell’albero, continuamente minacciato. Con bambole bionde Barbie e orsacchiotti annidati sui rami, ricordi di infanzie nella bambagia pronti a essere decapitati. 

 

Sono movimenti continui, paralleli, in contrasto mai risolto: il costruire, il distruggere, il patire le conseguenze della distruzione, il non arrendersi. Il volere, il fingere per rendere possibile, come appendere pere ai rami per far sembrare l’albero vivo e farvi tornare gli uccelli migratori.

Chi vincerà questa lotta continua? Chi lenirà il dolore tatuato con bianche mani di bambino sulle guance della madre igbo, che fa penzolare dall’abito bianco vuote maniche color del sangue? Chi ritroverà le lacrime disperse tra i rami torti, scavati; chi li raccoglierà, i rami, per ricostruire l’albero con finzione teatrale, infiggendoli in appositi sostegni? “Quando verrà l’anarchia tutto il mondo sarà trasformato”, canta la biondissima violinista, un po’ elfo, un po’ strega. “Per te, mio amato, ho lasciato la mia casa, ho rinunciato a tutto, ho vagato per i sette mari e non ho trovato nessun gioiello”, scandisce dolce danzante la cantatrice indiana dai lunghissimi, nerissimi, ricciutissimi capelli.

Non cambierà il mondo. L’albero forse non fiorirà. Ma ci indica una strada, la finzione, la tensione di questi attori che da più di 50 anni cercano un mondo diverso, provando a svelare le maschere del nostro vivere con la poesia, a volte barocca, a volte esplosiva, questa volta essenziale e fantastica, sempre “politica”. Un sentiero con il quale perderci; per ritrovarci. 

 

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Nel libro programma dello spettacolo si legge una nota vergata da Barba a Bali, durante la composizione girovaga di questo spettacolo, oltre le frontiere, oltre gli stili, mescolando forme e sapienze teatrali e facendole dialogare tra loro, senza che nessun attore rinunci alla propria identità: 

 

“(…) Quest’isola è così bella, e vorrei tanto poter inserire una scheggia di questa Bellezza nello spettacolo. A volte è stato insopportabile leggere le notizie dei giornali e la cronaca del mio tempo per travasarle nello spettacolo. Scrivo su un argomento che non piace a nessuno (Li Po). Il mio conforto è stata la bambina che sogna di volare e di lottare contro il Barone Rosso. Anche i due monaci mi hanno aiutato con il loro eroismo ingenuo di piccole azioni”.

 

Uno spettacolo dell’Odin Teatret è un organismo complesso, che nasce per prove ed errori, cambi di direzione, scoperte non previste. All’inizio a due attrici era stato dato il compito di lavorare su Biancaneve e su Cenerentola. Lo spettacolo doveva intitolarsi Volare e la suggestione del Piccolo principeè evidente. Come l’orrore per i bambini violati dagli orchi delle guerre, dalle violenze. Tutto questo si è depositato in quello spirito della favola, una narrazione mitica con i caratteri più evidenti della semplicità, con profondità e stratificazioni abissali. Scrive Barba ancora nelle note allo spettacolo (la citazione è molto lunga, ma merita di essere riportata):

 

“Tu vedi lo spettacolo e lo spettacolo vede te. Questa doppia visione – relazione o consapevolezza appena intuita – illumina e disturba. Riconoscere, associare, intendere, organizzare i dati che i sensi registrano e la memoria ha già immagazzinato: il cervello umano non smette di operare in questo modo. È un riflesso naturale dello spettatore la necessità di afferrare l’idea generale dello spettacolo: di che si tratta, che racconta, chi è questo personaggio, perché dice o fa qualcosa. Questo processo cognitivo dà sicurezza e gratificazione. Ma quello che trascende questo processo e rende incomparabile lo spettacolo teatrale come esperienza di un’esperienza è la capacità animale degli attori. È la loro capacità di dare vita a una fitta trama di dettagli sensoriali che colpiscono la parte rettile e limbica del cervello e penetrano nella fisiologia arcaica e nel più profondo della biografia del singolo spettatore: gesti apparentemente incoerenti nel contesto di una data situazione; movimenti enigmatici o solo in parte riconoscibili; ritmi sfasati; forme e colori; orchestrazione di parole, suoni, assonanze e intonazioni; azioni-reazioni come una discontinua linea musicale; simultaneità e successione di immagini, concetti, avvenimenti, silenzi e immobilità; pluralità di scansioni contrastanti – un flusso che ostacola l’intendimento dello spettatore, che spinge a scrutare a lungo un dettaglio e risveglia il riflesso di stare in guardia. Questa giungla di dettagli genera la vera visione dello spettacolo, una visione sconnessa, che non si lascia addomesticare a spiegazioni concettuali. Questa visione appartiene al dialogo solitario dello spettatore con se stesso durante e dopo lo spettacolo. Lo spettatore, come un entomologo, dialoga con i colori e i disegni delle ali delle farfalle che la sua rete è riuscita a catturare”.

 

Colori delle ali delle farfalle, atlante della complessità dispiegata con policroma polifonia, per precipitare – per percezioni sconnesse – in semplicità risonante, che ti parla di notte dopo la visione, che ti ossessiona ancora nel sonno e al risveglio, con quel tremito, quel rombo d’aria sotto le gambe penetrato in te, con quelle voci guerresche, incalzanti, con le lamentazioni, gli scatti della madre, le carezze alla terra dei monaci, le canzoni infantili dell’aviatrice, le speranze, i racconti. In italiano, balinese, indiano, danese, in altri idiomi; tanti, come il nostro mondo esploso. Con mille gesti e microgesti, quanti quelli di vite che non si lasciano ridurre a troppo semplici sensi, e di una costruzione artistica che vuole gareggiare con le molteplicità di quella vita, farsi artefice di un’altra creazione assumendo come punto di vista quello della lotta a svelare e a formare, a smontare e a riformare, a dare ancora di nuovo una nuova forma: un’opera demiurgica continuamente esposta allo smacco e al desiderio. Come il fare rifiorire un albero secco, appendendoci pere con nastri di stoffa.

 

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Vuoto intorno all’essenziale cerca di fare l’Odin, depistando, riempendo e svuotando continuamente. Intorno allo spettacolo a Lecce sono stati presentati un film e due libri, perché il teatro si nutre di deviazioni, di viaggi, di sguardi aperti: se è tecnica, è tecnica per stare nel mondo. Sono stati mostrati un film, Il paese dove gli alberi volano, di Davide Barletti e Jacopo Quadri. È stato presentato il libro di Vincenzo Santoro Odino nelle terre del rimorso. Eugenio Barba e l’Odin Teatret in Salento e Sardegna (1973-1975) (Squilibri Editore, 2017), sul viaggio dell’Odin nel Salento, a Carpignano e in Barbagia, a confronto con la cultura popolare, negli stessi anni in cui Giuliano Scabia con i suoi studenti e con il Gorilla Quadrumàno viaggiava tra l’Appennino e le periferie e Peter Brook con la sua compagnia multietnica e multinazionale scopriva col teatro i villaggi africani. 

 

L’altro libro è un diverso “ritorno a casa”, nella “terra del rimorso”, della ripetizione rituale e della complessità mai totalmente svelabile. Si intitola I cinque continenti del teatro. Fatti e leggende della cultura materiale dell’attore (Edizioni di Pagina, 2017) ed è stato scritto da Barba con Nicola Savarese: un uomo di teatro e uno studioso uniti dalla consapevolezza che il teatro si conosce interrogando e sviluppando le pratiche. È un altro atlante, un viaggio in tutto quello che rende possibile la presenza del teatro, gli spazi, le occasioni, le tecniche, gli spettatori, le vocazioni. 

Un ulteriore regesto della complessità di un’arte che solo apparentemente riguarda l’intrattenimento, la finzione, l’estroflessione: un’arte che va a scavare dentro, a fondo, verso gli strati e i sentimenti più nascosti dell’uomo che abita il mondo smarrito, nel deserto o nella distruzione; uccello senza rami, migrante per dannazione o per inquietudine, testa decapitata dal corpo (come nello spettacolo), testa e corpo, profondità archeologiche dell’umano che si inseguono per ricomporsi. In cerca di un pero, anche finto, anche solo colorato di stracci.

 

Di un albero secco da far fiorire con lo scavo algebrico, fantastico, emotivo. Con l’ascolto, la preghiera, l’attenzione, la rinuncia, la meditazione, l’azione, l’invenzione. 

Con la precisione degli attori, che rivela valli, cime crepacci: Iben Nagel Rasmussen prima di tutti, con i suoi cantanti molti anni e il volto capace di tornare bambino; Parvathy Baul, cantastorie dai capelli lunghissimi e dalla morbida magnetica presenza; I Wayan Bawa, sapienza scenica e rituale balinese trasposta in ritratto dell’orrore; Roberta Carrieri, la donna igbo cullante abbandono, disperazione, che fa sentire nella carne le offese fatte al mondo degli indifesi; Julia Varley e Donald Kitt, i monaci, la tenacia salmodiante della speranza; Elena Floris, l’altra narratrice, ambigua, seducente; Fausto Pro e Luis Alonzo, presenze funzionali e fantasmatiche; Kai Bredholt, la tigre Arkan, il clown feroce, che sembra reincarnare nella sua figura il compianto per lo scomparso Torgeir Wethal, come un’eredità creativamente rivendicata. E tutto il meraviglioso staff dell’Odin, che potete leggere nella locandina, qui.

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Blade Runner 2049

In occasione dell’uscita del film Blade Runner 2049, diretto da Denis Villeneuve, Vanni Codeluppi ha curato per l’editore FrancoAngeli il volume Blade Runner Reloaded, che contiene scritti di David Harvey, Antonio Caronia, Simone Arcagni, Mauro Ferraresi e altri. Doppiozero presenta in esclusiva l’introduzione del volume.

 

Il successo di Blade Runner è probabilmente dovuto all’estrema cura formale con la quale questo film è stato realizzato, ma anche al fascino di un’atmosfera in sintonia con un gusto estetico tipicamente postmoderno, con architetture, arredi, oggetti e segni che intrecciano in grande libertà epoche e stili espressivi differenti. Va considerato inoltre che Blade Runner non conteneva una rappresentazione realistica della città di Los Angeles, cioè, come è stato spiegato da Mike Davis, «la grande pianura senza soluzione di continuità fatta di bungalow in decadimento, e di bassi villini stile ranch» (Agonia di Los Angeles, pp. 43-44), ma, se pensiamo che Los Angeles rappresenta nel nostro immaginario la città della finzione per eccellenza (grazie soprattutto alla presenza di Hollywood e Disneyland), appare evidente che per questo film non poteva essere rintracciata un’ambientazione urbana più adeguata. Si spiega così perché Blade Runner abbia dato vita con grande successo al modello per eccellenza della metropoli postmoderna. Una metropoli dispersa sul territorio e priva di una storia, proprio come Los Angeles.

L’elevato interesse suscitato da Blade Runner deriva però soprattutto dal fatto che, come ha sottolineato David Harvey nel volume La crisi della modernità, al centro delle vicende raccontate dal film ci sono dei replicanti, ovvero degli esseri umani che vivono solo quattro anni ma in una maniera particolarmente intensa: «I replicanti esistono, insomma, in quella schizofrenica accelerazione del tempo che Jameson, Deleuze, Guattari e altri considerano fondamentale nella vita postmoderna.

 

 

Ed essi si muovono attraverso lo spazio con una fluidità che permette loro di acquistare un’immensa quantità di esperienza. Sotto molti aspetti questi personaggi corrispondono al tempo e allo spazio delle comunicazioni mondiali istantanee» (p. 377). I replicanti corrispondono cioè a quella compressione spazio-temporale che caratterizza l’odierna fase avanzata di evoluzione del capitalismo, dove la tecnica è andata sempre più ad imporsi sulla soggettività individuale. E dove il capitale si è fatto globale ed è pertanto diventato indifferente alle esigenze specifiche delle comunità e dei territori. Non a caso, i replicanti nel film in questione vengono costruiti mediante dei processi produttivi che sono tipicamente “postfordisti”, cioè basati sull’esternalizzazione e sulla divisione dei processi lavorativi tra diversi specialisti e differenti luoghi. I sofisticati occhi tecnologici dei replicanti, ad esempio, sono prodotti nello scantinato di un emigrato di origine orientale, dove sembra scarseggiare l’igiene. In un luogo, dunque, simile a quelli nei quali di solito nascono i prodotti tecnologicamente avanzati delle odierne marche globali.

 

A rendere però Blade Runner particolarmente sintonico con l’attuale fase evolutiva del capitalismo è soprattutto la rappresentazione buia e cupa che tale film fornisce della vita urbana. La metropoli del futuro vi viene infatti dipinta come un luogo estremamente pericoloso, un incubo inquietante che richiama l’atmosfera tipica di molti film noir del passato e in cui si può soltanto sperare di riuscire a sopravvivere. Manca dunque in Blade Runner la fiducia in un modello sociale positivo. Gli individui sono costretti a restare chiusi dentro la società in cui si trovano, la quale sta vivendo una situazione di profonda crisi, senza più una dinamica temporale in grado di connettere il presente con il passato e il futuro.

 

E anche qui, come nel film Alien anch’esso diretto nel 1979 dal regista Ridley Scott, il pericolo si nasconde nell’altro, si nasconde cioè nello straniero o nel diverso. Ma l’altro adesso è esattamente uguale a noi, è un replicante che ci assomiglia in tutto e per tutto. Non ci si può dunque più fidare dei propri simili. Anzi, sono questi i soggetti maggiormente pericolosi, perché sono indistinguibili da noi. Tutto ciò risulta ancora più evidente nella versione del film che è stata rimontata da Scott nel 1992, e cioè il Director’sCut, nella quale il protagonista del film, il cacciatore di replicanti Rick Deckard interpretato da Harrison Ford, viene considerato a sua volta come un replicante. Pertanto, non è più possibile definire con precisione chi è l’Altro – il nemico da combattere – e ciò rende impossibile esercitare un qualche controllo su di lui. Ne deriva una condizione di vita in cui il pericolo può nascondersi ovunque e si presenta pertanto come una minaccia generalizzata alla quale è difficile fare fronte.

 

Insomma, il film Blade Runner ha lucidamente registrato che aveva cominciato a disgregarsi quel tessuto sociale comune che aveva contraddistinto le società occidentali durante l’epoca d’intensa industrializzazione che si era sviluppata a partire dagli anni Cinquanta. Ciò spiega perché, al posto di quella che il filosofo Byung-Chul Han ha felicemente denominato nel volume La società della stanchezza«epoca immunologica», caratterizzata da una netta distinzione tra l’interno e l’esterno, tra il proprio e l’estraneo, negli ultimi anni sia emersa una fase sociale dove l’Altro diventa estremamente difficoltoso da identificare. Una fase sociale cioè nella quale «al posto dell’alterità abbiamo la differenza, che non provoca alcuna reazione immunitaria» (p. 10). L’estraneo lascia così il posto all’esotico, che non pone problemi e può pertanto essere affrontato con estrema facilità. Anche perché il processo di globalizzazione ha bisogno che le barriere vengano abbattute, ma anche, nel medesimo tempo, che il flusso delle relazioni sociali ed economiche non venga ostacolato.

 

Blade Runner ha mostrato perciò con chiarezza all’epoca che la ragione umana aveva cominciato a essere diventata impotente nei confronti dell’Altro. Ciò che questo film ha soprattutto evidenziato è la crisi del soggetto occidentale e della sua possibilità d’interpretare il mondo e plasmarlo secondo la sua volontà. In precedenza, infatti, l’atto di vedere dell’essere umano era considerato come un atto di conoscenza e dunque di dominio sulla realtà, ma adesso non ci si può più fidare di quello che l’occhio vede. Non a caso all’inizio di Blade Runner è presente la celebre inquadratura a tutto schermo di un occhio azzurro spalancato sul quale si riflettono i bagliori infuocati di una Los Angeles notturna e infernale. È una sorta di “occhio-specchio”, un occhio cioè che si limita a riflettere la realtà esterna, ma che non appartiene più a un soggetto dotato della capacità di agire su di essa.

 

Per questo non turba chi lo guarda. Per lo spettatore davanti al film, tale occhio non appartiene a qualcuno che lo sta vedendo, ma è uno specchio che si limita semplicemente a riflettere uno spazio urbano che egli non conosce e dal quale non viene perciò ad essere coinvolto. D’altronde, sembra che si tratti dell’occhio di uno dei tanti replicanti, i quali sono impiegati dagli esseri umani come strumenti per esplorare le zone dell’Extramondo considerate troppo rischiose. È cioè un “occhio-protesi” che consente all’umanità di vedere anche dove non può essere presente. Se la modernità è nata nel Rinascimento con l’invenzione della prospettiva, che ha consentito agli esseri umani di stabilire un punto di vista a partire dal quale potevano dominare il mondo, ora nel postmoderno tende a prevalere un’indistinzione tra l’occhio e la realtà che esso guarda, cioè tra il soggetto e l’oggetto della visione. L’occhio del replicante che viene mostrato all’inizio di Blade Runner costituisce dunque un’esplicita metafora dell’intensa crisi in atto per la soggettività umana.

 

Essendo l’occhio del replicante un occhio artificiale, la sua visione deumanizzata prefigura inoltre il predominio sociale successivo dell’immagine digitale. Cioè un’immagine di sintesi che può prescindere totalmente dall’atto di visione effettuato dall’occhio umano. Un’immagine generata da una macchina che, come succede di frequente in Blade Runner, può essere facilmente manipolata e falsificata. D’altronde, appare sempre più evidente oggi che, come è stato sostenuto da Silvio Alovisio nel volume di Bertetti e Scolari Lo sguardo degli angeli, «crescono le potenze dell’occhio, ma diminuiscono in proporzione le conoscenze effettivamente raccolte.

 

Lo spazio dell’immagine non può più dire nulla, o quasi nulla, sul mondo: è un’entità autonoma, con le sue leggi, le sue geometrie non euclidee» (p. 42). In precedenza, la fotografia era un documento, una prova che attestava la presenza del soggetto, mentre ora si conferma che il soggetto umano tende ad uscire di scena e con esso sparisce anche la sua immagine fotografica.

Un film come Blade Runner può dunque essere considerato il risultato di quella fase sociale d’intensi cambiamenti che ha caratterizzato gli anni Settanta in Occidente e che ha portato a una nuova tappa evolutiva del capitalismo: il «biocapitalismo» (Codeluppi). Certamente, infatti, nelle società occidentali si sono presentati durante il Novecento diversi periodi di forte trasformazione. Si pensi, ad esempio, agli anni Venti e Trenta oppure agli anni Cinquanta e Sessanta. Ma è probabilmente durante gli anni Settanta che sono avvenuti i mutamenti più radicali, destinati a plasmare la struttura economica e sociale del mondo occidentale contemporaneo.

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L’infosfera sta trasformando il mondo

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Descrivere le trasformazioni del presente è sempre un’attività particolarmente complessa. Lo è perché siamo immersi all’interno della mutazione, perché siamo parte di quell’evoluzione che caratterizzerà il nostro futuro. Ma lo è anche perché ci mancano spesso le parole per descrivere la trasformazione e quelle che usiamo si riferiscono a una semantica costruita sul tempo passato che tenta di afferrare “ciò che sarà” in tutta la sua inadeguatezza. E non si tratta di gettare la basi per la futurologia ma di avere gli strumenti per leggere e dire quello che ci sta attorno, per descrivere come le tecnologie della comunicazione e dell’informazione ci stanno cambiando, così in profondità da produrre un modo diverso di pensare a noi stessi.

 

Il libro di Luciano Floridi – filosofo all’Oxford Internet Institute – La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo (Raffaello Cortina Editore) rappresenta uno strumento di costruzione di una semantica nuova, di una vera e propria “ontologia della connessione”, una riflessione sistematica in cui ci si interroga sul senso delle ICT (Information and Communication Technologies) e i modi in cui sono diventate vere e proprie forze ambientali, antropologiche, sociali e interpretative. Si tratta, da una parte, del tentativo di costruire un lessico della civiltà iper-connessa attraverso concetti guida che sappiano orientare la forza rappresentativa e di significato che ha assunto l’evoluzione tecnologica con il digitale. Dall’altra della costruzione di idee utili ad un’antropologia filosofica che mostri la capacità dell’evoluzione tecnologica presente di produrre mondi di senso e utili a pensare ad una filosofia politica corrispondente.

La nostra è la prima generazione a sperimentare gli effetti dell’ondata di Big Data e della capacità delle tecnologie di conservare e trasmettere le informazioni attraverso soglie quantitative così rilevanti che si modulano, per opera delle ICT, in altrettanto rilevanti trasformazioni qualitative, secondo un riconoscimento digitale della logica hegeliana per la quale i mutamenti puramente quantitativi possono risolversi a un certo punto in distinzioni qualitative.

 

Tale distinzione qualitativa è caratterizzata da Floridi innanzitutto nell’ingresso nell’era – e qui troviamo la prima parola chiave che con la quale interpretare un accumulo di fenomeni come aspetti di un unico trend macroscopico – dell’iperstoria: “il progresso e il benessere dell’umanità hanno iniziato a essere, non soltanto collegati a, ma soprattutto dipendenti dall’efficace ed efficiente gestione del ciclo di vita dell’informazione”.  

Floridi fa dipendere quindi l’evoluzione dell’umanità – secondo un approccio mediologico – dalle infrastrutture di conservazione e trasmissione delle informazioni che traccia per sommi capi: da un primo salto evolutivo caratterizzato delle ICT della sumera Ur, fondate sulla scrittura in tavolette d’argilla, a un secondo salto evolutivo più di quattromila anni dopo rappresentato dalla stampa a caratteri mobili di Gutenberg a un aumento di capacità di processare, conservare e diffondere dati che l’ulteriore salto computazionale di Alan Turing ha prodotto. Se svuotiamo da una direttrice tecno-deterministica e da cesure nette tale evoluzione – sappiamo ad esempio come gradualismo e discontinuità nella storia della tecnologia rendano problematica tale prospettiva – l’era della iperstoria può essere descritta come l’ultimo stadio di un missile a tre stadi che caratterizza l’evoluzione umana: “la preistoria, in cui non ci sono ICT; la storia, in cui ci sono ICT che registrano e trasmettono informazioni ma le società umane dipendono principalmente da altre tipologie di tecnologie che riguardano le risorse primarie e l’energia; l’iperstoria, in cui ci sono ICT che registrano, trasmettono e soprattutto processano informazioni, in modo sempre più autonomo, e in cui le società umane dipendono in modo cruciale dalle ICT  e dall’informazione in quanto risorsa essenziale per la loro stessa crescita.” 

 

 

L’era dell’iperstoria è caratterizzata dall’affermarsi di “tecnologie di terzo ordine”, quelle in cui le tecnologie si connettono alle tecnologie attraverso altre tecnologie. È l’era della finanziarizzazione, in cui gli scambi di azioni vengono automatizzati e gestiti attraverso sofisticati algoritmi; di missili intelligenti capaci di colpire bersagli attraverso sistemi di puntamento automatizzati e feedback auto-regolativi; delle auto che si guidano da sole; della casa intelligente in cui la tecnologia domotica regola calore, luminosità, ecc.; in cui il nostro smartphone interagisce via wi-fi con il cloud.

 

Assieme al tempo è mutato anche lo spazio, strutturandosi in quell'infosfera che racchiude sia online che offline, sino a divenire un sinonimo della realtà stessa nel senso che, come sostiene Floridi, “ciò che è reale è informazionale e ciò che è informazionale è reale”. Il che comporta un processo di “datificazione” della realtà che ha forti o seguenti etiche e morali. Ad esempio diventa sempre più difficile l’atto di ignorare perché, da una parte, le stesse ICT consentono una raccolta straordinaria di dati che possono essere processati per produrre previsioni e, dall’altra, perché siamo continuamente esposti agli eventi che diventano comunicabili e visibili in tempo reale. E il fatto che possiamo sapere diventa sempre più evidente agli altri, in un modo tale che la conoscenza comune cresce all'interno di cerchie sociali sempre più trasparenti. Questo ha conseguenze circa la nostra responsabilità sociale, entro i confini paradossali creati tra un eccesso di trasparenza e una cura per la privacy, tra libertà e controllo:

“Quanto più ciascuna informazione è distante appena un click, tanto meno saremo scusati dal non averla ricercata. Le ICT stanno rendendo l’umanità sempre più responsabile, dal punto di vista morale, per il modo in cui il mondo è, sarà e dovrebbe essere. Ciò è in qualche misura paradossale, poiché le ICT sono anche parte di un fenomeno più ampio, per cui la chiara attribuzione di responsabilità a uno specifico agente individuale è diventata più difficile e controversa”. 

 

È la stessa esperienza di vita che si sta modellando in modo diverso attraverso una ormai da più parti analizzata continuità tra online e offline, attraverso un tracimare del mondo digitale in quello analogico, che avremo la possibilità di sperimentare sempre più nel celarsi delle interfacce, nell'ubiquitous computing, nella realtà aumentata, nell’Internet delle cose.

Floridi, nella costruzione di un suo lessico familiare all’epoca del digitale, descrive la nostra condizione come quella di una onlife. Le ICT – lungo i sentieri di Foucault – sono vere e proprie tecnologie del sé che modificano pratiche e contesti attraverso cui diamo forma a noi stessi. Il consistente numero di persone abituato a dare forma ai propri pensieri e gusti attraverso scambi continui nei siti di social network produce, secondo Floridi, “un’opportunità senza precedenti di essere responsabili dei propri sé sociali”, verso una direzione più consistente di consapevolezza individuale e collettiva.

 

Il tono usato da Floridi lungo il libro sembra collocarlo di diritto nella corrente dei tecno ottimisti – e lui stesso controbatte diverse tesi critiche trattandole come lamentele di “moderni Geremia”. Nel racconto pubblico dominante che descrive l’infosfera come un luogo di bolle informazionali, la vita connessa come caratterizzata da polarizzazioni online, di una rete che facilita la diffusione di fake news, la descrizione di Floridi può sembrare una narrazione consolatoria. Ma descrivere le trasformazioni del presente, come scrivevo all’inizio, è sempre un’attività particolarmente complessa e che richiede uno sguardo analitico allenato unitamente ad una vocazione antropologica che sappia andare al fondo dei mutamenti socio-culturali. Ed è questo il merito più evidente di questo lavoro – assieme all’estrema accessibilità delle argomentazioni: il libro vuole parlare al lettore non esperto, al cittadino dell’infosfera comune. Luciano Floridi mostra con lucidità e precisione come trasformazione tecno-comunicativa e trasformazione culturale risuonino e come sia necessario trovare una bussola descrittiva per le categorie diverse che la nuova filosofia dell’informazione propone, attraverso un lessico che deve essere rinnovato, per una condizione sempre più palpabile dell’era digitale in cui, per parafrasare McLuhan, noi tutti indossiamo la nostra umanità come una pelle, nel bene e nel male. 

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Harvey Weinstein e la mano invisibile del mercato

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La disgustosa prevaricazione di un milionario. Un panzone di mezza età che si faceva trovare in accappatoio, nella sua camera d’albergo, in quelli che dovevano essere all’apparenza soltanto informali colloqui di lavoro. Nello scandalo che ha travolto il fondatore della Miramax c’è tutto questo, ovvero l’abc della psicologia del potere, l’essenza del patriarcato secolare. Ma, scava scava, al suo centro c’è anche una piccola, squallida lezione di economia politica.

 

Le attrici affermate – si legge sul New York Times– hanno taciuto per anni, motivate dalla paura di perdere il lavoro; quelle alle prime armi, per la paura di non averlo mai. Ma questo è un fenomeno che non riguarda soltanto Hollywood, bensì ogni regime di lavoro oppressivo o scarsamente sindacalizzato. Persino certi gironi infernali del mondo accademico o del giornalismo freelance. E quindi si torna a una delle domande classiche che si fanno gli oppressi, quando si incontrano, oppure chi, da una posizione defilata, ascolta i loro lamenti: come spiegare l’assenza totale di collaborazione di fronte ai soprusi, data una situazione in cui la razionalità individuale detterebbe il contrario?

 

Questa domanda è anche all’origine del cosiddetto “dilemma dell’azione collettiva”, che è diventato poi uno dei concetti centrali delle scienze sociali. I problemi di azione collettiva hanno luogo quando gli individui, facenti parte di un gruppo, selezionano strategie che generano degli esiti che sono tutto tranne che ottimali per il gruppo nel suo complesso. Non a caso, l’unico equilibrio che emerge in queste situazioni è quello di Nash, detto “della defezione reciproca”: ovvero nessun attore è incentivato a partecipare alla ribellione collettiva, sebbene tutti siano nelle condizioni di beneficiare dal successo della stessa. Da qui il paradosso. 

 

Questa fragilità dell’animo umano, e la conseguente – e in qualche modo inevitabile – necessità di uno Stato o di sindacati che facciano rispettare gli accordi presi – è la base del Leviatano: gli individui non sono in grado di prendere degli impegni credibili ex ante, laddove ex post esistono delle tentazioni rilevanti per violarli. I soli vincoli delle parole sono, infatti, considerati “troppo deboli per frenare l’ambizione, l’avarizia, l’ira e le altre passioni degli uomini”. Certo, un professore liberal, a questo punto, tirerebbe in ballo la nozione di “capitale sociale”, in quanto possibile ragione della differente abilità di agire collettivamente di gruppi più o meno estesi di attori. Vale a dire: più è alta la partecipazione civica, maggiore è l’aspettativa di cooperazione. Le ricerche empiriche a questo riguardo, a partire dal famoso contributo di Robert D. Putnam sul rendimento delle regioni italiane, hanno trovato un crescente successo in letteratura. E tuttavia, a dispetto del riscontro materiale, la possibilità di autogoverno in contesti di laissez-faire viene costantemente umiliata dalla teoria. 

 


Una teoria dove, verrebbe da dire, siamo tutti coraggiosi. Ecco allora che nella vicenda di Harvey Weinstein compaiono gli outsider, dalla loro posizione comoda e senza rischi, che si chiedono perché nessuno all’interno del sistema abbia alzato la voce e si sia tirato indietro. Gli insider, d’altra parte, sanno che non è semplice come sembra. “Tutti coloro che si trovano all’interno del sistema – anche le sue vittime, anzi soprattutto le sue vittime – hanno una ragione valida per tacere”, spiega il politologo Corey Robin. “E di credere che parlare, farsi avanti, sia compito di qualcun altro”. 

Le attrici agli esordi, quelle più insicure, ai piedi della scala sociale, quelle che più di tutte hanno bisogno di uno status, decidono dunque di non denunciare l’ingiustizia: “In fondo, se quelle più affermate hanno il potere, perché non lo usano? Di cosa hanno paura?” Viceversa, le attrici in cima alla scala guardano in giù, e si chiedono perché quelle agli esordi non denuncino l’ingiustizia: “Di cosa hanno paura, dato che non hanno nulla da perdere?” Continua Robin: “Nessuna di loro è in errore; entrambi riflettono e agiscono basandosi accuratamente sulle loro situazioni e i loro interessi oggettivi. Questa è una delle ragioni per cui l’azione collettiva contro l’ingiustizia e l’oppressione è così difficile”. 

 

Se è vero, come diceva Bertrand Russell, che in generale i fenomeni più difficili da definire sono “quelli che distano troppo, o troppo poco, dal nostro naso”, questo è ancor più vero quando il pubblico massificato si confronta con un mondo familiare eppure lontanissimo come quello dei VIP hollywoodiani. Anche i ricchi piangono, e allora la gente si chiede: ma davvero le vittime sono ancora vittime quando hanno raggiunto il potere del carnefice? Ma davvero chi non parla per paura è ancora innocente, nel momento in cui raggiunge la fama? Sono domande che spesso partono dal rancore più effimero, oppure avvelenate da uno sconfinato divario di ricchezza. 

 

Hannah Arendt nel suo Eichmann a Gerusalemme, o Montesquieu nel suo Lettere persiane affrontavano una figura di solito piuttosto sfuggente, nella letteratura: quella del “collaborazionista”. Egli fa parte delle vittime o piuttosto del nemico? Dalla radice latina del termine (“lavorare insieme a”) il collaboratore accetta il compromesso col nemico, ne riceve i benefici. In quanto vittima, egli può essere minacciato o punito con una ritorsione in caso di rifiuto. In un famoso capitolo de I sommersi e i salvati (La zona grigia), Primo Levi approfondisce la distruzione non solo fisica ma anche psicologica di alcuni internati “privilegiati” all’interno dei campi di concentramento: la peggiore umiliazione che devono patire è quella che li confina in una condizione di complicità con i carnefici e, grazie ad un rapporto di collaborazione con le autorità naziste, li aiuta a sopravvivere. Levi descrive il tormento morale dei “salvati” che, poiché “mancava il tempo, lo spazio, la pazienza, la forza”, non hanno saputo o potuto aiutare tutti gli altri prigionieri.

 

Se il pubblico si limitasse a una solidarietà esclusivamente umana, dovrebbe vedere un’attrice che accetta e patisce su di sé la violenza come una vittima, e nient’altro. Ma essendo cresciuto pane e capitalismo, quel pubblico avverte nell’accettazione della violenza il peso di una impercettibile ideologia, di cui è vittima egli stesso: è il carrierismo, che ha una moralità tutta sua, che funge da anestetico per altri richiami morali, in competizione tra loro. Negli Stati Uniti, in particolare, dove l’ambizione è un dovere civile e il successo un prerequisito della cittadinanza, perseguire i propri interessi non è solo la cosa più intelligente da fare, ma anche la più giusta. Chi sceglie il carrierismo presume di poter usufruire, in società, d’una certa simpatia morale condivisa; ma al momento dello scandalo o dell'intoppo quella ideologia, per una sorta di vendetta di classe, gli si ritorce contro. Ecco che la scelta della vittima di tacere non è più un cedimento alla paura irrazionale, ma una finestra che si apre sulla possibilità di godere i benefici dell’élite: del resto, non lo avremmo fatto, anche noi?

 

Attenzione: sono consapevole che in questa storia mancano del tutto gli attori uomini che, pur sapendo cosa avvenisse dietro le quinte, hanno taciuto: ma non credo abbia senso parlarne in un articolo che non è una teoria comprensiva del maschilismo, né delle dinamiche della violenza di genere (e cerco sempre di restare fedele all’obbligo etico di ogni scrittore, indicato da Hilary Mantel: “dai per scontato che chi legge è intelligente almeno quanto te, se non di più”). Il mio punto è partire da quella domanda che viene rivolta con inciviltà a molte, troppe donne (“Perché a suo tempo non hai parlato?”) per spiegare come quel silenzio abbia una sua logica razionale che ci riguarda tutti, negli ambiti lavorativi più disparati. 

E anche nelle nostre scelte civiche: un classico degli americani in vacanza è tormentare i paciosi tedeschi, chiedendogli come mai non si siano ribellati a Hitler: è una battuta che nel 2017 – il tempo in cui un bulletto, cialtrone molestatore di donne è entrato nella Casa Bianca senza nemmeno ricorrere all’imprigionamento degli avversari – non solo è tragicamente comica, ma rivela anche la discrasia tra le nostre convinzioni morali e la nostra azione quotidiana: se fossimo davvero convinti di ciò che scriviamo su Facebook, che presto o tardi Trump ci farà polverizzare in una guerra nucleare, che senso avrebbe mettere da parte i risparmi per mandare i nostri figli all’università? 

 

L’omertà, che poi è un particolare codice di silenzio, esiste non solo nel proletariato vessato dalle mafie ma in tutti i tipi di contesti istituzionali. La polizia ha la sua mentalità da “sottile linea blu”; i tipi di Hollywood – la loro licenziosità e i loro segreti di Pulcinella, gelosamente custoditi; i tipi aziendali – lo “spirito di gruppo” e certi rituali di nonnismo. Il caso Weinstein ci ricorda che lo sfruttamento si basa su un tipo molto preciso di omertà, che ha a che fare più con un dilemma razionale che con le virtù o i limiti dell’animo umano. Quando tutti perseguono i loro interessi in quanto individui, e nulla più, il risultato è la degradazione sociale. In questo dilemma ci siamo noi.

Se fossi Piero Ostellino, direi che qui c’è la mano invisibile di Adam Smith al lavoro, ma senza happy ending.

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Google è ovunque

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Google è ovunque, Google è qualsiasi cosa. Google è, lo sappiamo tutti, un universo. Agisce su scala planetaria e su tutti gli ambiti della conoscenza umana, esplorandone ogni anfratto. Così facendo, ovvero esplorando e mappando, Google finisce per generare un doppio del mondo, talmente ampio e profondo, che appare quasi impossibile riuscire a tenergli testa. Ed è proprio questo quasi lo spazio della sfida semiotica che il team di analisti chiamato a raccolta dal recente Nella rete di Google. Pratiche, strategie e dispositivi del motore di ricerca che ha cambiato la nostra vita (a cura di Isabella Pezzini e Vincenza del Marco, Franco Angeli) lancia al gigante informatico: decostruirne la retorica, mostrare le procedure di costruzione del suo discorso, metterle alla prova di alcune obiezioni semiotiche, spiegare il significato delle sue tante interfacce, il ruolo ovvio e quindi di regola ignorato che esse svolgono nelle nostre vite è l'obiettivo esplicito del libro. 

 

Si comincia con la sua stessa identità aziendale (Pezzini). Prendendo in esame l'epopea mille volte raccontata da libri e magazine più o meno embedded dei due fondatori, Larry Page e Sergey Brin, emergono alcuni tratti caratteristici della retorica googliana. Il pilastro su cui tutto si fonda è, come prevedibile, l'innovazione. Affinché l'azienda possa risultare vincente sul mercato, essa non può che assumere il punto di vista dell'utilizzatore finale dei suoi prodotti. Una tale proiezione è lungi dall'essere assunta come inerte evidenza. Il cliente di Google, secondo la retorica aziendale, non va infatti assecondato, ma anticipato. "Creare il cliente", prospettandone desideri e necessità, relazioni e obiettivi, è l'unico modo per traghettarlo verso il futuro delle invenzioni tecnologiche: un modo sicuramente semiotico, osserva Pezzini, di approcciare il mercato (il riferimento rimanda all'idea echiana di Lettore modello). Affinché questa progettazione possa andare a buon fine, il dipendente Google deve essere, però, allo stesso tempo creativo e concreto, visionario ma non conflittuale. Egli avrà il talento di pensare liberamente e, così facendo, di vedere prima degli altri i trend di mercato, aiutando il proprio gruppo di lavoro a modellarsi in loro funzione. Ne viene fuori un quadretto tecnoentusiasta, fondato sulla fiducia nel ruolo benevolo della rete e su un paradigma sostanzialmente evoluzionista che promette emancipazione, grazie all'influsso positivo delle tecnologie.

 

Ma accanto a questo tipo di pubblicistica ottimista e integratissima, nella letteratura a tema Google, si può riconoscere un'altrettanto vigorosa tendenza alla disamina severa delle conseguenze di una società modellata sulle sue tecnologie: si va dai criteri, a dir poco opachi, attraverso cui si costituisce la gerarchia di link risultato delle interrogazioni ai suoi server, ai problemi di copyright che la googlizzazione della cultura genera, agli ulteriori problemi legati al carattere privato di una tale impresa a cui non corrisponde niente di comparabile, né in termini di influenza né in termini di tecnologie, sul versante pubblico. 

Toccherà all'altra curatrice (Del Marco) tracciare, invece, i termini della struttura aziendale di Google, ripercorrendo le ricadute identitarie della sua immagine coordinata, le strategie della nuova holding, Alphabet, e dei servizi principali offerti da Google, ideale viatico verso gli approfondimenti che gli autori dedicheranno ai singoli asset

 

Si comincia con la geolocalizzazione (Finocchi). Che differenza c'è fra l'esperienza di utilizzo delle mappe cartacee e i servizi di geolocalizzazione di Google? Come pensare dal punto di vista semiotico, lo spazio delle Google Map e tutto ciò che a partire da questo tipo di tecnologie si può realizzare? Che rapporto c'è fra percezione di sé, identità e spazi simulati dalle macchine? Come inquadrare e quindi descrivere le conseguenze dell'interazione attraverso spazi virtuali? Bisogna andare con ordine. Se è vero che le arti hanno sempre posto il problema dell'aumento percettivo dello spettatore nei confronti del mondo, ora prefigurandone l'esperienza (racconti di viaggio), ora indicando al viaggiatore i luoghi da vedere (guide, fotografie e quant'altro), le mappe di Google sono onnipresenti, ci seguono sempre e sono sempre a nostra disposizione in ogni momento della vita. Allo stesso tempo, le mappe di Google permettono di orientarci e di attraversare virtualmente ogni luogo del globo terraqueo. Di fronte alla facile obiezione che fra mappe reali e mappe virtuali non ci sia una grande differenza, giova, quindi, ricordare che, quantomeno per motivi meramente quantitativi, il fenomeno presenta caratteri di grande novità: è come se ogni viaggiatore (ma anche ogni stanziale!) potesse avere sempre con sé non soltanto la mappa della città in cui si trova, ma tutte le mappe del mondo.

 

Questa pervasività diventa iconizzazione del mondo, grazie al fatto che la sua mappatura permette a ognuno di collegarvi ulteriori testi, testi che mirano a rendere meglio l'idea dello spazio, raffigurato dagli utenti in ogni angolatura possibile e collegato a video e scritti di qualsiasi sorta, vere e proprie espansioni intermediali dell'esperienza di attraversamento. Ma questa infrastruttura non è propriamente un testo narrativo. Essa sta un gradino indietro: non narrazione, ma setting da esplorare all'interno del quale posizionarsi, trovare spazio e posto, ancorandovi storie. Questo mondo secondo, specchio (in)fedele di quello reale, è - si tende spesso a dimenticarlo - frutto di una costruzione, il cui innesto nella vita quotidiana di ognuno non è affatto neutro, nella misura in cui permette un vero e proprio "aumento" della propria capacità di percepire. Grazie all'utilizzo delle tecnologie di geolocalizzazione, ciò che si sta in un dato momento percependo si rivela, quindi, già esperito, anticipatamente, dal software, che può, così, arricchire questa percezione, suggerendo all'utente una serie di testi a corredo dell'esperienza e orientando il suo comportamento. Si tratta di una delega fondamentale della percezione alla macchina che produce per l'utente il non piccolo vantaggio di poter interagire in un ambiente già costituito ed elaborato, con l'obiettivo di abbassarne la complessità, di semplificarlo.

 

Quando, invece di girare per il quartiere in cerca di una fermata dell'autobus, vado dritto alla vettura di Car2go geolocalizzata, il software ha già percepito per me, orientandomi nello spazio e offrendomi dei percorsi volti a ottimizzare il tempo della mia vita. Si tratta di un incremento percettivo, che è a tutti gli effetti una conquista per l'umanità. D'altra parte, però, lo spazio virtuale si differenzia da quello reale, a cui pure vorrebbe sostituirsi, anche per il fatto di esserne una contrazione più che finita. Come ogni navigatore può facilmente appurare, è facile scontrarsi con i limiti delle rappresentazioni virtuali del mondo offerte dalla rete. Ogni qual volta il Gps ci porta da tutt’altra parte rispetto alla nostra meta, magari perché l'indirizzo verso cui volevamo dirigerci non è stato ancora “mappato”, ovvero, ogni qual volta tentiamo una zoomata su un dettaglio della nostra streetview e il quadro si frantuma in una congerie di pixel illeggibili, possiamo prendere atto di come il mondo simulato sia soltanto una versione semplificata, imperfetta e finita, di quello reale. A questo punto una prima presa d'atto teorica: se guardati dal punto di vista della percezione, i due mondi, reale e virtuale, differiscono proprio per la loro estensione; se il mondo naturale è per definizione comune e non passibile di essere riconfigurato, quello digitale permette l'incremento percettivo a patto di prendere atto dei suoi limiti. 

 

La questione di come cambia la relazione con le opere d'arte attraverso la mediazione delle tecnologie di Google è affrontata da ben due saggi, il primo scritto a quattro mani da Lucia Corrain e Anita Macauda, il secondo, invece, da Francesca Polacci. È questo il caso in cui si possono apprezzare delle differenze di posizionamento rispetto alla medesima problematica, tali da rendere i due saggi speculari. Se, da una parte, Corrain e Macauda assumono una prospettiva di apertura verso le evoluzioni dello sguardo permesse dalle macchine, sottolineando come il linguaggio dell'arte si sia sempre costituito a partire da un rapporto conflittuale, ma proficuo con le virtualità implicate dalle tecnologie, Polacci, interviene sul medesimo argomento in modo decisamente critico. Le autrici concordano sul fatto che l'impatto delle tecnologie di Google in ambito artistico chiami in causa i problemi fondativi del rapporto fra percezione e arte. Se si osserva partire da un tale sguardo lungo, affiorano impensate affinità, per esempio, fra i risultati delle query di Google Image e i Cabinets d'amateur del XVII secolo.

 

I "risultati della ricerca" mettono di regola in un unico calderone la Gioconda di Leonardo, quella coi baffi di Marcel Duchamp e le mille altre reinterpretazioni degli utenti, costituendo liste di immagini il cui fascino sta proprio nel gusto per l'ennesima variazione, nella curiosità e nel desiderio. Altra storia per Google Art Project, che sostituisce alla logica dell'accumulo propugnata da Google Image Search, l'"anima regolata del sapere" (Stoichita) dell'archivio, proponendo un itinerario strutturato fra le più importanti opere d'arte scansionate e messe a disposizione degli utenti della piattaforma. Alcune caratteristiche di questo servizio emergono per la loro pregnanza. Innanzitutto, troviamo la possibilità di giustapporre a coppie le opere in visione sullo schermo. Si tratta di un vecchio metodo che gli storici dell'arte normalmente utilizzano per far emergere le differenze di stile fra opere e autori diversi. Mettendo a confronto, per esempio, due quadri ritraenti un medesimo soggetto, si possono notare gli scarti significativi in grado di posizionare nello spazio e nel tempo, in una poetica, le opere in esame. Questa operazione fondamentale costituisce un vero e proprio museo immaginario che, grazie alla tecnologia, può espandere la propria collezione "differenziale" all'infinito.

 

Altra caratteristica fondamentale di Google Art Project è la possibilità di zoomare a livelli mai visti prima le collezioni scansionate. Una visione così dettagliata è caratteristica dello studioso, interessato al particolare, al valore significativo della singola pennellata. Essa costituisce, però, un'opportunità, a disposizione anche dell'utente più ingenuo, di superamento del figurativo in nome del valore intrinsecamente visivo della rappresentazione, del suo linguaggio plastico. Questo passaggio, non sarà, comunque, a senso unico. Al contrario, nei casi più felici, permetterà un felice dialogo fra questi due aspetti del visivo. 

La ritrovata centralità del dettaglio nella relazione con l'arte mediata da Google ha, poi, una evidente ricaduta passionale: stupore e curiosità. Da una parte, c'è la meraviglia di fronte all'inatteso, rivelato dal dettaglio e dalla visione attenta dell'opera, dall'altra, c'è la curiosità di connettere questi dettagli in un intreccio narrativo. È quello che succede al fotografo di “Blow Up” (1966) di Antonioni: da una parte, egli resterà fulminato dalla complessità rivelata dalle sue foto scattate nel parco, una volta ingrandite, d'altra, non potrà fare a meno di cercare di ridurre tale complessità, riconducendola a un filo razionale, attraverso congetture più o meno verosimili. 

 


Il contributo di Francesca Polacci, come si diceva, torna sulle medesime questioni, rappresentando una sorta di controcanto del capitolo precedente. Se è vero, per esempio, che Google Art Project offre la possibilità di navigare, di muoversi fra le stanze dei musei più importanti del mondo, simulandone la visita, non si può non notare l'inadeguatezza dell'esperienza offerta da Google. Le stanze dei musei appaiono affastellate, senza la possibilità che il versante significativo, politico-ideologico, del loro allestimento possa davvero essere inteso: perché tre dipinti sono stati disposti dal curatore della mostra in un trittico? Domanda banale a cui non si può, però, dare una risposta attraverso la rimediazione tecnologica che del trittico offrirà il museo, dato che la streetview non permette di riconoscere, se non assai malamente, le immagini rappresentate. Ciò che resta dell'allestimento è così soltanto la decorazione. Anche l'attraversamento e l'orientamento nelle stanze virtuali è molto diverso da ciò che succede in un museo fisico: nessun dépliant con la mappa dell'esposizione, nessun cartello, nessuna indicazione sul percorso che ci si accinge a compiere viene fornita. Il tutto assume così un aspetto ludico ('giochiamo a visitare il museo Louvre') assai lontano dalla dimensione pedagogica e politico-culturale che i musei hanno incarnato nel nostro scenario dalla notte dei tempi.

 

A questa critica non rimane esente nemmeno la microscope view (ovvero la possibilità di ingrandire i dettagli delle opere di cui abbiamo detto sopra), colpevole di avvicinare, senza fornire il minimo supporto didattico (cosa vale la pena osservare, ingrandendo?) lo sguardo sull'opera, a tal punto da trasformare la visione "ottica" in "aptica", a tutto vantaggio della seconda. Laddove la visione ottica permetterebbe un dominio cognitivo dell'opera d'arte, l'avvicinamento dello sguardo sposterebbe la fruizione dell'opera d'arte sul versante tattile e corporeo, emotivo. Un tale silenzioso slittamento rappresenterebbe, ancora una volta, un'interessante opzione dal punto di vista ludico, che appare a Polacci criticabile dal punto di vista della funzione primaria del museo, che è, come si è detto, di carattere politico culturale e solo successivamente passionale. Ciò che consegue da queste dinamiche è che le tecnologie di Google promettono una democratizzazione dell'arte finendo, piuttosto, per costituirne nei fatti una banalizzazione, contribuendo al lungo processo (iniziato, invero, prima di internet) di dismissione del museo, come istituzione pedagogica fondamentale delle società.

 

A questo punto, si passa ai Google Glass. A occuparsene è Ruggero Eugeni che ne ricostruisce la storia per rileggerla in termini foucaultiani. Dal suo punto di vista, i Google Glass possono essere considerati perfetti "dispositivi", sia in quanto aggeggi tecnologici dotati di caratteristiche e funzionalità specifiche, sia in termini più propriamente filosofici, in quanto oggetti in grado di condizionare l'esperienza dei soggetti che li utilizzano. Essi sono, inoltre, dispositivi postmediali, in grado di mettere in scena le più disparate esperienze di fruizione, e, soprattutto, diventano tutt'uno con il nostro corpo, rivelandosi doppiamente efficaci, sia nella misura in cui svolgono alcuni compiti al posto nostro, sia simbolicamente, in quanto oggetti magici addirittura in grado di ridefinire l'umano. I glass, da questo punto di vista, contribuirebbero a definire il soggetto in quanto "embodied, embedded, enacted, extended, emerging, affective and relational", tutti aggettivi che vanno nella direzione di una costruzione ibrida dell'umanità, in cui la distinzione fra bios e logos tende a venire meno.  

Ancora interessanti sono le riflessioni di Dario Cecchi su Google Spotlight Stories, di Bianca Terracciano sulle ibridazioni fra forme di consumo on e offline nel mondo della moda e di Claudia Torrini e Tiziana Barone sugli spazi di Google (dai suoi fantasmagorici uffici fino ai pop-up, come il Winter Wonderlab dentro i centri commerciali della catena di Westlife). Tocca, invece, a Giulia Ceriani, mettere in luce un misunderstanding fondamentale: quando si dice trend, si intende vettore, trasformazione, cambiamento, ovvero il contrario di ciò che offre Google Trend, piattaforma in grado di restituire informazioni sul passato, dati statistici, serie storiche, di regola, usate dai marketer come strumenti per anticipare i comportamenti di consumo. Senza l'analisi semiotica di questi dati, senza la convocazione delle storie di cui sono portatrici, senza un'adeguata contestualizzazione di tutto ciò, si rimane schiavi della tirannia dei numeri e si cade nell'errore di pensare il mondo soltanto al passato, senza prevedere la possibilità che il tavolo possa essere ribaltato e che una tendenza minoritaria, per ragioni eminentemente semiotiche, possa prendere il sopravvento e divenire così mainstream.

 

Ma è sul versante delle nuove forme di lavoro (saggio di Parisi) che emergono ancora alcuni aspetti fondamentali dell'universo Google. In primis, riprendendo Pasquinelli, si ricorda come il problema della società del controllo instaurata dalla proliferazione mediale dei nostri anni possa essere, per certi versi, rovesciato: non solo e non tanto sorveglianza dall'alto, ma gigantesco dispositivo di conversione del valore. Più che a controllare, Google sarebbe interessato a tradurre (attività eminentemente semiotica) ogni interazione umana in valore in grado di far funzionare la sua gigantesca macchina. E, a questo proposito, i tanto famigerati like, potrebbero essere a ragione considerati come il fondamento di questa economia, la sua moneta sonante. Moneta sonante, manco a dirlo, affettiva, "affective nuggets" che spingono ognuno a "lavorare gratis", mettendo in scena la propria vita quotidiana sui social network, per nutrire il proprio avatar virtuale e modellarlo a proprio piacimento, ricevendone in cambio l'approvazione della propria comunità di lettori. Controllare, reprimere, interessa, insomma, i governi. Ciò che, invece, è il vero core business delle società informatiche è estrarre metadati, informazioni, dalle interazioni, in grado di riempire i suoi palinsesti e generare profitto. Ed è proprio l'indistinguibilità fra tempo del lavoro e tempo della vita (quando posto su Google o su qualsiasi altro social network le foto del mio compleanno sto lavorando?) a costituire il prototipo della nuova fabbrica, libera dall'orario di lavoro ed emotivamente densa. Questo modo di essere/lavorare è già egemonico nelle classi di lavoro cognitivo, ma ancora deve forse rivelare la sua criticità.

 

Il volume si chiude con un fondamentale saggio di Patrizia Violi su identità e memoria. Cosa succede all'umanità con l'avvento della rete? Costituisce la rete un gigantesco dispositivo di dismissione della memoria in favore di una comparabilità di tutto con tutto, di un presente allo stesso tempo totalitario e senza forma? La questione va al cuore della dialettica fra apocalittici e integrati, e fa bene Violi a riconnettere le polemiche attuali su questo fronte al problema di base del rapporto fra tecnologie e memoria (come aveva già, peraltro, fatto nel 1964 Eco): è evidente che si tratti della medesima questione. Per inquadrarla, però, da un punto di vista meno ideologico e naïf di quanto non faccia il dibattito giornalistico, sul tema bisogna definire meglio l'oggetto della riflessione, tracciando opportuni confini fra le nozioni e i concetti in gioco. Per comprendere davvero il senso della trasformazione in atto, bisognerà, allora, prendersi la briga di distinguere fra forme di memoria. È possibile riconoscere una prima forma di memoria, la memoria archivio, legata alla catalogazione e, un'altra, la memoria traccia, legata, invece, alla dinamica di trasformazioni e riscritture a cui la memoria è di regola sottoposta. Ambedue sono attive sul web. A partire da questa distinzione di base, bisognerà distinguere fra memorizzabile, memorabile e memorizzato, veri e propri modi di esistenza semiotica della memoria.

 

La cultura tradizionale (pre-internet) ha storicamente funzionato, mettendo in riga questi tre ambiti della memoria. Da una parte, c'è il calderone di testi memorizzabili dalle società, di regola scremato in funzione di specifici criteri che selezionano alcuni di essi come degni di essere ricordati (memorabile), e infine c'è la concretizzazione imperfetta di questa selezione che è la memoria realizzata (memorizzato). Internet, secondo alcuni, avrebbe influito su questo processo spazzando via il filtro atto a scremare il sapere, riconoscere fatti più importanti degli altri, stabilire criteri di pertinenza e selezione. Di questo passo, Internet, non possedendo più tale filtro, finirebbe per somigliare al Funes di borghesiana memoria, che ricorda tutto al caro prezzo di dismettere ogni distinzione di valore, emergendo come lo stupido perfetto. Contro questa semplificazione, Violi prende posizione, provando a dimostrare che le cose non sono così semplici e che Internet possiede dei filtri semiotici in grado di produrre memorabilità, solo che si cercano nel posto sbagliato. Piuttosto che agire nella fase di selezione (non c'è un cattivo che decide cosa possa essere considerato degno di pubblicazione e cosa no), il filtro agisce nel momento del retrieval, ovvero nel momento della ricerca, secondo criteri statistici. Il Page Rank, secondo Violi, rappresenta l'esempio perfetto di tale meccanismo.

 

La rete iscrive tutto, salva tutto ma sono pochi quelli che si prendono la briga, di fronte alla propria lista di risultati, di andare oltre la terza pagina, con il risultato che ciò che non è statisticamente interessante finisce per essere dimenticato. A questo punto, Violi passa a sostenere che, soccombendo ai criteri statistici, sono i testi e le pratiche meno standardizzate a subire una marginalizzazione, intendendo con "meno standardizzati" quei testi che uscendo fuori dai canoni comunicativi ordinari risultano più difficili e, quindi, meno “linkati”. Mi piace aggiungere a questa idea alcune considerazioni, ricordando che a mitigare questo effetto, contribuiscono alcuni meccanismi interni alla rete stessa. Per esempio, qualsiasi sia la query, Google tende a restituire al vertice della lista le voci di Wikipedia, voci che sono costruite secondo un progetto editoriale che ne verifica fonti e dettagli, con il risultato di restituire la complessità dei temi ricercati, senza la necessità di andare a fondo nella ricerca. C'è di più. È vero che, nella misura in cui un testo è pubblicato da un sito influente, (nodo egemone di una rete cfr. Barabási), assecondando le aspettative di genere del suo pubblico, esso avrà le carte in regola per essere rintracciato più facilmente, ricevendo molti link. È anche vero, però, che lo stesso testo difficilmente sarà individuabile, se pubblicato uscendo fuor dai canoni (ovvero dalle aspettative di genere), dal singolo, su un blog personale magari appena creato. Una tale evidenza porta a considerare un'ovvietà: il criterio statistico è specchio del potere di influenza dell'editore (o al limite, dell'autore, editore di se stesso), della sua capacità di maneggiare i codici comunicativi del medium che utilizza e di costruire un patto di fiducia efficace con i suoi lettori. Tutto ciò, piuttosto che portare a riflettere su una presunta diversità della rete, potrebbe essere un argomento per sostenere il contrario.

 

Insomma, anche su Internet vale la regola d'oro dell'editoria: il fatto che a pubblicare il mio nuovo romanzo sia Einaudi o, al contrario, l'ultimo editore di provincia, ha ovviamente impatto sulla distribuzione e sulla centralità del romanzo stesso nel sistema della cultura, ora come allora, a meno che il mio stesso romanzo pubblicato dall'editore di provincia non venga preso a cuore da una rivista specializzata in grado di fare da mediatrice con il circuito mainstream di riferimento e promuoverne il passaggio dai margini al centro del sistema. I blog per molto tempo hanno svolto questa funzione, traghettando i loro beniamini verso il successo a cavallo fra i media (cfr. Granieri 2005). Cosa cambia, allora? Il mio punto di vista è che ci stiamo lasciando alle spalle un periodo di forte scollamento fra editori on e offline, in cui, semplicemente, gli editori tradizionali hanno sottovalutato il potere di egemonia della discussione online, cedendo il campo ai nuovi venuti (puntualmente, accusati di essere usurpatori) della rete. A ben vedere, la questione assume, pertanto, i tratti di uno scontro fra fazioni più che organizzate, che peraltro è in via di assestamento. Sempre più spesso i grandi gruppi editoriali si presentano come editori post-mediali, in grado di produrre egemonia culturale ampia on e offline, attraverso strumenti e media eterodossi, non disdegnando nemmeno di assoldare i tanti influencer, editori di se stessi, presenti in rete per tirare l’acqua al proprio mulino. 

 

Ma il già ricco ragionamento di Violi non si esaurisce su questo aspetto. I social network come Facebook, infatti, sono in grado di incrociare con risultati inaspettati memoria archivio e memoria traccia, con il risultato di creare cortocircuiti proprio a proposito della memorabilità degli eventi. In generale, tendiamo a utilizzare questo tipo di tecnologie come strumenti di conversazione senza curarci della traccia che tali conversazioni lasciano online, anche perché i social network tendono a farcela dimenticare. Succede così che ci ritroviamo a dover fare i conti con frammenti di conversazioni online di cui non riconosciamo la paternità, per il semplice fatto che non sono stati espressi con la volontà di attestarla, ma al contrario come momenti di orientamento o di negoziazione di un'opinione con il proprio gruppo: ciò che viene utilizzato come traccia ci viene presentato come archivio da chi vuole farci pagare il conto delle nostre più o meno volontarie attestazioni. Ancora, interessante è nei social network, il rapporto fra lo stream collettivo e quello individuale.  Se il primo è organizzato sull'idea della sincronicità, il secondo è organizzato come un grande archivio. Questi due aspetti concorrono a creare delle identità collettive estemporanee, basate su ibridazioni temporali e spaziali, generando nuove collettività che hanno il proprio centro proprio nella rete. La maggior parte di esse sono fondate sulla nostalgia, sul ricordo di epoche mai veramente vissute, ma fortemente ancorate alla socializzazione online

 

Che cosa ne sarà di tutto questo conversare dipenderà, conclude Violi, da quanto terreno comune continuerà a fornire la rete: sempre più massivamente i motori di ricerca e i social network tendono a costituire bolle identitarie di opinioni e soggettività compatibili e molto autoreferenziali, frammentando gli scenari di interazione. Per rendersene conto, basti comparare i risultati di una medesima ricerca fatta con Google da due account diversi: i risultati generati saranno differenti, sia in funzione delle ricerche precedenti operate da ognuno degli utenti, sia del luogo e del momento in cui essa è stata compiuta. È questo il vero rischio che corriamo nelle nostre vite apparentemente connesse: che un silenzioso motore, ci disconnetta sempre di più, restituendoci un'immagine del mondo che ci somiglia moltissimo, ma che non riesce più nemmeno a includere la diversità del nostro vicino di casa. 

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Pratiche e strategie del motore di ricerca
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La memoria e l’apocalisse sintetica

In una landa desolata, quasi postapocalittica, l’agente K (diminutivo di KD6.3-7, replicante della polizia di Los Angeles interpretato da un Ryan Gosling perfetto nella sua inespressività) deve “ritirare” (eufemismo per uccidere) un modello vecchio e quindi meno disciplinato di Nexus (breve ma strepitosa apparizione di Dave Bautista), umani sintetici creati dalla Tyrrell Corporation. Nebbia, un albero scheletrico, una serra in cui vengono coltivati vermi, uniche proteine che sfuggono alla rovina del mondo: Blade Runner 2049 (da qui in avanti BR2049) inizia così, in uno scenario distopico classico ma per certi aspetti molto diverso da quelli che avevano caratterizzato il primo film (Blade Runner, Ridley Scott, 1982, da qui in avanti BR) e che hanno segnato per decenni l’immaginario di tonnellate di visual artists. Una sola scena, quella iniziale, con l’uccisione dell’esemplare obsoleto e il successivo ritrovamento sotterraneo di una misteriosa urna contenente ossa, basta per suggerire qualche considerazione sull’attesissimo sequel firmato da Denis Villeneuve.

 

Distopie Ucroniche

 

John Stuart Mill, filosofo positivista, conia nel 1868 il termine “distopia” (dis-tópos), contrario di “utopia” (u-tópos). Distopia sarebbe, in altre parole, la descrizione di una società futura ipotizzata come la più spiacevole e indesiderabile tra quelle che si potrebbero realizzare. Proprio perché possibili, le narrazioni distopiche immaginano un futuro che mantiene un legame polemico e problematico con alcuni mali del presente, portandoli a conseguenze (ipotetiche) estreme. 

 

BR2049è però una distopia atipica: non può infatti immaginare il 2049 partendo dal nostro 2017, bensì deve farlo ucronicamente partendo dal 2019 del cult movie di Ridley Scott, che nel 1982, intercettando anche le inquietudini dell’inizio dell’era reaganiana, ipotizzava un futuro nerissimo ma assai diverso dal pur allarmante scenario che stiamo vivendo. Dal momento che la direzione artistica di questo sequel è passata nelle mani di Denis Villeneuve, regista che - analogamente a Christopher Nolan, sebbene con modalità diverse - concepisce il genere come strumento per intavolare “altri” discorsi e per stimolare domande, il progetto estetico di BR2049 si pone esplicitamente due ambiziosi obiettivi, potenzialmente in contrasto tra loro: da un lato non tradire il titolo che porta, senza finire schiacciato dal peso della sua storia; dall’altro, però, ripensare l’immaginario cyberpunk del film di Scott per rendere la sua natura distopica più efficacemente legata al nostro presente. 

 

Il meta-blockbuster

 

La ripresa, ad anni di distanza, di vecchie saghe sta diventando abituale nell’industria cinematografica americana. Negli ultimi tempi è riscontrabile una tendenza che, qualche tempo fa, in occasione dell’uscita di Episodio VII - Il risveglio della forza, mi è capitato di definire metablockbuster. Si tratta di narrazioni all’interno delle quali si muove un personaggio che è, di fatto, un’estensione dello spettatore-fan, alle prese con i feticci e i gadget dei/del film originale. In Episodio VII (Star Wars: The Force Awakens, J. J. Abrams, 2015), Rey va a caccia sul pianeta Jakku di reliquie della trilogia fondativa, esattamente come i fan della saga vanno a caccia di gadget e oggetti, con la stessa idolatrica affezione.

 

È il cinema che si appropria e mette in scena la devozione feticistica del pubblico, cosa che fa, ad esempio, anche il film Creed (Creed, Ryan Coogler, 2015) con la saga di Rocky, in cui Adonis, figlio di Apollo Creed, è un ammiratore dei combattimenti tra il padre e Balboa tanto quanto lo siamo noi spettatori. Il rapporto che BR2049 istituisce con BR si configura secondo una modalità più o meno simile, evitando però il rischio di ridursi a una sorta di cripto-remake (rischio che Episodio VII non riusciva a evitare). Nel film di Villeneuve, il cacciatore d’androidi K, detective sintetico irresistibilmente noir, che come Sam Spade tira a campare in un condominio caotico dividendo l’esistenza con un ologramma con cui si confida (bellissima Ana de Armas), scopre progressivamente il mondo della prima saga e il mito di Rick Deckard, al punto che nella sua indagine si ritrova perfino a guardare e ascoltare (e noi con lui) scene cult del primo film.

Esplicitando questa forma di culto per BR, Villeneuve risolve quasi del tutto il “problema” di doverci fare i conti: saldato il “debito”, su alcuni aspetti il regista canadese può distaccarsene senza tradire lo spirito del predecessore e può condurre il suo (grande) film altrove.

 

 

Il mondo alla fine del mondo

 

La distanza estetica con il primo film è - fin dalla prima scena - notevole: là c’era una città devastata da inquinamento, industrializzazione e sovrappopolamento e tutto era buio e pioggia, qui tutto è virato verso il seppia e il grigio dalla strepitosa fotografia di Roger Deakins. Alle megalopoli immaginate nel 1982 da Syd Mead ora si affiancano spazi immensi, desertici, chiari. Sul piano narrativo la discontinuità è segnata da un blackout, un evento drammatico cui i personaggi fanno spesso riferimento, che è accaduto nel tempo che separa le timeline dei due film e che permette a Villeneuve di raccontare un mondo che sembra molto più una diretta conseguenza delle nefaste scelte che segnano il “nostro” che una continuazione della catastrofica civiltà del primo episodio: riscaldamento globale, degrado ambientale e fine degli idrocarburi, accompagnate da una decimazione della popolazione terrestre - probabilmente dovuta, oltre che alle migrazioni verso i pianeti-colonia, a una carestia, alla sparizione delle piante e alla costante assenza del sole - che ha svuotato le strade iper affollate in cui Deckard si trascinava nel primo episodio e rende tutto imprevedibilmente ordinato e asettico.

 

Il concept architettonico, sviluppato dal set designer Dennis Gassner, inoltre, rispetta le straordinarie idee di Syd Mead che avevano segnato l’originale, ma le porta nella direzione di uno scenario in cui tutto ormai sembra finto e innaturale, in altre parole finto e sintetico.

 

Umano, troppo umano, post umano

 

Ciò che rende BR2049 un grande film è - a partire da questo distacco con il predecessore - la sua capacità di sollevare domande resistendo alla tentazione di dare presuntuosamente risposte. Anche il film di Scott aveva questa natura felicemente problematica, ma Villeneuve - e qui so di diventare bersaglio degli strali dei fan più genuini - è un autore più introverso e raffinato: paga qualcosa in termini di potenza immaginifica, ma alza la posta intellettuale del discorso. Al centro, rimane ovviamente la domanda chiave: che cosa significa “essere umani”? Entrambi i film sostengono con chiarezza che questa domanda ha risposte molto meno scontate di quanto si pensi. 

I replicanti di Scott tornavano sulla terra, guidati da Roy Batty (Rutger Hauer) per chiedere a Mr. Tyrell “più vita”. Il test a cui venivano sottoposti, il test di Voight-Kampff, misurava il loro grado di empatia; test che si scontrava con una cruda verità, cioè che gli umani “veri” a volte ne sono totalmente privi, mentre quelli sintetici possono averne molta di più.

 

In BR2049 il confine tra umani e replicanti si snoda inizialmente lungo un discorso “biologico”. In un mondo che ha appiattito ogni differenza razziale perché ha annullato ogni sfumatura culturale, i nuovi bersagli sono i “lavori in pelle”, come vengono dispregiativamente chiamati i replicanti. «Ogni civiltà è stata fondata su una manodopera sacrificabile», dice il nuovo guru della Tyrrell (pessimo Jared Leto), cieco magnate indovino. La manodopera sacrificabile è quella non “nata”, ma “creata” in laboratorio. È tutta qui l’essenza dell’umano, la differenza tra ciò che è naturale e ciò che è sintetico, tra il vero e la copia?

 

Radici

 

L’uomo sembra aver creato un mondo inanimato che lo ha soffocato e stritolato. È una civiltà di frammenti assemblati, di copia-incolla prodigiosi: non c’è (quasi) più nulla di nuovo, ci sono solo pezzi impunturati appartenenti un tempo a un tutto che non si riesce più cogliere nel suo insieme. L’ossessione del controllo ha eliminato tutto ciò che contiene un qualsiasi elemento di imprevedibilità. Tra umani disumanizzati e replicanti umanizzandi il confine biologico sembra l’unica barriera di imprevedibilità rimasta. I replicanti chiamano la nascita “miracolo”, proprio perché impedisce di prevedere realmente che tipo di individuo sarà generato: ciò che separa la nascita dalla creazione è appunto l’ingrediente magico, governato dal fato, che è ciò che distingue la natura dalla scienza.

 

Quando K pensa di essere nato e non di essere stato creato, si sente in qualche modo speciale, nonostante il capo della LAPD (Robin Wright) gli ricordi: «tu sei una copia, non hai un’anima». I replicanti, qui come nel primo film, sono dotati di ricordi impiantati artificialmente, anch’essi frammenti, hanno cioè memoria di un passato che non hanno mai vissuto. All’inizio del film, K sa bene che le sue memorie d’infanzia sono false, ma il suo inconscio vi attinge come se fossero vere per modellare la sua personalità. Mentre la narrativa ci ha abituati a personaggi sconvolti perché scoprono che ciò che credevano vero del loro passato in realtà non lo è, K è sconvolto perché suppone che ciò che credeva falso – non solo i ricordi, ma se stesso - sia in realtà vero, comincia a sperare di avere un passato, una radice nel terreno, un collegamento con la terra che unisca quel poco che è rimasto di naturale e reale. Ciò che renderebbe K reale non è se effettivamente sia nato o stato creato, ma è il bisogno di appartenenza a un tutt’uno che sembra essersi spento in quel black-out cui si fa continuo riferimento.

 

È su questo punto che il film, anche in maniera un po’ disordinata, solleva le domande più interessanti. Forse quindi non è solo l’imprevedibilità biologica della natura a marcare la distanza tra umano e sintetico. Forse sono la coscienza della propria storia, la percezione delle tracce che essa lascia nell’inconscio e delle proprie radici - quelle dell’albero simbolicamente avvolgono l’urna che contiene le spoglie di Rachel - gli elementi costitutivi dell’essere umano, gli strumenti che permettono all’uomo di pensarsi e percepirsi, di immaginare un futuro senza limitarsi ad assemblare pezzi di passato. Nella bellissima sequenza che segna il ritorno in scena di Deckard, in una Las Vegas abbandonata, nel casinò semi distrutto in cui vive il vecchio cacciatore di replicanti, si accende una specie di diorama con Marilyn Monroe ed Elvis Presley. Deckard, come le immagini di Elvis, come la città abbandonata, sono la storia, il grande passato che K cerca per sé, come un figlio cerca il padre.

 

Non c’è pubblico, ma le immagini scorrono e da un lato ribadiscono che il vero incubo che il film paventa è quello di un futuro in cui la storia è ridotta a brandelli, dall’altro si fanno apologia della testimonianza, della storia e - perché no - anche del cinema e di tutto ciò che della memoria può farsi custode, proponendo una via d’uscita a questa umanità spezzata.

Come il suo predecessore, quindi, BR2049 si chiude senza risposte ma con una nota di speranza: nell’ultima scena la neve sembra portare un po’ di innocenza e segna il finale di un film straordinario, lento e ipnotico, attuale e avvincente, austero e rigoroso, un neo-noir formalmente impeccabile ma mai lezioso, a volte maestoso e abbagliante, che regge il confronto con il predecessore e tocca temi ultimi con la potenza di una nuova mitologia.

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Violenza, ribellione e mercato

Attraverso una sapiente costruzione “a scatola”, il videoclip Out of Control che il videomaker Wiz realizza nel 1999 per i Chemical Brothers evidenzia come la narrazione della guerriglia urbana e dell’opposizione all’autorità sia stata assorbita e fagocitata dal linguaggio pubblicitario, dimensione al quale l’ambito della videomusica appartiene per sua stessa natura. 

 

 

 

 

Il continuo capovolgimento narrativo a cui assistiamo evidenzia un paradosso irrisolvibile connaturato all’attuale orizzonte massmediale; come afferma Bruno Di Marino, «I massmedia – dunque anche il videoclip stesso – non fanno altro che confondere vero e falso, politica e consumismo, rendendo qualsiasi messaggio ambiguo […] La contraddizione di una forma espressiva che da un lato vende qualcosa, dall’altro critica ciò che vende, da una parte persuade e dall’altra ci mette in guardia dagli imbonitori». Tale paradosso è restituito su più piani anche dalla dimensione formale: la fotografia adottata nella varie fasi dell’impianto narrativo conferma la spirale dialettica, dal momento che nel finale «tutto il livido gelo di riprese freddissime e concitate […] creano un formidabile contrasto col calore della pellicola usata per la prima parte bellica del clip» (D. Liggeri): la saturazione cinematografica ed espressionista della prima parte del video, iper-estetizzata e retorica, caratterizzata persino dall’accenno a una storia sentimentale tra i protagonisti interpretati da due icone del cinema americano come Isabel Rosario Dawson e Michel Brown, si compie definitivamente nell’irruzione del brand e nella rivelazione che si trattasse di uno spot trasmesso da un televisore in una vetrina. 

 

Dopo pochi secondi la vetrina viene sfasciata, il verde acido delle riprese a infrarossi e uno stile registico con camera a spalla più spontaneo e crudo, più “reale”, ci conducono in scene di violenza urbana ispirate al movimento zapatista, dove vengono distrutti i distributori pubblici della Viva Cola; tutto questo all’interno dell’ulteriore circuito dialettico, quello complessivo, rappresentato dal videoclip in sé. Non c’è da stupirsi che la Pepsi si sia fatta ispirare dal video dei Chemical Brothers per una campagna promozionale per il 2017, dove la modella Kendall Jenner evita possibili tensioni durante un corteo di manifestanti, offrendo una lattina a uno dei poliziotti che accetta e beve con piacere. 

 

 

 

 

Lo spot è stato ritirato per via delle polemiche ricevute da più fronti. Lo stesso Wiz, in una nota uscita ad aprile sulla webzine “The Fader”, ha preso posizione sullo spot specificando come ciò che era stato mostrato 18 anni fa nel suo videoclip si fosse cinicamente inverato; ma d’altronde, come mostra il finale dell’acclamata serie tv Mad Men, si tratta di una dinamica ideologica, quella tra mercato e ribellione, che la Coca Cola ha sfruttato a suo favore fin dagli anni ’70, col celebre spot degli hippies (rappresentanti di quel movimento contro-culturale sorto in opposizione alla società consumista, della quale proprio la Coca Cola era ed è il principale simbolo) che cantano di pace, amore e fratellanza con una bottiglia di Coca Cola in mano; non a caso uno dei sostenitori dell’EZLN nella parte finale di Out of Control ha sulla maglietta la scritta «It's the real thing», slogan della celebre campagna della Coca Cola. 

 

 

 

 

La forza del mercato sta nel fatto che esso contempla, fin da subito, la sua stessa negazione nonché la ribellione nei suoi confronti, che viene tradotta in immagine e assorbita come cinica ed efficace strategia di fascinazione. Come d’altronde affermava già Guy Debord, «non si possono opporre astrattamente lo spettacolo e l’attività sociale effettiva; questo sdoppiamento è esso stesso sdoppiato. […] la realtà sorge nello spettacolo e lo spettacolo è reale. Questa reciproca alienazione è l’essenza e il sostegno della società esistente. Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso».

 

Per Kanye West e Jay-Z, il regista Romain Gavras dirige nel 2012 No church in the wild, pseudo-documentazione distopica di uno scorcio di guerra civile ambientato a Praga, città ferita storicamente da reali conflitti civili. Il rallenti, le luci laser e le inquadrature che accentuano l’effetto estetizzante, come le ombre dei monumenti del realismo socialista, negano un chiaro contenuto ideologico e politico: Gavras mette in scena «un happening sanguinoso orchestrabile all’infinito» (L. Pacilio), non provocatorio e catarticamente “bello da vedere”. Tale giudizio sull’estetizzazione della violenza e della guerriglia urbana, e soprattutto l’interrogativo che lo spettatore pone a se stesso sulla legittimità di tale giudizio, rappresentano la dimensione metatestuale che riscatta lo stile manierista di Gavras, rivelandosi (lui e il suo video) ben meno ingenui di quanto si potrebbe pensare.

 

 

D’altronde Gavras è il videomaker che più di tutti negli ultimi anni ha lavorato sull’esibizione della violenza; un videoclip perseguitato dalla censura e che Chris Marker ha difeso con passione, è Stress realizzato per i Justice nel 2008. Nel video il vandalismo della gang della banlieue parigina è documentata in maniera fredda da un occhio interno; come per ogni mockumentary, il video attesta un’attrazione per il reale tipica della popular culture degli ultimi anni, confermata dall’audio del video, un mix di canzone e suoni ambientali. La violenza affascina innanzitutto perché si mostra come violenza reale, non posticcia o teatralizzata, o estetizzata stilisticamente come nel caso di No church in the wild. Diversi elementi metatestuali però interrompono l’affabulazione documentaria rivelandone la “falsità” e legittimando moralmente la nostra attrazione, anche perché qui la violenza non è “oppositiva” o rivoluzionaria: le vittime sono persone qualsiasi, donne che aspettano la metropolitana, anziane indifese per la strada, addirittura clochard terrorizzati dalla furia distruttiva della banda. 

 

 

Fin dall’apertura, il video insiste molto sulle riprese della schiena dei membri del manipolo di giovani, e il fatto che i membri della gang indossino un giubbotto di pelle dove è presente la grande croce nera che è il logo della band dei Justice, è da subito una messa in evidenza della dimensione finzionale delle immagini. In diverse occasioni, alcuni dei protagonisti e delle comparse guardano in macchina, creando un corto-circuito difficilmente districabile; afferma Pacilio che «i frequenti sguardi in macchina […] si risolvono in altrettante interpellazioni allo spettatore». Lo sguardo in macchina sembra confermare la veridicità del documentario, perché rende bene l’atteggiamento tipico di chi si ritrova ripreso da una macchina da presa suo malgrado; infatti, il video vuole sembrare un’autentica manifestazione della violenza urbana, ripresa dal vivo da un documentarista, perciò la macchina da presa deve necessariamente denunciare la sua presenza. Tale presenza raggiunge l’apice nella chiusura del video, quando il presunto documentarista viene aggredito e picchiato dal gruppo di giovani coi quali sembrava simpatizzare: l’occhio della mdp finisce a terra, tra le urla e gli schiamazzi dei vandali, ma l’esistenza stessa del video attesta l’ “irrealtà” dell’intero prodotto. Qui la violenza è esibita ma anche interrogativa: essa è disturbante ma anche masochistica, perché si rivolge contro l’immagine stessa, contro lo strumento disposto a documentarla. 

 

Diverso il discorso di Gavras per Born free, video girato per M.I.A nel 2010 e terzo momento della trilogia della violenza del regista di origini greche; si tratta di una narrazione distopica dove la violenza estrema è quella dell’esercito che irrompe in un quartiere popolare per prelevare una serie di giovani dai capelli rossi e condurli nel mezzo di un campo minato, costringendoli a correre tra le mine. Le scene sono particolarmente aggressive e forti, ma qui sono trasfigurate nel discorso narrativo classico dell’opposizione binaria autorità/vittime: rispetto a Out of control, la dimensione distopica impedisce l’inquadramento al contesto specifico della ribellione, restando astratto (sappiamo solo che l’esercito è quello statunitense), seducente perché onnicomprensivo nella sua obliquità.

 

 

 

 

 D’altronde la popstar M.I.A incarna perfettamente il paradosso caratteristico della cultura di massa contemporanea: cantante di origini singalesi e trapiantata a Londra, M.I.A non ha mai fatto segreto del suo sostegno convinto alle Tigri del Tamil, movimento paramilitare comunista sconfitto dall’esercito dello Sri Lanka nel 2009 dopo decenni di controllo di ampissime aree della nazione. Molti suoi testi inneggiano alla lotta armata e al terrorismo, e in quei casi domina lo stile musicale “grime” (forma di urban rap con arrangiamenti drum and bass, jungle e dub-step); tuttavia, nella maggior parte della sua discografia M.I.A si rivela perfettamente integrata nell’orizzonte della produzione pop-dance americana: collabora tra le altre con Madonna e Christina Aguilera in più occasioni, e oggi è tra le popstar più seguite, vendute e commercializzate dal mercato culturale globalizzato.

 

La violenza esibita è anche al centro di uno straordinario lavoro del collettivo Megaforce: si tratta di The greeks degli Is tropical del 2011, music-video che coniuga con mestiere riprese reali ad animazioni digitali, traducendo un innocuo gioco tra bambini in una cinica carneficina con tanto di terroristi, mafiosi, esecuzioni, esplosioni… 

 

 

 

 

La connessione tra violenza e universo infantile torna spesso nell’immaginario videomusicale (pensiamo anche a Sixteen Saltines, di AG Rojas per Jack White del 2012); qui nello specifico si tratta di una trasfigurazione palesemente immaginifica, dal momento che la violenza diventa reale perché si traduce in immagine, invece di restare nell’immaginazione dei ragazzini che giocano. Tale traduzione è concessa dalla stilizzazione digitale del cartoon, modalità espressiva solitamente legata alla spensieratezza favolistica dei bambini, che diventa rappresentazione visionaria di un massacro agghiacciante smarcandosi dalla sua tradizionale adozione massmediale. Ora, se il cartoon capovolge il proprio segno, diventando spietato e ultraviolento, è pur vero che proprio l’innesto dell’animazione fumettistica “irrealizza” le atrocità del racconto, facendosi strumento metatestuale in grado di portare a coscienza i problemi relativi al rapporto tra immaginario infantile e gioco da un lato, violenza, terrorismo e guerra dall’altro. 

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Luciano Berio nel tempo e nello spazio sonoro

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Arriva in libreria Interviste e colloqui (Einaudi), il terzo e conclusivo volume degli scritti di Luciano Berio, figura fondamentale nella musica del Ventesimo secolo e non solo. 

Dopo i libri dedicati alle Norton Lectures e agli scritti musicali ecco riunito un gran numero di conversazioni rilasciate in Italia e all'estero dal compositore ligure tra il 1962 e il 2002. 

Questo quarantennio lo ha visto tra i protagonisti assoluti del rinnovamento musicale, un processo lungo e faticoso non esente da contraddizioni, che risaltano benissimo negli atteggiamenti di Berio rispetto ai fenomeni musicali sempre mutevoli attraverso gli anni. 

 

Certe dichiarazioni apodittiche che si leggono nei colloqui degli anni Sessanta sono del resto tipiche di tutta la generazione di Darmstadt e non dissimili dai coevi diktat di Boulez e Stockhausen su cosa dovesse essere considerato artisticamente valido e cosa no: fortunatamente la disposizione cronologica del libro (curato mirabilmente da Vincenzina Caterina Ottomani) ci permette di seguire fedelmente l'evoluzione del pensiero di Berio e la sua capacità di liberarsi dagli schematismi giovanili per abbracciare una visione dell'esperienza musicale assai più articolata e complessa, osservando con interesse le proposte che arrivano anche dal mondo della musica popolare e di consumo (non dimentichiamo che Berio, oltre ad aver composto Folk Songs, fu il primo ad analizzare le canzoni dei Beatles in un memorabile scritto pubblicato sulla Nuova rivista musicale italiana nel 1966, rifuggendo qualsiasi snobismo culturale). 

 

Un esempio tipico di questa flessibilità mentale è quello del giudizio di Berio nei confronti dell'opera di Steve Reich, suo allievo in California negli anni Sessanta e tra i fondatori della minimal music: nella celebre Intervista sulla Musica realizzata assieme a Rossana Dalmonte e pubblicata da Laterza nel 1981, il giudizio sul musicista americano è di totale e sprezzante rifiuto, mentre nella conversazione con Lorenzo Ferrero rilasciata nel 2000 per Il Giornale della Musica viene espresso un parere totalmente opposto su Reich, dove il rigore della sua scrittura viene apprezzato appieno. 

La capacità di tornare sui propri passi rivedendo il metro di giudizio non è comune tra i compositori e musicologi della sua generazione e dimostra una volontà di porsi in sintonia con il mondo che poche figure della sua statura intellettuale hanno avuto.

 

 

Per Berio l'ingrediente principale del pensiero è la curiosità: non solo la propria, davvero insaziabile e aperta a qualsiasi tipo d'ascolto, ma anche quella degli ascoltatori cui la musica si rivolge. Fondamentale per lui è la partecipazione “attiva” del pubblico, il fatto che un artista si debba relazionare con persone che rifiutano un ruolo passivo o semplicemente consumistico dell'esperienza musicale. 

La complessità di linguaggio non va intesa come un feticismo fine a se stesso bensì come chiave di lettura indispensabile per non soccombere a dei modelli culturali appiattiti sulle posizioni dettate dal mercato. 

 

I continui richiami a una musica che abbia diversi livelli di lettura sono una costante di tutto il pensiero di Berio, che attraverso i decenni vede mutare attorno a sé in maniera drammatica il mondo musicale. 

La sua passione per riunire i fili comuni di esperienze musicali apparentemente antitetiche o comunque molto diverse tra loro lo pone al centro di questo fondamentale momento storico in cui crollano le ideologie politiche ed estetiche che avevano dominato il mondo culturale per oltre mezzo secolo: l'esperienza musicale si scioglie in mille rivoli diversi, ognuno dei quali ha una propria direzione che va compresa e scandagliata senza cedere al rischio di semplificazioni. 

 

L'interesse sempre maggiore del pubblico per musiche altre, dal rock al jazz al pop, la nascita dell'estetica postmoderna (sempre rifiutata da Berio ma comunque da lui osservata con curiosità), la nascita di una generazione di compositori giovani che rifiutano il mondo delle avanguardie per cercare un tipo di diversa comunicazione con gli ascoltatori, tutto questo ridisegna a gran velocità la mappa del pianeta musicale internazionale e Berio è sempre in prima fila a registrare questi cambiamenti e a dialogare con essi, anche in modo polemico ma sempre evitando l'atteggiamento da struzzo che molti illustri protagonisti della musica hanno avuto nei confronti di tutto questo. 

 

Il continuo confronto con posizioni diverse dalle sue e la consapevolezza del momento storico presente lo stimola ad affrontare sfide sempre nuove, che vanno dalla collaborazione con Renzo Piano per la progettazione di nuovi spazi destinati all'utilizzo della musica (Auditorium di Roma) alla programmazione di festival che coinvolgono musicisti di stile diversissimo come Luca Francesconi e Ludovico Einaudi, arrivando negli ultimi anni ad ospitare nella programmazione dell'Accademia di Santa Cecilia musicisti come Elio e le Storie Tese o Francesco De Gregori. Non che questo fosse una novità per Berio, che fin dagli anni '70, attraverso un programma televisivo ormai leggendario come C'è Musica e Musica, aveva aperto le porte a figure musicali delle estrazioni più diverse sovrapponendole e facendole comunicare tra loro.

 

Le interviste che riguardano capolavori della sua produzione come Sinfonia e Coro mettono bene in risalto il continuo scandagliare di Berio alla ricerca di una sintesi suprema (e forse inaccessibile) tra differenti linguaggi e segnali culturali. 

Possiamo seguire passo dopo passo il lavoro del musicista, impegnato in un lavoro che lo porta a raggiungere vette straordinarie di ispirazione musicale in queste partiture oggi giustamente considerate imprescindibili per la comprensione del Ventesimo secolo ma che in realtà lo trascendono per entrare nel ristretto elenco dei capolavori assoluti della Storia musicale. 

Molto interessanti i dialoghi con figure assai vicine a Berio come atteggiamento culturale quali Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Tullio Regge, dove si capisce con chiarezza come il pensiero del compositore non veda mai l'esperienza musicale come fine a se stessa ma come un qualcosa che si pone perennemente in rapporto con altri saperi (dal teatro alla semiotica) e si nutre di questi. Del tutto estranea al musicista ligure, invece, la nozione dell'artista separato dal resto della società e chiuso nelle proprie rimuginazioni estetiche: per Berio l'artista è essenzialmente qualcuno che produce, che fa delle cose, non per niente si autodefiniva come un Homo Faber

 

La capacità tecnica, l'artigianato, la conoscenza degli strumenti con cui si vogliono esprimere le proprie idee (fondamentali il contrappunto e l'analisi) sono pilastri del pensiero beriano così come la diffidenza per gli autodidatti, per la sciatteria tecnica, per la mancanza di chiarezza progettuale, per le fumisterie grafiche o le musiche di facile propaganda politica. 

Questa “concretezza” di atteggiamento lo rende immune sia agli schemi mentali elitari delle retro/avanguardie che alla retorica populista di certa neosemplicità: le sue partiture si offrono al nostro ascolto senza arroganza né piaggeria, sono organismi complessi che dobbiamo certamente comprendere in modo non superficiale, anche attraverso il riascolto e l'approfondimento, ma che non si nascondono dietro barriere impenetrabili e narcisistiche di complessità autocompiaciuta. Chiunque si avvicini ad esse senza pregiudizi può ben presto apprezzarne la bellezza e profondità di pensiero.

 

Quando Antonio Gnoli, nel 2002, gli chiede del proprio rapporto con il pubblico Berio risponde: “Non mi condiziona: il pubblico non esiste, è una pluralità che ascolta in modo diverso, a partire dalla storia, dalla lingua, dalle circostanze: Ciò che piace a New York o trionfa a Milano può essere un fallimento a Roma”.

 

La capacità di coniugare passato e presente ha permesso a Berio di navigare attraverso l'intera storia della musica, ponendosi in relazione con figure come Mahler, Schubert, Monteverdi, De Falla, Verdi, Purcell, Mozart, Bach senza timori reverenziali e con approccio sempre costruttivo: non a caso nel 1998 dichiarava: “Inevitabile dialogare con il passato, tutti lo facciamo anche senza saperlo. Io lo faccio spesso in modo pratico, anziché meditare, magari scrivendo lunghi saggi, spinto da ragioni non solo puramente musicali, analitiche e magari critiche, cerco di instaurare un colloquio concreto con le esperienze del passato, convinto come sono che la storia non è solo cronologia, linearità e irreversibilità”. Questa capacità di muoversi liberamente nel tempo e nello spazio sonoro è ciò che rende indispensabile e immortale la produzione di questo grande compositore.

 

La lettura del volume è naturalmente consigliatissima non solo per avvicinarsi a una figura cardine della nostra contemporaneità ma come vero e proprio scrigno di suggestioni, pensieri, spunti critici da poter utilizzare per poter riflettere su cosa significhi oggi creare e pensare la musica.

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La natura sociale del centro commerciale

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Ormai da tempo, le famiglie italiane vanno a fare la loro spesa settimanale in un centro commerciale. Nonostante la crisi economica sopraggiunta negli ultimi anni, questo infatti continua ad essere per esse il luogo d’acquisto ideale. È utile allora interrogarsi sulla natura di tale luogo. Storicamente, il centro commerciale è il risultato della sintesi dei precedenti modelli della galleria e del grande magazzino. La sua struttura è infatti generalmente costituita da una o più gallerie contenenti un grande ipermercato e decine di negozi, ristoranti, punti di ristoro e di divertimento. Si tratta anche di un incontro perfettamente riuscito tra due diversi modelli commerciali: quello pre-industriale del mercato, nel quale il rapporto di vendita era fortemente umanizzato e personalizzato, e quello industriale, nato con il grande magazzino e perfezionatosi successivamente con il supermercato e l’ipermercato. 

 

La formula del centro commerciale è nata negli Stati Uniti nel 1924, con il Country Club Plaza di Kansas City, e ha cominciato a moltiplicarsi negli anni Trenta, ma è stato soltanto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale che ha avuto una vera diffusione su tutto il territorio statunitense, in conseguenza dello sviluppo verso l’esterno delle città e della costruzione di numerose strade extraurbane. Il centro commerciale però si è imposto anche perché in molti sobborghi statunitensi privi di piazze e luoghi pubblici si è proposto come il vero centro della vita comunitaria. Sulla scia del notevole successo ottenuto nel territorio nordamericano, i centri commerciali si sono progressivamente diffusi negli ultimi decenni anche nel resto del mondo. Il più vasto attualmente si trova in Cina ed è il New Century Global Center di Schengdu, che occupa quasi due milioni di metri quadrati di superficie. In Italia, i centri commerciali sono arrivati in ritardo rispetto agli altri Paesi economicamente avanzati, in quanto hanno cominciato a diffondersi soltanto dall’inizio degli anni Novanta. Oggi però sono diventati oltre 600 e alcuni di essi sono anche di notevoli dimensioni. 

 

 

Inizialmente, il centro commerciale era molto semplice e progettato più pensando alle esigenze della distribuzione dei prodotti che alla sua qualità architettonica ed espressiva. La progettazione degli spazi interni si concentrava infatti principalmente nel cercare di facilitare la circolazione dei carrelli della spesa. In seguito però il centro commerciale ha dovuto cominciare ad attirare l’attenzione aumentando l’importanza della qualità del suo design e dei suoi elementi d’arredo (aree di relax con panchine, fontane, sculture, portici, chioschi, piante e lampioni). Si è avuto anche uno sviluppo delle attrazioni: bar, ristoranti, sale cinematografiche, parchi gioco, ecc. Insomma, un centro commerciale oggi, se vuole avere successo, deve essere in grado di offrire alle persone soprattutto degli spazi adatti per la socializzazione e il divertimento. 

 

È dunque ben diverso da quelli che qualche anno fa sono stati denominati «nonluoghi» dall’antropologo Marc Augé nel libro dal titolo omonimo (Elèuthera). Infatti, secondo questo autore, i grandi spazi commerciali contemporanei si contrappongono alla tradizionale concezione antropologica che considera il luogo come uno spazio fisico legato a una precisa cultura, cioè dotato di solide radici in un contesto sociale e storico ben determinato, e pertanto in grado di consentire quelle relazioni con il prossimo grazie alle quali ciascuna forma di identità, sia essa personale o di gruppo, può costituirsi e mantenersi stabile nel tempo. Augé ha sostenuto infatti che nei nonluoghi l’individuo è costretto a vivere in una condizione di solitudine e provvisorietà e che pertanto deve liberarsi completamente dalla sua identità personale, che può ritrovare soltanto al momento dell’uscita. Diventa cioè una sorta di anonimo viaggiatore che attraversa un territorio a lui estraneo. 

 

In realtà, in quelli che Augé ha chiamato nonluoghi l’individuo non perde la sua identità, la quale viene invece trasformata e resa adeguata ad una situazione che si presenta all’insegna del consumo. Perché se possiamo trovare oggi un tratto comune ai tanti e diversi nonluoghi considerati da Augé questo è senz’altro l’esplicita appartenenza alla cultura del consumo contemporanea. Il processo di espansione dei nonluoghi è infatti principalmente stimolato dalla sempre più urgente necessità per l’individuo di costruire e radicare la propria identità sociale soprattutto mediante l’impiego dei prodotti acquistati e delle loro marche. I criteri tradizionali di definizione sociale non funzionano più e soltanto attraverso l’identità posseduta da prodotti e marche gli individui possono collocarsi socialmente. 

 

I centri commerciali dunque sono in grado di produrre identità allo stesso modo dei luoghi tradizionalmente studiati dagli antropologi. Perché per gli individui, lungi dall’essere asettici e privi di socialità, sono altrettanto ricchi di significato dei classici luoghi antropologici. Certo, in essi la storicitàè di solito limitata, data la loro recente nascita, ma non è comunque assente, perché l’individuo si affeziona progressivamente ai nuovi luoghi del consumo, di cui impara a riconoscere gli spazi, i percorsi e gli ambienti di ritrovo. Soprattutto, però, ci sono l’identità e la relazione, gli altri due elementi che insieme alla storicità, secondo Augé, caratterizzano il luogo antropologico tradizionale. Il consumatore, infatti, è in grado di costruirsi delle paradossali identità temporaneamente stabili ma “nomadiche”, cioè legate al territorio sebbene non radicate in nessun luogo particolare. 

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Impresa culturale: datti una regolata!

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Se esiste un’impresa culturale, figuriamoci se non si può parlare di una cultura (giuridica) dell’impresa culturale. Il che significa parlare di regole istituzionali e sociali, formali e informali, ortodosse o atipiche, convenzionali conformiste, controintuitive che siano. A patto che da qualche parte si veda un’impresa, a maggior ragione se fa parte di un più ampio tessuto connettivo, si tratta di reti cognitive, hub innovativi, distretti culturali, filiere produttive o mercati comuni. Ha senso discuterne proprio perché è tale appartenenza che perlopiù si riscontra, a partire da un esercizio professionale di attività economiche organizzate al fine della produzione di beni o servizi (ossia di impresa: art. 2082 c.c.). Sicché, per un giurista che abbia a cuore la sostenibilità delle attività culturali, specialmente creative, – ciò che significa garantire loro libertà di mezzi, fini e contenuti – è inevitabile occuparsi di modelli organizzativi interimprenditoriali: cioè di impresa e di sistema. Impresa…non semplice, d’altronde a questo serve il diritto dell’economia. La partita è complicata ma va giocata. Ne parlavo qui.

 

L’imprenditorialità culturale ha caratteristiche tutte sue: si sviluppa tipicamente all’interno di filiere produttive, organizzandosi secondo le regole del diritto privato, e al contempo subisce le influenze della filantropia finanziaria pubblica e privata. Inoltre, si avvale dell’indirizzamento e del sostegno delle fondazioni e gode di agevolazioni nazionali e comunitarie. La progettualità che essa manifesta discende dalle strategie proprie di gruppi societari, reti di imprese o distretti industriali, dalla pianificazione culturale proprie di amministrazioni locali o settoriali, sia pure basandosi primariamente sull’estro innovativo individuale e su fondamenta creative, le cui espressioni iniziali hanno spesso carattere artigianale. Le finalità di gran parte delle iniziative creative sono, a loro volta, private e pubbliche, ma in larga misura socialmente condivise, e (quasi) tutte meritorie. Elemento questo che sollecita l’adozione di modelli di organizzazione, e sistemi di governo societario (corporate governance), rappresentativi di una pluralità di contributori e apportatori di interessi (stakeholders). Nella maggior parte dei casi, infine e purtroppo, si riscontra la frequente difficoltà di autori/creatori/innovatori, e delle loro imprese, di raggiungere una condizione di autonomia finanziaria nella produzione dei beni e servizi che costituiscono l’offerta culturale.

 

Queste caratteristiche – modalità collettiva della realizzazione di opere dell’ingegno, pluripartecipazione ai modelli di governo societario e interimprenditoriali, problematica sostenibilità finanziaria dei progetti artistici e innovativi – derivano tutte dalla natura immateriale delle risorse utilizzate per esercitare attività creative di contenuto culturale. Ce lo insegnano gli economisti della cultura, spiegando che: (1) si tratta di risorse di cui è inizialmente complesso o costoso appropriarsi; fatto che (2) incentiva una ricerca intersoggettiva di raccolta del patrimonio intellettuale, il cui successivo utilizzo può dar luogo (3) a forme di opportunismo postcontrattuale (cioè di approfittamento del soggetto economicamente più forte) e (4) a fenomeni di arroccamento cognitivo attorno alle risorse acquisite; (5) il cui ultimo, ma non meno rilevante effetto, può manifestarsi nel condizionamento del contenuto stesso dell’offerta culturale, se la sua pianificazione è subordinata alla convenienza di ottenere finanziamenti per valorizzare le iniziative realizzate e massimizzare il guadagno conseguibile dal loro collocamento sul mercato, anziché dalla più rischiosa alternativa di programmare e intraprendere innovazioni ulteriori; anche quando si prescinde (6) dal computare il filtro spesso conformista apposto dagli intermediari (critici d’arte, consulenti, mecenati, eccetera), oltre che (7) dalle logiche abitudinarie che nella stessa direzione possono muovere le istituzioni politico-culturali, se per una ragione o un’altra preferiscono, anziché aggiornarli, consolidare gli schemi di organizzazione e di comportamento delle imprese che sfruttano le medesime risorse cognitive e sono soggette a regole comuni.

 

L’impostazione che condivido è che la creatività artistica e innovativa si sviluppi sulla base di un processo non atomistico ma consequenziale, che conduce a sbocchi non solipsistici ma culturalmente relativi, socialmente condivisi, e – per fortuna ma non per caso – replicabili. Il “salto intuitivo”, da cui l’apporto creativo ha luogo, è esclusivamente individuale, certo, e gli esiti di tale sbocco sono diversamente apprezzabili (o disprezzabili). Ma sotto il profilo cognitivo, che viene per primo, mi convincono gli argomenti secondo cui la creatività non può riassumersi solo nell’istante e nell’atto di comprensione e ideazione da parte dell’autore. In un saggio dell’anno scorso  ho apposta indagato le dimensioni endo ed eso-imprenditoriali di diffusione della creatività. Insomma, la prospettiva che ho adottato, trattando di regolazione delle imprese culturali, è che il processo creativo sia spiegabile muovendo in un alveo mediano tra l’approccio riduzionista e l’approccio meccanicista, a cui usualmente si ricorre per spiegare i meccanismi di manifestazione della creatività, e si rafforzi grazie al contributo di fattori sia originali, sia incrementali. Questa opinione trova importanti conferme nelle scienze economiche e sociali che, prestando attenzione ai fenomeni dell’imprenditoria innovativa, studiano da tempo e con convinzione i processi sinergici e multifattoriali, sviluppati in contesti di co-opetition, proprio per rappresentare i meccanismi più efficienti e sostenibili di moltiplicazione della creatività.

 

 

In altri termini, ma per ribadire lo stesso concetto, credo necessario parlare congiuntamente di innovazione e di imprenditorialità, dato che questa combinazione, meglio di altre, può contribuire a diffondere modelli, specialmente reticolari e distrettuali, per la realizzazione di attività collettive di natura creativa. Tanto la prima quanto la seconda si affidano spesso a relazioni reticolari tra una molteplicità di soggetti, pubblici e privati, e al sostegno non solo finanziario, ma politico, strategico e imprenditoriale, del tessuto economico-sociale, al cui coordinamento giovano strumenti di programmazione negoziata (sia negoziali, sia istituzionali), volti a favorire la costruzione di consenso su obiettivi comuni, la definizione delle principali regole operative, i meccanismi di risoluzione di eventuali controversie: tutta roba giuridica. Ma l’elemento che rileva prima e forse più di così si colloca pur sempre a monte di tale esito organizzativo, e attiene anzitutto al piano cognitivo.

La riflessività regolativa, di cui mi occupo da tempo, costituisce il corollario organizzativo di tale impostazione teorica e il diritto dell’impresa ne è strumento privilegiato, idoneo com’è a proiettare l’attività creativa individuale su piani cognitivi collettivi, parametrando secondo il principio di differenziazione – la cui realizzazione è favorita dalla progressiva neutralità delle forme giuridiche – le modalità tecniche richieste per concretizzare ogni forma di innovazione, sia essa artistica o industriale; come ho avuto occasione di scrivere su queste stesse pagine.

 

La modularità del diritto societario può poi assecondare propensioni del genere assumendo, all’interno di un modello multistakeholder, soggetti in possesso di competenze più o meno inclini a favorire il conseguimento di risultati strategici (se ad esempio intesi ad aggredire dati segmenti di mercato), organizzativi (se volti alla riduzione dei costi produttivi) o politico-ideali (se funzionali a realizzare beni o servizi di valore culturale generale). Trattandosi di una struttura pluripartecipata, importeranno i processi di selezione degli stakeholder, che prema accogliere nelle compagini proprietarie, amministrative o di controllo interno; e può darsi il caso che la società intenda connettersi ad altri poli produttivi di una rete o di un distretto comune ricorrendo a forme di organizzazione multilivello (siano esse istituzionali, societarie o contrattuali).

 

Tale struttura, come – ancora – ci insegnano gli economisti, può infine essere connotata in senso olografico o ideografico, a seconda che si prediliga un approccio creativo basato sul conflitto e il confronto tra apporti cognitivi provenienti da soggetti diversi per formazione culturale, competenze tecniche e predisposizione innovativa. O a seconda che si preferisca un loro sviluppo parallelo e separato, in vista di una combinazione in fase produttiva. Oppure, ancora se risultino opportune forme organizzative miste o sfumate che premino la prospettiva mediana (tra l’approccio meccanicistico e quello riduzionista) a cui ho accennato.

La trasmissione dei significati simbolici dei beni creativi e innovativi, precondizione per aprire prospettive sia alla loro produzione condivisa, sia alla loro commercializzazione, richiede che le imprese culturali concordino sugli strumenti regolativi da utilizzare congiuntamente per mediare, portare a coerenza e connettere le conoscenze necessarie per l’attività produttiva (in tutto o in parte) comune. Obiettivo che si realizza – ed è questo il punto centrale – non già smussando le specificità operative di ognuno, o sforzandosi di normalizzare gli effetti patologici destinati comunque a verificarsi nelle relazioni tra tutti, ma enfatizzando la differenziazione, e creando le condizioni affinché si riconoscano le rispettive identità imprenditoriali.

 

Il dato di progressiva neutralità delle forme giuridiche e la tendenza alla modularità dei modelli organizzativi, ai quali ho accennato e di cui scrivevo anche qui, gioca a favore dello stesso risultato. Infatti, l’attitudine valoriale e la capacità imprenditoriale a produrre beni o servizi meritori e collettivi non impone la non lucratività dell’ente che eserciti tale attività. Ma prima ancora, la forma giuridica mantiene un preciso senso regolativo, consentendo di costruire modelli di corporate governance articolati in base agli assetti organizzativi che rendono unica e preziosa – ma non per questo “eccezionale” – l’impresa culturale.

 

Nella prima parte di questo articolo scrivevo che è importante che la veste organizzativa di un’impresa culturale, più di quanto valga per altri tipi di imprese, dia forma e sostanza alla sua figura giuridica. Insomma, quest’abito fa il monaco (e d’altra parte: non è sempre così?). Risultato qui ottenibile, sfruttando gli strumenti del diritto dell’impresa, oggi più che mai. Il perché lo ricaviamo da almeno due recenti fattori evolutivi del diritto, specialmente commerciale: (a) la progressiva emersione, nei sistemi di corporate governance, di fattori regolativi appartenenti per tradizione alla strumentazione economico-aziendale; (b) il ruolo dell’autoregolazione societaria se essa è integrata a modelli organizzativi che aiutano la rappresentazione programmatica delle buone pratiche che l’impresa intende adottare nei propri rapporti interimprenditoriali, puntando alla replicazione virtuosa della “memoria” interna e al consolidamento delle relazioni fiduciarie con l’esterno.

 

La natura cognitiva, sia delle risorse di cui si servono le imprese culturali, sia delle loro attività, spiega perché è così importante adottare una prospettiva regolativa peculiare (alla quale accennavo anche qui. Cruciali, come sempre nell’analisi giuridica dell’economia, sono i frangenti di conflitto (tra i soci, tra costoro e i propri partner, e più in generale nei rapporti tra impresa e stakeholder), dato che è qui che si misura davvero l’efficacia delle scelte regolative. La fluidità del patrimonio intellettuale condiviso tra operatori culturali favorisce infatti la possibilità di pervenire, persino nelle ipotesi di conflitto, a compromessi anche distanti dalle posizioni assunte inizialmente, tramite processi di interazione euristici e adattativi ben conosciuti da chi si occupa di teoria dell’organizzazione; processi preziosi perché si basano, a loro volta, su un esercizio di creatività. Con ciò intendo la capacità di raggiungere esiti inattesi perché inducono conflitti premianti, secondo una prospettiva di co-opetition eclettica ma non irragionevole, anche se non catturabili dai paradigmi classici della scelta razionale. E sono processi che confermano, appunto, l’analoga natura intellettuale delle risorse necessarie per svolgere attività creative, e dei beni che tali attività realizzano.

 

Queste sono dinamiche comprovate, nel settore culturale. Basti pensare alle decisioni di coproduzione prese con propensioni contestuali, ma potenzialmente distoniche. Come di fatto si rivelano quelle motivazionali, ad esempio quando s’intende collaborare in base alla comunità di intenti e alla stima reciproca. O quelle economico-organizzative, ad esempio, quando si punta a ottimizzare autori e creatori talentuosi, competenti o comunque preziosi per l’impresa, che si vuole aggregare per realizzare un dato progetto.

In questi casi è frequente che, pur in presenza di esigenze conosciute ex ante, che di per sé possono sospingere verso date scelte organizzative (tra quelle immaginabili: l’interesse dell’impresa culturale a collaborare con un autore per ragioni di prestigio, l’opportunità di condividere oneri finanziari e burocratici in ragione degli elevati costi del progetto, la necessità di procacciarsi un partner disponibile a/per diversificare le proprie linee di produzione, l’allargamento del bacino di riferimento commerciale), la decisione sia presa seguendo attraverso mosse di arretramento, concessione, compromesso e soprattutto tramite l’accettazione di risultati parziali che tuttavia favoriscano più parti da punti di vista originariamente non preventivati. Come l’acquisizione della reputazione, quando la propensione iniziale sia principalmente di ordine economico; o il rafforzamento del potere di mercato, se invece in un primo tempo l’interesse volga soprattutto alle ricadute eminentemente culturali della partecipazione al progetto; e così via.

 

Si tratta – esattamente – dei processi che seguono le traiettorie laterali (od oblique) dell’adattamento cognitivo, secondo scenari relazionali basati sul cambiamento progressivo, persino radicale, delle posizioni originarie. Non sono cioè meri compromessi razionali, ossia scelte di natura esclusivamente egoistica e strategica. Come succede in ogni relazione fiduciaria, infatti, in condizione di carenza di opzioni modulate secondo i paradigmi di scelta razionale, i soggetti agenti all’interno di sistemi economici microsociali sono propensi ad alleviare il proprio stato di dissonanza decisionale con inconsapevoli, ma oggettive, propensioni cognitive di interiore normativizzazione, e di conseguente pratica, di comportamenti cooperativi.

 

Naturalmente è plausibile che ciò accada quando in partenza si riscontrano più tipi di interdipendenza tra le imprese cultuali. Perché sì, esistono forme di interdipendenza differenti. Ad esempio, a seconda che ogni impresa dia un contributo paritario (interdipendenza comune), o se esso costituisca la base o la risorsa per il lavoro altrui (interdipendenza sequenziale), se l’apporto sia complementare (interdipendenza intensiva), o infine quando il contributo di ognuno dipenda almeno parzialmente da quello dei cooperatori (interdipendenza reciproca).

Ora: se il valore degli apporti non è frazionabile, come accade in tutti questi casi, risulta a sua volta problematica la definizione dei diritti di proprietà, tipicamente intellettuale, sugli esiti parziali delle fasi produttive. Sicché rileva l’attribuzione ad enti o soggetti terzi, per così dire intermedi, del ruolo di assegnazione dei diritti collettivi, che possono essere inclusi nello schema organizzativo. A maggior ragione tale assetto risulta decisivo nelle ipotesi in cui il bene creativo, come è vero per tante rappresentazioni artistiche, nasca da un processo i cui apporti siano singolarmente valutabili, mentre il prodotto finale non sia di per sé esistente una volta e per sempre (si pensi a un qualsiasi spettacolo dal vivo), e quindi commercializzabile in via continuativa; ma lo sia solo se tale processo possa essere interamente replicato (sperando che, sera dopo sera, vada tutto bene).

 

Il ruolo dell’autoregolazione, come sostengo da tempo, è spesso trascurato, ma cruciale. I modelli di cui mi sono occupato recentemente hanno il pregio di modulare norme primarie e secondarie, formali e informali, attraverso procedure di accordo su dati principi, presi a riferimento, in modo tale che quell’accordo svolga una funzione non solo regolativa, ma anche di segnalazione della diversità di ciascuna impresa culturale (leggasi: unicità).

Insomma le pratiche di autoregolazione si legittimano, prima ancora di ricevere legittimazione da altre fonti dell’ordinamento, proprio perché incorporano i principi fondamentali per l’impresa (ad esempio: produzione di beni meritori, applicazione di buone pratiche organizzative, natura nonprofit dell’attività, responsabilizzazione sociale della gestione, governo democratico della società). Inoltre, esse filtrano e connettono il diritto proveniente da altre fonti giuridiche, ma non per questo lo uniformano, e perciò non conducono a un’indistinzione valoriale. Infine, gli strumenti di autoregolazione di rete e di distretto, se connessi alla struttura aziendale e alla fisionomia statutaria dell’impresa, contribuiscono ulteriormente ad armonizzare interessi apparentemente contrapposti. Per un verso, l’interesse a creare punti di convergenza nella trama regolativa che aggrega più agenti economici, costruendo fiducia e aspettative di affidabilità anche laddove le pratiche consuetudinarie non coprano interamente il piano operativo comune. Per altro verso, l’interesse a differenziare, cioè a rendere identificabili e concorrenziali, i modelli di auto-organizzazione societaria adottati da ciascuna impresa culturale, e con ciò i loro interessi. Detto altrimenti: una consapevole autoregolazione può sorreggere in modo equilibrato, e più stabile di quanto avvenga in altri settori economici, le propensioni alla cooperazione e alla competizione di autori e cooperatori culturali.

 

Per chiudere il cerchio e concludere davvero: la disciplina delle attività creative richiede che siano forti, anzitutto, i legami tra vision e mission culturali dell’impresa, e la costruzione della strategia economica della loro implementazione. Inoltre la disciplina delle attività creative richiede che siano forti le rispondenze e la coerenza reciproca tra le fasi di programmazione, organizzazione e conduzione societarie, che è il diritto commerciale a regolare.

 

Infatti, la direzione di un’impresa culturale non è intesa solo a definire le linee di gestione dell’impresa, ma soprattutto a estrapolare le competenze cognitive dei soggetti coinvolti nel processo creativo. Tanto è vero che, dal lato teorico, è riconosciuta l’importanza di concepire vision e mission culturali organiche e aperte alle sollecitazioni esterne. Dal lato pratico, sono applicate strategie economiche di valorizzazione degli apporti dei partner come contributi idealmente individuali e collettivi.

Per questo risulta specialmente appropriato, nella prospettiva della disciplina giuridica delle attività culturali, proporre modelli organizzativi forgiati secondo i principi di riflessività regolativa e di interimprenditorialità. Qui infatti, come non vale per alcun altro settore economico, è stretto il nesso tra l’impresa intesa come comunità della pratica e del lavoro, e l’impresa intesa come soggetto giuridico e organismo economico.

Sicché viva l’impresa, e vivrà la cultura.

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Due artisti da romanzo

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Un iperzelante ammiratore di un pittore che egli definisce senza esitazioni il più grande di tutta la Svezia di sempre e forse anche del mondo, intraprende il viaggio di raccolta di documentazione su di lui nel suo villaggio natale sperso tra montagne e foreste nel profondo Nord svedese e ne scrive di seguito la biografia. È L’ultimo bicchiere di Klingsor di Torgny Lindgren (Iperborea, Milano 2016), titolo che probabilmente fa il verso a L’ultima estate di Klingsor di Hermann Hesse, altro breve romanzo su un pittore di tutt’altro tono e intenzioni.

Klingsor ha fatto una scoperta che gli ha cambiato la vita: ha trovato un bicchiere, peraltro abbandonato dal capostipite della sua famiglia decenni prima, sopra un ceppo tagliato maldestramente storto; ebbene, col tempo quel bicchiere si era semplicemente raddrizzato da sé solo, “era diventato dritto in alto e obliquo in basso”. È di fronte a questo fenomeno che Klingsor diventa artista, perché “tutt’a un tratto gli fu chiaro che la materia morta non è morta”.

 

Subito si iscrive a un corso di disegno per corrispondenza, che poi evolverà nel corso superiore di pittura, e disegna e dipinge per tutta la vita esclusivamente nature morte, nella stragrande maggioranza con la presenza del misterioso bicchiere che porta sempre con sé. Vorrà raggiungere la sua insegnante, Fanny, a Malmö, ma non prima di avere fatto un lungo e strano giro dell’Europa per conoscere i musei e l’arte che si fa. Ma lo fa a modo suo: all’Accademia di Belle Arti di Stoccolma, per esempio, se ne resterà talmente in disparte nella classe di pittura dal vero, peraltro disegnando nature morte pur davanti a modelle nude, che i compagni lo scambieranno per un usciere. Andrà anche a Parigi, ma solo per guardare le finestre delle più famose scuole d’arte dalla strada.

 

Il romanzo di Lindgren è esilarante, ma di un umorismo non dichiarato, per cui noi stessi esitiamo spesso a ridere per non sentirci ingiusti nei confronti di una convinzione così radicata nel personaggio. Fanny, che all’inizio l’ha accusato di presunzione, se ne innamora e diventa la sua compagna e la sua grande difenditrice, convinta per prima che egli sia il più grande pittore vivente. Con uno zelo abnorme gli organizza l’unica sua mostra personale nella scuola abbandonata del suo paese natale neanche fosse in uno dei più importanti musei del mondo. È la gloria, secondo loro, anche se soltanto i paesani la visitano, nessuno viene da fuori e nessuno ne scrive. Un accadimento un po’ alla Capolavoro sconosciuto al rovescio chiuderà il romanzo e la vita dell’artista, che non sto a svelare per non rovinarne la lettura.

Una vita provinciale sovraccaricata da pochi superammiratori, un po’ ridicola, un po’ patetica, ma portata avanti, anche dal biografo, con una determinazione assoluta. Il fatto è che forse Klingstor ha scoperto davvero qualcosa di importante e questo gli basta, ed è il nocciolo duro anche del lato serio del romanzo. Lindgren ce ne suggerisce il valore facendo dire a Klingstor, con la sua sicumera sopra le righe: “Abbiamo una quantità enorme di cose in comune noi tre, Cézanne, Matisse e io”.

 

L’abbiamo anticipato: quel bicchiere che si è raddrizzato da sé gli ha fatto capire che tutta la materia vive, non esiste “natura morta” bensì, come si dice in altre lingue, silenziosa o calma. Il bicchiere è così, oltre che originario, anche “ultimo”, nel senso forte – non più ironico – delle ragioni ultime, perché mostra l’essenza fisica e metafisica della realtà, quella a cui hanno mirato anche i grandi pittori citati, e non solo quelli, quella di un’arte “capace veramente di vedere attraverso le cose, un’arte senza lati esterni”, capace di mostrare “gli straordinari movimenti e la vita eterna che esistono nell’intimo della materia”. “Gli atomi, i soli, le nebulose, i buchi neri, tutto trova spazio in una natura morta. E chi la dipinge è puro e innocente”. Anche qui Lindgren ammanta la cosa di ironia, arrivando a far dire agli ammiratori di Klingstor che sia stato lui il primo a intuire nientemeno che l’esistenza della particella di Higgs, ma forse non ride quando sintetizza definendola “quella particella dunque che collega l’esistenza con la non-esistenza”.

 

 

Restiamo anche noi in sospeso, perché no? Anzi a me sembra la particolarità stessa del romanzo di Lindgren, che ci fa dubitare sia quando ridiamo che quando ci sembra di cogliere un affondo estetico-metafisico. Chissà? E aggiungo: non è ciò che di fatto ci accade in coscienza di fronte a tanti artisti di tutto il mondo, anche strapaesani, che in modo diverso oscillano ai nostri occhi tra la sproporzione di ciò che credono di aver realizzato e quel “segreto” che pure forse hanno realmente còlto?

 

Ma veniamo al secondo artista, protagonista di un secondo romanzo. Questo artista, a differenza di Klingstor, è reale, è esistito ed è stato un vero artista internazionalmente riconosciuto, passato alla storia. Si tratta di František Drtikol, grande fotografo boemo degli anni venti e trenta del secolo scorso, situato stilisticamente dalle storie della fotografia tra l’Art Déco e il Modernismo. La specialità per cui è più conosciuto sono i nudi in cui i corpi delle modelle sono ripresi in scenografie dalle forme spesso astratte, forme tra forme, corpi tra simboli e astrazioni. Lo scrittore ceco Jan Nĕmec ne ha scritto una biografia in forma di romanzo intitolata misteriosamente, ma anche assertivamente, Storia della luce (Safarà Editore, Pordenone 2017), quasi a voler suggerire una storia dell’essenza stessa della “scrittura di luce” che è la fotografia. Il romanzo, all’opposto di quello di Lindgren, è molto intenso, sempre teso e poetico nella scrittura, preciso nella scelta degli episodi biografici significanti e profondo nelle riflessioni, estetiche e non.

 

Anche per Drtikol, secondo Nĕmec, c’è una sorta di scena primaria, meno esplicita di quella di Klingstor, anzi quasi nascosta, ma altrettanto formativa. È quella dell’inizio del libro: il piccolo František va a casa di un compagno di scuola e osserva come soggiogato qualcosa che sta realizzando il padre di lui. È uno stufenwerk, ovvero un modellino che rappresenta lo spaccato di una miniera – Drtikol è nato in una zona appunto mineraria – con tutti gli strati, i personaggi, gli oggetti. È dunque il contrario della luce, il mondo buio di sotto, delle profondità, ma anche – pure qui, in fondo, come in Klingstor – dell’interno, della “trasparenza”, della visione attraverso. Anche nel caso di František la scoperta è marcata da una stortura, che resta però tale, non si raddrizza come il bicchiere di Klingstor: è il “pollice deforme con l’unghia rovinata dalla quale il papà di Hynek sta togliendo la sporcizia”. La storia della luce dunque sarà la storia della lotta tra la luce e la profondità, la deformità e la sporcizia.

 

Così il romanzo procede raccontando in effetti una vita non facile, tormentata, diseguale, tra la fanciullezza nel paese minerario, poi l’apprendistato in un atelier fotografico locale, quindi l’ambizione di mettersi in proprio e di metterci qualcosa di originale e di artistico, gli studi all’estero, i contatti, eccetera, il tutto intrecciato alle vicende personali di scoperta della sessualità, innamoramenti, delusioni, ripieghi, e alla storia, la Grande guerra, i contesti culturali. Drtikol è ambizioso ma anche professionale, e riesce a raggiungere i suoi obiettivi, sia l’attività di un atelier che attira le persone famose a farsi ritrarre dal fotografo di punta, sia quella artistica che lo porta a esporre nelle più importanti mostre internazionali del periodo.

 

La sua vita si fa complicata, il matrimonio con una ballerina à la mode e la vita nel bel mondo finiscono male, la frequentazione dell’ambiente intellettuale, dapprima esaltante, si fa poi deludente: l’esoterismo dei settori più avanzati lo affascina, lui lo sfrutta anche, per costruirsi un’immagine e conquistarsi un ruolo di primo piano, ma che cosa cerca veramente, profondamente? Nĕmec ripercorre tutte le fasi e lo fa propriamente dall’interno, come se le vivesse egli stesso, cosicché ne abbiamo non solo un resoconto biografico ma anche una riflessione sentita, partecipata, viva. La scelta di fare un romanzo piuttosto che una biografia tout court ha questo senso empatico: il racconto è svolto in una particolare seconda persona, per cui il narratore è come se si rivolgesse al protagonista stesso, come se parlasse con lui, invece che di lui: “Il giorno prima che accade, sei seduto a tavola in una casetta di minatori...” L’effetto è molto singolare, di racconto in diretta, in cui il narratore esplicita al narrato quello che sta accadendo, e perfino ciò che sta pensando. Forse anche perché la storia non è, non deve essere la sua, di lui, ma quella della luce, come dichiara il titolo.

 

Dunque, negli anni trenta Drtikol si interessa sempre più del pensiero orientale. In realtà si tratta di un crescendo in cui Nĕmec dà fondo alle riflessioni più estetiche e filosofiche. Si comincia press’a poco così, già nella fanciullezza: “Poco dopo ti viene in mente che il mondo è come una moneta che viene fatta girare sul piano di un tavolo e, solo se si ferma miracolosamente per qualche istante, allora è possibile intravedere il suo valore e il rilievo sul rovescio”. Nĕmec non lo dice, del resto Drtikol non è ancora fotografo, ma si pensi al senso di questa riflessione sul senso della fotografia: solo se si ferma l’istante si può... E ancora, più avanti: “Non ti era mai venuto in mente che l’uomo potesse percepire solo il lato rovescio del tessuto del mondo, quello con i fili annodati, il disegno sfuocato e le cuciture al contrario; non ti era mai venuto in mente che per gli occhi di coloro che vedono, il tessuto del mondo è stato ordito al contrario, dalla parte della coscienza visibile.

 

Mentre ti stai addormentando pensi: E se invece le cose fossero ancora diverse? Sopra di te c’è la notte, quel tamburo bucherellato dalle stelle... E se ci fosse qualcuno dall’altra parte che guarda attraverso quei buchini e muove una manovella di ferro, in modo tale che a noi l’eternità sembri solo tempo che scorre gradualmente secondo dopo secondo, minuto dopo minuto, ora dopo ora e giorno dopo giorno?” E per noi, di nuovo: la fotografia come questa scoperta, e questo sguardo e questa idea del tempo... E allora, più esplicitamente, esteticamente, ma anche a proposito di quel “rovescio”: “Non ti manca decisamente il tempo per la tua opera creativa. Rifletti su come potresti raffigurare il diritto del mondo, quel rovescio che brilla? Come puoi persuadere l’obiettivo affinché il rovescio diventi la soggettività?”

 

Alla fine subentra il pensiero orientale, buddismo e yoga, si diceva. Veniamo dunque brevemente all’ultima parte del romanzo. La scena centrale è una sorta di scoperta della luce interiore: “Congiungi le mani nella posizione del dhyanamudra e sul tuo viso appare un’espressione immobile. Sei qui e sei tu. Hai una candela nel corpo, si innalza dal tuo bacino come un albero. Quando la allontani con la fiamma trasparente della coscienza, non si spegne, ma si spinge verso l’alto, si arrampica sempre più su”. E Nĕmec descrive dettagliatamente e sapientemente le fasi del percorso della fiamma, finché essa, “sfaccettata come un diamante, ti perfora con la sua punta il culmine della testa, il punto di concrescenza delle ossa del cranio”. C’entra ancora la fotografia? Sì, è il culmine e insieme, in un certo senso, la fine, l’esaurimento di un compito, di una concezione che mirava a tanto.

 

Drtikol smetterà infatti di fotografare, ma ecco il culmine: “Ora ti volgi verso l’intero in tutto e per tutto, sospendendo i rapporti con il mondo esterno. Se ti viene ancora voglia di dedicarti alla tua creazione libera, al posto delle modelle ti ritagli delle silhouette di cartone”, e descrive il procedimento di fotomontaggio, finché, ecco la luce: “Componi quelle figure ancora come un artista, ma ormai ti interessa di più l’esperienza interiore che esprimono. Chi ha mai rivolto la fotografia verso l’interno? È come se in quelle fotografie le figure fossero illuminate soltanto dalla luce interiore, nebulosa, soffusa. [...] Durante la meditazione capisci che la coscienza è la luce e che la luce è la coscienza. Quando si uniscono è come se in cielo tintinnassero i piatti, forse come segno sei all’equazione che sta alla base della tua vita. Là, dove c’è la luce, c’è anche la coscienza latente, e là dove c’è la coscienza, si nasconde la luce. Il Maestro è impazzito, dicono”. Eccetera, perché non è finita e anche qui il finale riserva un ulteriore svolgimento.

Due artisti opposti dunque, ma quanto anche si assomigliano?

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Un'intervista impossibile al signor Bonaventura

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L'altro giorno sono stato a trovare il signor Bonaventura. Mi avevano detto che avrebbe compito cento anni, così sono andato a fargli qualche domanda dopo uno spettacolo a teatro. Era una delle sue commedie per bambini: Una losca congiura ovvero Barbariccia contro Bonavantura, messo in scena da Marzia Loriga. Lo spettacolo è stato un vero successo e i bambini, nati quasi un secolo dopo, seguivano incantati e divertiti, ma anche genitori e nonni avevano il sorriso stampato sulle labbra perché, ha detto Sergio Tofano, si può “ridere con qualunque mezzo, purché, s’intenda, di buon gusto”. L’eleganza metafisica di Bonaventura, le impeccabili rime baciate, i velocissimi cambi di scena hanno conquistato tutti. Dopo la recita ho approfittato della naturale cortesia del signor (vero signore) Bonaventura e gli ho rivolto qualche domanda.

 

Caro signor Bonaventura: complimenti! Lei fa cento anni e non li dimostra proprio. Anzi, mi sembra sempre uguale.
Chissà se qualcuno se ne ricorderà. Per l’esattezza li faccio il 28 ottobre. 

 

L'esordio del signor Bonaventura, dal Corriere dei piccoli del 28 ottobre 1917.


Ohibò! Cinque anni esatti prima della Marcia su Roma e, scusi se la scoccio con queste notizie storiche, lei è nato proprio nei giorni in cui cominciava la battaglia di Caporetto, che portò alla più grande disfatta del nostro esercito.
I tempi sono sempre difficili, in un modo o nell’altro, ma la natura mi ha fatto nascere ottimista, sicché cosa vuole che le dica.

 

Mi dica qual è il suo rapporto con Sergio Tofano, con Sto, il suo creatore.

È così discreto. Resta sempre nell’ombra. E poi ci ha tanto da fare. Anzi non vorrei che uno che è stato autore, attore per Pirandello, disegnatore, si secchi con me perché lo ricordano solo per il signor Bonaventura. In fondo non sono che un pupazzo.

 


Autocaricatura di Sto con Bonaventura.


Vorrei almeno che mi svelasse quale è il segreto del suo successo che dura ormai da un secolo e, se posso farle una domanda un po' leggera, sapere come riesce a tenere i pantaloni così bianchi, senza mai una macchia.
Sa quanti milioni buttati in tintoria! Poi che io piaccia dopo cent'anni non deve chiederlo a me, ma a chi da tanti anni mi segue. Le direi delle ovvietà: cerco di far bene il mio mestiere, di tenermi a modino, ma son tutte cose che capisce da sé.


Ha ragione e, in più, mi fa sentire un po' stupido cosa che, le confesso, sembra che mi faccia un gran bene. Avrei voluto chiederle di Palazzeschi e di Pirandello, di Bontempelli e di Italo Calvino. Se Marcovaldo è il fratello sfortunato di Bonaventura, ma a questo punto preferisco chiederle la gentilezza di recitarmi una filastrocca.
Vuole che anche lei La filastrocca dei cento animali?

Non osavo chiederlo.

(Bonaventura sospira; poi, schiarendosi la voce)

Le zanzare a Zanzibar 
vanno a zonzo pei bazar 
e le mosche fosche e losche 
fra le frasche stanno fresche. 

Arsi gli orsi dai rimorsi 
bevon l’acqua a sorsi a sorsi. 
Mentre i ghiri ghirigori 
fanno a gara nelle gore, 
ai canguri fan gli auguri 
con le angurie le cangure.


Ecco il merlo con lo smerlo, 
il merluzzo col merletto, 
la testuggine ed il muggine 
ricoperti di lanuggine, 
di fuliggine e di ruggine. 
Tutti i cervi ci hanno i nervi 
e stan curvi e torvi i corvi, 
la cornacchia s’ impennacchia 
e sonnecchia nella nicchia, 
la ranocchia ama la nocchia 
e sgranocchia la pannocchia, 
i cavalli fan cavilli 
ed il ghiozzo ci ha il singhiozzo 
e la carpa è senza scarpa 
e si fa la barba il barbo 
ed i bachi sui sambuchi 
fanno buchi con i ciuchi.


Lunghe brache ci hanno i bruchi 
e le oche fioche e poche 
alle foche fan da cuoche. 
I bisonti son bisunti, 
qui c’è un ragno con la rogna, 
la cicogna sogna e agogna 
di vigogna una carogna, 
l’anatrotto e l’anatrotta 
con la trota trotta trotta. 

Nanerottola è la nottola 
e il pidocchio ch’è sul cocchio 
all’abbacchio strizza l’occhio 
e lo sgombro sgombra l’ombra 
e l’aringa si siringa 
e i mandrilli e i coccodrilli 
fanno trilli e strilli ai grilli, 
(però i grilli sono grulli).


La murena sulla rena 
con la rana fa buriana 
ed a galla resta il gallo, 
duole il callo allo sciacallo 
che barcolla e caracolla, 
la mangusta si disgusta 
e i machachi mangian cachi, 
lo stambecco non ha il becco, 
la giraffa arruffa e arraffa 
poiché vien di riffa in raffa.


Eleganti gli elefanti 
con gli infanti stan da fanti, 
la beccaccia si procaccia 
la focaccia con la caccia, 
la civetta svetta in vetta 
e l’assiuolo solo solo 
fa un a solo nel chiassuolo. 

Per ripicca picchia il picchio, 
la tellina sta in collina, 
sta in Calabria il calabrone 
come a Fano sta il tafano… 
Le zanzare a Zanzibar 
vanno a zonzo pei bazar.


Eh sì. Si potrebbe continuare a lungo, ma ora forse è giunto il momento di farle gli auguri per altri cent’anni come questi

Comprese le guerre, le disgrazie? Non so se ho voglia di vivere altri cent’anni.

Però se lei vive anche noi speriamo, prima o poi, di trovare un milione e che il bene vinca sul male.
Va beh. Per ora mi impegno di arrivare a cento e uno. E tanti auguri a tutti.

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Compie 100 anni il personaggio di Sto
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