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Uomini che corrono coi lupi

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Chiedersi perché i neandertaliani si sono estinti e i primi uomini moderni no, potrebbe non sembrare un tema d'attualità. Invece, non è soltanto intrigante, come tutti i misteri, ma ci svela qualcosa di importante che riguarda il nostro presente e ancor più il nostro futuro. Ce lo spiega l'antropologa americana Pat Shipman, ex-docente alla Penn State University, stimata tra i maggiori esperti mondiali di fossili, nel suo saggio Invasori. Come gli umani e i loro cani hanno portato i Neanderthal all'estinzione (Carrocci editore). Un motivo importante per cui i neandertaliani e il loro destino meritano un'attenzione particolare è che, grazie a loro, abbiamo scoperto di non essere gli unici appartenenti al genere homo mai comparsi sulla Terra. Né, ovviamente, i primi. Al contrario, siamo gli ultimi. Un fatto inquietante, dalle molte implicazioni.

 

Gli uomini di Neanderthal, che hanno vissuto per centinaia di migliaia di anni in un territorio che spazia dalla Spagna alla Russia e al Kazakhstan, dal Galles al Medio Oriente, sino a trentamila anni fa (millennio più millennio meno), avevano un genoma quasi identico al nostro. Le popolazioni moderne, esclusi gli africani (che se esistessero le razze potremmo chiamare l'unica "razza pura"), hanno ereditato da loro dal 2% al 4% di DNA, il che significa, che, anche se non molti, ci sono stati degli incroci di neandertaliani e Sapiens che hanno prodotto discendenti fertili. Questo nostro «alter-ego evoluzionistico per eccellenza» – come lo definisce Telmo Pievani in Homo Sapiens, il catalogo dell'omonima mostra curata insieme a Luigi Luca Cavalli Sforza – dopo essere sopravvissuto e avere prosperato superando difficoltà che possiamo immaginare, dato il lasso di tempo, alla fine comunque si è estinto. E piuttosto rapidamente. La sua lunga avventura, ben più lunga della nostra, e il suo triste destino non possono non allarmarci e non provocarci un brivido d'insicurezza. La questione è stata espressa in modo incisivo, così: «era più forte. Era intelligente come noi. È vissuto attraverso gli orrori dell'era glaciale, in ogni parte dell'Europa e dell'Asia occidentale, per circa 200.000 anni. Perché noi siamo qui e lui è sparito? Per citare Jack Nicholson in L'onore dei Prizzi, “Se era così maledettamente in gamba, com'è che è così irrimediabilmente morto?”» (Pievani, op. cit.). 

 

Pat Shipman.


In questo saggio, Pat Shipman propone un'interpretazione di come potrebbero essere andate le cose che corrobora con molti dati l'opinione attualmente più accreditata, secondo la quale «la combinazione di cambiamento climatico da una parte e arrivo degli uomini moderni con nuove capacità dall'altra [ha] determinato l'estinzione dei neandertaliani». Ma vi aggiunge un elemento nuovo particolarmente interessante, perché tra le nuove capacità tecniche specifiche dei Sapiens, la studiosa ritiene ci sia stata la domesticazione di un canide, le cui caratteristiche peculiari, combinandosi sinergicamente con quelle umane, le potenziarono al punto di rendere il Sapiens una specie pressoché imbattibile nell'ecosistema del tempo. Questa innovazione, che non ha nulla a che vedere con l'inizio dell'allevamento, comparso migliaia di anni dopo con tutt'altre finalità, «potrebbe essere stata la strategia decisiva che rese impossibile la sopravvivenza dei neandertaliani e di molte altre specie predatrici». 

 

Siccome in altri tempi e in altri luoghi (nel vicino Medio Oriente, ad esempio, attorno a centomila anni fa) il Neanderthal e il Sapiens avevano condiviso a lungo lo stesso territorio senza conseguenze negative per nessuno dei due, ragiona la Shipman, la presenza del Sapiens non basta a spiegare la scomparsa dei neandertaliani. D'altra parte, neppure il peggioramento delle condizioni climatiche è una spiegazione sufficiente, giacché il Neanderthal infatti era più forte, robusto e adatto al freddo del Sapiens. Un'ipotesi possibile, conclude, è che i neandertaliani si siano trovati ad affrontare diverse criticità contemporaneamente, come in effetti è confermato dalle informazioni ricavate dai resti fossili.

 

Da qui la domanda della Shipman: in una situazione di difficoltà quale impatto avrebbe potuto avere sull'ecosistema dell'uomo di Neanderthal, e conseguentemente sul suo destino, la presenza congiunta di due predatori del calibro del Sapiens e del lupo-cane, come la studiosa chiama il canide domesticato, che agissero intenzionalmente in modo reciprocamente utile? A questo punto, racconta, tre avvenimenti la misero sulla traccia giusta spingendola a considerare l'uomo moderno come una specie biologica tra le altre. Il primo, fu un ritrovamento che permise di retrodatare la convivenza tra uomini e canidi a 32 mila anni fa. Il secondo, fu la comparsa, nel 2008, nelle acque attorno all'isola caraibica di Little Cayman dove trascorreva le vacanze, del pesce scorpione originario dell'Oceano Pacifico, pericoloso ed estremamente prolifico. Questo la spinse a «studiare le specie invasive e il nascente settore della biologia delle invasioni». Infine, durante una permanenza nel Parco Nazionale di Yellowstone, dove si stava reintroducendo il lupo – dopo i Nativi, la seconda vittima dello sterminio perpetrato dagli agricoltori e allevatori americani –, ebbe modo di osservare e riflettere sugli effetti dell'arrivo di un nuovo predatore in un determinato habitat. La situazione a Yellowstone, pensò, non era molto diversa da quella vissuta dai neandertaliani quando nel loro territorio arrivò Sapiens, il più pericoloso predatore invasivo del pianeta. Ed è noto che bastano poche specie invasive a modificare completamente un ecosistema.

 

La scarsa adattabilità dei neandertaliani, la rigidità della loro dieta e la loro scarsa propensione all'innovazione degli utensili e delle tecniche di caccia, ne hanno determinato una fragilità rivelatasi alla lunga fatale. Tra i 60.000 e i 24.000 anni fa, epoca della penetrazione massiccia di Sapiens in Europa, si registrarono bruschi e rapidi cambiamenti climatici in seguito ai quali si ridussero drasticamente le aree boschive in cui i neandertaliani cacciavano con la tecnica dell'agguato, decisamente poco efficace nei nuovi spazi aperti, dove diventava vincente la caccia di branco. Sapiens, al contrario, era una creatura dalla flessibilità straordinaria, mangiava qualsiasi cosa e cacciava in gruppo. Ma non era il solo. Un altro predatore intelligente, il lupo, viveva nello stesso territorio praticando la caccia di gruppo, e può anche essere che il Sapiens ne abbia appreso la tecnica o l'abbia affinata osservando i lupi cacciare. Le religioni più arcaiche, totemiche, nascono con tutta probabilità proprio dall'attenta osservazione di quegli animali che, per la loro potenza e le peculiari doti fisiche di cui mancavano gli uomini, ne suscitavano il timore e l'ammirazione, nonché la speranza di assumerle mangiandone le carni o adornandosi con le loro pelli e piume. 

 

Ad un certo punto le strade di questi due grandi predatori, uomini e lupi, s'intrecciano e l'incontro, anziché provocare la scomparsa di una delle due specie, le rafforzò entrambe. Probabilmente, come ha immaginato Konrad Lorenz in E l'uomo incontrò il cane (Adelphi), ciò avvenne per caso. Ne è convinta anche Pat Shipman, che però individua anche un nesso fondamentale tra la domesticazione del lupo-canide e il fatto che nei siti abitati da Sapiens si trovino un numero molto alto di fossili di mammut. 

 

Per farla breve – ma merita veramente di leggere nel saggio di Pat Shipman i dettagli di questa lunga avventura e la storia delle ricerche che hanno permesso di ricostruirla –, la collaborazione con il lupo-cane deve avere comportato un incremento considerevole della caccia al mammut e ad altri grossi carnivori. Perché? Innanzitutto, perché i lupi tenevano lontani gli altri predatori dalle carcasse delle prede catturate dai Sapiens, permettendo loro di accumularne la carne e anche di riposarsi tra una caccia e l'altra; in secondo luogo, grazie al loro potente olfatto, fiutavano le tracce delle prede molto meglio dell'uomo; in terzo luogo, correndo molto più velocemente e avendo meno bisogno di riposo, i lupi inseguivano molto più a lungo la preda e, sapendo cacciare in branco, una volta circondatala, le impedivano la fuga in attesa che arrivassero gli uomini a ucciderla. In cambio di tutto questo, l'uomo condivideva con lui il cibo. E probabilmente ci fu anche qualcosa di più, giacché «nessun'altra specie animale è stata trattata in modo rituale così come i cani», precisa Shipman, infatti i fossili dei taxa dei lupi-cani «non evidenziano mai segni di lavorazione o preparazione alimentare» e dal 14.000 a.C. ci sono addirittura evidenze di sepoltura rituale di cani. Tra uomo e cane è nata un'empatia speciale, che potrebbe essersi creata attraverso lo sguardo: la sclera bianca dei nostri occhi e di quelli del cane ci permette di comunicare con lo sguardo, senza parole né versi, come sa chiunque abbia avuto la fortuna di vivere insieme a un cane. Questa capacità è stata fondamentale per cacciare insieme e per creare un vincolo di lealtà reciproca, senza la quale è impossibile instaurare alcuna intesa con un cane. 

 

Insomma, la nostra carta vincente – non per sterminare i neandertaliani ma per sopravvivere – è stata l'invenzione della cooperazione interspecifica. E l'alleanza ha funzionato talmente bene, con reciproco vantaggio, che siamo ancora amici e col passare del tempo, come capita tra chi vive a lungo insieme, alla fine un po' ci assomigliamo. Lo si vede bene nella bella immagine della copertina di Invasori sulla cui parte superiore è riportato lo sguardo di un uomo, bianco, adulto, dagli occhi chiari intelligenti, leggermente ironici; è un essere pacifico, ma in qualche modo si capisce – ma forse solo perché lo sappiamo – che può essere molto pericoloso. Sulla parte inferiore, invece, c'è lo sguardo di un cane, sembra un Husky, con le stesse caratteristiche di quello dell'uomo ma senza traccia d'ironia. Insieme, questi due eccellenti cacciatori hanno dato il colpo di grazia al nostro antichissimo cugino. 

 

La storia di questa eccezionale collaborazione e delle conseguenze a catena che verosimilmente ha provocato, è certamente affascinante, ma l'auspicio di Pat Shipman, ciò che soprattutto l'ha spinta a scrivere il suo saggio, è che diventiamo sempre più consapevoli di essere, biologicamente, predatori invasivi. Se non riusciremo a gestire le risorse del pianeta senza avidità, con intelligenza e responsabilità verso tutte le altre forme viventi, ne faremo terra bruciata e poi sarà il nostro turno di declinare fino a estinguerci, in un habitat non più in grado di sostenerci. Siamo noi gli invasori che danno titolo al libro. «Penso – conclude Shipman – che sia ora che riconosciamo quello che siamo: invasori. Se un giorno potremo conoscere il nemico della Terra, e quel nemico non siamo noi, sarà una grande vittoria. Ma prima occorre un grande cambiamento nel nostro comportamento». 

Dimostreremo di nuovo la flessibilità e la rapidità di reazione che fin qui ci hanno permesso di sopravvivere e prosperare, cambiando decisamente la nostra attitudine verso il mondo? In fondo, la visione biblica del rapporto tra uomo e mondo come di un giardiniere che cura e preserva il giardino, piante e animali compresi, non era male!

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Luca Vittone. Di cosa è fatta la memoria?

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Di che cosa è fatta la memoria? Me lo chiedo dopo aver passeggiato per le sale del PAC di Milano, attraverso le opere dell’importante retrospettiva Io, Luca Vitone, visibile presso il museo milanese fino al 3 dicembre.

 

Le suggestioni germogliano osservando i lavori dell’artista genovese, oggi residente a Berlino, dove gli elementi del reale vengono scomposti e riassemblati facendo riaffiorare dal fondo del secchio significati che giacevano sepolti sotto il peso dell’abitudine interpretativa. Partendo dal più insignificante granello di polvere per arrivare ai confini geografici dell’Europa, tutto viene smontato e rimesso in discussione. Una condizione problematica in cui Vitone conduce intenzionalmente lo spettatore ma senza mai abbandonarlo. Si deve essere disposti allo spaesamento, per addentrarsi nel suo lavoro, ma è un patto di cui l’artista comprende l’onere ed è disposto a ripagare con generosità. Si deve fare un viaggio fuori dalle rotte tracciate, ma lo si fa insieme a lui, con le coordinate che dissemina qua e là, in una cartografia imprevedibile ma in grado di rivelarsi insospettabilmente accurata.

 

Wide City, 1998 Modello in legno della torre Velasca, 180 fotografie a colori 10 x 15 cm, dimensioni variabili, Collezione Museo del Novecento, Milano. Veduta della mostra presso Opensace, Milano, 1998. Foto Giulio Buono

 

La mostra antologica si articola tra gli spazi del PAC, i Chiostri di Sant’Eustorgio, il Museo del Novecento e presenta opere comprese in un arco di produzione di trent’anni: tantissimi i lavori, così come i temi in gioco e le possibilità interpretative. La prima tappa è il Museo del Novecento, che espone per la prima volta Wide City, opera acquisita e mai installata prima. Si tratta di un complesso progetto realizzato nel 1998, a cui fece seguito un libro, che analizza la visione della città attraverso il filtro delle minoranze straniere che la abitano. Il lavoro è composto da numerosi materiali che documentano l’attività di reperimento delle informazioni e centottanta foto di Milano scattate dall’artista e disposte attorno al modellino della Torre Velasca, dalla quale gli spettatori possono prelevare una mappa della città. Si tratta però di una carta che indica luoghi inerenti alle comunità dei migranti e non, come può apparire in prima istanza, a mete turistiche. Anche le foto ritraggono luoghi di Milano legati alle comunità straniere e condensano alcuni temi fondamentali della produzione dell’artista, tra cui l’interesse verso le dinamiche interculturali e gli spazi non omologati, l’analisi della città come processo, l’interrogazione in merito alla topografia dei luoghi e alle culture che vi sono connesse. Un progetto che ribalta lo sguardo sui luoghi urbani, sostituendo la prospettiva indigena con quella allogena di chi approda da un altrove e, attraverso un lento processo di familiarizzazione, si appropria di luoghi dapprima estranei, ridefinendoli.

 

Futuro ritorno, 2008. CD audio 22 tracce. Courtesy dell’artista e Galleria Pinksummer, Genova / Galerie Nagel Draxler, Berlin, Köln /Galerie Michel Rein, Paris, Bruxelles.

 

All’installazione fa eco il complesso museale dei Chiostri di Sant’Eustorgio con il Museo Diocesano, dove trovano ospitalità opere più piccole, selezionate da Giovanni Iovane, inserite in dialogo con gli oggetti della collezione permanente: nella selezione sono visibili Futuro Ritorno (2008), installazione sonora dove sono protagoniste le voci di ventidue cittadini stranieri, Le cinque pietre di Davide (2017), Natura morta con Punt & Mes (2012), foto scattata nella casa romana di Giorgio De Chirico e Nel nome del Padre (2001), l’omaggio a Lucio Fontana realizzato insieme a Cesare Viel, un lungo elenco di padri putativi che spazia da Leonardo da Vinci a Julio Cortazar. Infine, gli otto ambienti del PAC, che completano idealmente il viaggio nei trent’anni di produzione, proponendo due opere inedite e una serie di lavori ripensati specificamente per gli spazi del museo. Una mostra che accoglie alcuni tra i progetti più significativi della carriera di Vitone, accolti nel padiglione che, per l’occasione, viene trasformato in un contenitore da manipolare, una sorta di scatola scenica.

 

Natura morta con Punt&Mes, 2012. Fotografia a colori in cornice di legno d’orato 55 x 65 cm. Courtesy dell’artista e Galleria Pinksummer, Genova / Galerie Nagel Draxler, Berlin, Köln / Galerie Michel Rein, Paris, Bruxelles.

 

È da questa immagine della scatola che si può partire per addentrarsi in una ricerca che, non a caso, nasce dalla folgorazione per le “shadow boxes” di Joseph Cornell (1903-1972), figura di culto nel panorama dell’arte americana del Novecento. I celebri assemblaggi di Cornell, costruiti accostando oggetti personali, memorabilia, cianfrusaglie, giocattoli, sono delle “scatole della memoria” di matrice surrealista, influenzate dell’esperienza duchampiana ma autonome nell’approdo finale. Le “boxes” mischiano elementi simbolici e autobiografia per giungere a una forma di racconto antinarrativo, e il risultato finale è un meccanismo di grande forza evocativa e indiscutibile squisitezza formale. Sono opere dallo statuto ambiguo, carattere ereditario presente nel lavoro di Vitone, artista affascinato dall’idea del controllo degli spazi e alle prese con l’analisi dei processi di costruzione della memoria, una memoria in cui il confine tra reale e immaginario, pubblico e privato è labile.

Nel caso del PAC, l’idea di traslare il concetto di scatola alle mura del museo fa sì che l’edificio si trasformi da luogo a “non-luogo”, come dichiarato dallo stesso artista. Tutto il perimetro dello spazio espositivo è percorso dalle misure dello stesso, segnate a terra e ben visibili dalla balaustra del primo piano del museo: si tratta di Padiglione d’Arte Contemporanea (2017), opera che riattualizza il lavoro pensato per la Galleria Pinta di Genova, dove Vitone realizzò una planimetria dell’area in scala 1 : 1, ricoprendo di carta il pavimento. Il risultato di quella semplice modifica fu di tramutare la galleria in un ambiente concettuale, per poi contraddirne lo stato e riportarlo alla propria realtà fenomenica grazie alle impronte lasciate sulla carta dai visitatori della mostra. Un modo anche per quantificare lo spazio, darne tangibilità fisica e controllarlo, rivelando le logiche economiche e di potere sottese ai luoghi deputati alla diffusione della cultura.

 

In occasione dell’antologica, i muri del PAC sono stati ridipinti utilizzando una mistura di vernice e polvere raccolta durante i mesi di preparazione della mostra, recuperando ciò che testimonia la presenza degli spettatori e utilizzandolo come pigmento, visibile nelle tracce di sporco sulle pareti. Come racconta il curatore Diego Sileo citando Freud “La sporcizia non è altro che qualcosa che si trova nel posto sbagliato” ed è sia un frammento concreto di un evento accaduto, sia una rivelazione. Si tratta di un processo ripetuto anche nell’opera Stanze (Räume), che insieme compongono Imperium, quattro tele bianche dipinte con una miscela di acqua e polvere, raccolta in alcuni precisi luoghi di Berlino legati al potere, ovvero la sede della Borsa, l’Archivio di Stato, il Pergamonmuseum e la Banca Centrale. Una poetica dello scarto che pone l’attenzione su ciò che corrompe, intossica, danneggia – la polvere, appunto, o l’inquinamento atmosferico – ma che ha una sua significanza in qualità di traccia della memoria e che può perciò, attraverso una nobilitazione, essere celebrato e diventare un elemento di riflessione sul mezzo stesso della pittura. Un fattore critico che si innesta nella ricerca sul tema dei monocromi e dell’autoritratto, da tempo perseguita da Vitone, tra cui ricordiamo Io, Roma (2005) e Le ceneri di Milano (2007).

Subito dopo le tele attende il visitatore una delle opere più suggestive dell’intero percorso: si tratta di una sala chiusa in cui si diffonde “l’odore del potere”, un’essenza sintetizzata dall’unica Maître Parfumeur italiana: Maria Candida Gentile. Entrando nella sala vuota si percepisce, via via con maggiore intensità, una fragranza difficilmente descrivibile, sottilmente metallica e respingente, pensata per tradurre olfattivamente quelle che sono le caratteristiche proprie del potere, trasmettendo una sensazione di oppressione e di sostanziale disagio agli spettatori. Un’operazione che rievoca la “scultura acromatica monolfattiva su tre note” presentata alla Biennale del 2013 e dedicata alla terribile vicenda dell’Eternit di Casale Monferrato, quando l’inalazione delle polveri mortali da parte dei lavoratori ignari causò una epidemia di asbestosi. In quell’occasione l’odore dell’Eternit fu immaginato dall’artista e dal “naso” Maria Candida Gentile utilizzando tre differenti tipologie di rabarbaro, scegliendo di costruire una scultura senza corpo, un ossimoro vivente. Un lavoro di grande efficacia e capace di arrivare allo spettatore pur riducendo quasi al grado zero gli elementi della messa in scena.

 

Imperium 2014. Fragranza creata ispirandosi all’idea di potere 2 macchine erogatrici. Courtesy dell’artista e Galleria Pinksummer, Genova / Galerie Nagel Draxler, Berlin, Köln / Galerie Michel Rein, Paris, Bruxelles.

 

Questo dono d’immediatezza è rintracciabile in tutti i lavori di Vitone, come se i molteplici livelli di lettura delle opere convivessero in una felice sintesi, un equilibrio raro tra profondità e leggerezza. L’impressione di trovarsi di fronte a un lavoro prettamente concettuale è bilanciata così da un carattere d’immanenza delle opere. L’opera di Vitone riesce a evocare sentimenti ed esperienze in maniera subitanea: un suono, un odore, la qualità tattile di un grumo di polvere, un trenino elettrico, le luci delle feste di paese, la sabbia di un lontano viaggio compongono un alfabeto fulminante che può appartenere al contempo al lessico familiare dell’artista e al vissuto personale di ogni spettatore.

Questa contiguità tra spazio intimo e spazio collettivo connota una visione della storia che lo avvicina ai grandi narratori dell’Italia del dopoguerra. Penso specificamente a Luigi Ghirri, che è stato anche l’autore con cui ha formato la coppia ideale del concetto veduta/luogo per Vice Versa, il progetto di Bartolomeo Pietromarchi alla Biennale di Venezia del 2013, ma potremmo citare la coppia Zavattini/Strand, Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna, Pier Paolo Pasolini, Alberto Arbasino, i padri dell’Arte Povera con in primis Kounellis, Alighiero Boetti, poi Fabro e Mertz. Un filo rosso che ovviamente non si interrompe e arriva fino ad oggi, attraverso il lavoro di artisti, per citarne alcuni, quali Silvia Camporesi, Flavio Favelli, Francesco Arena e che potrebbe comprendere, allargando lo sguardo la musica, il cinema e il teatro (Rosi, Winspeare, Martone, alcune cose di Delbono etc). Frammenti di quel “Grande Romanzo Italiano” che forse non è composto da pagine ma da tasselli di varia forma e natura, che si susseguono a formare un unico mosaico la cui immagine completa è visibile solo dalla giusta distanza.

 

L’irruzione della dimensione privata nel racconto collettivo trasforma la percezione della storia dell’Italia e lo statuto della realtà. In questo coinvolgimento in prima persona risiede anche il senso del titolo della mostra, che può sembrare altisonante e autocelebrativo ma in realtà dichiara il ruolo centrale della soggettività dell’artista rispetto all’universo creativo a cui dà vita. In questo varco si apre lo spazio per rimettere in discussione le narrazioni consolidate ed è più facile cogliere il senso dell’ironia che percorre il lavoro di Vitone, osservatore dei fatti del paese e irriverente decostruttore della storiografia ufficiale. Appare allora chiara l’intenzione di Souvenir dItalie (Fondamenti della Seconda Repubblica, 2010), lavoro che apre il percorso espositivo del PAC e riporta i nomi degli iscritti alla loggia massonica Propaganda 2, presenti nella celebre lista recuperata il 17 marzo 1981 in una fabbrica di proprietà del “Venerabile” Licio Gelli.

 

Luca Vitone, Souvenir d'Italie (Lapide), 2010 Incisione su marmo bianco di Carrara 106 x 106 x 3 cm. Collection Michel Rein, Paris. Foto Florian Kleinefenn

 

Una lista ripresa e trasformata in quella che potremmo giocosamente definire “effigrafe”, una epigrafe effimera stampata su teli di carta appesi al muro; sulla parete di fronte alla lista, una lastra di marmo di Carrara riporta inciso il simbolo della P2, l’occhio divino nel triangolo irraggiante, che scruta la sala. Un’opera dalla valenza anche tragica, che racconta di una vicenda oscura che ha segnato la storia contemporanea e che collide con un immaginario dell’Italia cristallizzato nel tempo, quella retorica del “bel Paese” venduta in ogni occasione ufficiale, una cartolina folkloristica fatta di buon cibo, artigianalità, borghi contadini e simpatia un po’ cialtrona. Souvenir dItalie è una sorta di anti-monumento al valore civile e una critica aperta a un sistema politico che si è fatto soggiogare dalla volontà di soggetti feroci – parabola dell’homo homini lupus–, attraverso concrezioni di potere che hanno soffocato lo stato democratico facendo leva su interessi privati. Una ferita mai rimarginata e la cui infezione pulsa ancora sotto la sottile pelle contemporanea. Come non ripensare allora a Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli (1977), con Alberto Sordi schiacciato da una mediocrità tutta italica, o ai versi caustici di Pasolini?

 

Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico

ma nazione vivente, ma nazione europea:

e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,

governanti impiegati di agrari, prefetti codini,

avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,

funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,

una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!

Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci

pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,

tra case coloniali scrostate ormai come chiese.

Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,

proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.

E solo perché sei cattolica, non puoi pensare

che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.

Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

 

Alla mia nazione, Pier Paolo Pasolini, 1961

 

Nulla da dire solo da essere, 2004. Particolare dell’installazione 21 bandiere in tessuto di lana, tiranti in acciaio 180 x 130 cm ciascuna. Collezione Tullio Leggeri, Bergamo.

 

L’ironia che Vitone dichiara sin dall’apertura di partita non si trasforma mai in un alibi per sottrarsi alla responsabilità di assumere un punto di vista e rivendicarlo. L’artista ha ben chiari i valori che ritiene fondanti di una società ideale e li riafferma senza remore, attraverso ad esempio l’opera Nulla da dire solo da essere (2004), composta da bandiere rosse e nere – i colori dell’internazionale anarchica – sulle quali è ricamata la ruota, simbolo dei popoli Rom e Sinti. Non è un orpello il trenino elettrico posto al centro della sala, che rimanda al discorso sulla memoria intima, sul tempo e, non ultimo, racconta di una ciclicità forzata, di una storia che si ripete uguale a sé stessa, inesorabile e talvolta spietata. Sulle bandiere sono riportate le frasi di Piero Manzoni e di altri intellettuali, tra cui lo stesso artista. Anche in questo caso Vitone rifiuta lo status quo e demolisce l’eloquenza del vessillo per trasformarlo in un simbolo di marginalità, evidenziando, attraverso un allestimento tutt’altro che regale, la condizione di estromissione a cui sono sottoposte le popolazioni nomadi e, per esteso, tutti coloro che non si addomesticano alle leggi del potere e dello stato. Sono bandiere che non rappresentano più gli stati nazionali ma una condizione umana che prescinde dai luoghi. Emerge con evidenza quell’ammirazione per il nomadismo fisico e psichico che l’artista individua come condizione a cui tendere, e che si ritrova con toni più delicati nell’opera Ultimo viaggio (2005), dove si testimonia con un diorama a grandezza reale il tragitto compiuto nel 1977 dall’artista insieme alla propria famiglia, un on the road da Genova al deserto dell’Iran. Una meta, questa, che per lungo tempo ha rappresentato uno dei luoghi mitici di quel “Grand Tour hippie” che coinvolse un’intera generazione e che è stata, insieme al Marocco e all’India, una delle tappe obbligate nel romanzo di formazione di ogni giovane, fino all’ascesa di Khomeini e alla fine di quel sogno di libertà ubriacante che percorse il ventennio dei ‘60-’70.

 

Ultimo Viaggio, 2005. Automobile, sabbia, 8 oggetti, mensola, 5 fotografie a colori 50 x 77 cm ciascuna, 1 fotografia in bianco e nero 50 x 77 cm. Dimensioni ambientali, Collezione Nomas Foundation, Roma.

 

La permanenza e la scomparsa della memoria tornano anche nell’opera Corteggiamento (2003-2004), composta da nove sculture musicali intitolate alle Muse. Vitone recupera strumenti musicali della tradizione e li decora con le luci di una festa di paese, poggiandoli su mobili ormai desueti, sonorizzando l’installazione con musiche del repertorio popolare. Attraverso una ricognizione etnografica in forma poetica, l’artista richiama l’attenzione su un patrimonio culturale che si dissolve e che, ancora una volta, lega assieme con un doppio filo le nostre storie private, i ricordi familiari, il passato e il presente della storia a cui, consapevolmente o no, tutti noi partecipiamo. Ad essa fa da controcanto il video Trallallero nei giardini di Villa Reale (2017), dove viene ripresa la performance di un gruppo di canto polifonico genovese, e Sonorizzare il luogo. Europa (1989-1993), costituita da quindici stazioni sonore che rappresentano altrettante regioni europee abitate da minoranze etniche o culturali. Passeggiando nel corridoio si è immersi in una cacofonia di suoni che diventano distinguibili solo avvicinandosi alle singole stazioni, metafora quanto mai attuale della confusione in cui versa l’Europa, oggi ancor più di quando l’opera fu concepita.

 

Chiude idealmente il percorso espositivo Vuole Canti (2009), serie di diciotto fotografie che ritraggono differenti specie di alberi, i cui nomi sono anagrammi di altrettanti artisti. Il titolo della serie è infatti un anagramma di Luca Vitone, che ritorna qui sul tema dell’anti-monumento. Nella galleria di immagini l’ironia del gioco di parole occulta l’intenzione di celebrare con affetto una generazione di artisti che forse non riceve la cura e l’attenzione che ogni ognuno di essi meriterebbe. Per farlo, Vitone sceglie gli alberi, presenze pure, senza valenza alcuna che non sia la propria integrità naturale, e li associa ai nomi degli artisti, monumentalizzando entrambi. Un processo distante dalla pomposa magniloquenza delle cerimonie pubbliche, che ne sovverte il senso e gli restituisce dignità. Si tratta di una celebrazione intima e al tempo stesso collettiva, fuori dalla storia – nell’eterno ritorno del tempo circolare della natura – e dentro la storia – nella relazione che lega un gruppo di persone e le àncora a un preciso momento dell’esistenza, attraverso un tempo che è prima di tutto esperienza di vita interiore condivisa.

Ecco allora, affacciarsi un’ipotesi per una possibile risposta alla domanda iniziale: la memoria, ovvero quell’unico tempo umanamente conoscibile, un presente appena differito che si dilata oltre i nostri confini, è un impasto sporco che nasce dalla contaminazione tra il sé e l’altro, unica forma possibile dello stare-nel-mondo. Qualcosa che dobbiamo continuare a interrogare, pur sapendo che il tempo dei monumenti e delle epigrafi è tramontato e ciò che ci parla, oggi, ha una forma senza corpo, una voce senza fiato, uno spazio senza luogo e tende a riaffermare come orizzonte desiderabile un presente leggero, immemore, eccitato dall’accadimento continuo.

 

Io, Luca Vittone, PAC (Milano), dal 13 ottobre al 3 dicembre 2017. La mostra si estende al Museo del Novecento e ai Chiostri di Sant'Eustorgio.

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Borg, McEnroe e la dialettica del controllo

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Negli anni Settanta Björn Borg era il Re del Mondo. In quei pomeriggi infiniti in bianco e nero, sul palinsesto Rai, le sue vittorie a ripetizione a Wimbledon (all’epoca l’unico grande torneo di tennis che venisse trasmesso) – un inginocchiamento sull’erba dopo l’altro, immutabile e imperturbabile come una statua in movimento – si mescolavano, per me, alla serie televisiva Attenti a quei due (The Persuaders!), con Roger Moore e Tony Curtis. Indimenticabile in particolare la sigla, con la musica di John Barry che scandiva le biografie parallele dei due protagonisti, il Lord britannico (tutto Oxford, Ascot e bon ton) e il Parvenu americano (tutto Bronx, palazzine e petrodollari), destinate a ricongiungersi in età adulta. Il Borg ’79 era invece Principio Unico, Primo Motore Immobile, l’Ente Parmenideo. Ma era come se il suo inconscio già covasse, come nel Simposio platonico, la penìa della sua Metà Divisa, del Doppio Opposto destinato a metafisicamente completarlo.  

 

Borg McEnroe, del regista danese Janus Metz Pedersen, comincia nel più ovvio dei modi, proprio come la sigla di Attenti a quei due: col montaggio alternato delle biografie a specchio dei due gemelli-rivali, dei due Principi Opposti destinati a congiungersi nell’Evento Perfetto. Sin da bambini, John Patrick e Björn si programmano all’eccellenza (per questo il film si apre con una citazione banalotta – il tennis come metafora della vita – dal più sopravvalutato libro sul tennis, Open di Andre Agassi: che sull’asfissiante coartazione tennistica della propria infanzia ha costruito un immaginario da leggenda nera – palinsesto della chiave in cui verrà narrata la vita di Borg, tecnicamente in effetti suo progenitore diretto). E dunque John Patrick, di famiglia borghese (il padre, agente pubblicitario, lo seguirà sempre, nella players’ lounge, inconfondibile col suo snobissimo cappello bianco da pescatore), è il primo della classe, ma la madre gli spiega con pazienza che lì fuori, ad aspettarlo, troverà ben più di trenta competitori agguerriti. Mentre Björn, di famiglia proletaria, ci dà dentro con una fisicità e un’aggressività ben eccedenti le regole non scritte del gentleman’s sport: i gestori del circolo, inorriditi, spiegano con pazienza alla madre che il tennis non è come gli altri sport, non si addice a tutte le estrazioni sociali: non bisogna solo vincere, ma anche farlo con un certo stile. Tutti e due votati all’invincibilità: John Patrick che impara dai ritmi forsennati della pallina nel flipper, Björn che palleggia all’infinito contro il muro del garage.

 

Quando lo adocchia Lennart Bergelin (interpretato da Stellan Skarsgård), capitano della squadra svedese di Coppa Davis (e a suo tempo allievo del mitico Barone Von Cramm, che gli ha fatto raggiungere – primo svedese di sempre – per tre volte i quarti di finale a Wimbledon), e gli chiede cosa davvero voglia dal tennis, il quattordicenne Björn (interpretato da Leo Borg, suo figlio) risponde cogli occhi bassi, «diventare il migliore» – «il migliore di Svezia?» – allorché lui alza gli occhi e precisa, pacato quanto già inossidabile, «il migliore del mondo».

Ma il timore di una confezione da fiction viene fugato dalla prima scena in cui Borg ci viene mostrato allenarsi su un campo in terra battuta. Gli schiocchi della pallina sulla sua racchetta di legno minuscola (per gli standard odierni) esplodono secchissimi nella colonna sonora (sarà proprio questo, lungo il film, il connotato d’ambiente più efficace – che dà al film la sua aura vintage, secondo un format già sperimentato da Rush di Ron Howard, sull’altra coppia di Opposti anni Settanta, James Hunt e Niki Lauda arci-rivali in Formula Uno nel ’75-77), ma qualcosa appare sbagliato: il giovane biondo si muove fulmineo da una parte all’altra del campo, ribatte colpo su colpo, ma quelli che udiamo sono solo gli schiocchi della sua racchetta, mai quelli dello sparring che s’immagina dall’altra parte della rete. Stacco, controcampo: e vediamo che Björn sta duellando, in effetti, con una macchina lanciapalle, silenziosa quanto implacabile.

 

È questa la chiave del film: che in effetti non racconta Due, come promette il titolo, bensì Uno. McEnroe è solo il Rivale, la Minaccia all’orizzonte, l’Ospite alieno che incrina la geometria delle sue certezze; solo di Borg ci viene offerto l’insight. E la sua personalità è ritratta, appunto, come quella di Colui Che Divenne Una Macchina. (In una scena particolarmente grottesca del grotteschissimo The Kingdom di Lars Von Trier, c’è uno dei medici del mega-ospedale danese – fatiscente e impuro come un castello gotico, e che come tale finirà infestato da spettri e parti demoniaci – che è in realtà cittadino svedese. Esasperato dall’inefficienza e dall’approssimazione “malata” vigenti nel «Regno», quando non ne può davvero più, il medico esce sulla terrazza: al di là del braccio di mare dell’Öresund si vede in lontananza, a una decina di chilometri, la costa svedese. E quella invoca per sfogarsi, l’esule, gridando a squarciagola i nomi-feticcio di un’identità, di contro, improntata alla più netta efficienza, a una vita ordinata e sempre super-affidabile: Saab! Volvo! Ikea! Bjööööörn Booooorg!!!)   

Spietato il dressage cui Björn viene sottoposto da Bergelin: memore delle impasses psicologiche che a Wimbledon lo hanno fatto sempre incartare sul più bello, questi ha infatti deciso di scientificamente estirpare, dal discepolo ossessionato dalla rivalsa di classe, ogni traccia di emotività. Quindicenne, più giovane tennista di sempre, lo convoca per il match di Davis contro la Nuova Zelanda. Lui in allenamento va fuori di testa come al solito; la notte prima dell’incontro Bergelin quella testa gliela stringe fra le mani fin quasi a schiacciarla: se l’indomani Björn oserà fare qualcosa del genere, di fronte a Parun numero Venti del mondo, con lui avrà chiuso per sempre. Il giorno dopo Björn non fa una piega e la partita la vince. Dell’enfant prodige parla tutto il mondo. È nata la Macchina: Iceman, Iceborg, The Bear («Björn» vuol dire davvero «Orso»), così lo chiamano i giornalisti.

 

 

Quell’ossimoro vivente d’impassibilità glaciale sul campo e look da sunshine of love fa impazzire tutti, tutte: quando mette per la prima volta piede all’All England Lawn Tennis and Croquet Club, nel ’73, le teenager inglesi impazziscono come, in precedenza, solo per i Beatles (quell’anno impazza Jesus Christ Superstar, e lui sembra uscito direttamente da lì). Non s’era mai pensato che potesse rendersi necessario un servizio d’ordine, a un torneo di tennis: ma con l’avvento di Borg la disciplina esce dal sussiego classista d’un tempo ed entra nello show-biz di massa (si dirà che con lui è arrivato, nello sport, anche il sex-appeal). Anche se il primo titolo della serie lo conquisterà solo tre anni dopo, questa battaglia è già vinta.  

Alla vigilia di Wimbledon 1980, i giornalisti lo assediano. Gli riportano un commento di McEnroe: «Borg finora è stato invincibile, come una macchina; ma la sua macchina prima o poi dovrà incepparsi». Al che lui (un bravissimo Sverrir Gudnason), di nuovo cogli occhi bassi, risponde con un filo di voce: «Io sono come chiunque altro. Non sono una macchina». L’epica dello sport vive di dualismi, si sa; e oggi il tennis è di nuovo improntato a un dualismo archetipico. A fronte del dionisiaco Nadal, il cui logo per non sbagliarsi allude al mito del Minotauro, Roger Federer inevitabilmente incarna il principio Apollineo. E lui non a caso – sebbene tecnicamente fra i due possa ricordare, alla lontana, più McEnroe di Borg – quando ha visto il film ha detto di essersi immedesimato nel personaggio dello svedese. Anche Roger, infatti, è riuscito a diventare la Statua di Se Stesso solo quando ha represso un super-moccioso pieno di sé, che fracassava racchette a ogni partita. 

 

Durante i primi turni del torneo in cui finalmente faranno i conti, Wimbledon 1980 appunto, McEnroe e Borg scrutano in tivù le partite dell’uno e dell’altro, alla ricerca dei rispettivi punti deboli. L’amicone mondano di entrambi, Vitas Gerulaitis (Robert Emms), fa notare a John che Björn solo in superficie è l’ipostasi della tranquillità: «guardalo bene, ogni anno va nello stesso albergo, usa la stessa auto, in campo evita di calpestare le righe: sotto quella facciata gelida è un vulcano di emotività». (La carriera di Federer dice lo stesso.) In televisione invece Björn insieme alla promessa sposa, la tennista rumena Mariana Simionescu (Tuva Novotny), vede McEnroe dare in escandescenze a ogni palla contesa, prendersela coi tifosi, sputare, urlare all’arbitro (con quello destinato a divenire il suo brand, sino a dare il titolo alla sua autobiografia) «You cannot be serious!» (la faccia monotonamente stravolta di Shia LaBeouf è il punto debole del film). Dice Mariana che così lo yankee finirà col perdere la concentrazione, ma Björn le fa osservare che è vero il contrario. Come la rockstar punk che è, John in questo modo si dà la carica a ogni scambio: chi s’innervosisce è il suo avversario.

 

Il film s’incentra, com’è drammaturgicamente ovvio, sull’epica finale di quel torneo: con ogni probabilità, la più bella partita di sempre. È il 5 luglio del 1980. All’inizio SuperMac gioca come nessuno mai, e stravince il primo set 6-1. Poi Borg rimonta, va due set a uno, giunge sino a procurarsi due match-point nel quarto. Sembra finita, ma McEnroe lo trascina al tie-break. E qui va in scena l’epos, appunto: quei venti minuti, stavolta senza discussioni, sono i venti minuti più belli della storia del tennis. Borg si procura altre cinque volte l’occasione di vincere per la quinta volta consecutiva il torneo (record tuttora in suo possesso, ex æquo con Federer che lo ha vinto però altre tre volte), ma ogni volta McEnroe riesce a impedirglielo, e si procura a sua volta sei set-point. Alla fine la spunta lui: 18 a 16 è l’incredibile punteggio del tie-break, si va al quinto set. Prevarrà Borg, 8-6. S’inginocchierà sull’erba una quinta volta, una quinta volta alzerà al cielo la “coppa dell’ananas”; ma Mac è riuscito a controllarsi per tutta la partita, il pubblico alla fine ha preso la sua parte, ed entrambi sanno che l’anno successivo Borg non avrà scampo. Battuto da McEnroe prima a Wimbledon 1981, e poi agli U.S. Open a New York per il secondo anno di seguito, deciderà di mollare tutto a soli ventisei anni (meglio stendere un velo sui due o tre infausti tentativi di rientro, causati dalle difficoltà economiche che lo spingeranno a un certo punto, 1989, sino a un tentativo di suicidio). Quel ritiro precoce resta uno dei misteri più profondi della storia dello sport, ed è la domanda cui il film cerca di rispondere.

 

Racconta Loredana Berté (l’ex di un altro arci-rivale, Adriano Panatta, con la quale Borg sarà sposato da quel problematico ’89 al ’92) che alle partite di Borg, a New York, ci andava sempre col comune amico Andy Warhol– anche se dopo uno o due set lui in genere si scocciava e se ne andava –: che Björn aveva già avuto modo di conoscere allo Studio 54, dove lo portava il solito Gerulaitis. I due potevano ben rispecchiarsi l’uno nell’altro: tanti anni prima Andy non aveva forse detto, in una famosa intervista, di «voler essere una macchina»? E in effetti Borg McEnroe, di là dall’epica un po’ ovvia di Ice vs Fire, si lascia leggere nella chiave di quella che il filosofo dell’arte Stefano Velotti ha definito di recente, in un saggio omonimo pubblicato da Castelvecchi, Dialettica del controllo. Borg e McEnroe compongono davvero un chiasmo: come se l’uno non potesse fare a meno, per giocare, dell’automazione coatta che, in breve tempo, ha finito per soffocarlo; mentre l’altro si nutriva dell’adrenalina da acting out calibanico che, alla lunga, non poteva continuare a produrre artificialmente (Mac non smetterà così presto, ma dopo l’84 del suo apogeo non sarà mai più lo stesso; anche lui a ventisei anni, imboccherà precocemente la via del tramonto). I due, insieme, dimostrano l’assunto di base di Velotti: la segreta attrazione «tra il più stretto controllo e la più allarmante perdita di controllo. Tale coincidenza non è una cooperazione tra opposti, ma tra due poli che si sono scissi»: uno «sdoppiamento di istanze psichiche, sia a livello individuale che sociale». 

 

Le arti di oggi – e personalmente non ho dubbi che il tennis vada considerato fra di esse – da tempo hanno a messo a tema, del resto, proprio questa dialettica del controllo. Il Novecento – dalle prime avanguardie dell’astrazione alle seconde dell’informel– si è sforzato in tutti i modi di produrre un’estetica del disordine, della perdita di controllo, ma per farlo ha dovuto pianificarsi mediante poetiche che parrebbero negare alla radice la propria stessa attitudine predittiva e prescrittiva. Viceversa il nostro tempo ha messo in agenda precisamente il tema del controllo sociale e di quella che Gilles Deleuze, estremizzando ben noti temi di Michel Foucault e suggestioni di William Burroughs, ha per primo definito (in diversi interventi attorno al 1990) «società del controllo». E la recente mostra curata al MAXXI da Hou Hanrou e Luigia Lonardelli, Please come back. Il mondo come prigione (9 febbraio-21 maggio 2017, catalogo Mousse; dal 28 novembre all’8 aprile 2018 la mostra verrà ospitata dall’IVAM di Valencia), ha mostrato con efficacia come le istanze di liberazione e di evasione, dal nuovo Panottico Tecnologico dei dispositivi digitali e telematici, non possano passare che dall’illustrazione, e magari dalla riproduzione parossistica, di quegli stessi protocolli di controllo. È quella «surveillance art» di cui Simone Ciglia, in catalogo, offre un’ampia panoramica (facendola iniziare proprio da certe pratiche warholiane e annoverando poi, fra i suoi ulteriori precursori, Bruce Nauman e Sophie Calle): da Harun Farocki alle inquietantissime Nächte di Thomas Ruff, dai droni di Trevor Paglen alle telecamere di Michael Klier (ma è il caso di ricordare, altresì, film come Redacted di Brian De Palma o Caché di Michael Haneke), non si contano gli artisti che, da un paio di decenni ormai, lavorano con crescente spregiudicatezza sulle immagini della sempre più estesa e capillare rete di videosorveglianza (mentre i vagiti ancora troppo incerti della net art non paiono ancora mettere a tema con efficacia l’attitudine auto-panottica che i grandi network di Internet 2.0 suadenti impongono alla comunità dei loro utenti, inconsapevoli Piccoli Fratelli di loro stessi). Suo contraltare appunto dialettico, quella che è stata definita «sousveillance», o «controsorveglianza»: inquadrare chi ci inquadra, sorvegliare chi ci sorveglia. Come ha detto l’artista e ingegnere Steve Mann: «Quale modo migliore di confrontare attivamente il modo in cui siamo filmati dall’infrastruttura che estrarre una videocamera ed effettuare una registrazione di chi ci sta filmando?». 

 

È quanto mette in scena Giorgio Falco verso la fine del suo ultimo, recentissimo libro, Ipotesi di una sconfitta. Dopo essere disceso lungo tutti i gradini della propria «nevrosi politica ed economica», ed essere stato mobbizzato in tutti i modi possibili e immaginabili dalla mega-ditta telefonica (i cui riti alienanti erano già descritti nell’opera prima, Pausa caffè, Sironi 2004) in cui “lavora”, l’impiegato-numero di matricola gfalco, poi ulteriormente declassato a zzgfa1, si prende un periodo di malattia che passa in stato d’assedio con la compagna «Sa» (al secolo Sabrina Ragucci), in un camper di conseguenza ribattezzato «Ford Apache». Finché, vagabondando dalle parti di Merano per sopralluoghi in vista del romanzo La gemella H,, sulle orme del remoto predecessore Franz Kafka impiegato all’Imperial-Regio Istituto di Assicurazioni di Praga, gfalco si rende conto d’essere pedinato da un tizio che, sempre fingendo di riprendere qualcos’altro, in effetti lo sta sorvegliando colla telecamera dello smartphone: «un investigatore privato pagato dall’azienda per accusarlo di comportamento infedele». Dopo aver tentato di seminarlo, e dopo averlo affrontato apertamente, si capisce che l’unica reazione efficace consiste appunto nel sottoporlo a sousveillance: «Sa» estrae il suo, di smartphone, e si mette a riprenderlo proprio mentre lui li inquadra. Sconcerto, sospensione, infine ritirata. (Dimessosi finalmente dalla mega-ditta, gfalco non troverà di meglio, per sbarcare il lunario, che imprigionarsi a casa, stavolta, a scommettere compulsivamente on-line, guarda un po’, sulle partite di tennis. Anche se non su scontri iconici tipo Borg-McEnroe, o ora Federer-Nadal, ma su oscuri tornei sub-asiatici in cui si azzannano, disperate quanto lui, oscurissime energumene est-europee.)

 

Arte e società hanno in comune, oggi, più di quanto si pensi, e di quanto sia auspicabile: tanto per l’una che per l’altra. Entrambe non potrebbero esistere senza la severità di routines e protocolli alienanti e, alla lunga, annichilenti. Ma, come avviene in arti “minori” quali il tennis (o il jazz), l’Evento che chiamiamo Liberazione può prodursi solo quando tutte le regole siano state introiettate, e poi si proceda in uno spazio da quelle stesse regole codificato, geometricamente iscritto – ma senza che si possa seguire alcuno spartito rigido. L’interplay costringe all’improvvisazione: ma l’improvvisazione si svolge nel solco della regola, nella memoria muscolare della regola (come dice Velotti: quella che chiamiamo “improvvisazione” non equivale a «mancanza di preparazione, anzi, all’opposto: solo chi è molto preparato sa improvvisare, cioè organizzare il contingente, l’imprevisto, l’inaudito, secondo una forma sensata»). 

Il controllo, e la sua perdita, sono l’uno il codice segreto dell’altra. La sua scatola nera. Il suo tie-break definitivo.

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La società della prestazione

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Il nesso tra capitalismo e psicopatologia è esaminato da vari studi che evidenziano come lo sfondamento di ogni barriera che separava il pubblico dal privato, il mercato dai beni comuni, l’etica dall’intrattenimento ecc. produca soggetti instabili il cui malessere può assumere diverse connotazioni, dalla depressione alla schizofrenia. Se filosofia, sociologia e psicologia hanno già esaminato il problema a partire dagli anni sessanta, oggi la questione si fa ancor più grave. In gioco c’è difatti molto più della semplice repressione che il sistema capitalistico e dei consumi esercita sulla psicologia dei lavoratori/consumatori. Ormai la dinamica del tardo capitalismo investe la dimensione ontologica, facendosi capace di toccare la sfera più profonda dell’essere delle persone ma anche delle cose che compongono il mercato. Come è spiegato eminentemente nel film Capitalismo. Una storia d’amore di Micheal Moore: “Se qualcosa esiste, probabilmente c’è dietro un subprime”. Questo per dire che il dispositivo di sfruttamento e di valorizzazione che è insito nel capitalismo avanzato va ormai ben oltre le forme superficiali di sfruttamento del lavoro e del consumo, per raggiungere qualcosa di essenziale che un tempo è stato oggetto d’interesse della filosofia e delle religioni.  

 

In La società della prestazione di Federico Chicchi e di Anna Simone (Ediesse, 2017) il dispositivo della prestazione viene esaminato nelle sue molteplici espressioni, principalmente quelle che interessano la sfera lavorativa e dei diritti. Sin dall’introduzione gli studiosi precisano i motivi per cui hanno scelto di utilizzare il termine "prestazione" al posto di "performance". Se il primo difatti esprime meglio la natura giuridica del rapporto basato su una “obbligazione" (p. 15), il secondo è un termine ombrello, dunque più vago, polimorfico e multidimensionale. Si tratta dunque di una scelta di campo anti-neutrale che è ovviamente condizionata dal punto di vista degli autori e che a sua volta indirizza la loro ricerca. 

Il quadro teorico all’interno del quale si dipana l'analisi è principalmente quello della società del rischio di Ulrich Beck, nel quale s’innestano riferimenti alla Cultura del narcisismo di Christopher Lasch e alla società della stanchezza di Byung-Chul Han. Il tutto per affilare una netta critica nei confronti del discorso psicologico-motivazionale che ha accompagnato il processo di soggettivizzazione del lavoratore edificando nel tempo il dispositivo prestazionale. 

 

Le due potenti immagini cinematografiche che consentono di dare forma visiva all’insicurezza dei nostri tempi sono specularmente quella di Jordan Belfort, protagonista di Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (2013), e quella di Daniel Blake (2016) nel film di Ken Loach. Dico specularmente perché se il primo vive l’insicurezza dal lato della scommessa su un possibile successo all’interno del sistema di opportunità disegnato dalla narrazione neoliberista, il secondo invece subisce la medesima insicurezza dal lato più debole: quello che era un tempo garantito dal welfare e che ora tende a essere smantellato  da una logica di mercato che schiaccia sotto le sue macerie la carne dei più deboli. Se il primo interpreta una “dismisura ambulante” (p. 19) ovvero un soggetto “vuoto fagocitato da sindromi ossessivo-compulsive e dalla voracità del broker che deve diventare ricco contro tutto e contro tutti” (p. 21), il secondo è il soggetto resistente che non aderisce agli standard e ai format prestabiliti dalle società assicurative private. Blake difatti lotta contro una “società s-vuotata da forme di solidarietà statali” (ib.) ed esprime solidarietà nei confronti dei più svantaggiati, nonostante la sua particolare vulnerabilità. Il riferimento all’immaginario cinematografico ci aiuta a comprendere il problema a partire da immagini potenti e vivide, come in modo diverso hanno fatto Gianni Canova e Severino Salvemini nel libro Il manager al Buio (Rizzoli-Etas 2011) che appunto esaminava il modo in cui l’occhio cinematografico ha rappresentato l’immagine del nuovo imprenditore nel cinema italiano e in quello internazionale.  

 

Tra gli obiettivi polemici degli autori spicca l’approccio motivazionale che, soprattutto negli ultimi vent’anni, ha insistito sull’evoluzione del lavoro e sull’estensione delle logiche del management al di là dei perimetri delle imprese. Tra questi spicca l’impresa di sé raccontata da Bob Aubrey (2000) che indica una mutazione antropologica ma anche in continuità con l'ideale moderno di homo faber: ogni soggetto è tenuto a farsi imprenditore di se stesso (p. 63). Un modello che il business mutua dalle tecniche psicologiche utilizzate nei gruppi di alcolisti anonimi, per poi essere sviluppato nel corso degli anni novanta dando vita al filone motivazionale, dalla leadership al coaching, ovvero a un salto logico dall'idea iniziale di auto-controllo verso quella di auto-motivazione (p. 127). 

 

Illustrazione di Steve Cutts.


La società della prestazione in quanto forma vuota e svuotata raggiunge il suo acme nella scomposizione postfordista del lavoro e nella disarticolazione del sistema produttivo che ha letteralmente spazzato via ogni forma di inquadramento, di tutela e d’identificazione del lavoratore. Inoltre essa va ben al di là della sfera lavorativa, investendo soggetti molti diversi tra loro che però hanno in comune l’obbligazione di doversi fare manager di se stessi. Questa insistenza sui processi di soggettivazione è al contempo il mezzo e il fine attraverso cui il sistema compie la sua "evoluzione". In tal modo, riprendendo una citazione dal testo: “l’individualizzazione non contraddice ma spiega ciò che è caratteristico di questa nuova povertà” (p. 32). Tuttavia la matrice stessa del dispositivo prestazionale è rintracciabile al di là del contesto della produzione. Non è un caso che gli autori individuino une delle prime definizioni operative del termine “prestazione” nell'opera di Marcuse, la cui disamina del capitalismo si sofferma più sul consumo che non sulla produzione (p. 47). 

 

Il consumo è il paradigma stesso su cui si fonda la prestazione e l’evoluzione del consumo va esattamente nella direzione di una richiesta supplementare di prestazione (il tanto decantato prosumer toffleriano), che è esattamente il modo attraverso cui il nuovo capitalismo tende a esternalizzare le sue funzioni verso altri e in particolare verso il destinatario dei suoi prodotti/servizi. Il consumo è pertanto il punto di partenza ma anche il punto d’arrivo della logica prestazionale. Gli autori si soffermano su esempi più ludici e di intrattenimento per confermare la loro ipotesi: dai reality show ai talent (manca una dimensione dei social media che rappresenta forse l'epitome della logica prestazionale). Inoltre tali processi sono descritti facendo ricorso ai modelli dell’eterodirezione, della coercizione, della seduzione, dell'imperialismo culturale che richiamano la teoria critica ma che talvolta risultano forse troppo timidi nel rappresentare la potenza del processo in atto. 

 

La chiusura del libro apre a una possibilità escatologica, una exit strategy che è offerta dalle tre virtù combinate della misura, del desiderio e dell’arte. Queste ribadiscono il legame tra lo sguardo critico sulla società e la volontà di riformarla attraverso un pensiero alternativo e in qualche modo trascendente. Cosa bene diversa da chi con sguardo disincantato si limita a rendere conto delle trasformazioni in atto. Questo perché la combinazione neo-stoica di misura-desiderio-arte non può più fungere da argine all’avanzata del sistema, che ormai è ben al di là di ogni barriera difensiva posta dall’umano. Anzi, esse in quanto forme di resistenza sono già pronte per essere sfruttate e valorizzate all’interno dell’immenso circuito di produzione e sfruttamento del valore neoliberista, in un loop senza fine di riappropriazione della riappropriazione.  

 

In un pamphlet di qualche anno – La mentalità neototalitaria (Apogeo 2008) – ho parlato del cambiamento di fase della globalizzaizone dal momento in cui la decostruzione postmoderna è stata incorporata da una struttura di potere non più centralizzata ma distribuita nelle forme molteplici della vita sociale. 

 

Neotot rievoca uno dei concetti più cupi delle scienze politiche, ma la sua versione 2.0 ci rimanda all’immaginario opposto fondato sullo slittamento dal politico all'esperienziale, ovvero su un concetto di consumo che si fonda sulle categorie di emozione,esperienza e relazione. Dal consumo turistico in cui la pretesa etnologica è sempre più marcata, alla vulgata universale della sostenibilità narrata da politici e aziende come coloro che lucidavano le maniglie delle porte mentre il Titanic affondava. Dal paradosso della gerontocrazia, che specialmente in Italia vede una vetusta classe dirigente bloccare l’accesso alla carriera dei giovani ma anche eseguire un furto d'identità del giovane tramite un giovanilismo tanto disperato quanto ineludibile, al processo di femminilizzazione del lavoro che impone agli uomini di acquisire skills "femminili", ovvero soft, d'ascolto, cooperative e non competitive ecc. mentre le donne restano ancora discriminate in termini di retribuzione e diritti. Oggi, all'epoca dell'industria 4.0 e della robotica emozionale, il neotot s’estende al rapporto tra organico e inorganico decretando, come nel caso precedente, un meccanismo di sfruttamento supplementare: dopo aver imposto ai lavoratori di diventare classe creativa, emblema del nuovo capitalismo, ora minaccia di sostituirli con un’intelligenza artificiale e una robotica emozionale capace di operare nell’ambito delle produzioni creative un tempo appannaggio assoluto dell’umano (dalla moda, al design alle videoproduzioni ecc.). Per questo, a mio parere, la logica della prestazione va ben al di là dell’umano e tende a estendersi sulla dimensione ontologica non solo dell’heideggeriano esserci ma anche dell’essere in generale. Un tema toccato da Chicchi e Simone quando definiscono l'individuo "responsabile" come colui "che accetta la precarietà e l'incertezza sociale come una condizione inaggirabile, come in un certo senso un'ontologia" (p. 71)

 

La società della prestazione, in quanto implementazione della mentalità neototalitaria, è già dentro di noi e può tranquillamente rinunciare alle categorie neoliberali dell’individualismo, della competizione sfrenata, dell’efficienza tout court, in favore del collettivismo (la community), della cooperazione (co-housing, co-working, co-design ecc.) ma anche dell'imperfezione che produce maggiore empatia sul piano comunicativo. Essa mira a ciò che di più autentico ed extracapitalistico possiamo concepire, come risorsa rara e irriproducibile del sistema ma anche come mezzo di legittimazione del suo esistere. Come dire: se c’è ancora uno scampolo di autenticità non siamo mai stati in un mondo puramente artificiale, se ancora c'è la libertà lo sfruttamento non è mai stato totalizzante. 

Il libro, di notevole spessore teorico e analitico, fissa un punto da cui può evolvere la ricerca futura sull’allestimento dei dispositivi di prestazione in ogni ambito della vita quotidiana. La categoria di brand o di selfbrand – esaminata brevemente a p. 132 – rappresenta forse la chiave di lettura fondamentale di tutto il processo. Essa difatti non è solo l'estensione dell'impresa di sé volta a potenziare il soggetto e a fuggire sempre più la possibilità dell'errore, del "linguaggio che s'inceppa" (p. 132), ma il modo in cui proprio l'errore e l'imperfezione dell'umano possono essere valorizzati supplementarmente attraverso le categorie di empatia e autenticità tanto care al marketing. Per questo l’invito agli autori è di estendere tale modello alle pratiche non esplicitamente produttive e riproduttive ma anche a quello più apparentemente spontanee, quotidiane, marginali e antagoniste, in cui comunque è al lavoro qualche forma di valorizzazione attuale o potenziale. 

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Godard secondo Hazanavicius

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Nel 1967 e 1968, quando ero studente alla Sorbona, andavo spesso a Parigi in un cinema vasto e un po’ fatiscente della Rive Gauche, specializzato in vecchi film muti. L’accompagnamento musicale dei film veniva fatto da un anziano pianista in sala, che seguiva uno spartito. Questo cinema era spesso pieno: non di vecchi nostalgici del muto, ma per lo più di giovani. Perché per tutti noi cinefili – e quanti lo eravamo allora! – il cinema faceva corpo con la sua storia. Mi chiedo se allora in altre metropoli ci fosse un cinema rétro del genere.

È questa passione storica degli amanti del cinema a rendere intelligibile un film come Le Redoutable (Il mio Godard) di Michel Hazanavicius, finora alquanto maltrattato dalla critica. La critica più sofisticata non ama Hazanavicius, considerato regista troppo “leggero” e commerciale, insomma un anti-Godard. Il solo recensirlo è un passo falso. In effetti Hazanavicius dice di non odiare né amare particolarmente Godard (Michel Hazanavicius: «Godard n’a jamais cherché à être sympathique», apparso su Le Monde, 12 settembre 2017), ma proprio per questo trovo interessante che un non-godardiano faccia un film – il primo, a quanto ne sappia – su Godard. Non esprimerò un giudizio obiettivo (esistono giudizi obiettivi?) sul film: prima di tutto perché non sono un critico, e poi perché mi sento troppo parte del contenuto del film per essere obiettivo. Nel 1968 (epoca in cui si svolge il film) avevo diciannove anni ed ero appassionato di cinema, scrivevo su riviste di critica cinematografica, tentai di girare un film. E ovviamente adoravo Jean-Luc Godard. Ero uno degli studenti “arrabbiati” dell’epoca. Questa pellicola prende in fondo in giro anche me, e non si giudica chi ti prende in giro.

 

Da sinistra: Stacy Martin, Louis Garrel, Berenice Bejo e Michel Hazanavicius alla prima di Le redoutable a Cannes 2017.


Hazanavicius è nato nel 1967, quindi ha ricostruito quegli anni attraverso film e video: è un film fatto a partire da altri film. Hazanavicius ha sempre tentato un metacinema storico, un cinema sul cinema che fu. Con Le Redoutable ha cercato di ripetere il colpo di The Artist (2011), un film muto sul cinema muto. In questa sua ultima fatica, ha provato a fare un film alla maniera godardiana sul cineasta Godard, e su come Godard ha filmato quell’epoca.

Oggi molti praticano il pastiche, riempiono i film di citazioni di “classici”. Per esempio molti hanno detestato La grande bellezza di Sorrentino perché sarebbe una scopiazzatura di La dolce vita: ma il regista voleva fare proprio una scopiazzatura. Rifare La dolce vita cercando però di enunciare il “non detto” del film di Fellini: che “la grande bellezza” è una montatura, una turlupinatura, che viviamo in una “dolce vita” inventata dal cinema. Traboccano di citazioni i film di Quentin Tarantino: Django unchained rifà lo “spaghetti-western”, per esempio. Mi pare che Hazanavicius abbia colto il lato ilare, farsesco, del cinema di Godard; non a caso gli fa dire – perché Godard lo ha detto – che per lui tutto il cinema è merda, tranne Jerry Lewis, i Marx brothers e Laurel & Hardy. Il cinema comico americano. In effetti, questo sembra un film su Godard girato da Jerry Lewis.

 

Il punto è che il cinema di Godard degli anni '60 era a sua volta un pastiche. À bout de souffle (Fino all'ultimo respiro), il suo film d'esordio, rifaceva il noir americano con un distanziamento europeo. Già allora il cinema che preferivamo ci appariva un cinema di riflessione e di riflesso, nel senso che era una riflessione sul cinema e rifletteva altro cinema. A quell’epoca un mio amico disse: “Dopo tutto, il cinema europeo è solo una riflessione sul cinema americano”. Perché il vero cinema era quello americano, ci era già chiaro all’epoca: industria del divertimento, prima di tutto. A noi europei restava una pensosa parodia di Hollywood. Operazione esplicita, del resto, in Le Mépris (Il disprezzo): un film su come viene costruito un film storico-mitologico americano.

In Le Redoutable ci sono anche citazioni alla terza potenza. Ad esempio, Jean-Luc (Louis Garrel) e sua moglie Anne (Stacy Martin) vanno a cinema a vedere La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, e guardano la bellissima scena in cui Renée Falconetti dalla testa rasata (Giovanna d’Arco) piange, mentre Antonin Artaud (nella parte di un monaco) le parla. È lo stesso spezzone che Godard ci aveva fatto vedere in Vivre sa vie (Questa è la mia vita), quando la protagonista, la prostituta Nana (Anna Karina), piange mentre guarda proprio quel film al cinema. Hazanavicius cita Godard che cita Dreyer. E si potrebbe continuare con questa mise en abyme.

 

 

Questo film non è affatto una agiografia dell’uomo Godard, tutt’altro. Ho l’impressione che molte critiche negative al film siano una reazione a un atto che appare di Lesa Maestà: si voleva un’agiografia di Godard. Da decenni il cinema anglo-americano ci ha abituati a biografie di personaggi famosi che sono in realtà “scritti su santi”. Tra le più recenti, quella di Alan Turing, di Stephen Hawking, del matematico Srinivasa Ramanujan, di Aung San Suu Kyi, e di tantissimi altri. 

 

Invece, lo sguardo del Redoutable su Jean-Luc è quello dell’allora sua moglie Anne Wiazemsky, dal cui libro autobiografico (Un an après del 2015) il film è tratto, e che descrive il suo calvario matrimoniale con il “maestro”. Insomma, è dichiaratamente un film di gossip. Il titolo si riferisce al primo sottomarino atomico francese, Le Redoutable, che fu messo in mare nel 1967. Redoutable significa formidabile, ma anche temibile, pericoloso, minaccioso. Anne e Michel ci presentano il Godard di allora, a seguito della sua svolta maoista nel 1967, come formidabile e temibile, un bisbetico tutto genio e molesta sregolatezza, fanatizzato da un sinistrismo allora dilagante, aggressivo e arrogante con tutti, in particolare con i suoi migliori amici. Il film ci fa vedere come Godard riesca a mandare su tutte le furie persino Bernardo Bertolucci, che pure l’aveva ampiamente sostenuto in Italia. Si aggiunge a tutto ciò una sorta di delirio di gelosia nei confronti della moglie, di cui era continuamente l’arcigno censore. Ho incontrato qualche volta Godard in situazioni pubbliche, una volta anche in privato, e devo dire che l’immagine che mi sono fatta di lui corrisponde abbastanza a quella che ne dà il film. 

Ho conosciuto all’epoca tanti piccoli Godard: sempre pronti a biasimarti come “piccolo borghese”, demolitivi di qualsiasi opera di successo popolare, persone che odiavano totalmente il mondo in cui vivevano. Era la faccia torva dell’angelica ingenuità di quell’epoca. Ad esempio, il film ci ricorda che dopo aver girato La cinese– una pellicola su un gruppo di giovani maoisti francesi – Godard credette seriamente che il film sarebbe piaciuto nella Cina di Mao e lo propose all’ambasciata cinese. Non si rendeva minimamente conto di quale distanza abissale ci fosse tra l’estetica edificante e kitsch della Rivoluzione culturale che divampava all’epoca, e l’avanguardia cinematografica francese! E difatti i cinesi gli sbatterono letteralmente il film in faccia.

 

Godard nel 1968.


Il regista presenta Godard come la grande star cinematografica dell’epoca. In verità l’amore per Godard era molto legato alla variabile anagrafica. Nel 1968 si doveva essere sotto i trent'anni per apprezzarlo veramente. Alberto Moravia, classe 1907, che faceva anche il critico cinematografico con molta buona volontà, era alquanto tiepido nei confronti di Jean-Luc, anche se questi aveva girato un film da un suo romanzo, Il disprezzo. Bernardo Bertolucci, nato nel 1940, invece lo ammirava. Per noi giovani, Godard era il Picasso del cinema ed era normale che fosse detestato come ai suoi tempi fu detestato Picasso. Goffredo Fofi (nato nel 1937), per esempio, ha sempre deriso Godard. Così per alcuni anni molti giovani registi italiani e francesi si misero a scimmiottare Godard a tutto spiano: ci cascò anche Bertolucci, che nel 1968, con Partner, girò un film godardiano, fallito. Ma alcuni registi hanno godardizzato fino alla fine degli anni '70: i primi film di Nanni Moretti, ad esempio, che gli dettero subito grande successo, devono molto a una stilistica godardiana.

 

Certo non ci piaceva solo lui. Apprezzavamo altri registi francesi della nouvelle vague, in particolare Truffaut e Rohmer. Alain Resnais era un mito: due film pre-68 come Hiroshima mon amour e L'année dernière à Marienbad (L’anno scorso a Marienbad), antecedenti a Godard, ci erano apparsi come una svolta definitiva nel cinema. In realtà le svolte non sono mai definitive, le avanguardie dell’epoca sono passate come sono passate tante altre avanguardie del XX secolo, cimeli di un passato glorioso e in parte irripetibile. Tutti allora ci sentivamo figli legittimi del dadaismo e del surrealismo, per cui i nostri “classici” erano Un chien andalou e L’âge d’or di Buñuel e Dalí. Altrettanto amato di Godard era infatti Luis Buñuel: sapevamo che film come El angel exterminador (L’angelo sterminatore) e Belle de jour (Bella di giorno) sarebbero rimasti nella storia del cinema. 

 

 

Le Redoutable rifà molte di quelle trasgressioni godardiane che spezzavano continuamente le regole della disciplina cinematografica. Il film è diviso in capitoli numerati, come faceva Godard; vira talvolta dal positivo al negativo della pellicola; dà ai movimenti e alle parole dei personaggi una forma quasi geometrica, stilizzata; mette in rilievo le scritte sui muri e i manifesti murali per commentare il film; una fotografia tersa, senza chiaroscuri, quasi da commercial; ecc. Manca nel film però un tratto che all’epoca ci colpiva. Talvolta Godard faceva lunghe carrellate sui boulevard parigini accompagnate da una musica severa, drammatica, lenta, che dava al paesaggio un alone tragico e profondo; poi, d’un tratto, il sonoro si interrompeva e la carrellata continuava come in un film completamente muto. Dall’emozione data dalla sovrapposizione alle immagini di una colonna sonora “nobile” si passava all’improvviso a realizzare il fatto che, dopo tutto, si trattava solo di pellicola cinematografica “ignobile”. Non si passava dal suono al silenzio – anche il silenzio ha una sua sonorità, può spaccarti le orecchie – ma dalla musica al non-suono. Era Verfremdungseffekt, brechtiano effetto di estraniazione, che Godard praticava per dis-ipnotizzarci dal fascino del sonoro e riportarci alla realtà materiale del cinema: pellicola impressionata che scorre. Ci metteva sempre sotto al naso quel che allora si chiamava il significante.

 

Con Godard, e anche con altri autori all’epoca per noi preziosi – Antonioni, Pasolini, Resnais, Ingmar Bergman, Bertolucci, Oshima, Rocha, Jonas Mekas, Straub… – pensavamo che il cinema non fosse più solo un’arte di svago per famiglie il sabato sera, ma che fosse ormai entrato tra le grandi arti moderne del XX secolo. Il cinema produceva opere al livello del futurismo, dell’espressionismo, del cubismo, del suprematismo, della pop art… Così il cinema – e poi sarà la volta di altri audiovisivi – fu la figlia autentica, il rampollo magnifico, del secolo breve. L’arte della mia generazione, che chiamerei “generazione cinema”. Hazanavicius ha voluto fare un film sulla “generazione cinema”, che non è la sua.

 

Godard con Jean-Paul Belmondo sul set di “Pierrot le Fou”.


Le redoutable ci mostra Godard all’inizio del suo declino; il grande Godard che ricordiamo tutti precede in effetti il '68. Oggi i giovani che si interessano di cinema conoscono di lui quasi solo A bout de souffle e Le Mépris, che vengono prima di quell’epoca. Ma a noi piacevano anche certi suoi film diciamo minori, come Les carabiniers, il delizioso Alphaville (Agente Lemmy Caution: Missione Alphaville) e certamente Pierrot le fou (Il bandito delle 11). Poi, negli anni '70 Godard si immerse in un radicalismo sia politico che cinematografico, girò una serie di film con Jean-Pierre Gorin che si volevano strumenti militanti. Allora a Parigi si commentavano sarcasticamente con: “Però, come è bravo questo Jean-Pierre Gorin!”, ma li si andava a vedere solo perché erano firmati anche da Godard. Comunque Godard ci captava con la sua parola, alle banalità del comunismo maoista mescolava una pirotecnia di paradossi ironici, ci sorprendeva con giudizi drastici ma folgoranti. Una miscela unica di schematismo ideologico e di beffardo surrealismo.

Dopo la sua lunga sparizione nel gorgo dell’iper-avanguardia militante e coriacea, negli anni '80 ha ricominciato a fare film interessanti. Alcuni sono anche belli. 

 

“The Dreamers”, 2003.


Le redoutableè anche un film sul '68. Si sono fatti pochi buoni film sul maggio '68 perché il maggio fu di per sé una specie di film. E non solo perché fu molto fotogenico. Il prossimo anno assisteremo a varie rievocazioni, in tutte le salse, per il cinquantenario. Il film più noto sul maggio '68, finora, è di uno scozzese e di un italiano. Ed è singolare che sia un film su giovani che non fanno il '68. Gilbert Adair, scrittore scozzese, ha scritto il romanzo The Holy Innocents, base per il film di Bernardo Bertolucci The Dreamers del 2003. Sia nel romanzo che nel film il protagonista è uno studente americano a Parigi che si lega a una coppia di gemelli parigini, un ragazzo e una ragazza ventenni. Tutti e tre condividono una passione totalizzante: il cinema. Nel maggio del 1968 si rinchiudono in casa, approfittando dell’assenza dei genitori, e intessono una relazione erotica a tre, il tutto intervallato da quiz di storia del cinema a cui si abbandonano. Chiusi in questa alcova incestuosa e cinefila, i ragazzi non si rendono affatto conto di quel che accade fuori. In un certo senso, è un film su un maggio mancato, a cui si sostituisce un’estasi cinematografica. Ma non ci fu quest’estasi anche in chi invece, come me, partecipò attivamente al movimento? Non fu la Rivoluzione – significante maître all’epoca – il dream che il cinema nutriva?

Non è un caso che anche Hazanavicius oggi rievochi il maggio attraverso il cinema. Il maggio è inscindibile da quello che il cinema rappresentava allora per noi: era l’arte attraverso cui sentivamo, percepivamo, interpretavamo il mondo. Il mondo sembrava tutto soggetto per un film. Il maggio '68 fu costruito – spontaneamente, inconsapevolmente – come una sceneggiatura. Uno degli slogan del '68, “Prendete i vostri sogni per realtà”, descrive perfettamente ciò che accade grazie al cinema. Nel '68, in Francia come altrove, la Storia ha imitato l’Arte.

 

Godard ha virtualmente chiuso la sua carriera con le monumentali Histoire(s) du cinéma, una Summa enciclopedica alternativa della storia del cinema, dai fratelli Lumières fino a certe strabilianti mostruosità di oggi. Il cinema come settima arte del Novecento sembra concludersi con una grande ricapitolazione storica di se stesso. Certo il cinema andrà avanti, cambierà ancora, forse si diluirà nelle serie televisive. Ma Hazanavicius, regista popolare, coglie come una prima chiusura storica del genere. Il secolo breve, il mio secolo, è stato anche il secolo lungo del cinema.

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Organizzare teatro tra l’Italia e NYC

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Valeria Orani è una delle figure più intraprendenti dell’industria culturale italiana. Dopo aver lavorato per alcuni anni come producer e organizzatrice teatrale per varie istituzioni artistiche pubbliche e private, fonda nel 2003 la 369gradi, un centro di produzione, promozione e distribuzione della cultura contemporanea, che ha sostenuto e sostiene artisti della scena d’innovazione eccellenti come Punta Corsara e Lucia Calamaro. Poco più di tre anni fa si è trasferita a New York dove ha fondato Umanism NY, una società di servizi dedicata all’export culturale, che offre sostegno organizzativo, burocratico e promozionale ai talenti creativi (non solo del mondo delle performing arts ma anche di artigianato, moda, design, cucina) che vogliano accedere al generoso quanto complesso mercato della Grande Mela. Il primo progetto promosso da Umanismè stato Italian Playwrights Project, un format a cadenza biennale dedicato alla diffusione della drammaturgia contemporanea italiana negli Stati Uniti, attraverso la selezione, traduzione e pubblicazione dei testi ritenuti più interessanti da una commissione di esperti statunitensi. Dopo l’edizione pilota il format si è evoluto in Italian and American Playwrights Project, prevedendo una veicolazione bidirezionale che ha l’obiettivo di esportare la drammaturgia italiana negli States e quella americana in Italia.

 

Il 4 dicembre il progetto sarà presentato all’Istituto Italiano di Cultura di New York, mentre il Martin Segal Theatre Center ospiterà la presentazione dell’Italian Playwrights Project con mise en espace degli estratti tradotti dei tre testi selezionati. Al Teatro Vascello di Roma arriveranno invece, il 14 dicembre, gli autori statunitensi scelti dalla giuria italiana. Nel frattempo, sono in uscita le traduzioni, edite dalla Cuny, relative alla prima edizione. In attesa di conoscere gli esiti di questo speciale scambio culturale (che si auspica dichiaratamente anche commerciale), abbiamo parlato con la direttrice di Umanism di drammaturgia, della logica del nostro sistema teatrale e di strategie di fundraising.  

 

 

Quando sei partita cosa avevi in mano? Quali contatti, intenzioni e obiettivi? 

Sono venuta a New York per studiare la fattibilità di Umanism: volevo condurre una ricerca di marketing per ideare una strategia di promozione di medie e piccole imprese, di startup e talenti imprenditoriali italiani, proprio come avevo fatto con quelli artistici fino a quel momento. Di teatro mi occupavo già in Italia e negli States volevo puntare su altri settori, come artigianato e design, anche perché le arti performative non mi sembravano la skill più immediata con cui accedere al mercato statunitense. Ma al karma non si sfugge: una delle prime persone che ho incontrato è stata Frank Hentschker, direttore del Martin Segal Theatre Center, il centro teatrale della City University of New York. Aveva saputo del mio arrivo e mi aveva convocato subito perché il Segal si occupa nello specifico di drammaturgia straniera e aveva in programma da tempo di dedicare una finestra anche a quella italiana, ma non riusciva a trovare il canale giusto. Il tema nodale era, evidentemente, quello dei fondi. L’Italia non ha un equivalente del British Institute, dell’Alliance Française o del Goethe Institute, e l’Istituto Italiano di Cultura non ha fondi rilevanti per perseguire questo tipo di obiettivi. Perciò abbiamo deciso di finanziare il progetto senza sostegni pubblici. È auspicabile, ovviamente, che a un certo punto arrivino anche dei fondi statali, ma la questione per me fondamentale è che i progetti devono cominciare e andare avanti anche se quei fondi non ci sono. 

 

Il tema è particolarmente caldo in Italia. Quasi tutta l’attività teatrale è finanziata con soldi pubblici e quando questi vengono meno si aprono voragini.  

Questo è uno dei motivi che mi ha spinto fin qui: apprendere strategie per finanziare l’impresa creativa senza aspettare che vengano stanziati soldi pubblici. Se il finanziamento è condizione imprescindibile della sussistenza, l’istituzione stessa finisce per diventare, paradossalmente, direzione artistica. È assurdo! Un progetto artistico dovrebbe poter esistere a prescindere. Ma mi rendo conto che questo punto di vista, essendo opposto a quello a cui siamo abituati, è difficile da sostenere nei tavoli di lavoro italiani, in cui si parla troppo di depressione per scarsezza di fondi statali.  

 

Imparare a reperire fondi e a mettere a punto sistemi di autofinanziamento che funzionino nel mondo dell’innovazione teatrale è ormai inevitabile, per molte ragioni, anche artistiche, ed è vero che siamo ben lontani dal rendercene conto. Però non dobbiamo neanche dimenticare che soldi pubblici stanziati per la cultura esistono, e che le istituzioni pubbliche come i Teatri Nazionali ricevono denaro per perseguire obiettivi collettivi. 

Infatti è il meccanismo che non funziona. Dovrebbe essere un impegno e un vanto dell’istituzione quello di cercare i talenti su cui investire, da inglobare, da sostenere, non il contrario. 

 

Puoi farmi l’esempio di una strategia che ha funzionato? 

Nel 2003, quando ho fondato la 369gradi, non era neanche lontanamente immaginabile per una compagnia teatrale di innovazione, anche affermata, avere un proprio ufficio stampa interno. Non ne esisteva nessuno che costasse meno di 5000 euro, a cui si aggiungevano poi altri costi, come quelli dell’acquisto di spazi pubblicitari; con quella cifra ci si pagava perfino una produzione, ai tempi. Le compagnie ricevevano un servizio dai festival o dai teatri ma solo per la presenza in quel determinato contesto. Io avevo lavorato tanto nel mainstream e amavo l’innovazione, non capivo perché non attuare una strategia di marketing che ne favorisse l’emersione. Percepivo nell’aria un’esigenza ancora non ben definita ma diffusa. Allora studiai un sistema per rendere quei costi più accessibili, ovvero per permettere agli artisti di pagare solo il 10% di quanto avrebbero dovuto pagare per un servizio personalizzato standard, costruendo una rete e modificando il sistema. Per esempio abbiamo rinunciato alla televisione, che aveva costi altissimi, rinforzando altri canali. Abbiamo puntato molto sulle presentazioni degli spettacoli sui quotidiani, che costituivano pubblicità gratuita; è cambiato il rapporto con i giornalisti con cui abbiamo aperto un dialogo sul valore del teatro di innovazione ed emergente. I non affiliati pagavano cinquecento euro, gli affiliati trecento. A questi ultimi, in cambio di una quota annua, offrivamo anche altri servizi, come una pagina sul nostro sito internet con tutte le informazioni per stampa operatori e pubblico. Una cosa assolutamente innovativa nel 2003. Così pubblicità, promozione e distribuzione si intrecciavano naturalmente. Se le cose che dico sembrano poco sorprendenti, adesso, è perché quella modalità è diventata virale, per fortuna. E anche la 369gradi si è evoluta, passando dai servizi puri alla produzione. 

 

E non riceve fondi pubblici? 

Solo quelli ministeriali, perché rientriamo in un algoritmo. Ma quei soldi sostengono appena una parte dei contributi da versare, certamente non le produzioni. Per il resto non partecipiamo a bandi pubblici locali, perché ritengo che siano una tagliola pazzesca, non si sa mai con certezza i tempi entro i quali i finanziamenti vengono liquidati e si innesca un processo pericolosissimo con le banche. 

 

Come vi sostenete quindi? 

Con la vendita. Sperimento nel produrre e distribuire, da questo punto di vista non ho inventato niente di nuovo, il modello è quello dell’impresario. Una figura che sembra un po’ inattuale perché siamo circondati ormai da formazioni artistiche “one man band”, dove in pochissimi fanno tutto. Ma non è fisiologico che un artista possa avere una visione manageriale, organizzativa, autorale, artistica, registica, attorale. Proprio quando l’innovazione sta conquistando uno spazio tale da essere quasi individuato come “il teatro italiano”, è un peccato che continui a non voler imparare niente dal mainstream, rifiutandolo con uno scientifico atteggiamento snob. Ma io vorrei ricordare che il professionismo del teatro è nato lì. Spesso vengono cancellate figure come quelle di costumiste e scenografi, e azzerate le strutture organizzative, ma il talento artistico, l’estro, l’eclettismo non possono sostituirsi a certe competenze professionali. Le compagnie sono composte da due persone, massimo quattro, esagerando otto. L’autore, quando c’è, scrive per degli specifici attori che poi si occupano anche di organizzazione, distribuzione, promozione, gestione amministrativa, luci, costumi e musiche di scena. Questo comporta che se io faccio tutto da me e decido il costo del mio lavoro, posso vendermi a cifre sempre più basse e accettare proposte sempre più indegne perché tanto devo rendere conto solo a me stesso e mi faccio bastare anche un cachet di cinquecento euro per la replica di uno spettacolo. Questo meccanismo ha rovinato il mercato, e l’ha rovinato per mano di amici. 

 

 

Il paradosso di questa autarchia è che in Italia abbiamo imparato a fare qualunque cosa tranne che a elaborare strategie per trovare e moltiplicare fondi. Però farei una distinzione. Il fatto che un autore scriva sempre specificamente per un gruppo di attori, o che il regista sia sempre anche autore dei propri testi, non è un elemento patologico ma una caratteristica del nostro teatro, che non credo abbia molto a che vedere con l’autarchia tecnico-amministrativa-manageriale, che nasce invece da esigenze economiche. In molti casi scrittura drammatica, regia e interpretazione non possono essere considerati come talenti distinti. Se consideriamo la prima edizione del tuo progetto di drammaturgia italiana, per esempio, la questione si fa subito appassionante: è possibile consegnare un testo di Deflorian/Tagliarini a corpi e voci di altri attori? 

Domanda cruciale. Nella prima edizione del progetto (2015) i testi selezionabili erano stati ricavati da quelli cui erano stati attribuiti i principali premi nazionali: Ubu, Riccione e Hystrio. Per cominciare volevo partire da una selezione autorevole ed eterogenea. Tra i quattordici testi proposti al board statunitense furono immediatamente scelti i testi di Fausto Paravidino (I vicini) e di Lucia Calamaro (L’origine del mondo). Tra i testi in lizza ce n’era anche uno di Marco Martinelli, ma mi sono battuta affinché restasse fuori dalla competizione, perché è stato già tradotto in inglese e perché vorrei che a lui fosse dedicato un focus il prossimo anno, così come è stato nel 2016 per Stefano Massini. Il terzo scelto Il guaritore di Michele Santeramo, che pose qualche problema per via del dialetto, poi superato. E poi c’era la questione di Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni: quel testo fu selezionato perché all’advisory board del Segal Theatre interessava molto il tema delle pensionate greche morte suicide, ma aveva subito posto dei problemi perché il testo, privo di didascalie, nelle mani di persone che non conoscono Deflorian/Tagliarini aveva creato dei fraintendimenti. 

 

Cioè? 

Il regista statunitense cui era stata affidata la mise en espace di questo testo ha scelto degli attori assolutamente inadeguati: degli anziani veri! Il testo, così com’è, non è consegnabile a una traduzione, perché non prevede nessun tipo di indicazione di messinscena e qualsiasi tentativo è destinato a snaturarlo. Dopo la presentazione io ho pensato che sarebbe stato un errore tradurlo. La drammaturgia, per essere diffusa, non può essere legata alla figura che l’ha fatta nascere, deve essere esportabile, universale. 

 

Però se un progetto ambisce a promuovere la nuova drammaturgia italiana, dovrebbe farsi anche carico del fatto che la nostra drammaturgia è in buona parte di carattere consuntivo, che nasce molto spesso come emanazione diretta di determinati corpi, voci, figure. Forse qui bisognerebbe anche porre delle domande: cosa ci può fare un artista statunitense con un testo così? Che senso o valore ha la trasmissione di un testo che porta inscritto nella sua texture una peculiarità attorale-registica imprescindibile? Allora forse occorrerebbe editare con curatele attente, trovare delle strategie affinché un testo possa essere non solo tradotto in un’altra lingua ma anche per la pagina scritta, attraverso l’inserimento di un apparato di didascalie e di note, per esempio, che aiutino il lettore a orientarsi nell’idea che il testo sottende. Anche perché altrimenti si finisce per promuovere una drammaturgia che è esclusiva espressione di una concezione di teatro come mise en scène

Io ho ideato un progetto che possa ristabilire quel dialogo sulla drammaturgia tra Italia e Stati Uniti, che si è sensibilmente ridotto negli ultimi trent’anni, e l’ho consegnato a degli esperti. Sono una manager culturale, mi interessa che i testi italiani possano essere prodotti negli States in questo momento, presi in carico da produttori e registi che li mettano in scena. La questione della trasmissione e della cura è di altra natura. È chiaro che la mia scelta è una scelta limitata e mirata, non ha un peso specifico di carattere storiografico. Ovviamente, chiariti gli obiettivi e la struttura del progetto, mi affido poi a persone competenti quando si entra nel merito della qualità della drammaturgia che andiamo a proporre.

 

La collaborazione tra un esperto della materia e un manager in grado di costruire l’ambiente e le condizioni affinché un’esperienza possa svilupparsi al meglio è il tandem ideale che dovremmo auspicare tutti per una buona progettazione. 

Se pensassi di potermi sostituire a studiosi, accademici, critici teatrali, registi e scrittori, sarei come il regista che fa l’attore, il tecnico e l’organizzatore. Non posso commettere gli errori che riconosco negli altri. Io considero illimitato il mio potenziale come elaboratore di strategie, ma poi metto un limite al campo delle mie competenze. 

 

Autori e operatori, ph. Selene Candido.


Quest’anno, per la nuova edizione, le regole del gioco si stanno già facendo più complesse, il criterio selettivo si è spostato dalla logica dei testi premiati. 

Sì, abbiamo costituito due advisory boards, uno italiano e uno statunitense. Ciascuno dei due ha proposto una serie di testi ritenuti espressione della rispettiva drammaturgia nazionale. E poi quello italiano ha operato la selezione finale sui testi statunitensi, mentre quello newyorchese ha valutato i migliori tra quelli proposti dagli italiani. Entrambi sono piuttosto eterogenei, e comprendono universitari, critici, operatori, studiosi.

 

Quali sono i drammaturghi italiani i cui testi saranno presentati a NY a dicembre?

Fabrizio Sinisi, Elisa Casseri, Armando Pirozzi, Giuliana Musso. Credo che la selezione rappresenti un bello spaccato. Il banco di prova è interessante, perché per esempio Sinisi era stato segnalato da un solo esponente del board italiano, e i newyorkesi lo hanno recepito meglio di quanto abbiano fatto con gli altri più quotati. 

 

Da chi sono stati scelti?

Professori universitari, editori, artisti. (Tutti i nomi qui, ndr)

 

Gli esperti italiani invece chi sono? 

Simone Bruscia, Roberto Canziani, Graziano Graziani, Stefano Massini, Debora Pietrobono, Giulia Delli Santi e la sottoscritta. 

 

Anche direttori di teatro e produttori, quindi.  

Sì, perché il mio intento è quello di creare per l’autore un luogo non solo virtuale ma fisico, dove un testo possa essere tradotto, pubblicato e distribuito ai produttori. L’ideale per me sarebbe creare delle residenze che facciano incontrare autori, produttori e dramaturg. Ma ci sono degli errori da correggere, negli anni a venire, poiché è fondamentale che i drammaturghi stessi siano ben disposti nei confronti dell’operazione, e questo non è sempre così automatico.

 

Cioè gli autori si boicottano da soli?

Capita, sì! Perché in questo momento storico in cui spesso i testi sono strettamente legati al proprio lavoro di attori e registi, si innesca una sorta di gelosia, un attaccamento morboso per il quale si teme che le proprie creature finiscano nelle mani degli altri. E poi c’è proprio anche la paura del plagio, del furto dei testi.  

 

C’è una grande attenzione nei confronti della drammaturgia negli ultimi anni. Pav, organismo di promozione romano, ha appena ottenuto un rilevante finanziamento europeo vincendo il bando Creative Europe con Fabulamundi, un progetto sulla drammaturgia contemporanea in Europa, tra l’altro fresco di candidatura agli Ubu tra i progetti speciali. Siete in dialogo? 

Non abbiamo avuto uno scambio effettivo, ma credo che la stima sia reciproca, e posso dire apertamente che Face à Face e Fabulamundi sono stati la prima fonte di ispirazione per il Playwright Project. Ci sono delle differenze ovviamente, perché il nostro è un progetto autoprodotto, con uno sguardo commerciale: il mio intento è dichiaratamente quello di vendere dei testi a dei produttori.

 

Come avete finanziato il progetto fino a ora? 

Con le donazioni ricevute per la prima edizione dal Teatro della Tosse di Genova, dal centro di produzione Elsinor e da Outis – centro nazionale di drammaturgia di Milano. L’Istituto Italiano di Cultura ha dato un piccolo contributo, mentre tutti gli aspetti tecnici e logistici per gli appuntamenti pubblici sono a carico del Segal Theatre. Per le pubblicazioni abbiamo ottenuto un grant del ministero degli Esteri destinato alle traduzioni. E poi è attivo una raccolta fondi da privati che passa attraverso il Segal e su una piattaforma di fiscal sponsorship a tempo illimitato. Per la prima edizione italiana dell’American Playwright Project al Teatro Vascello di Roma, abbiamo collaborato con l’American University of Rome che si fa carico dell’invito degli autori contribuendo alle spese aeree. E poi abbiamo una rete di collaborazioni di altro tipo, come la partnership di Radio 3.

 

Prossimi progetti?

Il centro nevralgico del mio lavoro rimane sempre la 369gradi, di cui abbiamo voluto nuovamente ridisegnare il perimetro di attività, segnalando nel progetto ministeriale per il prossimo triennio la volontà di traslare l’impegno produttivo dalle compagnie agli autori. Vogliamo affiancare, promuovere, sostenere la drammaturgia. Non a caso ho comprato i diritti di un format che si chiama White Rabbit Red Rabbit, un testo fenomenale che ci ha dato la possibilità di spostare l’attenzione dalle compagnie al testo, e che sta girando moltissimo. E proprio in virtù del principio di affiancamento di competenze di cui parlavamo prima, dal 2018 la direzione artistica di 369gradi sarà condivisa con Emanuele Valenti, regista di Punta Corsara, la compagnia su cui in questo momento stiamo investendo molte delle nostre energie. 

 

Resterai a NY a lungo?

Rispondo da sarda. Non era la mia città Roma e non è la mia città NY. Le mie radici sono in vaso. Non sono né emigrata né fuggita, sono qui per lavorare meglio a quello che faccio in Italia.  

 

Cosa pensi della tanto attesa legge sullo spettacolo dal vivo appena approvata? 

Non sono ancora riuscita a studiarla nei dettagli, ma per quello che ho letto sono contenta. L’estensione dell’art bonus a tutti i settori dello spettacolo mi sembra un ottimo segnale di allineamento con la società contemporanea occidentale, perché consente una partecipazione attiva anche del mondo dell’impresa all’ambito artistico. In Italia mancano le basi e gli strumenti per far funzionare una macchina complessa come il fundraising, ma la mia speranza è che la legge aiuti anche il nostro settore ad assorbire il concetto di piccola e media impresa e di filiera lavorativa, in cui produzione e organizzazione, gestiti in modo professionale e non con il fai da te improvvisato, tornino ad essere elemento imprescindibile per le formazioni artistiche di qualità, che necessitano di strutture produttive forti, stabili, capaci di sostenere e tutelare il lavoro creativo. 

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La pubblicazione verrà presentata a Milano sabato 18 alle 17.30, nell’ambito di Bookcity, da Mudima (Via Tadino 26), con la partecipazione di Marco d'Eramo, Marco Dotti, Manuela Gandini e Francesca Pasini (alle quali si deve il corredo iconografico), Marco Scotini e Lucia Tozzi; e a Roma venerdì 24 alle 21, al Cinema Palazzo di San Lorenzo (Piazza dei Sanniti 9A), nell’ambito del secondo Festival di DeriveApprodi, con la partecipazione di Maria Teresa Carbone e Andrea Cortellessa e di Antonella Sbrilli, che condurrà un gioco alfaturistico con la partecipazione del pubblico. Seguirà un reading poetico con le letture di Mariano Bàino, Nanni Balestrini, Elisa Davoglio, Sara Davidovics, Carmen Gallo, Jonida Prifti, Lidia Riviello, Sara Ventroni e Michele Zaffarano. 

 

Nel momento in cui scrivo (16 ottobre 2017) le ultime statistiche su Instagram indicano in ottocento milioni il numero di persone che, con cadenza variabile, spesso molte volte al giorno, usano l'applicazione di condivisione delle fotografie creata nel 2010 da Kevin Systrom e Mike Krieger e acquisita nel 2012 da Mark Zuckerberg. Ma è probabile che dalla fine di settembre, quando i dati sono stati resi pubblici, a oggi, la cifra sia cresciuta. E lo sarà di sicuro quando queste righe verranno stampate e – forse – lette. 

Tra giugno 2016 e aprile 2017 gli utenti di Instagram sono aumentati di venti milioni al mese, con un’accelerazione continua e progressiva. Presto un umano su sei sarà in grado di mostrare nel giro di pochi secondi i suoi scatti e le sue “stories” a una platea che copre l’intero pianeta. Molto più di altri social media, Instagram ha una diffusione globale: l’80 per cento dei suoi utenti si trovano fuori dagli Stati Uniti e in paesi come l’Indonesia, l’Iran o il Mozambico superano in numero quelli di Facebook o di Twitter (World Map of Social Networks, gennaio 2017). 

Quanto alle ragioni di questo successo, si riassumono rapidamente: l’ubiquità e la maneggevolezza dello smartphone, la semplicità d’uso della app, l’importanza delle immagini nella nostra (come in qualsiasi) società.

 

“Il Web 1.0 è stato inventato per consentire agli scienziati di condividere le loro ricerche, il Web 2.0 è stato creato per permettere alla gente di condividere immagini di gattini” (Ethan Zuckerman, direttore del MIT Center for Civic Media).

Non esistono, o non sono stati diffusi, dati attendibili sui soggetti preferiti dagli utenti di Instagram. Certo ci sono miliardi di gattini, di tatuaggi colorati, di unghie manicurate, di tazze di cappuccino con la schiuma a forma di cuore, di cibi esposti al presunto desiderio di chi guarderà (incarnazione e rovesciamento del foodporn, di cui ha scritto per prima Rosalind Coward in Female Desire: “Cucinare il cibo e presentarlo sontuosamente è un atto di servitù”). E con il cibo, spesso non distinguibili dal cibo, fotografie di viaggi, gite, scampagnate: torri Eiffel e torri di Pisa, ali d’aereo, specchietti retrovisori, rotaie di treno, spiagge e monti, albe e tramonti, orizzonti orizzonti orizzonti. 

Le immagini delle vacanze si sono condivise anche prima di Instagram. È presente nella memoria di molti viventi il ricordo di lunghe serate nel corso delle quali, fuori dal cono di luce del proiettore di diapositive, si sonnecchiava discretamente, mentre sullo schermo illuminato scorrevano selfie (allora si chiamavano autoscatti), torri Eiffel e torri di Pisa, e ancora spiagge, monti, tramonti, orizzonti.

Il dato nuovo è la quantità – e con la quantità, la velocità. Due elementi che naturalmente hanno cambiato tutto.

 

Nel 2015 l’ente per il turismo di Wanaka, in Nuova Zelanda, ha invitato e ospitato alcuni influencers. (Si definisce influencer una persona che, grazie alla sua popolarità nei social media, è in grado di lanciare nuove tendenze e di esercitare appunto un’influenza sui suoi follower). In cambio, i forestieri avrebbero postato immagini e brevi testi sulla loro esperienza di viaggio. All’operazione ha partecipato Johan Lolos (alias @lebackpacker), giovane pr belga, fotografo autodidatta e itinerante, seguito su Instagram da 452.000 persone, più della popolazione di Bologna o di Firenze. I risultati hanno superato ogni aspettativa: nel 2016 i visitatori sulle rive del lago Wanaka sono aumentati del 14 per cento rispetto all’anno precedente, un record nella storia del turismo neozelandese e un ritorno economico notevolissimo rispetto all’investimento iniziale. “Immagino che seguire i fotografi su Instagram – ha commentato Lolos – possa fornire espressioni più genuine rispetto all’ispirazione data dalla brochure di un’agenzia di viaggi”. 

 

Non sono sicura che l’autrice dell’articolo da cui ho attinto la notizia del caso Wanaka (Carrie Miller, How Instagram Is Changing Travel,“National Geographic”, gennaio 2017) userebbe il termine “genuinità”: il suo testo si apre con alcune fra le centinaia di foto che ritraggono solitari escursionisti seduti o in piedi sulla spettacolare roccia di Trolltunga, sospesa sul lago di Ringedalsvatnet, in Norvegia. Intorno solo il cielo e l’aspro paesaggio nordico, ma fuori quadro – avverte Miller – c’è una lunga coda di persone in attesa di prepararsi per lo scatto fatidico (qualcuno è anche morto). A Odda, la cittadina nel cui circondario si trova Trolltunga, i turisti sono passati dai 500 all’anno del 2009, era pre-Instagram, ai 40.000 del 2014. Oggi, si presume, sono molti di più.

 

Le fotografie di Instagram non sono genuine. E neppure, ammesso lo si consideri un pregio, spontanee. 

Nella primavera 2017 lo scrittore – e adesso anche fotografo – nigeriano-statunitense Teju Cole ha ripostato nel suo account Instagram (@_tejucole, 32.400 follower) una serie di scatti realizzati nel Foro romano dai turisti: diversi gli autori, pressoché identiche le fotografie, tutte prese da un’unica postazione, punto obbligato, o così parrebbe, per chi voglia abbracciare con un unico sguardo il sito archeologico. “Questa – osserva Cole – è una delle prospettive ideali suggerite dal tracciato del sito e dall’infrastruttura turistica. Innumerevoli turisti fotografano il Foro da questa prospettiva, inconsapevoli degli innumerevoli altri che, reagendo automaticamente alla predisposizione del terreno, hanno appena fatto lo stesso”. 

Su un punto non sono d’accordo con Cole, ed è l’idea che i turisti al Foro non sappiano di riprodurre sempre la stessa immagine. Lo sanno, invece. Sperano forse che la loro fotografia sia migliore delle altre per un capriccio del destino (condizioni di luce speciali, un gabbiano che vola sullo sfondo delle colonne…), ma non cercano di essere originali. 

 

Da un lato la fotografia al Foro romano è un rito, e i riti si rispettano e si ripetono, dall’altro Instagram si presta alla mancanza di originalità, in qualche modo la impone. Il meccanismo stesso degli #hashtag su cui si fonda la possibile organizzazione e catalogazione dei contenuti della app consente di mettere subito a confronto i soggetti, le angolature, gli stili. E vedere decine di “copie” del proprio scatto non indebolisce, semmai rafforza la scelta compiuta. Per questo su Instagram miti e riti, turistici e non, si creano rapidamente e non hanno bisogno del peso storico e simbolico del Foro romano. 

 

Il Choi Hung Estate è uno dei primi esempi di edilizia sovvenzionata realizzati a Hong Kong ai tempi in cui la città era ancora una colonia britannica. Quando è stato costruito, nel 1962-63, “nessuno avrebbe predetto la sua popolarità nell’era digitale”, hanno scritto nel loro account @travel_ingoodcompany Johanna e Piotr, una coppia polacca che gira il mondo pubblicando fotografie di arte, architettura e “di tutto quello che cattura l’occhio”. Cinque o sei anni fa, però, qualcuno si è accorto che i grandi edifici razionalisti, con le loro file di finestre affacciate sui campi da pallacanestro, erano ottimi sfondi fotografici. E da allora “non c’è instagrammer che si rispetti, in quel di Hong Kong, che non vada a farsi un selfie al Choi Hung Estate”. Cito di nuovo Johanna e Piotr, perché il loro account riflette e asseconda con avvedutezza i gusti dei turisti “instagrammisti”. 

 

Più dell’importanza del monumento conta la sua fotogenia, la capacità di “catturare l’occhio”. È il caso dei murales e dei graffiti, che a Roma, Lisbona o Copenhagen, ricorrono nella galleria fotografica dei due viaggiatori polacchi e che si rivelano, al di là delle intenzioni degli street-artisti, oggetti esemplari di una città-fondale, dove tutto quello che non entra nell’inquadratura è automaticamente scoria. 

(E chi, come @_tejucole o, in Italia, tra gli altri, Francesco Pecoraro (@fr_pecoraro), punta l’obiettivo su un ideale fuoricampo visivo, si ritrova invischiato in un comma22: nello stesso momento in cui scatta il clic, la scoria si fa set ed è pronta per diventare maniera).

 

Quello che, stanziali o viaggiatori, pensavamo di dover monēre, ricordare – il monumento – non serve in effetti più: vuoi perché lo conosciamo già, ed è replica prima ancora che il nostro sguardo ci si posi sopra, vuoi perché non lo conosciamo, e quindi non ci interessa. Ci vuole qualcosa di nuovo.

“A New York non c’è niente di nuovo da fare”: questo, nelle interviste, MaryEllis Bunn (anno di nascita 1992) ha detto di avere pensato, prima di ideare nel 2016 il Museum of Ice Cream, meraviglia contemporanea che si sposta di città in città e che con il museo in senso tradizionale non c’entra niente (“abbiamo scelto questa parola, perché è qualcosa che la gente capisce”, ancora Bunn). E pure il gelato è solo un McGuffin, per dirla con Hitchcock. A contare davvero è che ambiente, superfici, colori sono studiati per fare da sfondo ai selfie che i visitatori scatteranno e condivideranno su Internet: per questo, e non per altro, migliaia di persone sono disposte a pagare una trentina di dollari per il biglietto. Non solo per vedere, ma per esserci. 

 

È quella che oggi si chiama “esperienza”. E il Museum of Ice Cream è solo uno dei molti “Instagram playgrounds” – la definizione è della giornalista Alyssa Bereznak (Can Real Life Compete With an Instagram Playground?, The Ringer, 9 agosto 2017) – che si propongono di fornirla. Intorno al design dell’esperienza, al marketing dell’esperienza, ruotano milioni e miliardi: ristoranti, alberghi, musei, mezzi di trasporto, perfino le nostre stesse case, ambiscono a diventare luoghi esperienziali. 

Come se la vita non ci regalasse o infliggesse esperienza a piene mani, che noi la guardiamo o no.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Domani a Mudima alle 17.30 (Bookcity Milano)
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

I mondi di Philip K. Dick

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Il mondo del cinema ha presentato alcune novità che non sono passate inosservate. A ottobre è arrivato sugli schermi italiani Blade Runner 2049 e proseguirà la programmazione della serie The Man in the High Castle, in italiano La svastica sul sole, visto il successo della prima. Non basta: la coppia Amazon–Channel 4 avvierà la realizzazione di una serie dal titolo Electric Dreams, il cui primo titolo sarà The Hood Maker, in italiano Il fabbricante di cappucci.

Queste realizzazioni hanno un denominatore comune, l’ispiratore. Si tratta di Philip K. Dick che, pur essendo morto nel 1982, ha continuato e continua ad essere presente al cinema e alla tv con le sue opere complete o con semplici frammenti. Tra le più famose: il già citato Blade Runner del 1982, tratto dal racconto Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? (su cui di recente è uscito il volume a cura di Vanni Codeluppi, la cui introduzione è pubblicata su questo sito), Atto di forza del 1990 e poi del 2012, tratto dal racconto Ricordiamo per voi, Urla dallo spazio del 1995, tratto dal racconto Modello Due, Truman Show del 1998, tratto dal romanzo Tempo fuori luogo, MinorityReport del 2002, tratto dal racconto Rapporto di minoranza, che poi ha generato una serie televisiva, Paycheck del 2003, tratto dal racconto Previdenza, Un oscuro scrutare del 2006, tratto dall’omonimo romanzo, Impostor del 2002, tratto dal racconto Impostore, Next del 2007, tratto dal racconto Non saremo noi, Radio Free Albemuth, tratto dall’omonimo racconto, Guardiani del destino del 2011, tratto dal racconto Squadra riparazioni.

 

Il mondo di Dick, che ha prodotto circa 50 romanzi e 120 racconti, è la fantascienza, quel diffuso genere popolare caratterizzato dall’essere non riproduttivo della realtà o, in termini più raffinati, non mimetico. In questo senso si può avvicinare alla fiaba che celebra un mondo non contaminato, dove le norme non sono violate, dove lo spavento è rarefatto, dove la potenza dell’uomo è modesta e secondaria. Oppure al fantastico, dove il realismo è sfaldato, le linee di riconoscibilità si rompono, e ciò che è esterno, laterale, soprannaturale si introduce nel reale. Oppure al genere fantasy, dove sono tratteggiate le linee di un mondo “altro”, organico, autosufficiente, coerente con il magico.

 

Nel contempo, però, la cifra della fantascienza è inconfondibile: essa è sorretta dalla visione prospettica di anticipazione, in quanto legata alla scienza e alla sua evoluzione. Di qui la felice intuizione di Giorgio Monicelli, fratello del regista, di denominare ‘fantascienza’ il filone di romanzi scientifici innovativi rispetto ai precedenti che pur non erano mancati, alcuni molto illustri, da Verne a Wells. La novità esiste, ed è l’obiettivo specifico: esplorare i confini tra leggi scientifiche e le ipotesi possibili, e soprattutto tra la spiegazione scientifica e le paure comuni ed antiche. Come osservava Sergio Solmi, i mondi possibili diventano plausibili e il loro divario si accorcia. E questo riguarda non solo quelli lontani nello spazio, ma anche quelli vicini, quelli interiori dentro di noi. La scienza, che nel passato aveva proclamato il controllo del caos, diviene oggetto di panico, crea vertigine, genera insicurezza, coltiva il desiderio del cittadino di vedersi “fuori”, smarrisce la funzione protettiva. Nascono le patologie quotidiane e la “science fiction” ne diviene microspia, metafora delle paure collettive, proiettando il futuro nel presente dove l’umanità deve fronteggiare la crisi della propria condizione. La positiva e confortante utopia si corrode per assumere colori bui e carichi di angoscia.

 

Per questo sarebbe riduttivo assegnare alla fantascienza un ruolo ‘preveggente’, mentre sembra piuttosto ricoprire l’incarico di segnalatore della paranoia del presente.

Relegato per anni nei confini della letteratura “bassa”, da morto Dick diviene scrittore di culto, suscitando un interesse sempre crescente. Di lui si occupano convegni, università, studiosi di letteratura inglese, vengono costruiti glossari e il cinema, come abbiamo visto, lo saccheggia con successo. Da vivo, invece, era vissuto senza grandi scatti, come ricorda Carrère nella biografia Io sono vivo, voi siete morti (vedi la recensione di L. Grazioli), confuso nella folla solitaria. Sempre “border line”, puritano, nevrotico, fragile, ipersensibile, disordinato, incline alla droga, appassionato della New Age, cultore dell’I Ching e della parapsicologia, aveva sfogato tutto ciò nella fantascienza. E vi rimarrà sempre fedele perché, come ebbe a dire, “parla di cose serie”, perché affronta le grandi domande del destino. Cosa è vero? Cosa è la realtà? Cosa è umano? Si vive manipolati o autonomi? Per affrontare questi temi, Dick spazia dalla tecnologia al potere e al controllo che esercita, dalla presenza di un ‘altro’ come replicante e doppio al rapporto tra apparenza e realtà. Non li tratta però nelle sue opere in modo settoriale o autonomo, ma incarica il lettore di isolarli, perché sempre intrecciati, interconnessi, mai autosufficienti. Non a caso a Dick è stata attribuita la qualifica di “postmoderno”, dato che la sua opera è una continua ibridazione, scomposizione e superamento dei confini del genere e dei singoli temi. La realtà che descrive è una realtà instabile, i riferimenti sono sfumati e spesso insussistenti, i mondi comunicanti e i luoghi inessenziali. Le narrazioni sono delocalizzate, senza patria, con frammenti che circolano come schegge in ordine sparso.

Prima si è parlato di tecnologia e della sua rivoluzione.

 

I temi non sono certo nuovi, già percorsi da Orwell, Bradbury, Huxley, per citarne solo alcuni, ma originale è la loro rielaborazione.

Il sommovimento dovuto alla tecnica ha toccato il corpo (per inciso le prime opere di Dick escono nel 1953, anno della scoperta del DNA), ha segnato profondamente l’idea della vita e della morte, ha suggerito una figura umana come spazio percorso da molecole dotate di un programma prestabilito. Nasce così la possibilità di duplicare gli esseri viventi con l’ingegneria genetica (per un paradosso dickiano il primo caso al mondo realizzato è stato una pecora!), che ha consentito innesti di organi artificiali e, a volte, ha organizzato protesi esterne che ne garantivano la vita. In questa visione, Dick vede nell’androide (la definizione di “replicante” non è sua ma del regista R. Scott) l’uomo inautentico, la macchina che vive senza vivere, la persona che si illude di godere di un’autonomia che invece manca, la creatura fittizia che cerca un’identità senza trovarla e che erra smarrita nel mondo. È il tema de Le tre stimmate per Palmer Eldritch (1965), dove l’uomo che vive su Marte, alienato e consumatore di allucinogeni, anela a vivere la vita della bambola Perky Pat, soggetto fittizio trasformato in feticcio, in cui ritrova se stesso e dissimula la propria condizione di spostato. Il gruppo dei consumatori diventa quella “comunità virtuale” di cui parla Baumann, in cui le identità possono essere indossate e spogliate continuamente.

 

Non solo: a Dick interessa anche il versante dell’invasività tecnologica nella relazione tra le persone. Si tratta della ricerca di dati sensibili in grado di essere utilizzati da terzi, con strumentazioni adeguate e sofisticate, e non solo dal potere. Da tutto ciò nasce la visione antiutopica, o secondo un dire moderno “distopica” cui si accennava prima, ove gli ingranaggi non si incastrano, il mondo risulta avariato, l’orizzonte non è perfetto, i problemi del presente hanno raggiunto un ipotetico estremo, che risulta negativo.

Dick non è attratto fideisticamente dalla tecnologia ed è pessimista: le macchine portano a una minore libertà, le leggi fisiche rischiano di minare le basi del vivere comune. Ma delle macchine non ci si può liberare per tornare a un mitico paradiso terrestre, occorre invece cercare di essere liberi “con” le macchine. L’innocenza incorrotta è una visione mistificata in quanto, come precisava il nostro, “tra umano e non umano non vi è differenza sull’essenza, ma nei comportamenti”. Certo, si alimenta la paura perché la potenzialità dei nuovi orizzonti crea nuove possibilità negative. Certo, questa paura si irrobustisce per la convinzione che non si può sconfiggere un mondo di intrighi e di interesse. Così nel contempo cadono le illusioni del desiderio.

Il rapporto tra corpo e tecnologia conduce a un altro versante, e più precisamente alla domanda: “Cosa è umano?”. Ci si inoltra nel territorio dell’“altro”, del doppio, in cui Dick inserisce le proprie ossessioni, la continua assenza di certezze, l’insicurezza della propria identità e struttura, un discorso complesso e articolato sui suoi “alter-ego meccanici”.

 

Innanzitutto gli androidi rappresentano una minaccia per l’umanità, sono perturbanti e producono spaesamento, come in Modello Due del 1952. Il racconto è popolato da robot votati inizialmente a distruggere il nemico in guerra. Però, per una disfunzione del modello tecnologico costituito da micidiali lame rotanti, assumono sembianze umane e hanno una propria volontà. Il loro ruolo è stravolto, ma non cambia il mandato di uccidere. E così la giovane Tasso, nascondendo la sua natura androide, sopprime l’ultimo sopravvissuto per ottenere segreti preziosi. La tecnologia si ritorce, gli universi sono in disfacimento, e come ripete, “cadono a pezzi”.

Capita poi che gli androidi non sappiano di essere tali, come nel racconto Impostore (1953). Durante una guerra tra umani e alieni, questi ultimi inviano sulla Terra un robot che riproduce perfettamente le sembianze e la memoria di uno scienziato. All’interno della macchina è nascosta una bomba e lo scopo è quello di far attivare l’esplosivo per distruggere un progetto segreto terrestre. Il robot però crede davvero di essere l’uomo di cui mostra le sembianze e, catturato, tenta di dimostrare la propria innocenza. Nei pressi della nave aliena, che è convinto contenga i resti del vero robot, trova la prova che è lui in realtà il robot e le parole che pronuncia innescano l’esplosione.

 


Gli androidi svolgono una vita normale, hanno l’illusione della libertà, ma in realtà i ruoli sono prestabiliti e congelati. Tipico in questo senso è il racconto Le formiche elettriche (1969), dove un uomo di successo, ricoverato in ospedale dopo un incidente, riceve dai medici l’incredibile notizia di essere un androide. Cerca di invertire rotta, non vuole continuare nella finzione e vuol darsi la morte. Scopre che al posto del cuore ha un rullo con un nastro i cui fori corrispondono a un segmento di realtà che gli è concesso sperimentare. Così distrugge il nastro, il meccanismo si inceppa e si autodistrugge. È una manifestazione di libertà ancora possibile, anche se a compierla è un androide che credeva di essere umano.

In sintonia con il precedente racconto è l’ultranoto romanzo Gli androidi sognano pecore elettriche? (1966). Quando i replicanti diventano pericolosi, la ditta costruttrice decide di ritirarli fissando una taglia sul capo. Nel frattempo si delinea il loro status drammatico in quanto, nati adulti, senza emozioni e amore, vogliono vivere con gli uomini, sono alla ricerca dell’umano. “Si è vissuto ma non si vive”, gli androidi sono “corpi non vivi, non sono”. Nel contempo Dick li ha forniti di un’anima, anche se sintetica, che li porta a un sogno, cioè a sentirsi parte dell’universo, comprendere il senso della vita. Quindi a essere uomini.

Ma non basta. L’ossessione per l’alieno, l’“altro”, ha un’ulteriore valenza. È la proiezione delle paure dell’uomo. Come nel romanzo Noi marziani (1964), dove il protagonista scappa su Marte per fuggire alle allucinazioni che lo tormentano che riguardano gli umani uguali ai robot. Su Marte però viene adibito alla manutenzione dei robot, con il risultato che le allucinazioni riprendono, implacabili perché la realtà è meccanica, disturbante e gli uomini ivi inglobati possono offrire risposte soltanto parziali a un mondo innaturale.

 

Non solo: è anche consapevolezza della diversità presente nel mondo, collocata in quel territorio della psiche, del sé inespresso, come osserva lo psicoanalista A. Carotenuto, che costituisce un ponte tra noi e gli altri. Questa narrazione è diffusa nel romanzo tradizionale, il quale però ha lo sguardo rivolto al passato come dimostra, ha osservato U. Eco, la sua struttura impostata sulla strategia dell’imperfetto. La fantascienza invece proietta il presente nel futuro, dove l’umanità deve confrontarsi con la crisi che la minaccia e con la destabilizzazione degli equilibri, e non può più appoggiarsi a funzioni regolatrici.

L’effetto della tecnologia si connette poi strettamente al tema del potere. Sofisticate apparecchiature gestite dai detentori del potere sono in grado di ottenere notizie riservate, manipolare informazioni, memorie, percezioni per asservire il tutto ai loro scopi. Oltretutto i mass media hanno la capacità di creare realtà illusorie, percepite invece come reali dai personaggi, delineando un mondo artificiale. È la descrizione di alcuni romanzi come Tempo fuori luogo (1958), in cui addirittura si fa vivere una persona in un set televisivo a sua insaputa; oppure Penultima verità (1964), dove un presidente della repubblica, parlando alla televisione, convince dell’esistenza di una guerra, spedisce i cittadini nei rifugi, ma la guerra è oramai finita da tempo.

 

Gli stessi media sono vulnerabili, come in Cronache del dopobomba (1963) che narra di un esperimento nucleare, apparentemente fallito, a causa del quale però diversi bambini sono nati con deformità di vario tipo. Quindi la scena si sposta nel futuro, le ragioni o i colpevoli del disastro sono ancora ignoti, la vita nelle varie comunità cittadine prosegue più o meno inalterata, quasi che l’accaduto non sia stato in grado di scalfire la routine. In questo scenario Dick colloca i suoi temi: le tensioni razziali, l'emergere dei poteri-psi, l'analisi del fenomeno religioso. Neanche un evento sconvolgente è stato in grado di dissuadere l'americano medio dal ripetere le proprie abitudini più quotidiane. L'umanità è già folle ed è inutile cercare la pazzia nelle catastrofi.

Nel mondo nasce una sorta di collasso comunicativo dove si perdono i riferimenti con uno sbandamento collettivo. Esemplare è La svastica sul sole (1962), in cui si racconta di un universo alternativo, per dirla modernamente “ucronico”, in cui la seconda guerra mondiale è stata vinta dalle potenze dell’Asse. Esse vagheggiano un sistema rigido dominato dall’efficientismo e dall’ordine, in cui gli umani sono esseri da manipolare, senza libertà. In realtà il tutto è un’illusione, come illusione è quella del protagonista che si convince della sconfitta dell’Asse. È tutto finzione, e alla fine sorge la domanda se non viviamo anche noi in una finzione, tormentati così da un dubbio senza risposta.

 

E ancora. Il rapporto con il potere è soprattutto insicurezza, paura per la propria incolumità, richiesta di protezione. Questo aspetto è trattato nel noto racconto Minority report o Rapporto di minoranza (1956). La trama, ambientata nel 2054 (anche qui non siamo così lontani), è centrata sull’attività di una Agenzia che riesce ad arrestare i cittadini senza che sia stato commesso alcun reato, grazie alle previsioni di tre sensitivi, i precog. Lo sviluppo è noto anche grazie alle trasposizioni filmiche, ma l’ispirazione dello scritto è fulminante. Come sostiene il protagonista poliziotto, “arrestando prima di un’azione violenta, la commissione del crimine è qualcosa di metafisico. Noi diciamo che sono colpevoli, loro proclamano la loro innocenza e in un certo senso lo sono. Avremo un campo di prigionia pieno di potenziali criminali”. Dick modella un sistema in cui si raggiunge la sicurezza assoluta con la pre-conoscenza dei cittadini. Per il racconto si tratta dei precog “idioti”, per gli antropologi criminali di fine Ottocento della dimensione del cranio, per i neuroscienziati della struttura interna cerebrale. Comunque sia, emerge un bisogno: individuare con certezza i colpevoli per garantire il successo-sopravvivenza del sistema. Meglio se si conosce in anticipo il colpevole, prima che agisca, senza ingaggiare processi sfinenti, sottoporsi a schermaglie processuali pretestuose, confrontarsi con i dubbi della decisione. Vengono cancellati i riti e i simboli, è superata la fase del supplizio pubblico dove la sofferenza del condannato esposta a tutti ammonisce a operare onestamente. Altrettanto superata è la fase del processo, che svolge l’analoga funzione di prevenire i reati mostrando la sorte di chi viola le regole. Non è necessario individuare il nemico: egli è già sconfitto in partenza.

 

Delle varie direttrici di Dick il vero collante, peraltro già menzionato, è il rapporto tra realtà e apparenza. In altri termini è la risposta alla domanda: cosa è reale?

I confini tra reale e irreale sono confusi, l’originale e la copia non si distinguono. Nasce di qui l’approccio dickiano che segnala il territorio caotico, mutevole, intraducibile che pervade la realtà, contraffacendola. Quella stabile è illusoria, è una pseudo-realtà in cui è assente un piano provvidenziale e dove nessuna garanzia di comodo è assicurata, dove l’apparenza è incoerente, la conoscenza fragile. La verità è polvere, “kipple”, che si impasta, si confonde, si sgretola come dopo un’esplosione (Dick pensava a quella atomica). E rinvia al problema della confusione delle identità, all’ambiguità tra uomo-donna, bene-male, visione oggettiva-soggettiva, vita-morte, uomo-simulacro-simulazione, per dirla con Baudrillard. Sull’ambiguità Dick ha molto insistito perché, pur conducendo alla “falsificabilità”, da intendersi non popperianamente ma come “falsaria”, essa nel contempo porta umanità nel sociale e ne garantisce la sopravvivenza.

Esemplari sono, in questa direzione, due romanzi.

Il primo è Unoscuro scrutare (1977). Il consumo di droghe è generalizzato e rende evanescenti i confini tra realtà e immaginazione. Le autorità sono immobilizzate perché distinguere è pressoché impossibile e alcuni agenti infiltrati hanno coperture tali da non sapere alla fine più chi siano. Essi devono usare le droghe per mimetizzarsi, perdono il senso della propria identità, si scindono nel doppio ruolo di osservatore e osservato in uno oscuro scrutare che “mostra un uomo all’interno di un uomo. Il che vuol dire nessun uomo del tutto”.

 

Il secondo, forse tra i più celebrati, è Ubik (1969), ambientato ancor più vicino a noi, nel 1992. Il protagonista Chip, alienato nel mondo del denaro, solitario in una società oppressiva, subordinato agli oggetti quotidiani, sopravvive a un attentato in cui muore il suo principale, Runciter. Costui era titolare di una società che contrastava lo spionaggio commerciale utilizzando gli Inerziali, persone in grado di combattere spie dotate di poteri paranormali. Runciter, che si faceva consigliare dalla moglie deceduta da tempo, ma rimasta ibernata in una sorta di semi vita o “animazione sospesa”, ora viene conservato a temperature bassissime, e vive anch’egli un surrogato di vita. Gradualmente compaiono sintomi di deterioramento della realtà, gli oggetti regrediscono: i videotelefoni si trasformano in vecchi apparecchi in bachelite, i moderni razzi diventano aerei a elica, le automobili tornano ai modelli degli anni Trenta. A questo punto serpeggia la convinzione che le parti si siano invertite e Chip si rende conto di trovarsi anch’egli in animazione sospesa. Intanto giungono messaggi da Runciter che, disperatamente, segnala di essere vivo e tenta di mettersi in contatto con lui. In un susseguirsi di colpi di scena ecco la rivelazione: nel mondo dei semivivi è in corso una lotta tra i non morti buoni e quelli malvagi. Nel frattempo, si insinua la presenza del misterioso Ubik, sostanza ubiqua presente ovunque, che viene fornito a Chips che in questo modo conosce la verità. Il finale è inatteso: al tecnico che ripristina i contatti con la moglie, Runciter dà alcune monete di mancia che hanno impresso il volto di Chips. È il segno che la realtà vera sta cambiando? Sarà opera di Ubik, che nasconde dietro di sé la macchina della realtà?

 

Per concludere. Il clima politico-culturale in cui vive Dick, dagli anni ‘60 agli ‘80, è quello tipico della controcultura americana, dell’opposizione al mondo esistente, dell’uscita dalle secche del capitalismo, del ritorno a una innocenza incontaminata. Dick però non vi appartiene. I suoi lavori esprimono un doppio rifiuto: da un lato l’opposizione all’America giovanile e protestataria di quegli anni, dall’altro la critica al lamento intellettuale per la smarrita purezza. Non compaiono in lui proclami per uscire dalle strettoie di un mondo che si rifiuta o vagheggiamenti per un ritorno all’innocenza incontaminata. Emergono invece diverse riflessioni miscelate tra loro: la consapevolezza della globalità fa pur sempre rimanere all’interno del sistema e non si può dimenticare che con la dissipazione non si cambia nulla. Dick non è nostalgico, né tantomeno aspira all’apocalisse. È convinto che si può essere dissenzienti pur rimanendo all’interno dei rapporti, perché è lì che si combatte il nemico. La società tecnologica del benessere può anche portare alla rovina, alienare, consumare tutto nei rapporti commerciali, far comprare la pecora elettrica, ma male ancor peggiore è il rischio di precipitare in uno stadio naturale senza etica. I personaggi di Dick non sono eroi, sono uomini comuni, instabili, un po’ egocentrici, inadeguati e pertanto alla ricerca di appoggi, essi non hanno una storia e tantomeno una ideologia, sono artigiani tecnologici. Per orientarsi nella complessità e nella confusione del mondo trovano una via di uscita: l’empatia, l’altruismo, la capacità di slanci, l’agire con sentimento, quel sentimento “che distingue l’umano e non umano” osserva Dick. Come avviene ne La svastica sul sole, quando il mite seppur importante funzionario Tagomi rifiuta di firmare il foglio che porterà al trasferimento di un ebreo dalla sua autorità giapponese a quella tedesca, salvandogli così la vita.

 

Come accennato prima, Dick viene talora indicato come autore della postmodernità. In effetti sua è la consapevolezza nell’assenza di fondamenti ultimi ed immutabili, cui si unisce la riflessione critica su una modernità stravolta dalla omologazione e dal potere dei media. Di quel pensiero gli manca però il cinico disincanto, l’inclinazione anticapitalistica. Egli accetta le regole del consumo, dota i suoi personaggi di ribellioni improvvise e di imprevedibili gesti di solidarietà, esprime il bisogno di una salvezza. Nella sostanza si tratta di prendersi cura dell’altro, di sforzarsi affinché “tutti gli uomini diventino fratelli”, come ricorda il verso di Schiller citato in Noi Marziani. Dick erra tra filosofie e religioni, cerca qualche radice, anche se rimane convinto che, comunque, le sue sono sempre “penultime verità”.

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Umberto Eco tra Nani e Giganti

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La morte dell’autore: espressione coniata cinquant’anni fa da Roland Barthes, assai discussa da studiosi di letteratura, critici, semiologi, filosofi, ma ormai usurata, stanca, fortemente indebolita dal tempo e dall’età. Per Barthes, si sa, “non appena comincia a scrivere, l’autore entra nella propria morte”. L’atto di scrittura, abolendo ogni idea di soggetto individuale, di genio creatore e, con ciò, di proprietà dell’opera, afferma piuttosto la persona linguistica, la soggettività come effetto di senso del testo. Se io è sempre e soltanto chi dice “io”, autore è chi, alla fine, l’opera decide di eleggere come tale, con tutte le finzioni e le credenze del caso. Da Mallarmé a Proust, da Blanchot a Benveniste, è tutto un recitare inni funebri, peraltro euforici, verso ogni residuo di romanticismo, ogni ingenua volontà d’espressione di sé. Ma l’autore ha comunque trovato un suo strenuo rifugio, dove la tragedia, comme il faut, si fa farsa: è quello dei media, mai stanchi di vendere eroi per un giorno, figli illegittimi di geni-brand un tanto al chilo. La televisione, il cinema, la letteratura, i giornali, il web sono strabordanti di autori d’ogni ordine e grado, geni ipercompresi che sfornano narrazioni di risulta, pronte ad appassionare pubblici blasé in blando deliquio. 

 


E poi? Ognuno per la sua strada: scrittori e scriventi, lettori e leggenti, opere e operazioni? Certamente: tutto è in fumo. Fino a che, per ironia della storia, grazie a un avvitamento di centottanta gradi, la metafora torna a esser presa alla lettera: e l’autore muore per davvero.

Sto parlando, sarà già chiaro, di Umberto Eco, che autore era in tutti i sensi e a tutti gli effetti, scomparso da quasi due anni lasciando un vuoto che si fa (vana?) fatica a colmare. Come pure a intravedere per intero. Talento dal multiforme ingegno, Eco è stato semiologo e scrittore, giornalista e filosofo, estetologo e massmediologo, editore e docente universitario, opinionista e barzellettiere, enigmista e bibliofilo, nonché, soprattutto, uomo del suo tempo, un tempo e una storia che ha attraversato senza stare a guardare, cercando di capire e far capire, di interpretare e descrivere. Eccellendo in ognuno di questi campi. Difficile tener separate tutte queste attività – e altre che mi staranno in questo momento sfuggendo (sì, certo, eccone alcune: la televisione, la politica, la scuola…) –, come se si trattasse di un mosaico di tessere giustapposte a casaccio.

 

Quel che ci ha insegnato è piuttosto il contrario: a costruire relazioni, istituire collegamenti, edificare strutture, aprendo opere e costruendo mondi possibili, scompigliando le carte e ridistribuendole in altro modo. Se c’è un senso ancora possibile della parola ‘autore’ – tale per cui siamo qui, ancora chissà per quanto, a piangerne la dipartita – sta proprio in questa volontà di completezza, in questa rinuncia alla settorializzazione, in questo gioco a rimpiattino che non ha origine né fine se non quello, evidente e insieme basilare, di mimare il dinamismo intrinseco della cultura umana e sociale.

Claudio Paolucci, tra i suoi ultimi allievi a Bologna, cimentandosi con l’ardua impresa di disegnarne un ritratto a tutto tondo (Umberto Eco fra Ordine e Avventura, Feltrinelli, pp. 239, € 16), scrive giustamente che Eco non era un esperto ma un enciclopedista, non era “l’uomo che sapeva tutto”, come qualcuno ha voluto caricaturizzare, ma un intellettuale che sapeva, se del caso, come fare a sapere – e a far sapere. Laddove l’esperto è l’erudito fine a se stesso (che, nota Paolucci, tanto piaceva a Mike Bongiorno), l’enciclopedista tende a mappare le conoscenze altrui per costruirne di nuove. L’essere enciclopedico, per Eco, non significa andare in cerca della Summa filosofica ideale, come faceva il suo amato Tommaso, né ricostruire un albero sedicente logico delle scienze, alla Diderot e D’Alembert; vuol dire semmai restituire la complessità dei saperi e la loro contraddittorietà, alla maniera del rizoma di Deleuze e Guattari. Nessun ordine senza avventura, insomma, e viceversa.

 

Gran parte del libro di Paolucci cerca di intendere il senso profondo di quella che ai più è apparsa come la doppia anima della scrittura di Umberto Eco: da una parte quella del saggista, dall’altra quella del romanziere. “Tutto ciò su cui non si può teorizzare, si deve narrare”, diceva la quarta di copertina del Nome della rosa, suo primo romanzo, facendo il verso alla chiusa del Tractatus di Wittgenstein. E Paolucci spinge parecchio il pedale su questa idea, ponendo gli scritti teorici come Lector in fabula o I limiti dell’interpretazione dal lato del ‘dire’ e i romanzi come Il Pendolo di Foucault o L’isola del giorno prima dal lato del ‘mostrare’. Basti pensare alla problematica per eccellenza della filosofia, quella della Verità, che Eco risolve a suo modo giocando di sponda fra scrittura letteraria e saggistica semiotica: “Gli universi narrativi – leggiamo in un suo saggio poco noto del 2004 – ci promettono una nozione di verità che è confortevole e sicura; il mondo invece non lo fa. Per questo siamo portati a interpretare il mondo come se fosse una grande storia, al fine di trovarci una qualche coerenza. (…)

 

Il mondo non è un parametro in funzione del quale giudicare gli universi narrativi; sono gli universi narrativi a essere il parametro che ci consente di giudicare le nostre interpretazioni del mondo”. Altro che banale storytelling come surrettizia emanazione di fake news! Da qui, piuttosto, la tesi filosofica centrale del libro di Paolucci, secondo la quale in Eco la narrazione funziona da schema intermedio fra l’ordine delle idee e l’ordine delle cose. Che non è affermazione da poco. E andrà discussa. 

Nel frattempo, appare più che opportuna la scelta della casa editrice La nave di Teseo di intitolare il primo libro postumo del celebre semiologo – raccolta delle sue lezioni annuali al festival “La Milanesiana” – Sulle spalle di giganti (pp. 444, € 25). Dove ovviamente siamo innanzitutto noi, suoi avidi lettori da sempre, a sentirci come nani che aspirano a salire, non senza fatica, sul dorso di cotanto colosso. Il libro è una bella sintesi delle principali questioni che hanno interessato la riflessione-narrazione di Eco: la bellezza e la bruttezza, il nesso fra relativismo e assolutezza, l’imperfezione artistica, la forza del falso, il segreto, il complottismo, la rappresentazione del sacro. Ottimo strumento per ricominciare a percorrere in lungo e in largo, tra ordine e avventura, il labirinto della sua opera enciclopedica.

 

Nel primo capitolo del libro, sicuramente uno dei più belli, si ricostruisce la storia del celebre aforisma “siamo come dei nani sulle spalle di giganti”, attribuito a Bernardo di Chartres (XII sec.) ma con radici molto più antiche ed esiti assolutamente moderni. Anzi, per certi versi, si tratta proprio dell’idea stessa di “modernità”, agitata ogni qualvolta si vuol fare innovazione distaccandosi dai canoni letterari, linguistici e financo morali della propria epoca. Ogni parricidio però, commenta Eco, ha come suo atto opposto e complementare l’assassinio dei figli: Edipo uccide Laio ma Saturno, Medea o Tieste fanno fuori, simmetricamente, la propria prole. Il conflitto fra generazioni è moneta corrente. D’altra parte, è sempre accaduto nella storia che la voglia d’andare avanti, rinnegando il lascito dei genitori, si sia attuata ricercando antenati considerati migliori: il futuro prossimo si trova nel passato remoto, di modo che ogni rivoluzione è il tentativo di ripristinare un’età dell’oro. Da qui l’idea di Bernardo: gli antichi erano persone di elevata statura, e solo stando sul loro groppone è possibile riuscire a vedere quel che loro vedevano, e forse anche un poco più in là. Trovata retorica tanto sensata quanto efficace: da una parte si riconosce umilmente un’autorità pregressa, dall’altra ci si sforza di proseguire il suo cammino, in vista dei medesimi obiettivi, magari rivisti. Tommaso era a suo modo un innovatore, ma, interrogato in merito, sosteneva di limitarsi a riprendere Agostino. 

 

Faccenda che trascende di parecchio la lucente epoca medievale, e a poco a poco, con alterni destini, arriva fino alla contemporaneità. Newton, che non era certo un pecorone, citava spesso la frase in questione; Ortega y Gasset altrettanto; le avanguardie storiche si innamorano dell’arte africana; e Max Glukman, noto antropologo britannico, sosteneva che “scienza è qualsiasi disciplina in cui uno stupido di questa generazione può oltrepassare il punto raggiunto da un genio della generazione precedente”. La storia occidentale (e forse non solo) sembra aver perseguito insomma, osserva Eco, un’idea di progresso che, per quanto laicizzata, è fortemente cristiana. Ci si arrampica più in alto per intravedere un futuro che è già segnato in partenza, un punto d’arrivo che s’aspetta da sempre, sia esso il giudizio universale, l’utopia socialista o la wilderness degli odierni ambientalisti. 

Qualche dubbio subentra con l’avvento dei media, e l’enorme accelerazione del tempo che le comunicazioni di massa, prima, e internet, poi, hanno dato al susseguirsi delle generazioni. “Tra nuove proposte ed esercizi di nostalgia la televisione rende transgenerazionali modelli come Che Guevara e Madre Teresa di Calcutta, Lady Diana e Padre Pio, Rita Hayworth, Brigitte Bardot e Julia Roberts, il virilissimo John Wayne degli anni Sessanta e il mansueto Dustin Hoffman degli anni Settanta”. È la crisi d’ogni figura paterna, la perdita di un’autorità alla quale, se del caso, ribellarsi.

La morte dell’autore trova così un ulteriore significato. 

 

Domani 19 novembre 2017 alle ore 21: Sulle spalle di Umberto Eco. Intervengono Natalia Aspesi, Marco Belpoliti e Vincenzo trione. Coordina Mario Andreose. Letture di Michela Cescon (Teatro Franco Parenti, Sala Grande, Via Pier Lombardo 14, Milano).

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Toma Muteba Luntumbue and the 5th Lubumbashi Biennale

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Italian Version

 

The 5th edition of the Biennale de Lubumbashi opens to the public on October 7th 2017 in Lubumbashi, Democratic Republic of Congo, one of the biggest cities of the country and the capital of Katanga, the region where the incredible wealth of the Belgian empire was built.

This edition marks ten years of the activities of Picha, the art space and a production platform built by a collective of artists and cultural producers based in Lubumbashi.

This fifth edition of the Biennale also marks the reestablishment of Picha itself, since the organisation now has a new space (for exhibitions, presentations and residences) located in a popular area on the margins on the center, together with a commercial gallery and a lab for production. Rencontres Picha, Biennale de Lubumbashi was born as vision of a collective of cultural producers with the aim of establishing a space which would serve both as a production platform for local artists, and an international hub, rethinking art from a local perspective.

 

After the curatorship of Simon Njami and Elvira Dyangani Ose, the artistic director of this edition of the Biennale is Toma Muteba Lutumbue, artist, art historian, educator and commissioner. This is his second directorship: after being a strong support for Picha, in a moment when the organisation was undergoing a deep transformation, he directed the Biennale on 2015. This second experience in Lubumbashi marks a moment of consolidation not only of Picha as an organisation, but also for the field-research and site-specific practice of Toma in Lubumbashi.

 

This 2017 edition, with the title Éblouissements, marks also a deeper establishment of this international art event within the city and its cultural actors. A goal which is both the legacy of the four years presence of Toma on the field and the commitment of Picha to be an active actor within the city and not only the organiser of an international event of the global art world.

I have met Toma during the opening days of the Biennale. The moment when artists from Congo RCD and from foreign countries arrive and install their works, see the results and gather. The moment when the structure is ready to welcome them and to work out their needs and at the same the time where you can see the difficulties which an event like this in an African city pushes to rethink the whole process of producing, exhibiting, mediating, communicating. It is not about hosting a periodical international art event. It is about translating a practice of creation, exchange and display into a space which has very specific needs, borders, possibilities, history, feelings and visions.

 

 

Let’s start with the concept of the Biennale and its title. Which I find a very liberated intellectual choice. Éblouissements, a word used by Joseph Tonda, a sociologist, of Congolese and Gabonese origins, which is not yet one of those trendy critical thinkers so much mentioned within the global art world. And yet Tonda speaks to us about our present, the globalisation and its imaginers, the “imperial colonialism” as the real engine of our times. And by bridging economy and power to contemporary imageries, he also speaks to the art and about the arts. 

How do you translate éblouissements into a curatorial statement?

 

I tried to work using an “handcrafted” method, trying to avoid methodology which I may have already experimented and that I carry with me to apply anywhere. There is a part of “contextual” construction in this work. Local political situation, the context of the city of Lubumbashi, the fact that it is a decentred space in relation to the international art world. It leaves a lot of freedom in terms of orientation of the project. I can work as curators worked on the Seventies. No keywords. Nevertheless there were big Narrations, there was by then a deep creativity on a theoretical level. 

I have the impression that Congo RDC nowadays is a space open to experiment new forms. The conditions where we live are untold. There are no thinkers who really deployed an approach which would allow us to develop a simple vision, because all discourses (economical or political) face limitations every time they try explain reality.  

 

 

I appreciated the work of Joseph Tonda for its hybrid qualities and the fact that he’s not a “guru” of some specific milieux. His book is extremely actual in terms of today’s realities of Central Africa: his study is deeply anchored to his native country, Gabon, to the two Congos and the Central African Republic. He has a non manichean approach to the topics raised after the encounter between the West and Central Africa. 

He refers to the omnipresence of the screen and the “screened image” as a vector for both communication and subjugation. He addresses the notions of real or fake; of authenticity; of the ephemeral which is replaced; the notion of the simulacra. The deployment of his thought is non-linear. It is a thought and not a movement, a thought which faces the disturbing reality people face. The metaphor of the Éblouissements relates to a kind of fascination but also a kind of blindness. He uses many metaphors to explain this notion, for instance when he describes the young girls who use make up and apply to their bodies all the attributes of western seduction - the prostitutes of Libreville. They use hair extensions, they dye their hair, they use lipstick. They’d like to attract the gaze of their European clients but in fact they push it away. This idea of attraction-repulsion also describes the prices through which the West and Africa met. A kind of reciprocal subjugation, fascination and a sort of blindness.

But Tonda doesn’t reject Western presence in Africa. But he sees the complexities of this encounter.

It is a very dense book, but the show is not about translating its main idea with visual arts. It would be insulting to use a simple concept just to resume a whole conceptual construction. Artists will rather work on the impact of the images, of political reality, and their own medium.


My invitation meant to be very open to their propositions and also to open an adventurous process. Their meeting with the city and the spaces of display will open their artworks towards a challenge and also towards questioning the publics and the city. It is not a Biennale made for the art world: it is rather a Biennale made for the people. This is not demagogy: there is really something different which can rise from the local conditions and from the translation of the exhibition dispositive which we are setting up in a context where there is no institutional or independent art system.

 

 

How did you manage to connect the biennale to the city of Lubumbashi?
There're of course many venues for the proper shows. But there is also a need for finding a way for the citizens of Lubumbashi to be somehow presents in the works, in their development and into their mediation. How did you manage to work in the city?

 

There is something very specific about this Biennale: the achievement of a project that Sammy Baloji had conceived since 2013. It is Atelier Picha, a space where young artists are invited and trained. This year I took care of the pedagogic planning of the Ateliers and we underlined two axes: National Iconographies, where we investigated how the pervasive culture of images is perceived in the city of Lubumbashi and how it is conceived by the artists and the users of social media who live in the city.  We wanted to reflect upon the production of images on this side of the world since the beginning of XX Century. A quest for consciousness about the use and abuse of images and how we can reappropriate a process of construction rather than consumption. From being abused and influenced on your way to live and think, to be a producer of images who belongs here, who is originally contextualised here. Therefore the artist is expected to reconstruct a creative process which is not about imitation of the mainstream of the arts or of the media, but rather an active observer of local complexities and singularities.

 

This axe of research started with the visit of the Musée Familial of Maitre Yabili (a museum which narrates the History of Congo RDC, from the foundation of Lubumbashi to the present, through the images and stories of a family: the family of Maitre Yabili himself, ed.). A wonderful discovery of Congolese history, which very few of the artists knew: we wanted them to root their own artistic project to Congolese history.

The second path of investigation was about the transformation of urban spaces in Lubumbashi, a one century-old city which went through heavy transformations on the moment of the crisis of the Gècamin in the 1990’s (the state-controlled corporation founded in 1966 and  successor to the Union Minière du Haut Katanga, founded at the beginning of the XX Century by the Belgians, ed.). The Gècamin was the mother and father, the tutelary spirit and the iconic image of Lubumbashi. The moment it failed, there was a general collapse of life of this city rooted on mineral exploration. 

We are working on retracing the colonial history and find its hints on the city, and also to rewrite it. Belgians are very proud of what they have done here. But we want to find what Congolese left on the urban structure of a city which quickly went from having one millions, to six millions inhabitants: how did they reappropriated the colonial city? How did they created a kind of porosity to go beyond the apartheid set up by the Belgians?

 

It was interesting for us to leave the participant artists on the field and let them translate the inputs they’ve collected into an artistic project. The mutations of this city are in fact until now very rarely  approached by artists and they reinterpreted them after they’ve collected concepts, ideas, feelings, informations. Two women artists for instance worked on the female presence on the city and their relevant position in some political events. 

 


Atelier Picha was a very important part of the Biennale. Its conception is of course part of the constructive discussions you’ve had with Picha during these last four years of cooperation with them as director of the Biennale. And also it comes out directly from a need of the cultural context of the city: to open spaces of interaction between art and artists (or practitioners) coming from abroad and the local people. Giving the chance to the foreign guests to leave something on the field. I would like to know more about the ethical and political vision of the Atelier: to leave something on the field to local creative people.

 

The Ateliers are designed as a long term educational platform for emerging congolese artists selected as participants. They had a mentoring phase, where they had the chance to discuss about their experiences and projects with national and international guests. We involved young Congolese artist which already have a presence within the local art world; therefore is not about educating them, but rather about supporting them to follow their path with coherence, vision and multidisciplinarity. The application we’ve received come from very different profiles: dancers, painters, film-makers, sound artists.
The idea was also to let them interact with each other: they are they are part of the same generation and they come from different parts of the country. They had to spend time together and exchange ideas and cooperate. So to also be conscious of their differences and to find convergences. We told them they had the power to change the reality of art in Congo RDC and to change the relationship between the local art world and the international. They had the keys to invent their own model. 

Picha is a model for this reinvention of models: is an artist-led organisation developed with a Do It Yourself attitude. In 10 years they have created and independent structure and managed to work with very small facilities. Regardless, they have achieved a lot, and especially they have achieved to build their own models without importing them from somewhere else. Also, they’ve inserted themselves in their reality very deeply. Their headquarter is in a popular suburb, and they managed to establish partnerships with different entities of the city so to be a well rooted, not elites platform. The Biennale is one of the means to make this non elitist project happening: Picha wants the center to be a place where people can push the door and enter without being afraid of the distance you may feel in a museum. 

 

 

You are an artist in the very beginning. And then an art historian and an educator, who teaches theory in two of the best academies of arts in Brussels. And you also have a curatorial trajectory in a moment where art from the African continent was still not the hype it is now.
How do you contextualise your presence in Lubumbashi? (You were the director twice of the Biennale, in 2015 and 2017).

 

I didn’t really plan to be here, I joined the invitation of the friends of Picha who maybe after many non-Congolese curators thought it was maybe interesting to experiment wth a curator who shared their own culture. Also if I never lived continuously here in Congo RDC, I am part of a generation who was grown on the second Republic (between 1967 and 1997, under the presidency of Mobutu, ed.). We got educated under the obsession of Africa, a kind of feeling which maybe made us unable to totally stick to Europe. We all had this feeling that we owned something to Africa, and that was my personal crisis. But we also had the feeling that we could have an impact. I wanted to share something, facilitate experimentation, add some meaning to the artistic research. So to be participating to a project such as this Biennale there is always some hope and attachment.
When I organise an exhibition I always do it as an artist who works with other colleagues. I belong to a generation who didn’t receive any education about curatorial practices: people like Harald Szeemann or Jan Hoet, René Block, they organised exhibitions. Jean Hubert Martin said he started to work in a museum because it was the only way to organise exhibitions.
The gaze of the contemporary art system over the global world is quite recent: now there are practices quite diffused, a culture of the “cut and paste”. I did never really work like that. I work, as I’ve mentioned, adopting a craftsman strategy, by inventing my own tools. I don’t have a model: I had the chance to work with Jan Hoet and I saw how he was very close to the artists and the artworks, without trying to impose a theory over them.
The backbone of my curatorial practices is the contact with the artist and with the context. The artworks and their quality comes first, before the cultural origin or the sexual orientation of the artist. I find suspicious this new emerging interest over African art and curators specialised exclusively in that field. I myself never exclusively work with African artists: even if my first exhibitions showed works of artists I really appreciated. 

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Toma Muteba Luntumbue e la 5 Biennale di Lubumbashi

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English Version

 

La quinta edizione della Biennale di Lubumbashi ha aperto al pubblico il 7 Ottobre 2017 a Lubumbashi, Repubblica Democratica del Congo, una delle maggiori città del paese e capitale del Katanga, la regione sulla quale venne costruito l’enorme potere economico del Belgio del primo Novecento. 

Questa edizione segna dieci anni di attività di Picha, lo spazio indipendente e piattaforma di produzione messo in piedi da un collettivo di artisti e professionisti della cultura di Lubumbashi. Éblouissements segna anche una ricostruzione interna di Picha, che ora ha un nuovo quartier generale (per mostre, presentazioni e residenze), che si colloca in un quartiere popolare ai margini del centro della città, oltre a una galleria ed un lab di produzione.
Rencontres Picha Biennale de Lubumbashi (come si chiamava originariamente) era nato come visione collettiva di un gruppo di giovani che voleva che la città avesse una istituzione indipendente che lavorasse sia come piattaforma di produzione per artisti locali che come hub internazionale, per ripensare l’arte da una prospettiva locale.

 

Dopo la direzione di Simon Njami ed Elvira Dyangani Ose, il direttore artistico della Biennale è Toma Muteba Lutumbue, artista, storico dell’arte, educatore e curatore. Toma è alla sua seconda direzione: ha diretto anche l’edizione del 2015, dopo aver fortemente sostenuto Picha in un momento in cui l’organizzazione stava vivendo una trasformazione profonda.

Questa seconda esperienza in Lubumbashi segna un momento di consolidamento non solo di Picha come organizzazione, ma anche della ricerca sul territorio condotta da Toma in quattro anni.

 

Il titolo della Biennale, Éblouissements, segna anche un radicamento profondo di questo evento internazionale nella città che lo ospita. Un obiettivo raggiunto grazie a una lunga presenza di Toma sul territorio e l’impegno di Picha come attore chiave nella vita culturale della città, e non solo come organizzazione a capo di un evento internazionale dell’arte globale.

Ho incontrato Toma durante l’apertura della Biennale: nel momento in cui gli artisti locali e gli ospiti internazionali arrivano e si incontrano, installano i propri lavori e confrontano le loro prospettive. Ed anche nel momento in cui la struttura li accoglie, si misura con le proprie capacità organizzative ed osserva le difficoltà con le quali un evento del genere si deve confrontare in una città africana, spingendo necessariamente a un ripensamento dell’intero processo di produzione, display, mediazione e comunicazione. Non si tratta di ospitare un evento periodico internazionale, ma di tradurre pratiche di creazione, scambio ed esposizione in uno spazio che ha necessità, confini, possibilità, storie, sentimenti e visioni molto specifiche.

 

Iniziamo con il concept della Biennale e il suo titolo, che mi sembrano una scelta intellettuale molto deliberata. Éblouissements,è un concetto centrale del pensiero del sociologo di origini congolesi e gabonesi Joseph Tonda, che non è certo uno dei pensatori contemporanei più citati dal mondo dell’arte globale. Tonda ci parla del presente, della globalizzazione, dei suoi immaginari e dell’“imperialismo coloniale”, il vero motore del nostro presente. Mettendo in relazione economia, potere e immaginari contemporanei, parla anche all’arte e dell’arte. Come hai tradotto éblouissements in una proposta curatoriale?

 

Ho cercato di lavorare usando un metodo quasi artigianale, per evitare metodologie che già avessi sperimentato o che avessi pronte per applicarle in ogni contesto. C’è un lato di costruzione contestuale in questo lavoro. La situazione politica locale, il contesto della città di Lubumbashi, il fatto che si tratta di uno spazio decentrato rispetto al contesto internazionale dell’arte. Permette di vivere una libertà immensa in termini di orientamento del progetto. Ho potuto lavorare come lavoravano i curatori degli anni Settanta: niente parole-chiave. Anche se all’epoca esistevano le grandi narrazioni, c’era al tempo stesso una profonda creatività nell’ambito teorico. Ho l’impressione che il Congo di oggi sia uno spazio per sperimentare nuove forme. 

Le condizioni in cui viviamo sono ancora da raccontare. 

 

 

Non ci sono molti pensatori che, oggi, ci abbiano permesso di sviluppare una visione semplice, perché tutti i discorsi (economici e politici) sono esposti a limitazioni ogni volta che cercano di spiegare la realtà. 

Apprezzo veramente il pensiero di Joseph Tonda per le sue qualità ibride e per il fatto che non sia un “guru” di un milieux specifico. Il suo libro è estremamente attuale per ciò che riguarda la realtà centro africana del presente. La sua ricerca è profondamente radicata nel suo paese natale, il Gabon, e poi ai due Congo e alla Repubblica Centro Africana. Ha un approccio non manicheo alle questioni sollevate tra Africa ed Occidente.


Tonda analizza l’onnipresenza degli schermi e dell’immagine su schermo, come vettore di comunicazione e soggiogamento al contempo. Indaga i concetti di vero e falso, autenticità, o l’effimero che viene sostituito, i simulacra. Lo sviluppo del suo pensiero è non lineare: è un pensiero appunto, e non un movimento, un pensiero che affronta la realtà disturbante che gli esseri umani stessi affrontano. La metafora di Éblouissementsè legata a una specie di fascinazione ed anche a una sorta di cecità. Per spiegare i suoi concetti, Tonda fa diversi esempi, come quello delle giovanissime donne che applicano al proprio corpo tutti gli attributi della seduzione occidentale. Sono le prostitute di Libreville che usano extensions per i loro capelli e li decolorano, o usano il rossetto. Vorrebbero attrarre lo sguardo dei loro clienti europei ma nella realtà dei fatti li respingono. Questa idea di attrazione-repulsione descrive anche i pregiudizi attraverso i quali Europa e Africa si sono incontrati. Una specie di soggiogamento reciproco, fascinazione e cecità. 

 

Ma Tonda non rigetta la presenza occidentale in Africa: vede la complessità di questo incontro.

Si tratta di un libro molto denso e la Biennale non vuole tradurne i concetti principali in arti visive: sarebbe un insulto usare una parola chiave per riassumere una costruzione concettuale complessa. Gli artisti hanno lavorato sull’impatto delle immagini, della realtà politica ed usando i propri media. Il mio invito voleva essere molto aperto alle loro proposte e anche aprire un processo creativo avventuroso: il loro incontro con la città e gli spazi espositivi sono una sfida per il loro lavoro, mettendo anche in crisi il concetto di pubblico e città. Non è una biennale fatta per il mondo dell’arte: piuttosto è una biennale fatta per le persone. Non voglio essere demagogico, c’è davvero qualcosa di diverso che può emergere dalle condizioni locali e dalla tradizione del dispositivo espositivo che abbiamo messo in piedi in un contesto senza alcun sistema dell’arte, istituzionale o indipendente.

 

 

Come sei riuscito a mettere in relazione la Biennale con Lubumbashi? Ci sono naturalmente i diversi spazi espositivi. Ma c’è anche un tentativo di mettere i cittadini di Lubumbashi in relazione con le opere, dalla loro produzione alla loro mediazione. Come sei riuscito a lavorare con la città?

 

C’è qualcosa di veramente specifico di questa Biennale: la messa in opera di un progetto che Sammy Baloji ha in testa dal 2013, gli Ateliers Picha, uno spazio nel quale un gruppo di artisti emergenti è invitato e seguito. Quest’anno ho curato la messa in opera degli Ateliers e abbiamo delineato due assi principali di ricerca: National Iconographies e la trasformazione di Lubumbashi.

Nel primo asse abbiamo indagato la maniera in cui la cultura pervasiva delle immagini è percepita nella città di Lubumbashi e come sia concepita dagli artisti e dagli users dei social media. Volevamo riflettere sulla produzione delle immagini a partire da questo lato del mondo, dall’inizio del XX Secolo ad oggi. Una tensione verso una presa di coscienza sull’uso e abuso delle immagini e su come possiamo riappropriarci di un processo produttivo piuttosto che di consumo; passare dall’esserne abusati ed influenzati nel modo di vivere e pensare a diventare produttori di immagini che provengono ed appartengono a questo spazio. Gli artisti invitati agli Ateliers hanno cercato di ricostruire un processo creativo non fondato sull’imitazione del mainstream delle arti o dei media, ma piuttosto sull’osservazione delle complessità locali. 

 

Per esempio siamo andati a visitare il Musée Familial di Maître Yabili (un museo che racconta la storia del Congo RDC, dalla fondazione di Lubumbashi ad oggi, attraverso le immagini e le storie della famiglia dello stesso Maître Yabili, ndr). Una scoperta meravigliosa della storia del paese che gli artisti conoscevano a malapena: volevamo che radicassero le loro progettualità in questa storia.

Il secondo asse di ricerca si è focalizzato sulle trasformazioni degli spazi di Lubumbashi, una città che ha un secolo e che ha vissuto radicali mutazioni, soprattutto nel momento della crisi del Gécamin negli anni Novanta (l’azienda di stato fondata nel 1966 come successore dell’Unione Mineraria dell’Alto Katanga, fondata all’inizio del XX secolo dai Belgi, ndr.). Gécamin era la madre e il padre, il nume tutelare e l’immagine iconica di Lubumbashi. Nel momento in cui è fallita, la città – fondata sullo sfruttamento delle risorse minerarie – è affondata. Abbiamo voluto tracciare la storia coloniale e trovarne i sintomi nel suo tessuto urbano, ed anche riscrivere questa storia. I Belgi sono molto orgogliosi di quello che hanno costruito, in termini urbanistici e di architettura. Noi volevamo trovare che cosa hanno invece aggiunto i congolesi alla struttura urbana di una città che in breve tempo è passata da un milione a sei milioni di abitanti: come si sono riappropriati della città? Come hanno creato una sorta di porosità che andasse oltre l’Apartheid messo in piedi dall’impero belga? Abbiamo lasciato gli artisti partecipanti agli Ateliers a scandagliare il territorio e tradurre gli input ricevuti in opere. Le mutazioni di questa città sono di fatto indagate molto raramente dal mondo dell’arte: loro hanno reinterpretato dopo aver collezionato concetti, idee, sentimenti, informazioni. Due degli artisti, due donne, hanno per esempio lavorato sulla presenza femminile e sulla posizione politica delle donne, centrale in alcuni eventi chiave della storia della città. 

 

 

Atelier Picha è stata una parte importante della Biennale, la cui concezione è stata una discussione costruttiva tra te e Picha in questi ultimi quattro anni di collaborazione. E credo sia anche l’espressione di un bisogno che emerge dal contesto della città: aprire spazi di interazione tra Lubumbashi e gli artisti che vengono dal Congo o dall’estero. Si tratta anche di una possibilità che viene data agli artisti invitati: restituire qualcosa al territorio. Mi piacerebbe che parlassi di più della visione politica ed etica che ha portato alla messa in opera degli Ateliers. 

 

Gai Ateliers sono progettati come piattaforma a lungo termine per artisti emergenti congolesi, selezionati come partecipanti. Hanno avuto un periodo di mentoring, dove hanno potuto discutere i propri progetti e le proprie esperienze con ospiti nazionali ed internazionali. Abbiamo selezionato un gruppo di artisti che hanno già una presenza nel contesto dell’arte: perciò non si è trattato di “educarli” ma piuttosto di sostenerli nella loro ricerca di coerenza, visione e multidisciplinarietà. Abbiamo ricevuto domande di partecipazione da profili molto differenti: ballerini, pittori, film-makers, artisti sonori.
Abbiamo anche voluto che interagissero tra di loro: fanno parte della stessa generazione e vengono da diverse parti del paese: si sono ritrovati a dover condividere tempo ed idee e cooperare. E divenire quindi consapevoli delle proprie differenze, e trovare convergenze. Abbiamo detto loro che hanno il potere di cambiare la realtà dell’arte del Congo e di cambiare la relazione tra locale ed internazionale. Avevano le chiavi per inventare i propri modelli. 

 

Picha è il modello per questa “reinvenzione di modelli”: un’organizzazione di artisti, sviluppata con un’attitudine Do It Yourself. In dieci anni hanno creato e stabilizzato una struttura indipendente e sono riusciti a lavorare potendo contare su pochissimi mezzi. E nonostante tutto hanno raggiunto molto, e specialmente sono riusciti a costruire i propri modelli senza importarli da altrove. Si sono inseriti a fondo nel loro contesto. Il loro centro operativo è in un quartiere popolare (la nuova sede di Picha, recentemente acquisita dopo la rottura con Patrick Mudekereza, ex membro fondatore che ha scontato una ricerca individuale di successo con i partner stranieri ed un tentativo di sussunzione dell’intera struttura uscendo dal collettivo, ndr.). Sono riusciti a costruire partnerships con diverse entità di Lubumbashi, diventando così una struttura radicata e non elitaria. La Biennale è una delle maniere per sostenere questo progetto anti-elitista: Picha vuole che il centro sia uno spazio in cui le persone possano aprire la porta ed entrare senza sentirsi intimidite, come succederebbe in un museo. 

 

 

Sei un artista di formazione. E poi uno storico dell’arte, un educatore che insegna teoria nelle due migliori accademie di Bruxelles. Ed hai anche una traiettoria curatoriale cresciuta in un momento in cui l’arte proveniente dal continente africano non era ancora il nuovo hype, come lo è diventata negli ultimi anni. Come contestualizzi la tua presenza a Lubumbashi?

 

Non ho mai pianificato di essere qui: ho accettato l’invito degli amici di Picha che forse, dopo una serie di curatori non congolesi, hanno pensato che potesse essere interessante sperimentare un periodo di cooperazione con un curatore che avesse le stesse radici culturali. Non ho mai vissuto continuativamente in Congo RDC: faccio parte di una generazione che è cresciuta durante la Seconda Repubblica (tra il 1967 ed il 1997, sotto la presidenza di Mobutu, ndr.) ed è stata educata con l’ossessione dell’Africa, una specie di feeling che ci ha reso forse inabili a sentirci del tutto parte dell’Europa. Abbiamo tutti vissuto questo sentimento di dovere qualcosa all’Africa: e questa è stata la mia crisi esistenziale. A distanza abbiamo anche avuto la sensazione che potevamo avere un impatto. Volevo condividere qualcosa, facilitare la sperimentazione, aggiungere senso alla ricerca artistica. Così, partecipare a un progetto come la Biennale implica sempre vivere un senso di speranza ed attaccamento.

Quando lavoro a una mostra, faccio sempre quello che farebbe un artista che lavora con altri colleghi. Faccio parte di quella generazione che non ha ricevuto alcuna formazione curatoriale, come Harald Szeemann, o Jan Hoet, o René Block, che organizzavano mostre. Jean-Hubert Martin diceva che ha iniziato a lavorare in un museo perché era l’unico modo per organizzare mostre. 

Lo sguardo del sistema dell’arte contemporanea sul mondo globale è piuttosto recente ed ora molte pratiche sono diffuse – io la chiamerei cultura del “copia e incolla”. Non ho mai lavorato in questo modo: lavoro – come dicevo prima – adottando una strategia artigianale, inventando i miei strumenti. Non ho modelli. Ho avuto la fortuna di lavorare con Jan Hoet e ho visto come era estremamente vicino agli artisti e alle opere, senza cercare di imporre alcuna teoria sui lavori.

 

La spina dorsale della mia pratica curatoriale è il contatto con gli artisti e il contesto. Le opere e le loro qualità intrinseche sono la preoccupazione principale, prima delle origini culturali o dell’orientamento sessuale dell’artista. Mi ritrovo a sospettare di questa nuova emergenza di interesse sull’arte africana e dei curatori specializzati esclusivamente in quel campo. Io stesso non ho mai lavorato con artisti esclusivamente africani: anche la mia prima mostra (che presentava lavori di artisti congolesi, ndr.) si concentrava su artisti che in primo luogo apprezzavo.

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For Ever Eames

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Charles e Ray, una coppia nel lavoro e nella vita, due metà diverse e complementari che insieme rappresentano alla perfezione i due lati del design, i due sguardi necessari e contemporanei del progetto: Charles era condotto dalla pratica, sempre attento alle nuove tecnologie e sperimentatore di nuove tipologie; Ray era dedicata all'arte, curiosissima di tutto e particolarmente sensibile al decoro. Questo insieme, più o meno proporzionato e in equilibrio, permette a un’idea di strutturarsi e sentirsi pronta per il successivo passaggio nella produzione.

 

Al Vitra Campus di Weil am Rhein, dal 30.9.2017 al 25.2.2018, è possibile fare la più grande esperienza espositiva e immersiva nel mondo degli Eames, per l'occasione intitolata An Eames Celebration, una serie di mostre ed eventi che segnano la più grande esplorazione del lavoro di questa celebre e felice coppia.

Si tratta di mostre parallele ed eventi dedicati a diversi aspetti del loro lavoro, applicato in tantissimi campi, dall’arredo, agli allestimenti, all’architettura fino al progetto di mostre, di film, di giochi e oltre, pensando sempre al design non come lavoro ma come modo di vivere. Non più solo “opera d’arte totale” ma “vita progettuale totale”.

E se di anniversari dobbiamo parlare, siamo esattamente nel momento di ricorrenza tra i 110 anni dalla nascita (1907) e i 40 dalla morte (1978) di Charles, e i 30 dalla morte di Ray (1988) avvenuta il 21 agosto, esattamente a 10 anni da quella del marito. 

 

Un anno fa il Campus si completava con l'apertura dell'ultimo anello di una lunghissima catena di luoghi speciali ed eventi espositivi dedicati al design. Se nel 1989 inaugurava il Design Museum progettato da Frank Gehry, sede espositiva delle grandi mostre temporanee curate dal museo, nel 2016 si è aperto il Schaudepot di Herzog & De Meuron, sede espositiva della collezione permanente di arredi e oggetti d'autore. Nel tempo questo luogo, meta di veri pellegrinaggi per architetti e designer, si è arricchito di opere architettoniche assolute tra i cui autori citiamo Buckminster Fuller, Jean Prouvé, Nicolas Grimshaw, Renzo Piano, Alvaro Siza, Tadao Ando, Zaha Hadid, SANAA, alcune dedicate alla cultura e altre dedicate alla produzione, in una perfetta miscela tra teoria e prassi, cultura e impresa, di cui il buon design si nutre.

Per celebrare i designer più importanti per l’azienda Vitra, e sicuramente tra i più significativi nella storia del design internazionale del secondo dopoguerra, è stato deciso di dedicare, proprio ora che il campus è completato, tutti gli spazi espositivi a questa storia meravigliosa che si svolge in quattro mostre tematiche e un nuovo libro espressamente dedicato agli arredi.

Tanto per sottolineare l’importanza degli Eames nella relazione con Vitra facciamo un salto indietro all'origine di questo marchio: la storia dell’azienda ebbe inizio nel 1953 quando Willi Fehlbaum, fondatore di Vitra, scoprì le sedie progettate da Charles e Ray Eames nel corso di un viaggio negli Stati Uniti e decise di diventare un produttore di arredi. Poco tempo dopo conobbe la coppia di designer di persona e instaurò con loro una solida amicizia e quindi una stretta collaborazione che ha trovato un enorme riconoscimento e fortuna fino ai giorni nostri, anche grazie alla continua collaborazione e supporto reciproco con la Eames Foundation costituita e condotta dagli eredi.

 

 

I. Charles and Ray Eames: The power of design

 

Nella sede del Design Museum si trova la grande mostra retrospettiva che raccoglie più di 500 opere suddivise per le categorie più significative dell'intero lavoro degli Eames.

Questa mostra proviene da un evento espositivo e itinerante organizzato in precedenza dal Barbican Centre di Londra che qui, proprio per via della collezione Eames del Vita Museum (il fondo più importante al mondo) si amplia offrendo ulteriori materiali originali che non c'erano prima e che non ci saranno dopo, quando la mostra continuerà a girare nei musei internazionali.

La mostra si apre con una curiosa (divertente e significativa) lettera scritta da Charles a Ray nel 1941, in cui il primo chiedeva alla seconda di sposarlo, prevedendo come la vita di 2 giovani designer alla conquista dell'America prima e del resto del mondo subito dopo, potesse e dovesse diventare un vero progetto di vita.

 

Nelle sezioni che si susseguono, si trovano la storia della ricerca sui compensati industriali applicati al design, con gli oggetti disegnati per l'esercito americano durante la seconda guerra mondiale (supporti per arti feriti e barelle), componenti per velivoli ultraleggeri, e le rarissime sculture di legno laminato di Ray Eames, importanti opere che servivano alla sperimentazione più libera (artistica) ma che con metodo trovavano poi una applicazione effettiva in oggetti prodotti industrialmente.

Procedendo si trova un approfondimento sugli allestimenti per i loro primi arredi prodotti, fino alla proposta architettonica di modelli abitativi moderni, con l'esemplare realizzazione della Case Studies House nr. 8, che è stata subito adottata da loro stessi come casa propria ed oggi è monumento di se stessa e sede della Eames Foundation. 

La ricerca sui materiali partita dai compensati negli anni 40 si sviluppa negli anni 50 coinvolgendo tutti i nuovi materiali e dall’interesse per il legno si passa all’attenzione verso i materiali plastici e sintetici, per finire con progetti di sedute costituite da tondini e reti metalliche. In mostra si vedono numerosi prototipi pensati per mettere in produzione le sedie realizzate con vari materiali e, tra gli altri, oggetti unici sono quelli "decorati" da Saul Steinberg, mitico illustratore e amico degli Eames, che si era formato come architetto al Politecnico di Milano negli anni 30.

Proseguendo si apre una sezione di approfondimento sulle mostre curate direttamente dagli Eames (più di 14) e su padiglioni per eventi fieristici, come il padiglione per IBM per l'EXPO del 1964 a New York. Si conclude questa prima mostra con il racconto dei capolavori come la Lounge Chair, la Chaise Longue e la serie Aluminum Group, il tutto contornato da numerosi documenti originali, disegni, lettere, fotografie, film e giochi, che testimoniano l'enorme mole di lavoro e che aprono poi agli altri approfondimenti nel campus.

 

II. Play Parade: An Eames Exhibition for Kids

 

Nella “Gallery”, piccolo edificio adiacente al Museo, si approfondisce e si espone una tematica importante e quasi propedeutica alla professione del designer, soprattutto secondo la filosofia Eames: il gioco, che sta effettivamente alla base di tutte le attività creative. "Take your pleasure seriously" ripeteva sempre Charles e, mentre si vedono esposti giocattoli che i due collezionavano oppure dei progetti per giochi che hanno realizzato, con alcuni degli oggetti esposti si può interagire, o per meglio dire giocare.

 

III. Ideas and Information. The Eames Films

Passeggiando nella promenade del Campus ci si trova di fronte all'architettura forse più significativa, la Fire Station progettata da Zaha Hadid, e proprio qui dentro è allestita una grande sala proiezioni in cui sono visibili al pubblico oltre 60 film realizzati nel corso di tutta la loro vita e professione. Per gli Eames, che vivevano proprio la Los Angeles della celebre Hollywood negli anni 40, agli esordi della loro carriera, i film, per lo più cortometraggi, erano soprattutto un mezzo per la condivisione delle loro idee, dei loro progetti di design e per la diffusione di un certo tipo di cultura. Per loro "they are not really films at all, just ways to get across an idea. They're simply tools"; in questo uso del video gli Eames sono stati pionieri e questa occasione espositiva vuole valorizzare definitivamente la loro produzione filmica e l'enorme archivio di documenti mai resi disponibili prima al grande pubblico.

 

IV. Kazam! The Furniture Experiments of Charles and Ray Eames

 

Ultima tappa di questa grande sfilata espositiva si trova negli spazi all’interno dello Schaudepot deposito espositivo della collezione permanente del museo, dove si trova l'approfondimento dedicato al processo di sperimentazione tecnica e materica attraverso numerosi prototipi e modelli di studio. 

"Kazam"è una parola "magica" e ludica (come Abracadabra) ed è anche il nome di una macchina che gli Eames avevano costruito per fare le prime piegature del compensato di legno per testarne le proprietà, le potenzialità e i limiti, fino alla produzione dei primissimi prototipi. In questa sede è anche esposta una parte della grande collezione di mobili di serie e mobili sperimentali che il Vitra Design Museum ha acquisito nel 1988 dall’Eames Office e da allora ha continuamente accresciuto.

 

+1. The Eames Furniture Sourcebook

 

Per finire, anzi in un certo senso oltre la fine (quindi pensando a quando le mostre termineranno), oltre al ricordo che sbiadisce rimarrà il nuovo libro realizzato per l’occasione e che inaugura per il museo una attività inedita di editore puro: The Eames Furniture Sourcebook, non un catalogo di una mostra ma un vero libro di ricerca che mette finalmente ordine nelle centinaia di storie e migliaia di documenti riferiti agli arredi progettati da Charles e Ray. Jolanthe Kugler, curatrice del museo e autrice del libro, ha curiosato a lungo e studiato approfonditamente direttamente negli archivi americani della Eames Foundation a Los Angeles, della Library of Congress a Washington e della Hermann Miller in Michigan, trovando dati e notizie ancora inedite.

Questo volume mette innanzitutto ordine nella storia dei rapporti tra gli Eames e i loro principali produttori: Hermann Miller prima e Vitra dopo. 

 

La parte centrale è dedicata al preciso racconto di 100 oggetti, suddivisi per innovazioni materiali e tecniche riconoscibili in fasi temporali. Spesso queste soluzioni si fondevano e si confondevano scambiandosi e ritrovandosi in ricerche e applicazioni che viste così, ora, dimostrano una grande organicità di metodo. Scopo principale degli Eames era stato sempre quello di portare le innovazioni prettamente industriali nel design quotidiano, offrendo sedute, tavoli, contenitori e arredi che avessero quello spirito di avanguardia ma contemporaneamente una diffusione di massa.

Nella parte finale si trovano dei saggi scritti dagli Eames in cui spiegano direttamente e chiaramente le idee dietro agli oggetti o l'importanza del potenziale tecnico dei materiali, oltre a un abaco schematico delle molteplici soluzioni adottate per tutti gli arredi analizzati, utilissimo strumento per risalire inequivocabilmente a tutte le finiture, colori, materiali e varianti che gli Eames hanno sempre mescolato e che qui per la prima volta si ordinano in uno strumento oggettivo, utile a chi volesse ricostruire esattamente quando, dove, come un oggetto è stato prodotto. 

 

In chiusura è opportuno riprendere i pensieri celebri di Charles e Ray, i quali dichiaravano che i “details are not the details. They make the design” e si chiedevano il valore del “Genius? Nothing we just worked harder”, vediamo questa grande celebrazione come qualcosa che dimostra indiscutibilmente quanto la curiosità, la fiducia, il coraggio, l'entusiasmo e il piacere nelle giuste dosi, mescolate con il serio e appassionato lavoro quotidiano producano una ricetta infallibile per trasformare in classico – senza tempo – anche il più moderno dei pensieri progettuali.

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Shopping online

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"La cliente potrà sintonizzarsi su vari negozi. La sua tessera di credito sarà automaticamente ripresa dalla televisione. Le saranno mostrate le merci con tutti i loro colori fedelmente trasmessi. La distanza non sarà più un problema in quanto entro la fine del secolo il cliente riuscirà a mettersi direttamente in contatto televisivo con chi vorrà, indipendentemente dal numero di miglia che lo separeranno da esso". 

Questo stralcio di un articolo del New York Times del 1963, citato da Marshall McLuhan in un capitolo dimenticato e interessantissimo del suo Understanding Media, la dice lunga sul potere di fascinazione che l'idea di fare acquisti a distanza ha potuto riscuotere strada facendo fino all'avvento di Internet e alla realizzazione di cotanto sogno. Salvo scoprire che, una volta realizzato – lo aveva già intuito lo stesso McLuhan – difficilmente il senso profondo di una tale pratica sarebbe rimasto lo stesso: "invece di pensare a fare la spesa per televisione, dovremmo renderci conto che il video-telefono segnerà la fine dell'andare a fare spese e anche la fine del lavoro come lo intendiamo oggi" (ibidem).

Con il privilegio di guardare al fenomeno con il senno di poi, vale la pena, allora, riflettere su cosa sia effettivamente cambiato nel frattempo. 

 

È facile riconoscere alcune note vintage nel brano riportato: lo spudorato sessismo per cui fare la spesa viene considerata attività eminentemente femminile, l'ingenuità con cui si naturalizza la centralità della televisione nel futuro prossimo venturo, la riduzione della portata della faccenda a un problema tecnologico (fedeltà dei colori) e così via. Di questi problemi proprio perché sono evidenti non ci occuperemo. Seguendo l'indicazione di McLuhan, piuttosto, saremo interessati a comprendere alcune trasformazioni epocali e meno ovvie, le trasformazioni che hanno cambiato il senso del nostro modo di fare spese come lo intendevamo fino a ieri

 

Molta letteratura sull'argomento shopping online (ultimo il bel lavoro di Barone contenuto nel libro su Google che ho appena recensito) si è concentrata a elogiare gli esperimenti di materializzazione dei grandi player dell'industria dell'immateriale. Temporary store, pop-up, musei, eventi, festival costituirebbero secondo molti analisti, un modo vincente per rispondere a una mancanza di fisicità che impedirebbe a questi venditori di legittimarsi in pieno in quanto tali. Parole chiave come esperienza, narrazione, identità marcano questo genere di letteratura, figlia del marketing æsthetics degli anni ‘90: ciò che caratterizza davvero il momento del consumo è lo spazio fisico, la marchiatura del corpo del cliente celebrata dalla macchina semiotica del punto vendita, sorta di luogo sacro (cattedrale!) di una nuova (ma, in vero, anche abbastanza antica) religione del consumo. Ho fatto la tesi di dottorato sul tema: dalla marca all'esperienza si intitolava, per l'appunto. Ferma restando la validità di tali riflessioni (e della mia tesi di dottorato!), mi sembra che quando esse si rivolgano al mondo digitale finiscano per non cogliere la vera posta in gioco della trasformazione in atto, cadendo nel medesimo abbaglio dell'articolo con cui abbiamo aperto, che, involontariamente, finiva per proiettare nel futuro, naturalizzandolo, il mondo piccolo borghese degli anni ‘60, fatto di massaie e liste della spesa, per fortuna, invece, archiviato al giorno d'oggi.

 

I miliardi di transazioni che quotidianamente avvengono in rete, senza l'ausilio di alcuna cerimonia fisica dimostrano che questa materializzazione può essere degradata a mera eccezione, diventa accessoria, non rappresenti più l'anima del commercio. 

Negli anni ‘50, l'economista e psicologo americano Herbert A. Simon, padre della moderna teoria delle decisioni, aveva lanciato l'idea che, nei comportamenti delle persone di fronte a problemi complessi (di information overload diremmo oggi), si potessero identificare due forme di razionalità in competizione. Da una parte, ci sarebbe un'attitudine a massimizzare i vantaggi derivanti da una scelta oculata e razionale e, dall'altra, un'opposta propensione al risparmio cognitivo (indicata col neologismo satisfice, da lui ideato a partire dalla fusione dei termini inglesi satisfy– soddisfazione – e suffice– sufficienza), di chi si accontenta di una soddisfazione accettabile al prezzo di uno sforzo ridotto per ottenerla. Il successo della teoria di Simon (gli valse il Nobel!) fu legato proprio al fatto di aver messo in evidenza che fare la scelta migliore, non di rado, comporti dei costi (cognitivi, economici) maggiori dei vantaggi procurati. 

Ci vuol poco a riconoscere, in questa dialettica, due attitudini psicologiche, maximizers e satisficers, l'una ossessionata dal massimo vantaggio a prescindere da ogni valutazione sullo sforzo necessario a raggiungerlo, l'altra, invece, incline ad accontentarsi della scelta più ragionevole, in funzione della propria possibilità di dedicarvi energie. 

 

Una rilettura semiotica di questa tipologia non può che sottolineare quanto di siffatti tipi umani, intesi come forme pure, non possa darsi traccia: ognuno di noi è, infatti, maximizer o, al contrario, satisficer a seconda dei casi, delle storie in cui è imbrigliato, dei propri obiettivi, della propria identità. Ogni compratore si comporterà, così, come maximizer, nei confronti di alcuni prodotti, ai quali dedicherà ogni energia pur di poterli ottenere ed esibirli come simulacro identitario. Lo stesso compratore, si comporterà come satisficer, nei confronti di altri prodotti, ai quali non attribuirà alcuna valenza identitaria, eventualmente procedendo al loro acquisto, seguendo la rotta del risparmio cognitivo: l'uno vale l'altro. 

Nello scenario del commercio tradizionale, la limitatezza delle opzioni di scelta ha storicamente scoraggiato comportamenti da maximizer. Non si poteva, di certo, fare troppo gli schizzinosi, in un contesto governato dalle disponibilità dei pochi punti vendita fisicamente raggiungibili in città. Un divertente passaggio di Heartburn di Nora Ephron metteva scherzosamente in relazione la sua scelta di lasciare Washington con il desiderio di mettere in atto comportamenti d'acquisto fuori dagli schemi: come vivere in una città al cui mercato non si possa trovare l'acetosella? Per una maximizer (alto mantenimento!) del suo calibro, decisamente meglio New York.  

 

Ciò che è cambiato con Internet e con lo shopping onlineè proprio la possibilità di espandere all'infinito la ricerca del prodotto migliore, ovvero quello che meglio si attaglia ai propri desideri, al proprio simulacro, al proprio avatar da esporre sui social. Il solo stagliarsi di un tale orizzonte elettronico ci ha trasformati tutti in maximizer a basso costo, cercatori del prodotto perfetto, hipster costantemente impegnati a trasformare ogni occasione di consumo in simulacro identitario. Dai generi alimentari alla tecnologia, dalla moda al fai da te, fino a piante, fiori, spezie, l'acquisto di un qualsiasi bene di consumo diventa "risultato della ricerca", viene passato al vaglio di una critica severa e impegnativa, di regola operata ancora grazie alla mediazione della rete (blog, forum, canali tematici, commenti in calce alle pagine dei prodotti in vendita sui siti di e-commerce, instagram, snapchat, tripadvisor e chi più ne ha più ne metta). Ci troviamo a passare, magari per lavoro, da una città che non conosciamo?

 

 

Con giorni di anticipo, cominciamo a scandagliare la rete, alla ricerca del ristorante perfetto, della trattoria in cui il piatto locale venga servito al top. Vogliamo il massimo e, pertanto, ci impegniamo a studiare, ricercare, comparare. Aiutati, come si diceva, dalla rete che non fa altro che sfornare liste di best of: il migliore cannolo di Palermo, la bagna cauda come Dio comanda, la migliore fiorentina di Firenze. Si capisce quanto questo gioco al rialzo, portato avanti dai forzati della massimizzazione, corra il rischio di risultare bizzarro agli occhi di chi si voglia fermare a riflettere sul suo valore essenzialmente retorico. In preda a un impeto di sano realismo, possiamo sempre prendere atto dell'insensatezza di fare cose come andare alla ricerca della migliore fiorentina di Firenze. A dispetto delle mille classifiche proposte da sedicenti giornali culinari, la migliore fiorentina, a Firenze, lo ricorda il mio amico chef Jean-Michel Carasso, semplicemente non esiste: la sua preparazione è tanto semplice quanto patrimonio condiviso dei cucinieri locali; la sanno, insomma, cucinare tutti molto bene. Ciò che davvero conta è che, però, in questa ricerca spasmodica (e a tratti – come si è detto – perfino ridicola) il commercio ne riesce radicalmente, e forse anche felicemente, trasformato, costituendosi come processo ibrido a cavallo fra reale e virtuale. Dovremo tornarci.

 

Un altro aspetto fondamentale che la virtualizzazione dello shopping porta con sé è quello di far emergere dall'indeterminato e dall'insensatezza perfino la più banale delle commodity. Al giorno d'oggi, nessun acquisto può davvero essere ritenuto insignificante. Prendiamo lo zucchero. Siamo tutti nati in un mondo che pensava lo zucchero come un bene indistinto. Dobbiamo, adesso, fare i conti con le mille qualità di dolcificanti inventati dalla rete: zucchero di palma da cocco, Mascobado, nettare d'agave non avrebbero avuto ragion d'essere prima del web 2.0 e delle chiacchiere in rete di esperti di cucina e blogger culinari. Lo stesso dicasi per il sale: rosa, nero, grigio, dell'Himalaya o del Mar Morto, anch'essi non avrebbero avuto senso prima della rete. Lo stesso (ancora!) dicasi per qualsiasi altro prodotto possa venirvi in mente. 

 

Di fronte a sommovimenti di tale portata, si capisce l'inadeguatezza di qualsiasi negozio fisico che scelga di combattere lo shopping online sul suo stesso terreno, ovvero pensandosi come alternativa sostenibile a esso. Non si può, nel 2017, pensare di tenere un negozio fisico di qualsiasi bene di consumo soltanto offline, senza fare i conti con la concorrenza della rete: qualsiasi prodotto in vendita in qualsiasi negozio fisico si può, di regola, facilmente trovare a un prezzo ridotto e con tempi di consegna velocissimi ed altrettanto economici. Ecco perché la maggior parte dei nostri acquisti si sposteranno inevitabilmente in rete, permettendoci di risparmiare e, lo si è visto, di esercitare l'antica arte borghese della critica: tanto più acquisteremo online, tanto più adotteremo scelte meditate, precedute da prolungate e approfondite ricerche, volte a riconoscere, posizionare, motivare, dire e ridire l'ennesimo acquisto. A completare il quadro, contribuisce anche la sharing economy, che, forse ancora più radicalmente, pensa le transazioni dentro un quadro di relazioni informali, regolato dall'amministrazione della fiducia e orientato alla costituzione di comunità di consumatori responsabili dei loro consumi.

 

Lungi dall'essere alienanti, le nuove forme di shopping mediate dalla rete producono, così, nuove forme di socialità, incessanti discussioni su blog e gruppi di facebook, con tanto di inverosimili dimostrazioni della bontà dei più balzani prodotti attraverso apparati fotografici e video-recensioni. Da qualche tempo, ho messo like a Le sciaquette, gruppo di facebook, dedicato alla pulizia della casa che può contare su un numero di iscritti impressionante (161.000 circa). Come per Hegel (si parva licet) la silhouette di Napoleone a cavallo, sono più che convinto che esso rappresenti lo zeitgeist dei nostri tempi. Il settore merceologico che, più di ogni altro, ha rappresentato la massificazione della società industriale, panacea di ogni pubblicitario degno di questo nome abdica al brusio della rete, che tutto compara e tutto discute. Non c'è detersivo, sapone, utensile per la pulizia che non sia passato al vaglio del gruppo e selezionato in base alla sua capacità di pulire questa o quell'altra superficie. Procter&Gamble farebbe bene a prendere appunti e tributare la dovuta ammirazione a un gruppo di tal fatta, che testimonia, non foss'altro che per il suo valore simbolico, l'avvenuto traghettamento nella grande conversazione dell'ultimo avamposto di resistenza della società di massa e del suo coté di comunicazione unidirezionale. 

 

A partire dalla presa d'atto di questa trasformazione epocale del modo di fare shopping e delle nostre vite di venditori e compratori nell'arena sociale, si capisce quanto il ruolo del negozio fisico sia irrimediabilmente cambiato. Se è inoppugnabile che lo shopping online stia progressivamente prendendo il sopravvento su ogni ambito del retail (prossima frontiera: i freschi) e che, quindi, dal punto di vista di un'antistorica battaglia per la difesa del commercio tradizionale contro i giganti della vendita online la battaglia è ormai persa, il punto vendita può ritrovare un nuovo ruolo. Gli esperimenti più interessanti di evoluzione del settore sono rappresentati dagli sforzi di costituire vendita online e offline come un continuum. Esempi: trovo la giacca online, la provo in negozio, la compro online allo stesso prezzo del negozio o anche a meno. Trovo un oggetto online, lo compro sempre online e me lo faccio recapitare in negozio, approfittando del momento della consegna per farci un giro e comprare altri oggetti che non avevo previsto di comprare e così via. Ciò che conta è che non si pretenda che l'acquirente faccia a meno di questo nuovo piacere della comparazione, della conversazione intorno al suo acquisto, in nome di un rimpianto paternalismo del negoziante. In fondo, la grande conversazione della rete può essere facilmente riconosciuta proprio nel grande movimento di liberazione del cliente dalla mediazione interessata del negoziante, già iniziato, nei grandi boulevard ottocenteschi, con le vetrine e i grandi magazzini (cfr. Codeluppi). 

 

Ci sono poi alcuni malintesi che possono essere sfatati. Gli esperimenti di "consegna a domicilio" delle merci acquistate online dal sito del supermercato di turno (quando, ancora una volta, non da Amazon stessa), suonano di tecnoentusiasmo immotivato. In fondo, la consegna a domicilio non ha niente di innovativo, esiste da quando esiste il commercio e continua a produrre, anche quando esercitata attraverso l'ultima diavoleria di turno, il medesimo sottoproletariato di fattorini, che pur ricevendo le commissioni dalla rete, finiscono per essere sottopagati e sfruttati come i loro colleghi dell'era ante-Internet. Sicuramente c'è uno spazio molto grande per questo mercato, che, però, sottovaluta, a mio parere, un ultimo aspetto del problema. 

 

Se è vero che "andare" a far compere ha perso ogni carattere di necessità, essendo lo shopping online perfettamente in grado di sostituire ogni acquisto in un luogo fisico, è la passeggiata, il piacere naturale e non necessario di andare in giro senza un obiettivo preciso che non si quello di svagarsi a rappresentare un'occasione di riscatto. Lo spazio della passeggiata, sia essa lungo le vie del centro commerciale (in cui si va anche solo per bighellonare o per prendere una boccata d'aria, con la scusa di "fare la spesa" dopo il lavoro), il centro storico pedonalizzato o ancora l'aeroporto, mettono in secondo piano le velleità identitarie in funzione di un bene superiore, quello di riappropriarsi della propria fisicità, insieme agli altri. Sembrerebbe questo il segreto della felicità a detta dello psicologo Barry Schwartz, autore del fortunato volume The paradox of choice (2004): uscire dal ricatto della massimizzazione e rivolgersi al mondo con lo spirito puro di chi non dimentica le cose semplici della vita, il piacere di andare a piedi nudi nel parco, nonostante le mille alternative che la rete mette a disposizione.

Mi piace chiudere con una lista dei miei ultimi dieci acquisti online. Cose stranissime che mai avrei potuto comprare nei negozi vicini che non tralascio, comunque, di frequentare, ogniqualvolta posso prendermi un po' di tempo libero da trascorrere insieme alle persone più care:

 

1) Impermeabile Stutterheim, comprato, dopo lunghi tentennamenti, sul sito del brand (lo avevo provato da Antonia a Milano, durante i giorni di presentazione del libro su Peppa Pig).

2) Semi di aneto. Utili per fare la marinata dei cetriolini come si usa nel Lower East Side. (Ebay)

3) Semi di cetriolini "Boston", perfetti per il mio progetto di cui all'acquisto 2. (Ebay)

4) 10 Tonki al prezzo di 5. Si tratta di cornicette di cartone stampate con le fotografie selezionate dal proprio account di Instagram. Li ho comprati sul loro sito, in sconto per i cinque anni della start-up. 

5) Stringhe di pelle bianche per le mie scarpe da marinaretto. (Ebay) Prima era facile andare alla merceria e dotarsene. Adesso, purtroppo, le mercerie si sono estinte.

6) Calendario di Tintin per l'anno che verrà (Tintin.com).

7) Sandali Camper da un milione di dollari, provati in negozio e comprati a mezzo milione di dollari online.

8) Una piantina di gelsomino Granduca di Toscana, il più profumato di tutti (maximizer!). (Difficile da trovare a un prezzo accettabile, alla fine l'ho preso sullo store online della fioreria Fleurs.

9) Future sex di Emily Witt, comprato grazie alla bella recensione di Anita Romanello (Ibs.it). Mi è piaciuto, grazie. 

10) Il corniolo fiorito di Nora Ephron (Ebay, arrivato dalla Germania). 

 

Se vi va, lasciate nei commenti la vostra lista. 

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Il mago di Oz si racconta

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Oggi esce il volume I libri di Oz nella collana I Milleni di Einaudi, che ho curato e tradotto e che Mara Cerri ha illustrato. Si tratta dei quattordici libri che Baum scrisse attorno al mondo di Oz, narrando le avventure del Mago, di Dorothy, ma anche di molti altri straordinari personaggi: bambine coraggiose, asini saggi, sovrani senza regno, donne con trenta teste, uomini di paglia, di ferro, di latta… Per la prima volta in Italia questi splendidi racconti si possono leggere tutti di fila, raccolti in un solo libro di quasi mille pagine, come fossero capitoli di un’unica poderosa storia. In occasione di quest’uscita Doppiozero mi ha commissionato un’intervista all’autore del ciclo di Oz, Lyman Frank Baum. Per mesi e mesi ho trattenuto la sua voce nelle orecchie, nel tentativo di farne emergere il colore, la grana, la temperatura, nelle parole che traducevo: Baum è stato il compagno più assiduo, possessivo, comprensivo ed esigente al contempo che potessi immaginare per i miei giorni e le mie notti. Mi ha posto questioni nodali, mi ha fatto ridere, mi ha commossa. Soltanto in nome di questa conquistata familiarità, dunque, mi permetto adesso di intervistarlo.  

 

C. L. Signor Baum, mi consente una domanda?

L.F.B. Volentieri. Qual è l’argomento?

 

Le storie di Oz. Ho appena tradotto i suoi libri su Dorothy, il Mago e…

Un altro impostore. 

 

Il Mago?

L.F.B. No, lei. Credete tutti di poter passare da una lingua all’altra come se fosse naturale. E invece è una cosa mostruosa.

 

Veramente…

Una volta conoscevo una ragazza che rischiò di far cadere un regno facendo da interprete a due stranieri.

 

Ma non è andata proprio così. Perché lei parla di Jellia Jamb, immagino, la ragazza del suo secondo libro, vero?

 

 

Jellia, sì. La furbetta si è approfittata di quello zuccone di Jack e del Re Spaventapasseri: loro non si capivano e lei si è messa a tradurli.

 

Però, alla fine, non si è molto sforzata. Voleva divertirsi e così ha giocato a far l’interprete, ma in realtà quei due parlavano già la stessa lingua.

Tutti a Oz parlano la stessa lingua, compresi Jack e lo Spaventapasseri. Solo che quei due credevano di aver bisogno di un’interprete per poter comunicare.

 

Sono cose che capitano spesso. Jellia non ne ha nessuna colpa.

Sì, ma ugualmente si è comportata da impicciona: l’ho sempre pensato che Jellia fosse una bambina troppo curiosa.

 

Beh, considerata la stranezza degli interlocutori, credo che la si possa comprendere. Io la capisco, almeno.

Lo vede che ho ragione? Siete tutti uguali, sempre a voler portare il vostro punto di vista nelle cose degli altri.

 

Io però spero di non avere stravolto le sue storie: lei è un autore che…

No, guardi, io non sono un autore, sono uno Storico. Lo Storico Reale di Oz. Mi scusi la puntualizzazione, ma questa è una cosa a cui tengo moltissimo.

 

Mi scusi lei. Questa questione dello storico, però, io ho sempre pensato fosse un altro suo gioco meraviglioso.

Su questo si sbaglia; è stata, fin dal principio, una questione di pura sopravvivenza.

 

Si spieghi meglio, per favore.

Vede, i miei deliziosi tiranni non mi lasciavano più vivere. Sempre a chiedermi una nuova storia, purché parlasse di Oz naturalmente, o di Dorothy e degli altri amici di quel pazzo mondo. Non potevo più scrivere di nessun altro argomento, e dire che ne avevo molti in testa! Ma non solo: non riuscivo più a mangiare, a dormire, a respirare! 

 

I suoi tiranni? Parla dei bambini, i più fedeli tra tutti i suoi lettori? Ma allora non è una leggenda quella delle migliaia di letterine che le spedivano?

Lasci stare, per carità. Non passava giorno che la buchetta non si riempisse di missive: arrivavano a due, a tre, a decine! E tutte contenevano nuove domande, spunti narrativi, perfino idee, e talora geniali! E io… cosa potevo fare? Io, nella vita, non ho mai saputo dire di no a nessuna richiesta accorata di un bambino.

 

Ma in fondo le faceva anche piacere, no? Non vorrà farmi credere che subiva il suo destino di scrittore amato e famoso come una punizione?

Non ho detto questo. Ma si metta nei miei panni. Io ero costretto a scrivere gli altri miei libri di nascosto, sotto pseudonimo; pochi sanno che, oltre a quelli di Oz, ho dato vita a molti altri racconti: storie per bambini, ma anche per adulti. Ha mai letto lei, che dice tanto di avermi tradotto, che so… ad esempio… Le figlie del destino?

 

No, mi dispiace, non l’ho letto.

Ma sono io l’autore! Non si senta in colpa, però, perché praticamente nessuno l’ha mai saputo (e forse avrei preferito non saperlo neppure io!).

 

Dunque lei è diventato lo Storico di Oz soprattutto per difendersi dall’assalto dei bambini, che le chiedevano di essere il loro personale autore ventiquattr’ore su ventiquattro?

Infatti. Se accettavano il fatto che io fossi lo Storico, avrei potuto prender tempo, perché la Storia ha bisogno di ricerche, di una raccolta di documenti. La Storia deve permettere ai fatti di accadere prima di potere raccontarli. Avevo detto ai bambini che il Regno di Oz era diventato invisibile, perché la Principessa Ozma voleva difenderlo dai nemici e dai curiosi. E io, naturalmente, avevo bisogno di più tempo per reperire nuove fonti. Se mi chiedevano, ad esempio: ma che è successo al Boscaiolo di Latta in seguito? Ha ritrovato la sua antica fidanzata di un tempo? Io potevo sempre dire loro: abbiate un po’ di pazienza, mi metto subito alla ricerca di prove, di testimonianze, ma ci vorranno mesi, forse anni per potervi rispondere, perché non posso più recarmi personalmente nel Paese dei Munchkin per scoprirlo!

 

Ma poi iniziò la storia del telegrafo…

Sì. Uno dei bambini si fece venire in mente che potevo contattare Dorothy in persona, se volevo, anche senza sapere dove si trovasse Emerald City: bastava adoperare il telegrafo senza fili. E allora mi è toccato ricominciare: scrivevo sotto dettatura.

 

Sotto dettatura?

Beh… in un certo senso era la stessa Dorothy a comporre, attraverso di me, la sua storia.

 

Questo mi fa pensare a un’altra bambina, non so se si chiamasse Dorothy, ma certo era una delle sue lettrici. Un giorno l’ho sentita dire che la Storia è «qualcuno che si vede, una cosa che si legge nel pensiero». Capisco solo ora che pensava a lei, signor Baum. Come Storico Reale, lei è diventato una specie di Medium per l’esercito dei suoi piccoli lettori! Ma non le sembra strano inventare per tutta la vita, senza sentirsi davvero inventore della propria invenzione?

Oh, tutti vogliono sempre inventare: cose nuove, originali… Ma bisogna stabilire cosa sia davvero originale. C’è tanta di quella meraviglia al mondo! E ha molto bisogno di essere descritta. La Storia, poi, è piena di fantasmi: vederli, riconoscerli è più difficile che descriverli. Il rapporto con l’invisibile è la sola cosa che conti per me.

 

Mi viene in mente il suo Libro della Storia, quello di Oz: un volumone di pagine bianche, che si scrivono da sole non appena Glinda, la Maga buona, posa i suoi occhi saggi e fanciulleschi sulla loro superficie. Allora, poiché quel che legge trabocca di violenza, la giovane sovrana piange, perché sa che al corso della Storia non ci si oppone e che i suoi sudditi saranno a volte felici, ma molto più spesso tremendamente infelici.

Quel libro è l’oggetto più desiderato del regno, ma è anche una maledizione. Quando Ugo il Calzolaio, nella Principessa perduta di Oz, lo ruba a Glinda stavo quasi per tirare un sospiro di sollievo. Ma poi ognuno di quelli là si è messo a disperarsi e a non darsi pace e mi è toccato farli partire assieme per quella folle spedizione in cui tutti quelli a cui era stato rubato qualcosa si accodavano, e il colpevole, naturalmente era sempre Ugo. Ci vuole pure un capro espiatorio, no?

 

Credevo che lei fosse dalla parte degli abitanti di Oz in quella storia!

Oh, io sono dalla parte di tutti. Per quattordici libri ho cercato di convincere ognuno dei miei personaggi a fare i conti con il sentimento della mancanza. C’è sempre qualcosa che manca: un cuore, un cervello, il coraggio. [cervello in scatola] A qualcuno manca la forza, a qualcun altro la debolezza. A Dorothy manca il Kansas. Poi le manca Oz. E ancora il Kansas. Non si guarisce mai dalla mancanza. In fondo anch’io non ne sono guarito completamente: fino all’ultimo giorno ho continuato a descrivere l’indescrivibile meraviglia di un Paese di cui nessuno potrà mai provare l’esistenza.

 

Non dica così, lei ha davvero messo al mondo un mondo. Palpita, pulsa e, mi creda, alla fine esiste: c’è perfino una mappa, con le regioni, i nomi dei popoli… [la mappa] Ne sono certa, c’è sempre qualcuno che si rimette periodicamente in viaggio verso Oz. A proposito, perché «Oz»? Sono state fatte molte congetture su questo nome strano e incomprensibile.

 

 

Incomprensibile? Io penso che sia un nome perfetto per un mondo magico. Una sera, mentre raccontavo ai miei figli e a qualche loro amico la storia di un Boscaiolo senza cuore e di uno Spaventapasseri senza cervello, una bambina mi chiese d’un tratto dove fosse la casa di quei due esseri meravigliosi. Sul momento non seppi rispondere. All’improvviso, però, lo sguardo mi cadde sul cassetto più basso del vecchio archivio del nostro salotto. C’era un cartellino incollato sopra, con le lettere O – Z scritte al centro. E allora pensai: sarà questo il nome della mia terra magica.

 

Devo crederle? O questa è un’altra delle sue invenzioni?

Pensa che sia importante stabilirlo? Per Dorothy era forse importante sapere se il ciclone fosse inventato, quando realmente la portò dal Kansas a Oz?

 

In una famosa versione cinematografica della sua storia, però, quello di Dorothy, alla fine, si rivela solo un sogno. Questo lo sente come un tradimento?

In una storia incantata non fa differenza essere svegli o dormire. Bisogna accettare la magia cosí come si farebbe con una brezza profumata che ci raffresca la fronte, o una sorsata d’acqua dolce, o il delizioso gusto di una fragola ed esser grati del piacere che ci porta, senza cessare di interrogare la sua origine.

 

Interroghiamole, dunque, le origini dell’incanto; quelle, ad esempio, del luogo principe delle magie e, al contempo, delle mistificazioni: Emerald City, la Città di Smeraldo. Nella storia il Mago s’inventa di sana pianta quel posto, una volta precipitato col suo pallone nella Terra di Oz. La campagna fuori è così verde e così bella... e allora il Mago battezza la sua capitale Emerald City; e per rendere il nome più calzante chiederà ai suoi sudditi di indossare i famosi occhialini verdi. Naturalmente quando ti metti gli occhiali tutto si tinge di verde...  e del resto il verde è un colore bellissimo e la bellezza dà felicità alla gente. Signor Baum, lei non lo poteva certo sapere, ma con questa metafora ha anticipato uno dei temi del secolo, quello della manipolazione delle immagini, del mondo virtuale e della persuasione occulta. Il Mago, del resto, mistifica di continuo la realtà, alterandone la percezione.

Non capisco perché lei parli di metafora. Guardi che non è una metafora quella degli occhialini. 

 

In che senso, scusi?

Lei continua a confondere il piano simbolico con quella che si ostina a chiamare realtà, e che io invece considero la storia. Gli occhialini sono solo uno strumento di difesa contro il potere annichilente delle immagini. Sono una protezione. Crede di non starne indossando un paio anche adesso, mentre mi fa tutte queste domande? 

 

Vuol dire che lei giustifica il grande imbroglio del Mago? La felicità a qualunque prezzo dunque?

Credo che il Mago non avesse nessuna alternativa. Quanto alla felicità, credo che a Oz, ma in fondo dappertutto, sia solo essere contenti di ciò che si ha.

 

Anche a Oz, però, la gente è infelice. 

Lei trova?

 

 

Certamente! C’è la tigre famelica che vorrebbe solo sbranare bambini dalle carni tenere, ma poiché ha un’anima compassionevole non riesce farlo e allora è condannata a rimanere inappagata e infelice. C’è il coniglio re, che considera miserabile il suo stato privilegiato, ma è infelice anche solo al pensiero di perderlo. Infelici sono i Capricciosi, che indossano grandi maschere per nascondere la loro piccola testa, sebbene sia folle cercar di apparire diversi da come natura ci ha fatti…

Non trovo affatto che costoro siano infelici, come lei dice: sono felici e contenti, ma solo quanto si può esserlo. Il loro problema è il desiderio: essi desiderano di continuo qualcosa. E desiderare è pericolosissimo, si sa. Perché un desiderio irrealizzato produce scontentezza, è vero, ma un desiderio esaudito ha sempre e comunque delle grosse conseguenze. Mi dica, lei si considera infelice?

 

 

No, non direi.

E forse non ha nessun desiderio?

 

Sì, molti, ma…

Lo vede? E adesso non mi venga a dire che il suo problema è che dove vive lei non ci sono più maghi o streghe capaci di esaudirla!

 

Le streghe, però, dovrà ammetterlo, a Oz sono davvero ovunque: nei paesaggi, nei ricordi, nel pensiero di chi viaggia… 

Guardi, dovrebbe saperlo alla sua età: le streghe non esistono.

 

Ma se lei ha disseminato il suo racconto di streghe!

Mia suocera diceva sempre che le streghe sono soltanto donne incomprese e speciali, oppure donne ossessionate da più piani della realtà, e sempre a cavallo tra due mondi, tra due condizioni, tra due linguaggi… anche Dorothy in questo senso ha qualcosa della strega, ma anche Jellia... Un momento… non sarà anche lei una strega?

 

Signor Baum, per piacere! Mi ascolti, piuttosto. Le voglio raccontare, adesso, se mi concede ancora un po’ di tempo, la scena di un film, che lei non può avere visto, per ragioni diciamo “anagrafiche”. Si tratta del remake turco della pellicola più famosa su Oz, quella con Judy Garland, che forse le sarebbe piaciuta e che certo le avrebbe dato molta soddisfazione. Nel suo primo libro Dorothy e i suoi tre amici, il Leone Codardo, il Boscaiolo di Latta e lo Spaventapasseri, possono accedere al cospetto del Mago solo uno alla volta. A ognuno il Mago si mostra in una forma o sembianza diversa, oppure forse dovrei dire che ognuno è capace di vederlo solo nella forma che gli era dal principio concepibile: una grande testa, una bella dama, una belva feroce, una palla di fuoco.

 

 

Nel film turco, invece, del 1971, la scena è di una desolante e scarnificata nudità: i quattro accedono non a una stupefacente sala del trono con effetti speciali luminosi e sonori, ma a uno spoglio anfiteatro in cui un’esile fiamma “perenne” illumina a fatica un tavolo coperto da un drappo rosso su cui è poggiato un teschio. La voce di quella effigie, la voce di Oz, è indeterminata e comune, direi quasi uniforme, solo informata metricamente alla mimesi del più famoso collega del colossal americano. Quella scena ci spinge a riconsiderare brutalmente, e fuor di metafora, una questione che nella storia di Dorothy è quasi sempre un grande rimosso, quella della morte. A Oz, infatti, non si muore mai.

 

Mia cara, anche questa è soltanto una sua pia illusione. A Oz si muore di continuo. Ci si scioglie, si diventa polvere, si perde il cuore, si perde la testa… E poi c’è Dorothy. La sua condizione mortale è la condizione prima di ogni viaggio. E di ogni trasformazione. E la trasformazione, questo me lo concederà spero, è il tema più importante del mio ciclo, anche se stiamo parlando da quasi mezz’ora e lei non l’ha ancora menzionato.

 

Stavo per farlo infatti. C’è una scena che adoro nella Strada per Oz. Quella in cui Botton di Luce e lo Straccione si bagnano nel laghetto della verità e perdono le loro sembianze animali. L’abbiamo anche usata come immagine di copertina nel nostro libro, e Mara Cerri ne ha dato una versione molto misteriosa in cui non si capisce se sia l’umano a lasciar posto all’animale o viceversa. In altre parole, non si capisce se trasformarsi significhi ritrovare la propria forma originaria, oppure perderla per sempre, conquistandone una nuova.

 

 

Lei cosa crede?

Credo che trasformarsi sia la cosa più ardua al mondo. Solidarizzo con lo Straccione quando in quel libro dice a Dorothy che si dovrebbe aver sempre a disposizione un laghetto della verità nella vita, perché così sarebbe tutto più semplice. Posso chiederle, adesso, una cosa spinosa?

Se proprio è necessario…

 

 

Lei avrà capito, io nutro un grande amore per la sua opera e per lei. Ma quella storia degli Indiani… Cioè i suoi editoriali così violenti, razzisti… Com’è possibile che il cantore della diversità, della libertà di un popolo misto, si sia espresso in modo così crudele? Voglio dire: lei inneggiava allo sterminio degli autoctoni!

È proprio in nome della grande libertà americana e della tolleranza che scrissi quelle pagine. Gli Indiani erano esseri feroci, disposti a difendere la loro terra anche a prezzo della vita, se necessario. Era una questione di sopravvivenza, noi o loro. Sono stato costretto a prendere una parte.

 

Non so se riesco a comprenderla, ma lasciamo stare. Adesso le faccio l’ultima domanda. 

No, aspetti, prima gliene faccio una io. Qual è il suo personaggio preferito nei miei quattordici libri?

 

Mi mette in grande difficoltà… Forse uno dei miei preferiti è Tic-Toc, l’automa.

 

 

Mi piace la storia delle sue tre differenti cariche: quella del pensiero, dei gesti e della parola. Mi piace che ci sia sempre una bambina speciale a ricaricarlo e anche che quando le tre cariche finiscono lui si spegne di colpo, cadendo in uno strano limbo in cui è un corpo invincibile e al contempo abbandonato al caos delle varie storie, indifeso e inerme. Mi piace che possa anche scaricarsi parzialmente: adoro i momenti in cui si spegne soltanto la sua facoltà di movimento e quella di pensiero e lui diventa all’improvviso un ammasso roccioso dotato di parola; ma allora il linguaggio non può che srotolarsi in grumi sonori privi di senso. Mi commuove anche la sua acuta coscienza di essere una creatura limitata e poi anche…

Basta così, ho capito; mi faccia pure la sua ultima domanda.

 

Cosa chiederebbe al Mago, signor Baum, se anche lei potesse accedere al suo cospetto, nella misteriosa sala del trono?

Ah, questo non glielo posso dire. Mi scusi, ma devo proprio lasciarla adesso; nell’altra stanza mi attendono i bambini, penseranno che mi sia perduto ormai: sa, eravamo a metà del mio ultimo racconto.

 

Vuol dire che la saga continua anche dove lei si trova adesso?

Quando avrà finito, laggiù, con tutte le traduzioni e le altre sue faccende, venga a cercarmi, se ha il coraggio.

 

Da domani in libreria Frank Baum, I libri di Oz, tradotti e raccontati da Chiara Lagani, con illustrazioni originali di Mara Cerri.

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Di burocrazia e digitale a scuola

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Tra i tanti aspetti che la colonizzazione digitale della scuola comporta il settore della burocrazia e della comunicazione interna è uno dei più significativi per impatto e radicalità. Sempre più è esperienza comune che nella scuola la digitalizzazione della burocrazia e la smaterializzazione della documentalità si trasformino in eccesso informativo e assumano una curvatura verso l’aziendalizzazione, sia in termini di marketing e comunicazione verso l’esterno che di gestione del personale. Tali dinamiche tendono a sovrapporsi alla consuetudinaria comunicazione interna (preside-docenti; docenti-docenti; docenti-studenti; scuola-famiglia), il cui corretto funzionamento è parte sostanziale della democrazia interna alla scuola.

La questione dell’aggravio di lavoro che questo comporta non è solo sindacale, se accettiamo il dato che la scuola è un ecosistema complesso ed è “come un animale gigantesco che respira e il respiro è la sua vita e la sua anima.”

 

È inevitabile che l’inflazione informativo-comunicativa, un dato sistematico in tutta la società contemporanea, colpisca anche a scuola. La questione è piuttosto evitare l’eccesso di informazione inutile e la ridondanza, da parte delle segreterie, dei vari livelli di coordinamento interno (consigli di classe; dipartimenti; funzioni strumentali) e dei diversi soggetti legati alla formazione; il che dal punto di vista dei docenti nella pratica quotidiana significa riuscire a ‘dragare’ il flusso informativo, per riportarlo entro la soglia oltre la quale la comunicazione diventa disfunzionale, inutile e ingestibile.

Il tutto considerato che a quanto mi risulta, non esiste istituzionalmente una postazione di lavoro stabile/ufficio deputato in cui il docente riesca a stabilire un approccio sistematico alla gestione delle mail e della ‘scuola digitale’: la scuola come ambiente di lavoro comodo e accogliente, dotato di zone di conforto, in cui stare oltre le ore di lezione è un concetto su cui si tratta di lavorare ancora molto. Credo che ogni scuola si organizzi come può/vuole con un certo numero di computer in sala insegnanti, sale computer, laboratori o con i tablet, a cui si accede con I.D.

 

L’uso del cellulare e strumenti come Facebook e Whatsapp non possono essere a mio avviso considerati canali sensati ed efficaci di comunicazione istituzionale non emergenziale.

Alcuni tecnicismi legati al nesso uso di piattaforme e privacy rendono la vita complicata, anche a chi abbia skills digitali abbastanza sofisticati. Ad esempio le password: nella mia esperienza sono diverse quelle di accesso alla rete scolastica, alla posta scolastica, al portale stipendi, al registro elettronico, al portale Istanze on line, a quello della carta del docente e a quello SOFIA (che dovrebbe gestire l’attività formativa dei docenti).

Ora, se consideriamo che le password scadono regolarmente e vanno cambiate significativamente e con frequenza e incrociamo la cosa con l’aumento significativo della documentazione delle attività e con il Digital Divide correlato all’età anagrafica del corpo docente potremmo avere un’idea del come e perché molti docenti possano patire questa fase di transito e formazione verso una società dell’informatizzazione avanzata.

 

 

A margine, considero il management delle password – tutte – un fattore decisivo per una sopravvivenza equilibrata e la prevenzione del disagio mentale.

Infine – è uno spunto che andrebbe maggiormente esplorato – con il fatto che davvero spesso a scuola la tecnologia crea più problemi di quanti non ne risolva, ho notato che talvolta questa può avere un ruolo di “parafulmine”: pur con mille ragioni, si può essere tentati di scaricare tutte le tensioni scolastiche sulle macchine obsolete, sull’assurdo burocratico e sulla stupidità dei sistemi non integrati, perché neutralizza i conflitti, ricompatta la coesione interna e rasserena gli animi permettendo lo sfogo dell’irritazione su un soggetto inanimato e impopolare. Come direzionare la critica del capitalismo sugli sportelli bancomat, soddisfa le pulsioni aggressive fantastiche senza intaccare i problemi.

 

Ho avuto uno scambio sul tema con una collega di lettere, molto attiva e ben connessa, Andreina Chirone, che scrive quanto segue (e per questo la ringrazio). 

«Digitalizzazione della burocrazia, eccesso informativo e smaterializzazione della documentalità sono tutti sinonimi per me. Da qualche anno, ormai, la mail di istituto è una presenza costante, invadente e spesso impone perdite di tempo a causa di connessioni effimere quando non ridicole: a casa come a scuola.

Inizialmente mi era parso molto comodo poter leggere anche a casa i calendari di scrutini, riunioni di settore e/o di dipartimento, assemblee studentesche, incontri con esperti vari, appuntamenti con le aziende per la famigerata ASL (Alternanza Scuola lavoro). Ora, invece, mi sento letteralmente assediata da un fiume quasi ininterrotto di comunicazioni più o meno ufficiali. Una delle ragioni – credo – risieda nel fatto che il turnover fisiologico della composizione dei Consigli di Classe impedisce una selezione delle mail, che vengono inviate sempre a tutti, su quasi tutto ciò che accade e che accadrà a scuola.

Inoltre, la smaterializzazione risulta una chimera, dal momento che quasi tutti i miei colleghi e le mie colleghe, me compresa, spesso stampiamo copia delle comunicazioni, per timore di perderle nel mare magnum del web.

 

L'esempio più significativo è il registro elettronico. Al bancone delle fotocopie, spesso, incontro colleghi/e (generalmente appena arrivate e/o in prossimità della pensione) con un registro cartaceo, copia quasi esatta di quello digitale. Il primo anno sono impazzita anche io, tentando di tenere memoria della mia attività scolastica in questo modo, ma ho presto desistito, cedendo al mio animo, in fondo, fatalista. Non aggiungo considerazioni sul fatto che si perde un sacco di tempo nel segnare assenze, ritardi e uscite fuori orario, voti, argomenti delle lezioni anche a causa di una connessione altalenante.

Sull'aziendalizzazione, spinta dai dirigenti, confesso di essere quasi rassegnata, dal momento che lavoro da 18 anni nell'istituto più grande e rinomato della provincia. La grande maggioranza delle attività organizzate per gli studenti sono destinate ad adeguare la loro formazione alle esigenze del mercato, di cui noi docenti non siamo altro che una delle componenti. La didattica non sembra essere più né una preoccupazione né una richiesta dei presidi. Debiti, crediti, pause didattiche per i recuperi in itinere, recuperi agostani spericolati e funambolici per non perdere “clienti”: campi semantici aziendali ormai metabolizzati da un corpo docente che su questo pare allineato. Mi picco, però, di abitare le isole di speranza e di resistenza che si trovano a macchia di leopardo un po' dappertutto».

 

Nel pensare a questa vivida descrizione in cui molti si ritroveranno, ni ritrovo a pensare più o meno le stesse cose che ho già scritto altrove. Laddove l'ecosistema scolastico, sulla spinta del digitale, tende a essere ulteriormente fagocitato dalle logiche della comunicazione e del mercato, la scuola dovrebbe essere in grado di trovare armonia funzionale nelle sue attività anche opponendo una motivata resistenza a favore di un diverso ordine dei tempi, del non utile e del non economico, della bellezza e della meraviglia. Che sono poi le cose che rendono speciali i mondi digitali più belli, all’interno di un panorama segnato da tanto chiacchiericcio immotivato e estrema sciatteria visiva mobilitata a decorare cumuli di immondizia testuale.

In ogni caso, le persone a cui ho chiesto di scrivere del loro rapporto con burocrazia e tecnologia a scuola sono molto di più di una. Probabilmente la mail si è persa tra le altre.

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Stranger Things nei favolosi anni Ottanta

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Stranger Things, la serie prodotta e diretta dai gemelli Duffer e da Shawn Levy, è come una torta ricoperta di canditi: i giovani scrittori-registi hanno scelto gli anni Ottanta della loro primissima adolescenza per farcire la loro complex tv di canditi omaggi e rimembranze cinematografiche. Nella consueta cittadina della provincia americana «dove non accade mai nulla», tra casette in legno, boschi e basket nella palestra della middle school scopriamo che annidato nella centrale elettrica c’è un agghiacciante segreto; i soliti scienziati pazzi e criminali, per mandato occultato del solito Esercito, rapiscono e trasformano in cavie bambine (non bambini: si sa, le bambine sono ormai più intelligenti dei maschi dagli anni Ottanta) con poteri speciali.

 

 

La protagonista è 011, Eleven, rapata come Natalie Portman in V per Vendetta dei fratelli Wachowski e detenuta in questo manicomio pre-Basaglia, interpretata da una nuova Shirley Temple, la tremenda, prodigiosa ministar Millie Bobby Brown.

El (come la soprannominano i quattro ragazzini-moschettieri che la incontrano dopo la sua fuga) è telecinetica: sposta le cose, con garbo o con violenza, e sperimenta la capacità di uccidere togliendo di mezzo due guardiani quando non ne più di subire torture e crudeltà dal capo degli scienziati pazzi, che chiama “dad” e che effettivamente la sceneggiatura ci conferma come suo vero padre biologico e degenere. Nella seconda serie (che per ora appare come il sequel secco e definitivo della prima) conosciamo la sua compagna di stanza nel lager di Hawkins, 008, che ha il potere invece di simulare illusioni del tutto verosimili alla mente del prossimo: è di origini indiane (India proprio) e da adolescente è a capo di una punk gang nella suburra di Chicago, omaggio dei Duffer Brothers a The Warriors di Walter Hill.

 

Stranger Thingsè un fantahorror vintage: negli interessanti extra che implementano le puntate della seconda serie i Duffer e Levy dialogano a turno con i loro straordinari piccoli attori, e ci svelano o confermano la raffica di omaggi di cui hanno disseminato la serie: sopra tutti, Steven Spielberg; i quattro ragazzini che pedalano sulle loro piccole bici, per stradine senza automobili sotto la luna, nella libertà perduta nell’era di internet e degli smartphone sono E.T., e quando evade, El è E.T., è una ragazzina che non ha avuto infanzia, che non ha imparato sorriso, giochi, parole. Le esplorazioni avventurose ricordano ancora un altro soggetto di Spielberg, quello dei Goonies diretto da Richard Donner. I quattro moschettieri la svezzano nel giro di poche puntate, e a poco a poco scoprono con noi l’Altro, l’Alieno, il Mostro. El oltre al potere cinetico ha capacità extrasensoriali ulteriori, che la portano nell’Upside Down, nel sottosopra, ovvero in una realtà parallela, la fotocopia apocalittica, tossica, desolata e eternamente oscura che sta sotto e intorno e che El contatta in una sua passeggiata nell’orrore cosmico (quello di Lovecraft, dichiarato dai Duffer Brothers come autore-chiave della loro ispirazione di angoscia narrativa); El ha aperto un portale tra il mondo di sopra e quello di sotto, che tutto il cast le prime puntate chiamava ancora “infero”. Un aldilà dove non si va da morti, anime giudicate, ma dove si viene trascinati vivi dai voraci e spaventosi “demodogs”, il branco di predatori del Grande Ragno/Grande Polpo del mondo di sotto. L’orrifico delle fiabe di Basile o dei Grimm, il Voldemort di Harry Potter riappaiono in particolare nei notturni boschivi, un mondo pre-elettrico, quello dell’era Edison di fine Ottocento. La maggior parte delle sequenze di Stranger Thingsè notturna: impossibile vederlo di giorno, abbacinati dai riflessi del nostro luminoso mondo-di-sopra.

 

In quegli Ottanta la meravigliosa libertà giocosa dei ragazzini di provincia – garantita nell’era pre-smartphone e GPS – diventa anche il sottosopra della libertà: il pericolo senza chance di soccorso; i “nostri” non arrivano mai, e la narrazione di questa serie è vintage anche nei cut spietatissimi sul climax drammatico e mozzafiato alla fine di ogni puntata. Ogni episodio è un capitolo di feuilleton che è davvero impossibile vedere settimanalmente senza sclerare di attesa. Un solo episodio è parzialmente autonomo, quello della escursione di El nella Chicago punk per ritrovare la sua “sister” di detenzione.

Spielberg, dicevamo. E.T. e poi Lo squalo: le creature ispirate dal Demogorgon e dal Mind Flayers del mitico gioco da tavolo Dungeons & Dragons– ci raccontano i Duffer – attaccano con la frontale e ineluttabile voracità dell’enorme squalo robotico di Spielberg. Se in quel film a tenere la bocca chiusa sono i meschini politici dell’isoletta, terrorizzati non dallo squalo ma dal rischio di fiasco turistico, qui il silenzio-stampa è accuratamente sorvegliato, monitorato in cuffia, registrato, assopito con eventuali assassini dal Potere della Scienza Militare, che studia armi non convenzionali per fottere il Nemico Sovietico negli ultimi anni della Guerra Fredda, in un regime solo apparentemente travestito da democrazia. Sarà uno sgangherato e sfigato ricercatore alternativo al sistema (come gli amici di Fox Mulder in X-Files) a sputtanare il complotto, declinandolo con una arguzia edulcorata ai mass media.

Le maschere nella notte che vogliono smembrare ragazzini sono l’omaggio a Halloween di John Carpenter.

 

La tana viscida con le prede umane imbozzolate dal ragno alieno, l’avvicinarsi accerchiante dei mostri intorno al monitor del radar della sala controllo, l’incubazione in un corpo umano sono Alien di Ridley Scott. Il proliferare dei vermoni sottoterra sono Tremors di Ron Underwood. Esplicita e spassosa la sequenza dedicata a Ghostbusters di John Landis.

 

 

 

 

Perché quindi Stranger Things può tenerci in apnea per 17 ore? Questa vicenda che parte nel 1983, interpretata da sei prodigiosi teen-actors, come ogni narrazione di fantascienza ci costringe alla domanda fondamentale: chi è l’Uomo, cosa ci definisce Umani? E cosa è, come è l’Alieno? Per tutta la prima serie ero convinto che l’attacco al pianeta fosse ordito da un invasore alieno, che indifferente alle nostre sempre ridicole armi terrestri può essere sconfitto solo da ciò che non pratichiamo con molta convinzione: la collaborazione tra popoli e governi terrestri (vedi il tema nel recente concettuale Arrival di Denis Villeneuve, tratto dal racconto Storie della tua vita di Ted Chiang), l’abbandono alla percezione sensoriale estesa, alla possibilità di concepire un modo di comunicare o percepire il tempo più profondo e vasto del nostro (ancora Arrival), infine, l’amicizia, la lealtà, il non mentire, la verità di amore tra ragazzini, adulti, materno o paterno che nulla ha a che fare con il carcere ipocrita della famiglia. In Stranger Things solo la madre del ragazzino posseduto dal mostro (la scena della sua “liberazione” è ovviamente ennesimo omaggio ala cinematografia Seventies, a L’esorcista di Friedkin) è quella che potremmo definire oggi una madre autentica: Winona Ryder, che la interpreta, sa imprimerle soglie d’ansia insopportabili, ma è la mamma che sa agire tempestivamente scaturendo l’azione dal cuore, perché è la “wierdo” del villaggio, la stramba, la depressa, l’emarginata piantata dal marito stronzo; le altre famiglie sono soffocanti coppiette che ricordano gli zombie di Romero, e nulla sanno o comprendono dei figli (come gli attuali genitori dei loro iper-controllabili ma totalmente sfuggenti Millennials gipiessati).

 

 

Potente anche il personaggio dello sceriffo in burn out interpretato da David Harbour: come la linguista di Arrivalè trafitto dalle premonizioni/ricordi di una figlia morta di incurabile malattia; vivacchia di storielle sessuali con rancorose single di Hawkins; infine diventa il padre adottivo della ribelle e selvatica El, guadagnandosi la paternità da manuale psicanalitico: sbagliando, lottando, costruendo mattone su mattone la sua affidabilità e la sua presenza centrante (c’entrante) di padre-leva del crescere di un figlio.

I frame toccanti di Stranger Things sono gli abbracci di amicizia e intensissimo affetto pre-erotico tra i ragazzini; la loro rete veramente connessa di walkie-talkie, dove transitano soltanto contenuti urgenti e veri, e non chat frivole; i loro abbracci, il loro ritrovarsi, i loro primi meravigliosi baci sulle labbra. Così come sono delicate e tenerissime le prime imbranate notti sessuali dei loro fratelli o sorelle ormai sedicenni. O il riconciliarsi della madre svitata e dello sceriffo un po’ bevuto fuori dal ballo d’inverno nella palestra della scuola media.

 

La sequenza finale dello Snow Ball (come confermato negli extra Netflix dai Duffer Brothers e da Shawn Levy) è l’alfa e l’omega di tutto questo nuovo capitolo di complex tv dall’enorme successo planetario. Cosa ci manca degli Eighties, 34 anni dopo il 1983? I giochi da tavolo fantasy? Le prime sale di video-giochi? I walkie-talkie? Le tv con le antenne a baffo e la neve cinerina della mancata ricezione? Le cene in famiglia senza smartphone nel piatto? I Clash di Should I stay or should I go che ascolta il buon fratellone sociopatico e fotografo del piccolo posseduto? Non molto, direi. Ci mancano i balli alla scuola media che non abbiamo avuto neanche negli anni Ottanta, prima di non vederci quasi più in faccia nelle prime discoteche assordanti e alienanti dei nostri Ottanta; manca quel rituale sociale, tenero o crudele per ognuno, in cui un amore può sbocciare in un lento, avvinti. Le lucine stroboscopiche in cui ogni bruttino o bruttina può apparire bellissimo e adorabile. Ci mancano i baci e gli abbracci che uniscono, e l’apparire finalmente splendido, sull’ingresso della ballroom, della Cenerentola di turno, finalmente vittoriosa sul suo dolore, finalmente accolta nella comunità, mentre la musicassetta diffonde la voce di Sting mentre canta l’eternamente romantica Every breathyou take dei Police. 

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Il mondo salvato dai ragazzini
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Possiamo fare a meno delle monografie?

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In questo periodo, si è scritto molto a proposito dell’anniversario della rivoluzione russa avvenuta nel 1917. Ma questo importante evento sociopolitico non avrebbe probabilmente avuto luogo se Karl Marx non avesse pubblicato esattamente cinquant’anni prima un saggio teorico fondamentale come il primo volume del Capitale. I saggi monografici rilevanti, infatti, possono modificare e addirittura sconvolgere il processo evolutivo delle società. Basti pensare, ad esempio, alla potente forza di cambiamento culturale e sociale manifestata da un saggio estremamente importante come L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud. Oppure a ciò che hanno causato altri innovativi saggi pubblicati tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta del Novecento: Miti d’oggi di Roland Barthes, Apocalittici e integrati di Umberto Eco, Gli strumenti del comunicare di Marshall McLuhan. 

 

Un saggio monografico può dunque dare vita a una potente forza di cambiamento della società. L’evoluzione del pensiero scientifico ma anche della cultura sociale non ha potuto prescindere nella storia della modernità da questo strumento di elaborazione teorica. Eppure oggi stiamo progressivamente rinunciando a tale strumento. È in atto cioè una vera e propria rivoluzione. Si tratta di una rivoluzione silenziosa, eppure è comunque una rivoluzione. D’altronde, è noto come spesso le rivoluzioni silenziose siano quelle più radicali ed efficaci, perché nascoste e invisibili. Che cosa sta succedendo? Le università italiane stanno abbandonando quel modello di produzione culturale basato sulla monografia che per molto tempo è stato per esse centrale. Le regole di valutazione del lavoro di ricerca svolto dai docenti stabilite negli ultimi anni dal Ministero dell’Università e dall’ANVUR stanno progressivamente indebolendo il valore attribuito alle monografie. Già oggi agli articoli pubblicati su riviste scientifiche classificate nella cosiddetta “fascia A” viene attribuito un maggior valore delle monografie. Ma è evidente che tali articoli richiedono agli studiosi un lavoro decisamente inferiore a quello richiesto per la realizzazione di una monografia. Un articolo infatti ha mediamente una lunghezza che corrisponde a circa un decimo delle pagine di un saggio monografico. Non consente pertanto di sviluppare un’analisi e un’argomentazione così approfondite come quelle che caratterizzano tale saggio. 

 

 

Ciò non comporta che un saggio rivoluzionario debba necessariamente essere voluminoso. Un testo come La moda di Georg Simmel è lungo una cinquantina di pagine, eppure, dopo più di un secolo dalla sua pubblicazione, costituisce ancora oggi il punto di riferimento fondamentale della riflessione teorica sulla moda. E un altro lavoro di un centinaio di pagine – Produzione di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa – ha rivoluzionato a sua volta nel Novecento la concezione dominante nella teoria economica. Quello che conta è che l’autore di un saggio sia libero di strutturare il suo lavoro con la massima libertà, per poter esprimere al meglio il suo pensiero. Invece, un articolo di una rivista scientifica ha per il suo autore un margine di libertà decisamente limitato, perché il suo contenuto dev’essere fatto rientrare all’interno di un format internazionale che è stato da tempo rigidamente normato. Si perde pertanto anche quella capacità di dare spazio a un pensiero innovativo che un saggio scientifico può avere. Come ha scritto cioè il filosofo Roberto Esposito sulla rivista L’Espresso, «Ve li immaginate, per restare nel campo della filosofia, Habermas e Derrida che cercano le riviste di fascia A per scrivere dodici articoletti?». Ve li immaginate cioè due giganti del pensiero come questi che rinunciano a esprimere in una monografia la forza dirompente della loro innovativa capacità di riflessione per fare rientrare quest’ultima all’interno del tipico format che caratterizza una rivista scientifica internazionale? 

 

La questione della progressiva scomparsa del modello della monografia dal nostro scenario culturale sembra interessare poco oggi, eppure è della massima importanza. È vero che viviamo all’interno dell’era della comunicazione iperveloce del web, ma dobbiamo comunque chiederci se come società possiamo permetterci di rinunciare a quell’approfondimento e a quella riflessione che il modello del saggio ci consente di sviluppare. Se possiamo cioè permetterci di produrre un significativo indebolimento della nostra capacità di produrre cultura. 

E ciò dovrebbe preoccupare seriamente anche gli editori specializzati in volumi di tipo saggistico, perché corrono il rischio di non avere più autori. I giovani studiosi, infatti, oggi preferiscono giustamente adattare le loro idee al format di un articolo, anziché sobbarcarsi la fatica di produrre una monografia. Appare dunque estremamente urgente che esprimano una posizione su questa questione sia gli editori che tutti coloro i quali hanno a cuore il destino dello sviluppo del pensiero umano. 

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I libri che hanno cambiato la storia
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Saluti da Brescello

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Sulla scena le statue in bronzo di Peppone e Don Camillo. Per intenderci, quelle che si fronteggiano a grandezza naturale in Piazza Matteotti a Brescello, provincia di Reggio Emilia. Sono lì dal 2001, opera dello scultore Andrea Zangani: Don Camillo sorridente, la chiesa di Santa Maria Nascente alle spalle, tonaca sacerdotale e cappello da parroco in testa, la mano destra alzata in segno di saluto, nella sinistra un libro, probabilmente il suo breviario, Peppone dal lato opposto della piazza, il municipio alle spalle, fazzoletto al collo, la mano destra, che tiene il cappello, alzata in segno di saluto. In Piazza si fronteggiano e si salutano, qui invece sono voltate entrambe verso gli spettatori, e pare che stiano salutando proprio loro. O è un’illusione?

 

Una luce lunare. Notturno con nuvole.

 

Entrambi su un piedistallo. Il sorriso di Don Camillo comincia piano a sciogliersi, a tramutarsi in un ghigno sofferente, poi ritorna sorridente, come per forza di volontà, ma si vede che non ce la fa, allora guarda verso Peppone che invece il sorriso ce l’ha stampato in faccia, anzi no, meglio, diciamo scolpito, proprio come deve essere il sorriso di una statua. Don Camillo sembra vinto da una tristezza di cui lui stesso non si capacita. 

 

DON CAMILLO Che vergogna.

 

PEPPONE Eh sì… una gran vergogna.

 

Silenzio. Peppone sempre statuario e sorridente.

 

PEPPONE Io sono sempre stato più bello. E poi il colore del bronzo… è un colore che proprio non mi dona.

 

DON CAMILLO Ma chi stava parlando del bronzo!

PEPPONE Ah no? Pensavo vi riferiste a quello.

 

DON CAMILLO Sei il solito asino, Peppone. Pensa prima di parlare. Lo sai bene a cosa mi riferisco, e per quello a cui mi riferisco sei soprattutto tu che ti devi vergognare.

 

PEPPONE Perché soprattutto io, signor parroco?

 

DON CAMILLO Perché è un tuo… come lo possiamo chiamare… è un “tuo” illustre discendente quello che ci fa la figura più misera, in questa brutta storia.

 

Peppone tace, ma adesso il sorriso gli è scomparso dal volto, e lo si sente ribollire. Don Camillo beffardo.

 

PEPPONE Però… però anche il “suo” discendente, il parroco di Brescello, quello che dal pulpito sentenziava “la mafia non c’è a Brescello, qui ci sono solo bravi cattolici che vengono a messa tutte le domeniche”, anche quello non me lo vorrà definire un santo, vero signor parroco?

 

Stavolta è Don Camillo a scuotere la testa, a far cenno che ahimè sì, sì.

 

DON CAMILLO Ma cosa ne diresti allora se ripartissimo dal principio, e raccontassimo per bene come sono andati i fatti?

 

PEPPONE E’ un’ottima idea. Signor parroco, a lei la parola, Lei che ha studiato.

 

DON CAMILLO Non mi permetterei mai, signor sindaco, è Lei il primo cittadino.

 

PEPPONE Va bene, va bene. (Si rivolge agli spettatori). Oh dovete sapere che questa storia si svolge negli anni Novanta del secolo scorso, e si svolge nel più bel paese del mondo (il tono si fa leggermente sentimentale), quel paesello che sta tra il fiume e il monte, tra il Po e l’Appennino…

 

DON CAMILLO (interrompendolo bruscamente) Signor sindaco, non siamo qui a fare promozione turistica! Si attenga ai fatti, i fatti. “Facta”… in quel latino che fai male a non conoscere.

 

PEPPONE E non devo illustrare a lor signori dove si ambienta la storia? Questi “facta” si svolgeranno pure da qualche parte, mica tra le nuvole.

 

Don Camillo fa segno come a dire: va bene, asciuga e continua.

 

PEPPONE Questi fatti sono accaduti a Brescello, Bersèl nella nostra lingua, provincia di Reggio Emilia, d’inverno la nebbia e il gelo e d’estate un sole che ti martella, nel cuore della nostra pianura sorridente…

 

Altro sguardo fulminante del parroco che tenta di smorzare sul nascere il sentimentalismo del sindaco.

 

PEPPONE Sorridente… si fa per dire… è una… metafora… 

 

DON CAMILLO Mo lascia stare le metafore, che hai fatto appena la quinta elementare!

PEPPONE Accadde quindi in quei primi anni Novanta che Donato Ungaro vinse un concorso e divenne vigile urbano e da Milano si spostò a Brescello, pur essendo lui di Boretto, ma l’infanzia l’aveva passata spesso nel paese vicino, appunto la nostra Brescello, la Brixellum dei romani, un centro importante della Bassa fin dall’antichità.

 

DON CAMILLO Ma lui era contento di trasferirsi dalla grande metropoli a un villaggetto attaccato al Po? E’ questo che bisogna spiegare.

 

PEPPONE Ci stavo arrivando. Che poi non furono i Romani a fondarla, ma i Galli Cenomani che…

 

Don Camillo si spazientisce e continua lui, a raccontare agli spettatori.

 

DON CAMILLO Lui era ben contento di tornare al paesello, perché non sopportava più la violenza di Milano, quell’aria irrespirabile. Milano come tutte le grandi città non ti fa vivere, ti cresce dentro un’ansia che non ti sai spiegare, la gente corre e corre e corre e non ci si guarda più in faccia, ma fermati un momento, no? Chi è che ti corre dietro? Dove scappi? E poi i banditi, e le lotte politiche, e le sparatorie. E allora Donato Ungaro, padre foggiano e madre di Boretto, vigile urbano diplomato geometra, arrivato a trent’anni e sposato con due bambini, decide che quei suoi bambini li farà crescere nella pace e nella tranquillità della pianura, e accetta con gioia quel che gli ha preparato il destino.

 

PEPPONE Pace e tranquillità, ha detto bene signor parroco. Che tra quei pioppi argentati e quegli olmi…

 

DON CAMILLO Pace e tranquillità che, anticipo a lor signori, non troverà affatto. Adesso continua ma senza farmi il sentimentale e lascia i pioppi e gli olmi dove stanno.

 

PEPPONE Sì… allora dicevo.., una volta arrivato nel paese della sua infanzia, tutto sembra procedere come sognato. Poi una sera tardi, mentre è nel suo ufficio, sente delle grida, degli urli provenire dalla piazza lì accanto. Un baccano! Ma cosa sta succedendo? Non ti preoccupare, gli fa il collega, sono i calabresi che giocano a carte. I calabresi? E fanno tutto ‘sto chiasso i calabresi, a quest’ ora di notte? La cosa, al vigile urbano Donato Ungaro, parve parecchio strana.

 

DON CAMILLO E perché gli parve strana?

PEPPONE Beh, perché…

 

Don Camillo ha il sorrisetto sardonico stampato sul volto. Peppone si scioglie di scatto dalla sua posizione statuaria, innervosito dal sarcasmo del prete. Scende e si siede sul suo piedistallo.

 

PEPPONE Per via del sindaco di Brescello. Quello non sopportava i rumori in piazza. 

 

DON CAMILLO E perché?

 

PEPPONE Perché ci abitava, in piazza, ecco perché.

 

DON CAMILLO Ah già... la piazza era come il suo giardinetto sotto casa. 

 

PEPPONE Non autorizzava più le manifestazioni, vietava le giostre. Per quel che ne so, aveva addirittura vietato la festa di San Genesio, il santo patrono del paese, proprio perché non tollerava ogni genere di confusione. E a quel punto Ungaro, che è un curioso di natura, un vigile urbano sì ma con l’animo del giornalista, comincia a informarsi, a chiedere in giro, e viene a sapere che sì, i calabresi son brava gente, che sono emigrati in tanti nella Bassa per cercare lavoro, ma insieme alla brava gente nella Bassa c’è arrivato anche qualcun altro che proprio brava gente non è. 

 

Adesso è Don Camillo a scendere dal piedistallo, ad avanzare verso il proscenio, a rivolgersi direttamente agli spettatori.

 

DON CAMILLO La vicenda va avanti fin dagli anni Settanta. Sapete, la vicenda del soggiorno obbligato. Prendevano i boss mafiosi e li mandavano nelle regioni del nord. Uno come Don Tano Badalamenti, per dire, quello che ha fatto ammazzare Peppino Impastato, se ne stava a Sassuolo, era un signore gentile che tutti i giorni te lo trovavi al caffè, e tutti i giorni si faceva mandare il pesce fresco dalla Sicilia. Come è meglio chiamarla, vacanza-punizione o punizione-vacanza? La sostanza non cambia. Sta di fatto che quelli continuavano a fare i loro sporchi affari anche risiedendo al nord, e intanto si guardavano attorno, con sorpresa: ma che belle cittadine pulite! Ma come sono ricche e prosperose! Perché non potremmo radicare qui il nostro bisinisse?

 

PEPPONE Sì, e sono stati i suoi, signor arciprete, sono stati quelli della sua parte politica a fare questa bella pensata del soggiorno obbligato.

 

DON CAMILLO Io non ho mai fatto politica, signor sindaco.

 

Peppone scoppia a ridere.

 

PEPPONE Ah beh… ah Lei non… e avrebbe anche il coraggio di affermare una menzogna simile?

 

Don Camillo tira dritto. 

 

DON CAMILLO Qualche mese dopo il vigile urbano Donato Ungaro vede in piazza una macchinona in sosta vietata. E’ proprio di un calabrese, tal Diletto Alfonso, uno cui piace farsi notare, più o meno come il suo amico Domenico Camposano detto “Mimmo Settebellezze”, che qualche tempo prima in piazza ci era arrivato a cavallo, come un cow boy americano. E il vigile urbano Donato Ungaro cosa fa davanti a quel macchinone in sosta vietata? Fa il suo dovere. Nient’altro che il suo dovere. Lo multa, e quello inizia a gridare davanti a tutti che lui la multa non la paga. Ungaro gliela scrive sotto gli occhi e gliela mette in mano, e quello la strappa davanti agli occhi di tutti, per dimostrare a tutti che Diletto Alfonso non si fa multare come un cristiano qualunque. Non si fa mettere sotto i piedi da un vigile urbano. E quando Ungaro, testardo come un asino, va fino a casa sua per farsela pagare quella multa, l’altro, mansueto come un agnellino, la multa la paga, e si scusa perfino: sa, signor vigile, mica potevo fare quella figura davanti a tutti. E il signor sindaco? Come reagisce il sindaco in quei frangenti, stiamo parlando del tuo “discendente”, il signor Ermes Coffrini, che era sindaco del Partito Comunista Italiano dal 1985 e lo sarà per quasi un ventennio?

PEPPONE Lui apprezza. Fa complimenti. Bravo Ungaro, così si fa.

 

DON CAMILLO E bravo anche il signor Coffrini, il sindaco con la Jaguar.

 

PEPPONE Adesso, signor curato, non mi farà mica il moralista per questi dettagli…

 

DON CAMILLO Chiamalo dettaglio… e comunque ai tuoi tempi tu la Jaguar non ce l’avevi. Te ne saresti vergognato.

 

PEPPONE Sta di fatto che non è la Jaguar la questione…

 

DON CAMILLO Ah sì? E qual è la questione, dì ben su…

 

Silenzio. Imbarazzo. Don Camillo intanto è tornato al suo piedistallo e, non si sa da dove, tira fuori una bottiglia di lambrusco e due bicchieri.

 

 

DON CAMILLO Ti è andata via la voce, compagno? Vuoi un bicchiere di rosso per fartela ritornare?

 

Glielo versa. Peppone beve. 

 

PEPPONE La questione è che Ungaro… che lo abbiamo detto è un curioso di natura ed è pure diplomato geometra, insomma, di case se ne intende, nel guardarsi attorno curioso…

 

Peppone si alza tutto immedesimato, e stavolta è lui ad avanzare in proscenio.

 

PEPPONE … con quel suo volto simpatico da D’Artagnan, baffi e pizzetto, e gli alamari da carabiniere cuciti direttamente sul cuore, non sulla divisa, perché non l’abbiamo ancora detto, ma prima di fare il vigile urbano Ungaro ha fatto il militare come carabiniere a Napoli, ha prestato servizio nel battaglione di Secondigliano, e quella frase del cuore e degli alamari l’ha sentita dal generale Dalla Chiesa e non l’ha più scordata. Ungaro dicevo vede l’edilizia che prospera, case ricchissime che vengono su, copri interruttori in marmo di Carrara, ma cosa diavolo sta succedendo, cosa sta succedendo Cristo di un Dio…

 

Occhiata di Don Camillo. Ma il signor sindaco non la vede, volge le spalle al parroco e adesso è un fiume in piena, con ritmo serrato da invettiva, altro che statua!

 

PEPPONE … cosa sta succedendo a questa nostra terra tra il fiume e la montagna, dove d’inverno si gela nella nebbia e d’estate il sole ti prende a martellate, cosa sta succedendo che da Cutro stanno arrivando tanti di quei cutresi, Cutro in provincia di Crotone, saranno anche brava gente, ma Cristo qualcuno che non è bravo ci sta là in mezzo, per esempio quelli della cosca dei Grande Aracri, che prima in soggiorno obbligato ci era arrivato Antonio Dragone, e comandava lui, poi il suo luogotenente Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”, lo ha fatto fuori, gli ha sparato per la strada, è diventato lui il capo, e giù affari e il riciclaggio, e a quel punto il vigile urbano Donato Ungaro si guarda attorno e vede i copri interruttori in marmo di Carrara e le ville lussuose con piscina, ma quelli non erano semplici muratori si dice e si domanda, e un giorno scopre che han costruito otto appartamenti là dove per legge ce ne potevano stare solo quattro, eh no non si può, questo non si può, vado a dirlo subito al sindaco che mi ha già fatto i complimenti per come mi sono comportato con il calabrese in sosta vietata, e invece stavolta il sindaco non li fa i complimenti, stavolta si impunta, lascia perdere Ungaro, non rischiamo, come non rischiamo signor sindaco, ti dico che è una perdita di tempo, quelli ci fan ricorso, lascia perdere va bene così, e poi si viene a scoprire che è il sindaco che vuole lasciar perdere e intima al vigile urbano Donato Ungaro di non fare il proprio dovere, perché il signor sindaco è anche un signor avvocato, e nel suo studio legale di Reggio Emilia, città del tricolore, tra i suoi clienti c’ha anche la famiglia Grande Aracri e in particolare Francesco Grande Aracri, fratello del signor Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”, quello che anni prima zitto zitto aveva fatto ammazzare il suo boss di un tempo, Totò Dragone, a colpi di pistola e kalashnikov. 

 

Silenzio.

 

DON CAMILLO Ah. Eccola la questione.

 

Silenzio.

 

DON CAMILLO Sai cosa faceva San Tommaso a Parigi all’inizio di ogni lezione? Metteva sul tavolo una mela. 

 

Don Camillo estrae, non si sa da dove, una mela rossa (l’autore ci terrebbe particolarmente che fosse rossa, e soprattutto vera), e la mostra al sindaco.

 

DON CAMILLO E poi diceva agli studenti: questa è una mela. Se qualcuno non è d’accordo, può anche andarsene subito.

 

PEPPONE E questo cosa c’entra?

DON CAMILLO Niente. Ma un po’ di filosofia, in quella tua testona, non ti farà male… non credi?

 

Peppone è confuso. Don Camillo lo raggiunge a proscenio, con la sua mela in mano. Adesso sono lì le due statue, protese entrambe verso gli spettatori. Don Camillo dilaga con le parole, mentre Peppone scruta attento l’uditorio. 

 

DON CAMILLO Va bene, lasciamo perdere la filosofia. Così come lascia perdere il vigile urbano Donato Ungaro: cosa deve fare, mettersi contro l’autorità del proprio sindaco? Del primo cittadino? Del compagno sindaco con la Jaguar? Ungaro lascia perdere, e si arriva al nuovo millennio, e Ermes Coffrini viene rieletto sindaco, perché si vede che i compagni avvocati con la Jaguar fanno un certo effetto agli inizi del nuovo millennio, certo il glorioso Partito Comunista italiano è scomparso, sostituito da una sfilza di nomi che nessuno più si ricorda e che non sarò certo io a voler qui ricordare, sta di fatto che il nucleo duro del partito cambia nome ma è ancora lì, a comandare, e allora all’inizio del nuovo millennio il vigile urbano Donato Ungaro di cui è nota, almeno a me e a te, la passione per il giornalismo, va dal suo sindaco e gli chiede il permesso di collaborare con la Gazzetta di Reggio pagine di Brescello, in realtà Ungaro lo sa che non è tenuto a chiedere il permesso, la Costituzione stessa glielo permette, ma lo fa come gesto di correttezza, e il signor sindaco stavolta reagisce con entusiasmo…

 

PEPPONE … ma certo Ungaro scriva, scriva bene di noi e della nostra comunità, anzi, c’è la nuova centrale turbogas da creare, c’è quella grossa ditta di Boretto, la conoscerà sicuramente, la Bacchi, che sarà nostra alleata in questa impresa, serve il consenso della popolazione, e quale miglior strumento della stampa per creare consenso, scriva Ungaro scriva!

DON CAMILLO E Ungaro ringrazia e scrive, e di cosa scrive, scrive del traffico di stupefacenti, della droga che circola, di chi ci fa affaracci sopra, scrive di mafiosi che affermano con orgoglio io sono una persona seria, traffico in droga da vent’anni, scrive di macchine bruciate con l’acido e di una invasione di capitali sporchi, scrive di imprenditori quasi onesti che stanno a un gioco molto poco onesto, e un bel mattino il vigile urbano Donato Ungaro trova la saracinesca del garage del proprio vicino completamente bruciata, ma come, ma cosa ho fatto dice il suo vicino che detto per inciso è la persona più mite del paese, e Ungaro si informa in giro e viene a sapere che quelli là hanno sbagliato indirizzo e la saracinesca che doveva bruciare era proprio la sua, e si vede che quelli con le saracinesche dei garage si trovano bene, le usano come agendine per dare messaggi al popolo, pensate che un parente di Domenico Camposano, il calabrese a cavallo, se la ritrova scritta con sopra una frase inequivoca: il fuoco brucia, la neve non si tocca. 

 

 

Tornano entrambi a sedersi sui piedistalli. Stavolta è il sindaco a versare il lambrusco all’amico.

 

PEPPONE Che è così bella la neve sulla pianura. Mi darà del romantico, signor curato, ma per me, un Natale dalle nostre parti senza la neve… non è un Natale come si deve. Adeste fideles!

 

Don Camillo lo guarda come a dire: ma cosa hai capito?

 

PEPPONE No… ho capito, ho capito… la neve, lo so quel che significa… è che la frase sulla saracinesca mi ha fatto pensare… va beh, torniamo a Ungaro…

 

Don Camillo fa un cenno come a dire: che è meglio.

 

PEPPONE E intanto la vicenda della centrale turbogas va avanti.

 

DON CAMILLO E a portarla avanti c’è la rinomata ditta Bacchi, ditta di costruzioni e calcestruzzo.

 

PEPPONE E la Bacchi coinvolge nell’affare anche un gigante come l’Ansaldo.

 

DON CAMILLO Ma la Bacchi, fate attenzione, ha già avuto qualche problemino con la giustizia, è già stata indagata per aver concesso due subappalti a ditte legate alla ‘ndrangheta.

 

PEPPONE E dov’è il problema? Il sindaco Coffrini e il Bacchi sono amiconi e vanno di comune accordo perché fiutano che la centrale turbogas sarà per Brescello l’affare del secolo.

 

DON CAMILLO Comincia così: che i contadini vendono i terreni.

 

PEPPONE Ma che dico del secolo, sarà l’affare del millennio.

 

DON CAMILLO E i dirigenti dell’Ansaldo vengono a visitare la zona, a fare sopralluoghi.

 

PEPPONE Tutto regolare dice il sindaco, anzi, Ungaro, venga anche lei, venga a fare il suo dovere di giornalista! Le faccio intervistare i pezzi grossi, scriva, scriva, scriva che tutto è in regola!

 

DON CAMILLO (beffardo) E’ il nuovo nuovissimo che avanza!

PEPPONE (assai convinto) E’ l’industria che darà lavoro a tutti!

 

DON CAMILLO (sempre più beffardo) Sono le magnifiche sorti e progressive!

 

PEPPONE E’ il sol dell’avvenire!

 

DON CAMILLO Che non tramonta mai…

PEPPONE (trionfante) E’ la rivoluzione comunista e proletaria!

Don Camillo si ferma, basito.

 

DON CAMILLO Non si sarà certo espresso in questo modo, il sindaco con la Jaguar!

 

PEPPONE Beh no… certo che no… mi scusi, signor arciprete… non so cosa mi è successo, mi sono lasciato andare… 

 

DON CAMILLO Ma intanto si formano comitati di cittadini contro la centrale, che denunciano i pericoli per la popolazione.

 

PEPPONE Scriva Ungaro, scriva che sono tutte paure infondate!

 

DON CAMILLO E Ungaro scrive… 

 

PEPPONE Scriva che quei comitati sono pieni di disfattisti e criticoni!

DON CAMILLO Ungaro scrive ma fa il contrario di quel che gli suggerisce il sindaco, dà voce a quei comitati e alle loro fondate paure.

 

PEPPONE Apriti cielo!

 

DON CAMILLO Il signor sindaco lo chiama a rapporto.

 

Peppone avanza a proscenio, Don Camillo lo segue.

 

PEPPONE Lei non si può permettere!

 

DON CAMILLO Ma io veramente…

 

PEPPONE E’ disonesto osteggiare un’impresa che farà il bene della nostra Brescello.

 

DON CAMILLO Mi scusi signor sindaco, ma…

 

PEPPONE Ora ti chiamo il cavalier Fantuzzi, il cavalier Fantuzzi in persona!

 

DON CAMILLO La prego, mi ascolti…

 

PEPPONE Lui ti dirà che sono tutte fandonie, che non c’è niente di vero, che i terreni su cui far crescere la nuova meraviglia di Brescello sono a prova di bomba!

 

Silenzio.

 

DON CAMILLO Io una bomba la tirerei a quelle due statue. 

 

Ritornano ai loro piedistalli, come a una prigione. Si mettono in posizione di statue.

 

DON CAMILLO Ma ti sembra che uno se ne debba stare lì, immobile giorno e notte, che grandini o faccia bel tempo, a non fare nulla di nulla? Ci si annoia da morire. Stare lì solo perché i turisti ti vengano accanto a farsi le foto ricordo, con quella faccia da ebeti…

 

PEPPONE Cosa le han fatto di male i turisti, signor curato?

 

DON CAMILLO Ah niente, niente. Se entrano in chiesa a dire una preghiera e accendono una candela davanti al Crocifisso sono anche contento. Ma quando si piazzano vicino a me, alla mia statua intendo dire, in calzoncini corti e bottiglietta d’acqua minerale, e con quel sorriso da imbecilli mi strusciano, mi abbracciano, mi fanno il solletico sotto il mento e sproloquiano e infilano una banalità dietro l’altra e si scattano una valanga di selfie che non la finiscono più, ecco che mi verrebbe voglia di dargli un cazzotto, tutto qua. Un bel cazzotto! Che li stenda tutti!

 

PEPPONE Già… i selfie…

 

Silenzio. Poi Peppone riprende a raccontare.

 

PEPPONE Avvenne allora che il vigile Donato Ungaro si ammalò. Niente di grave, una semplice influenza. Va a trovarlo a casa il medico generico, una gentile dottoressa che arrivando si scusa, sai Donato ho fatto tardi perché lungo la strada della Cisa, quella che partendo da Sarzana arriva a Verona passando per Brescello… beh, tu non sai quanti ammalati di tumore ci sono su quella strada, e proprio nel pezzo vicino al nostro paese. A Donato gli prende un colpo: sei sicura? Son sicura sì, fa la dottoressa. A quel punto Donato Ungaro guarisce di colpo e scrive un nuovo articolo sulla Gazzetta di Reggio, quello sì, una bomba: casi di leucemia sulla strada della Cisa!

DON CAMILLO Ma, combinazione, quel terreno è proprio vicino vicino a quello su cui il sindaco, la Bacchi e l’Ansaldo vogliono far costruire la centrale turbogas. Esce l’articolo, telefonata immediata del sindaco con la Jaguar: devi ritrattare! Devi dire che ti sei sbagliato, che sei stato male informato, non è vero nulla! Ma ormai la frittata è fatta: e quando quell’articolo, e il clamore che ne consegue, arrivano ai dirigenti dell’Ansaldo, questi fanno marcia indietro, e l’intero progetto va in fumo. Immaginatevi lo stato d’animo del primo cittadino, nonché avvocato di grido! Una furia!

 

Peppone si slancia giù in proscenio, Don Camillo dietro.

 

PEPPONE Ungaro, o la smetti di scrivere, o ti licenzio.

 

DON CAMILLO Mi licenzia? E cosa ho fatto di male?

PEPPONE Non puoi scrivere queste cose!

DON CAMILLO Ma signor sindaco, non può licenziarmi perché scrivo sulla Gazzetta!

 

PEPPONE E invece sì. Hai tirato troppo la corda, Ungaro, e adesso si spezza. Ti avevo avvisato. Avvio immediatamente una procedura disciplinare nei tuoi confronti. Io ti caccio!

 

Peppone tira fuori dalle tasche carta e penna.

 

PEPPONE Ecco qua… vedrai… sulla strada finisci, disoccupato… hai violato dei segreti d’ufficio!

 

DON CAMILLO Segreti? Quali segreti?

PEPPOBE E poi hai scritto anche per la Gazzetta di Parma che non ti avevo dato il permesso! Non avevi la mia autorizzazione!

 

Peppone continua a scrivere tutto arrabbiato.

DON CAMILLO Ma signor sindaco, a dire il vero io Le chiesi, se lo ricorda, di poter scrivere per la Gazzetta di Reggio, e glielo chiesi per gentilezza. Lo sapevo bene che il permesso non me lo doveva dare Lei. Il permesso, meglio, il diritto me lo dava la Costituzione, l’ha presente, quella fondata sul lavoro…

 

PEPPONE Ecco, appunto, quel lavoro che oggi io ti tolgo, guarda un po’.

 

DON CAMILLO Visto che Le andava bene che io scrivessi per la Gazzetta di Reggio, non mi sono preoccupato di rinnovarle la richiesta per quella di Parma.

 

Peppone ha finito di scrivere e porge il foglio a Don Camillo.

 

PEPPONE E con questo sei licenziato, vigile urbano Ungaro.

 

Don Camillo legge attentamente il foglio. Poi, calmo calmo.

 

DON CAMILLO Ha dimenticato una cosa, signor sindaco.

 

PEPPONE Che cosa?

 

Don Camillo sorride.

DON CAMILLO La firma.

 

PEPPONE Ma… non c’è bisogno di firmare…

 

DON CAMILLO Come non c’è bisogno? Lei mi sta licenziando senza una buona causa. Lei avrà anche i suoi buoni motivi, ma deve prendersi le sue responsabilità. 

 

Il signor sindaco si innervosisce ancora di più, per il tono tranquillo ma determinato del suo sottoposto.

 

PEPPONE Insomma Ungaro! Sei ancora in tempo: smettila di scrivere e torna a fare le multe in strada, che è quello che sai fare meglio. E io ti lascio al tuo posto. Tieni famiglia, no?

 

Don Camillo sorride. Con voce piana.

 

DON CAMILLO Io non la smetto, signor sindaco. Io qui sto.

 

Il sindaco sbotta.

 

PEPPONE E allora vai all’inferno! E trovati un altro lavoro, se sei capace.

 

Don Camillo gli porge ancora il foglio. Implacabile.

 

DON CAMILLO La firma.

 

Peppone ha un attimo di incertezza, afferra il foglio e lo firma.

 

DON CAMILLO Grazie.

 

Don Camillo si mette il foglio in tasca.

 

PEPPONE E così il vigile urbano Donato Ungaro venne cacciato via. 

 

DON CAMILLO E si ritrovò disoccupato.

 

PEPPONE Ovviamente fece causa al sindaco, e iniziò così un lungo processo

 

DON CAMILLO A Brescello si fece il vuoto attorno a lui. I compagni non furono così solidali… allora si trasferì a Bologna e trovò lavoro come conducente di autobus.

 

PEPPONE Però la passione per la scrittura e il giornalismo non lo abbandonò.

 

DON CAMILLO E poco tempo dopo, nel 2003, a proposito dell’arresto di Francesco Grande Aracri, fratello del boss Nicolino detto “Manuzza”, Francesco che per la cronaca verrà poi condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso, il sindaco Ermes Coffrini dirà…

 

PEPPONE A noi non risulta nulla, qui si è sempre comportato bene, ha fatto anche dei lavori in casa mia, e si è visto assegnare dei lavori dal Comune.

 

DON CAMILLO Sì, perché il sindaco con la Jaguar è uno che il lavoro lo toglie ma anche lo dà, come il Padreterno. E a ragione dice che non gli risulta, perché proprio in quegli stessi anni si toglieva spesso la giacca da sindaco e indossava la toga da avvocato e difendeva proprio Francesco Grande Aracri davanti al Tar di Catanzaro, dicendo…

 

PEPPONE Se viene un signore e ha bisogno, non gli chiedo certo un certificato penale o attinenze con la sua moralità. Io tutelo un diritto particolare. Altrimenti qui un avvocato non deve più tutelare un eventuale mafioso o un medico curarlo?

 

I due ritornano sui loro piedistalli, riprendono la posizione da statue.

 

DON CAMILLO Che vergogna.

 

PEPPONE E non è finita.

 

DON CAMILLO Come non è finita?

 

PEPPONE Perché una volta terminati i quasi vent’anni da sindaco di Ermes Coffrini…

 

DON CAMILLO Cosa succede?

PEPPONE Succede che dopo un breve intermezzo, al posto suo di sindaco si installa il figlio Marcello.

 

Don Camillo alza gli occhi al cielo.

 

DON CAMILLO Signore non potete farmi questo!

PEPPONE Anche lui avvocato nello studio del padre.

 

DON CAMILLO Con gli stessi clienti?

PEPPONE Ovvio che sì. 

 

DON CAMILLO Basta ti prego. Ne ho abbastanza. Parlami del paesello e del grande fiume…

 

PEPPONE E c’è di più: il promettente erede, eletto sindaco in quota Partito Democratico nel 2014, sempre a proposito di Francesco Grande Aracri, già stracondannato…

 

DON CAMILLO Ti prego parlami degli olmi, dei pioppi argentati… 

 

PEPPONE … lo definisce in un’ intervista alla televisione “uno educato”, “molto composto”.

 

Don Camillo fa come un grido soffocato. Si mette le mani in testa, non vuole sentire.

 

DON CAMILLO Parlami di Giuseppe Verdi! 

 

PEPPONE A quella dichiarazione seguì un putiferio di polemiche, potete immaginare, ma la direzione provinciale del PD non ne chiese le dimissioni.

 

DON CAMILLO Cantami Va pensiero, cantami Parigi o cara, anzi no, meglio, Di Provenza il mare il suol!

 

PEPPONE Il PD reggiano si dichiarò impossibilitato ad agire perché Marcello Coffrini non risultava iscritto… quindi…

 

Don Camillo mostra il fiasco vuoto a terra e chiama un ipotetico cameriere.

 

DON CAMILLO Del lambrusco, del lambrusco vi supplico, una damigiana, e una vasca di tortelli di zucca e parmigiano, che ci voglio affogare dentro! 

 

PEPPONE E finalmente il nome del paese di Brescello è comparso nelle carte della maxi-inchiesta AEMILIA sulla ‘ndrangheta in regione, e ci sono stati nuovi sequestri di immobili nel territorio comunale tutti riconducibili alle ‘ndrine.

E poi tutti sappiamo come è andata a finire: l’operazione AEMILIA ha fatto arrestare e condannare più di 300 persone, e Brescello è stato il primo comune dell’Emilia Romagna sciolto per infiltrazione mafiosa.

 

Peppone è orgoglioso di questo finale, si scioglie e si siede sul piedistallo.

 

DON CAMILLO Dimmi che c’è un lieto fine.

 

PEPPONE E’ questo il lieto fine.

 

DON CAMILLO Questo è… un finale lieto, secondo te? 

 

Peppone allarga le braccia. Guarda il fiasco: è vuoto.

 

PEPPONE Ma non aveva chiesto dell’altro lambrusco?

 

Don Camillo, pur fisso in posizione statuaria, sbotta.

 

DON CAMILLO Con tutto quello che è successo e succede da nord a sud di questa benedetta stramaledetta penisola, che da un secolo e mezzo a questa parte, da quando si è formato questo Stato cosiddetto unitario, nessuno ha mai saputo distinguere veramente la mafiosità dei politici dalla politica fatta dalle mafie, tu questo me lo chiami un lieto fine? Siamo all’ombra di una montagna di morti che non riusciamo a vederne la cima, conficcati come dannati in un lago ghiacciato e senza vita, e tu questo me lo chiami un lieto fine? Mi dovrei accontentare? 

 

Tira fuori dalla tonaca un foglietto e legge.

 

DON CAMILLO 

 

“Ahi mafia infame che tieni avvinti tutti nelle tue spire 

genìa perversa che domini in questo bel paese! 

Hai i piedi in Sicilia, ma afferri anche Roma!” 

 

Questo lo ha scritto uno della mia ditta, lo sai, un prete di nome Don Luigi Sturzo…

 

PEPPONE Lasci stare la sua ditta, signor curato, che con tutte le porcherie che avete combinato, farebbe molto meglio a starsene…

 

Fa il gesto dello stare zitto, ma il parroco è un fiume in piena.

 

DON CAMILLO … un siciliano di Caltagirone, lo ha scritto la bellezza di 117 anni fa, e aggiungeva: 

 

“Dunque in tali mani è capitata la patria 

da essere ridotta a spelonca di ladroni? 

L’onestà, la moralità, il bene del popolo 

sono divenute parole vuote e prive di senso 

anzi, servono per meglio coprire 

le malversazioni, la prepotenza, la tirannia.” 

 

Si ricaccia il foglietto in tasca e si rimette in posizione statuaria, rivolto agli spettatori. 

 

DON CAMILLO Così era l’Italia nel 1900, caro Peppone, così è l’Italia di oggi, il “bel paese”, una lurida, stratificata, camaleontica Macchina Mangereccia, una palude spaventosa e senza fondo dove i prepotenti e i ladri e i truffatori sono detti “furbetti”, come a premiarli, a dargli la medaglia, segno che tutti gli altri son coglioni, dove chi grida in piazza “onestà onestà” stai pur certo che sarà il primo una volta al potere ad apparecchiarsi la tavola per sé e per i congiunti, e a quel punto è fatta, è-fat-ta, se il primo pensiero dell’onesto cittadino è apparecchiarsi la tavola e pensare alla famiglia siamo tutti condannati, tutti fregati, dietro ogni tavola apparecchiata ci sono i crimini peggiori, i delitti più atroci, e il tutto è condito da lazzi e barzellette dis-gus-to-se, ma sì, che basta metterla sul ridere, siamo un popolo di guitti, basta chiudere gli occhi, tapparsi le orecchie, farsi un bel nodo alla cravatta e murarsi l’anima, che tanto l’onestà è quella merce che milioni e milioni dei nostri connazionali richiedono sempre agli altri, ai vicini, ai lontani, agli amici e ai nemici, ai soliti fessi che pagano le tasse e davvero ci vanno a lavorare, e la richiedono con una faccia di bronzo che al confronto le nostre fan tenerezza, tanto son pallidine. E va bene dirai tu, noi siamo…

 

PEPPONE Statue.

 

Don Camillo si ferma, come smarrito, davanti a quella parola scolpita. Silenzio.

 

PEPPONE Non mi faccia il melodrammatico, signor parroco. Così minuscolo, questo lieto fine, non mi pare. E’ pur sempre una lucina in fondo al pozzo... le sembra poco? E’ un finale… donato… sì, mi scusi il gioco di parole, è un dono per cui provare gioia. Chi vuole il paradiso mica lo può cercare in terra.

 

DON CAMILLO Ah beh, se lo dici proprio tu… viene da crederci. 

 

DON CAMILLO E il Donato Ungaro un tempo vigile urbano e oggi conducente di autobus, l’ha vinta la sua causa?

 

PEPPONE L’ha vinta sì. Nel frattempo gli hanno tagliato le gomme dell’auto e combinato qualche altro scherzetto, ma la causa l’ha vinta. Pare che gli abbiano proposto un sacco di soldi per starsene dov’è, ma che lui non abbia accettato. Lui rivuole il suo lavoro. Vuole tornare a fare il vigile urbano a Brescello. 

 

DON CAMILLO Bene. Così ce lo ritroveremo a fare multe in Piazza Matteotti. 

 

Una musica lontana, di fisarmonica. Una musica straziante, che sembra venir fuori dalla terra. Un lamento. Un grido. O un’illusione?

 

DON CAMILLO Spero solo che multi anche quei turisti insopportabili, delle multe da fargli fischiare le orecchie, da non farli più tornare… ci sono tanti bei posti in Italia dove andare, delle “location” ben più famose della nostra! Che quando mi corrono incontro, con quelle faccette e quel sorrisetto prestampato da depliant… e i gridolini… che il Signore mi perdoni, ma io a quelli altro che cazzotto…

 

PEPPONE Ma via signor parroco, il turismo è una risorsa! 

 

DON CAMILLO Bravo compagno, sentilo lì, come l’ha imparata bene. Il turismo è una risorsa… sarà anche una risorsa, ma quando me li vedo arrivare, come dei plotoni in guerra, un flagello, una piaga d’Egitto, come le cavallette della Bibbia… 

 

Si sente in lontananza, poi sempre più vicina, quella fisarmonica dal suono antico, che è il suono del non-ancora, del germoglio che non vediamo. 

 

DON CAMILLO Io uno di ‘sti giorni scappo…

 

PEPPONE Non può scappare, signor parroco, Lei è una statua di bronzo!

DON CAMILLO Su questo hai ragione. Sei un asino, ma su questo hai ragione. E poi anche se ci riuscissi quelli sarebbero capaci di corrermi dietro fino al Po. 

 

PEPPONE Quelli chi?

 

Mentre la musica cresce, il buio se li inghiotte entrambi. 

 

DON CAMILLO E se aspettassimo la notte, quando non ci vede nessuno, una bella notte di luna, per scappare insieme?

 

Peppone fa una faccia come a dire: è un’idea.

 

Buio. 

 

Il testo originale Saluti da Brescelloè l'ideale 'prologo' di Va pensiero, una creazione corale, ideata e diretta da Marco Martinelli e Ermanna Montanari, che racconta il 'pantano' delI’Italia di oggi in relazione alla “speranza” risorgimentale inscritta nella musica di Giuseppe Verdi. Domani il debutto a Modena al Teatro Storchi e poi ancora a Ravenna, Bologna, Ferrara, Cesena, Milano, Bergamo, fino a fine febbraio. Qui le date.

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Distopico e sentimentale: Houellebecq in scena

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“Questo spettacolo è innanzitutto la storia di un uomo, di un uomo che passò la maggior parte della propria vita in Europa occidentale nella seconda metà del Ventesimo secolo. Perlopiù solo, egli intrattenne tuttavia saltuari rapporti con altri uomini. Visse in un’epoca infelice e travagliata”. A pronunciare queste parole in apertura delle Particelle elementari (Si vous pouviez lecher mon coeur) che Julien Gosselin ha tratto dal romanzo di Michel Houellebecq è Denis Eyrley,  un attore biondiccio lievemente incurvato che indossa un eskimo sopra una camicia jeans, e, in dispregio a tutte le regole, morali e amministrative, fuma tenendo la sigaretta tra il medio e l’anulare, ed è proprio questa gestualità da tabagista, goffa e indisponente, a sigillare con una smorfia il ritratto dello scrittore francese che sul proprio corpo porta sfrontatamente i segni della miseria umana raccontata nei suoi libri.

 

Ma, anche se è già accaduto – nella Carta e il territorio– che Michel Houellebecq facesse di sé stesso un personaggio, non c’è il tempo di chiedersi il perché di questa ulteriore mise en abime del giovane regista di Lille, dove, come spesso accade a teatro, è la dissomiglianza a esaltare la somiglianza: il pubblico del Teatro Vascello di Roma che poco sa e niente è tenuto a sapere di Houellebecq e delle sue Particelle elementari, viene immediatamente investito da un diluvio di parole, di suoni, di immagini che si rivelerà ben presto ininterrotto, una sorta di ipertesto scenico destinato a incarnare il racconto con tutte le presenze possibili, dalla musica dal vivo allo sdoppiamento degli attori in video e alla grafica proiettata, dai bruschi cambi di luce in cui le immagini cadono a picco a una recitazione cangiante che al registro aspro dell’invettiva alterna il filtro sommesso dell’elegia, ma senza quel ronzio cantilenante da messa latina che è la croce e la delizia del “tono” francese incatenato nell’alessandrino. 

 

Julien Gosselin - Les particules elementaires.


Niente di tutta la panoplia dello spettacolo dal vivo ci viene risparmiato, neanche il fumo profumato alla saponetta dei concerti rock che avanza come una nube tossica verso lo spettatore, ma il teatro di Gosselin, a onta dei suoi stessi miti, è veramente totale e, nel giro di pochi minuti, lo spettatore si ritrova a slittare tra i piani temporali del romanzo di Houellebecq come un surfista sulla cresta dell’onda, avvinto a un ritmo che in quattro ore di spettacolo non conosce un solo calo di tensione. Forse non sa bene se quello che ha di fronte sia un’invettiva filosofica contro una velocità di liberazione del desiderio che finisce per consumare anche l’amore o l’imbarazzante confessione di una miseria sessuale di tutti e di nessuno, se le Particelle elementari parlino la lingua distopica del Mondo nuovo di Huxley o siano veramente la celebrazione scientifica di un futuro transumanistico, l’avvento di un uomo tanto nuovo quanto imponderabile nel suo distacco dalla sessualità, dalla riproduzione, dalla morte. Ma si sorprende a ridere di gusto di una farsesca lezione di yoga impartita in un club vacanze della Francia del sud fondato da ex sessantottini dove la meditazione new age si unisce a uno scaltro scambismo. Oppure digrigna i denti davanti a un Tribute to Charles Manson, involontariamente attuale, dove la performance rock è scandita e sovrascritta da una feroce requisitoria contro un individualismo dionisiaco che si riversa senza soluzione di continuità dall’azionismo viennese alla cultura hippie prima di essere glorificato dalle cerimonie omicide degli snuff movies. Un accostamento che nella forma del concerto liveè, se possibile, ancora più urticante che nelle pagine del romanzo, perché le iscrive nella contemporaneità con una disinvoltura tutto sommato ignota ai protagonisti generazionali delle Particelle, smuovendo le ceneri fredde di un ardore trasgressivo che non esiste più o è materia di intrattenimento di qualunque dj set. 

 

Julien Gosselin - Les particules elementaires


Per un verso, le Particelle elementari di Gosselin ricalcano quelle di Houellebecq, sono la stenografia implacabile sub specie theatri della decadenza dell’uomo occidentale (maschio e bianco) spaventato dall’invecchiamento e dalla morte che, nella vicenda dei due fratelli, lo scienziato ammalato di angelismo Michel e il letterato sessuomane Bruno, distilla in lacrime avvelenate la vacuità morale di un’epoca. Ma non è tanto il fallimento esistenziale delle generazioni degli anni 60 e 70 a interessare il regista del Théatre du Nord che mette in scena attori e attrici giovani vestiti con uno stile più o meno glamour, più o meno sexy, ormai  privo di un tempo (poiché tutto nel nostro tempo è, in effetti, privo di un tempo). Quel che gli preme di più è dimostrare che l’autore di Piattaforma e della Possibilità di un’isolaè anzitutto uno scrittore sentimentale e che le Particelle elementari, troppo a lungo scambiato per un trattato di sociologia truccato da romanzo, è una commedia malinconica dove lo struggimento è persino più devastante dell’ironia. Vero per chi ha veramente letto Houellebecq, contendendolo a tutta l’idiosincrasia che lo affligge e lo circonda, e che lui stesso, idiosincratico come tutti i personaggi, ha contribuito a creare. Ancor più vero, sulla cartina di tornasole della scena di Gosselin, dove lo spettacolo avanza a perdifiato, corale, quasi circense in quel ring che contiene tutto (uomini e cose) e in cui tutti si scambiano di posto, rubandosi la battuta o il microfono, proseguendo uno la storia dell’altro, ma dove quel che questo avanzare si lascia indietro è forse più decisivo. 

 

Nella luce, frontali, gli attori portano avanti il racconto, mentre in controluce i rarefatti incontri tra corpi si intrecciano ai dialoghi e alle confessioni di un’intimità ferita, come quella di Christiane, l’amante di Bruno interpretata sulla scena da Noémie Gantier, di gran lunga il più delicato, il più sfumato e anche  il più sereno tra i  personaggi delle Particelle: coperta da una camicia leggera, i capelli corti, le gambe nude e slanciate, è in lei che la disperazione erotica di Bruno (e di Houellebecq), sempre minacciata dal fantasma della separazione, riesce a vivere la propria agonia anche sotto forma di grazia. È la presenza di Christiane a rendere più credibile e meno scientificamente apocalittica, meno volgarmente utopica, la scritta che a un certo punto pulsa sulla parete di fondo della scena: il futuro è femmina, sintesi del pensiero più puro e drammatico di Houellebecq, grondante cronista del naufragio patriarcale.  

 

Julien Gosselin - Les particules elementaires, ph Simon Gosselin.


Julien Gosselin aveva ventiquattro anni quando realizzò questo spettacolo, oggi che ne ha ventinove si appresta ad affrontare Don DeLillo dopo aver messo in scena il 2666 di Roberto Bolaño, un altro romanzo mondo. Ma c’è da chiedersi se questi ambiziosi exploit sarebbero mai stati possibili, o non sarebbero stati penosamente rallentati, senza l’appoggio decisivo di Stanislas Nordey al festival d’Avignone e di tutto un sistema che cura in maniera quasi maniacale i suoi giovani talenti (e se qualcuno vuole leggere in questa affermazione una critica ai Saturni del nostro sistema teatrale che i figli preferiscono mangiarseli o sottoporli a esami infiniti che ritardano sine die una maturità presunta che i padri non hanno mai posseduto, beh, ha visto giusto: direttori dei teatri nazionali leggete qua). Nella grande impresa delle Particelle, comunque, è sempre il contrappunto della mortalità (e dell’attore, a dispetto della sua vituperata crucialità da cui, sostiene il regista francese nell’intervista con Chiara Pirri pubblicata sul programma di sala di Romaeuropa Festival, Romeo Castellucci avrebbe liberato il teatro) a illuminare il precipizio distopico che detta il ritmo dello spettacolo: il progressivo dileguarsi di Michel, profeta della clonazione umana incapace di vivere tra gli uomini, irresistibilmente attratto dalla quiete unanimistica del mare, da cui tutto ha preso inizio, le iperboli sessuate di Bruno, puntualmente accompagnate dai tonfi comici e vergognosi del fallimento, e finalmente destinate a placarsi nella follia farmacologicamente controllata che accoglie tra le sue braccia ogni vitalità in eccesso. Più romantici di così, si muore. 

 

Julien Gosselin - Les particules elementaires, ph Simon Gosselin.


Quando, nell’epilogo dello spettacolo, la fine torna nell’inizio e gli attori e le attrici si dispongono su un praticabile per quell’addio all’uomo che chiude il romanzo, indossano capi di biancheria intima bianchi e sembrano già le blande, distaccate creature angeliche che nella Possibilità di un’isola compiono la profezia delle Particelle elementari. Nel testo non cambia che una parola: “libro è stata sostituito con “spettacolo”. Ma il pubblico ha l’euforica, beffarda e commovente sensazione che quella dedica sia rivolta a lui, agli uomini che restano, ultimi rappresentanti di “questa specie tormentata, contradditoria, individualista e rissosa, di un egoismo sconfinato, talvolta capace di inaudite esplosioni di violenza, ma che tuttavia non cessò mai di credere nella bontà e nell’amore. Questa specie che altresì, per la prima volta nella storia del mondo, seppe considerare la possibilità del proprio superamento…”. Sulla parola uomo cade la luce ed esplode un applauso scrosciante, pieno di ammirazione e di gratitudine. Perché è nella luce bianca del futuro, in quel bianco che diceva Kandinskij viene prima del mondo, che forse ci attende il grande cambiamento. Ma è nell’ombra del presente che batte il cuore del teatro. 

 

Les particules élementaires di Michel Houellebecq, adattamento e messa in scena di Julien Gosselin, con Joseh Druet, Denis Erley, Antoine Ferron, Noémie Gantier, Carine Goron, Alexandre Lecroc-Lecerf, Caroline Mounier, Victoria Quesnel, Geraldine Roguez, Maxence Vandervelde.

Visto al Teatro Vascello di Roma per Romaeuropa Festival.

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Schumann in manicomio

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Incipit “Nel 1845, il dottor Richarz elabora una terapia per la cura della psicosi-schizofrenica basata sull’isolamento.” (da Alessandro Zignani, Il richiamo dell’angelo. Cinque pezzi fantastici sulla follia di Robert Schumann, p. 7)

 

Come raccontare la storia della follia di Schumann? Un importante contributo arriva dalla pubblicazione italiana delle lettere tra la moglie Clara e Robert (1854-1856) e dalla memoria di Clara. Clara Schumann (1819-1896), notissima concertista, che sopravvivrà di cinquant’anni al marito, scrive di quei momenti:

Sabato, il 4 arrivò! Oh Dio, la carrozza era di fronte alla nostra porta. Robert si vestì con molta fretta, entrò nella carrozza con Hasenclever (il medico) e i suoi due infermieri, non chiese di me, né dei bambini, e io me ne stavo seduta vicino alla signorina Leser immobile dal dolore e pensavo, ora soccomberò! Il tempo era splendido, almeno il sole l’ha accompagnato! Avevo consegnato al dottor Hasenclever un bouquet di fiori per lui, che poi gli diede in viaggio; l’ha tenuto a lungo in mano, senza pensarci, poi d’improvviso ne ha annusato il profumo e sorridendo ha stretto la mano al dottor Hasenclever! Più tardi ha regalato a ciascuno nella carrozza un fiore. Hasenclever mi portò il suo – con il cuore sanguinante, l’ho conservato! (p.35)

 

Il testo, Lettere da Endenich, curato da Filippo Tuena, tradotto da Anna Costalonga – per le edizioni ITALOSVEVO di Trieste – raccoglie gli epistolari  e altri documenti relativi a Schumann prima della morte presso il manicomio di Endenich, dove fu ricoverato e dove morì dopo due anni di internamento, all’età di quarantasei anni. 

Le parole di Clara raccontano con precisione l’evento della partenza di Robert per il manicomio. Il medico che accompagna Schumann le riferisce gli eventi del viaggio, lei esprime il dolore che prova. Ma la tenerezza dello sguardo verso il marito lenisce la pena. Lui “non chiese” di lei e dei bambini, ma, durante il viaggio, stringe il bouquet, lo annusa e regala a ciascuno un fiore. Il medico, al rientro darà a Clara il fiore di Robert, lei lo conserverà con il cuore sanguinante. 

 

Fino a quando la psichiatria e la psicologia sono state considerate scienze “esatte”, i biografi davano per scontato il verbo scientifico, la diagnosi psichiatrica era come il calcolo dei cementi armati per l’ingegneria. La “dementia praecox”, poi ribattezzata “schizofrenia” era un dato, non una valutazione discutibile. Unico paziente che, a fine Ottocento, era riuscito a ottenere il proprio riscatto, riacquistando  diritti civili e cittadinanza, fu Daniel Paul Schreber (1842-1911); malato di nervi – come si autodefinisce attraverso le sue memorie – ma fine giurista, che riscatta la sua posizione di cittadino. 

Bisognerà attendere gli anni Sessanta del Novecento perché qualcosa cambi nel mondo della salute mentale. Qualcuno si accorge che il manicomio, anziché “curare i malati di mente”, produce malattie mentali e riduce la speranza di vita delle persone rinchiuse. Ancora dobbiamo riabilitare molte figure di intellettuali, artisti e scienziati finiti in manicomio. La figlia di James Joyce, Lucia (1907-1982) morta dopo 48 anni di ritiro manicomiale, la scultrice Camille Claudel (1864-1943), il matematico Georg Cantor (1845-1918) e molte, molte altre persone. 

 

Come mai una persona mite, taciturna come Schumann viene ricoverata? Bastano i suoi incerti tentativi di suicidio? Franz Richarz, lo psichiatra che internò Schumann, era un “degenerazionista”, uno di quegli scienziati sicuri che l’arte e la cultura siano fenomeni degenerativi. Conosciamo bene la teoria biologica della degenerazione, sappiamo da quali teorie creazioniste deriva e a quale mondo totalitario approda. La scienza degenerazionista si basa sulla teoria che gli artisti e gli uomini di genio siano destinati alla follia. 

A differenza di Lucia Joyce e Camille Claudel, che sopravvivono al manicomio per oltre quarant’anni, a differenza di Schreber, Antonin Artaud (1896-1948) e Luis Wolfson (1931), che incontrano strategie creative per sottrarvisi, Schumann dura poco, muore dopo due anni d’internamento. Non è l’unico, il manicomio uccide in vari modi, produce catatonie, aumenta i tentativi di suicidio, è crogiolo di infezioni, è universo concentrazionario e violento. Il manicomio riduce la speranza di vita dei pazienti. In questo senso, la vera storia della follia di Robert Schumann è raccontata da Peter Oswald (1928-1996) in Schumann, Music and Madness e in alcune pagine della Storia sociale della psichiatria di Roy Porter (1946-2002).

 

 

Vera storia perché smaschera l’ipocrisia di chi vede il soggetto patologico rinchiuso dentro le macerie del proprio Ego, come se queste macerie fossero espressione della mancata identità del soggetto. Considerazioni vuote, al di fuori di ogni contesto sociale e culturale, come se la follia fosse un fenomeno di fatiscenza dissociato e indipendente dalla relazione con l’altro. Schumann soggetto distrutto? Basta ascoltare poche note del suo monumentale lavoro di composizione per dire: no! L’uomo che ha scritto questa musica ha una forza espressiva grandiosa, non può essere una persona distrutta, semmai appartiene a una specie che deve ancora venire, come avrebbero sostenuto Frederich William Myers (1843-1901) e Friedrich Nietzsche (1844-1900). Schumann dunque diventa soggetto collettivo, creatore, nonostante il divieto, imposto a familiari e amici, di vederlo, nonostante l’isolamento, le repressioni e le interdizioni del regime manicomiale, questa la crudeltà psichiatrica.

La confusione psichiatrica a cavallo tra i due secoli è disarmante. Neurosifilide? Molti storici della medicina hanno rilevato che un gran numero di persone, a cavallo tra i secoli Diciannove e Venti, altro non avevano che una delle possibili conseguenze della sifilide. La “dementia praecox” e una serie di malattie neurologiche, a quell’epoca, si confondevano in un unico insieme poco distinto: Parkinson, Alzheimer, pellagra, lesioni focali e altre forme neurologiche. I discorsi psichiatrici erano (e spesso sono ancora) confusi, generici, poco medici. Nei tentativi di scimmiottare la medicina, psichiatri e psicologi spesso non si accorgono di avere a che fare con un soggetto intero, competente riguardo alla propria vita, tutti presi dal furore diagnostico. 

 

I discorsi psichiatrici dell’epoca, ma anche quelli contemporanei, ci appaiono confusi e contraddittori per una disciplina che pretende di essere riconosciuta come scientifica. Se considerassimo il delirio psichiatrico come parte di un sistema delirante complessivo, ci troveremmo di fronte a una sorta di ripetizione generale e generica del delirio dei folli: demenza, idiozia, mania, imbecillità, cretinismo sono sempre stati termini a cavallo tra diagnosi e insulto. Una descrizione completa di questo fenomeno “scientifico” si trova nel libro di Mary Boyle (1949) Schizofrenia, un delirio scientifico, uscito nel 1994 per Astrolabio.

Schumann non aveva alcun deterioramento mentale, aveva attraversato un periodo di confusione, che stava superando. Pochi anni prima era capitato a un altro grande esponente del Romanticismo, Friedrich Hölderlin (1770-1843), che aveva trovato il suo doppio Reale nel nome di Scardanelli. Hölderlin produce la sua poetica migliore nei momenti più acuti della schizofrenia, come sostiene Roman Jakobson (1896-1982).

 

Ciò che inquieta, in chi ode le voci, è il ritiro dalla relazione con gli altri in carne ed ossa, che stanno intorno al soggetto, il suo volgersi a un altro fantasmatico, a una identità inesistente, a un doppio. Accede anche a noi durante il sonno, quando si sogna, tuttavia questo è proprio il momento della creazione. Individuare una voce nell’indistinto della “cosa in sé” costituisce ciò che Louis Sass (1949) ha definito “apofania”, un gesto tutt’altro che irriflessivo, un gesto iper-riflessivo, conseguente a un’esperienza di frammentazione che ricompone i frammenti in forme impreviste. È forse questo che perturba l’altro: “non sei più tu”, la tua identità è sfumata, come fossi “posseduto da un demone”.

Oggi Schumann sarebbe, oltre che un grande musicista, un uditore di voci. Il suo percorso di individuazione delle voci è terapeutico; Luigi Boscolo aiutava i pazienti che sentivano voci confuse e non bene individuate ad ascoltarle meglio, per individuarle, distinguerle, renderle singolari. Nel far questo, le voci diventano diplofonie, triplofonie, polifonie. Ciascuna delle melodie vocali assume un timbro e un carattere che segnano la differenza e la relazione tra loro e il soggetto uditore.  Questa transizione dagli acufeni, ai rumori, all’indistinzione delle voci, Schumann l’aveva compiuta da sé. Florestano, la voce di un doppio ottimista, ed Eusebio, la voce del suo doppio femminile, gli dettano alcune delle composizioni, come l’Ouverture del Manfred o la Sinfonia di primavera

 

Non c’è dubbio che le voci di Schumann lo spingano verso la creazione di nuove composizioni, tra le più felici. Non c’è dubbio che lo portino nel panico della perdita del principium individuationis, il dionisiaco, di cui scriverà, una generazione dopo, un suo conterraneo. Nessuno però si accorge di come queste dimensioni della sua “dementia praecox” in realtà siano l’espressione più alta dell’attività artistica del musicista. La scienza degenerazionista dell’epoca, quella scienza che parla di ciò che poi verrà chiamata schizofrenia, quella scienza che è assolutamente sicura che la follia sia un fenomeno degenerativo, decide che i pazienti, per la loro cura, vanno isolati e trattati come soggetti che marciscono in manicomio. L’Ego diventa fatiscente, si decompone, si riduce a frammenti, ma accade quando è in manicomio, accade quando viene legato, quando le relazioni con familiari e amici vengono precluse; accade quando all’Ego viene “forclusa” (per usare i termini lacaniani) la relazione con l’altro, ma non è il soggetto a essere “forcluso”, è l’istituzione che lo forclude, non è lui che abdica alla responsabilità, è il contesto totalitario che gliela toglie, anche sul piano giuridico.

 

Schumann soffriva forse di acufeni (rumori uditivi fastidiosi) che possono trasformarsi in vere e proprie voci. Schuman aveva momenti di afasia. I suoi sintomi potrebbero avere avuto molteplici origini di ordine acustico o neurologico, temporanei o definitivi. Qui si tratta di valutare sintomi medici. Ma se Schumann ha cercato di combinare “strutture musicali non compatibili”, ciò è ben altra cosa. Le sue esplorazioni compositive, hanno anticipato il futuro della musica contemporanea. Se aveva problemi di ordine medico, avrebbe dovuto esser curato in medicina, se aveva problemi di ordine psicologico, avrebbe dovuto trovare accoglienza e ospitalità terapeutica. In questi casi è bene ribadire: tertium non datur.

Solo chi ha il coraggio di immergersi nelle perturbazioni della vita, chi entra nell’ignoto, chi soffre nell’attraversare la vita può creare. Schumann creò meravigliosi deliri musicali. Degenerato, ergo progenerato.

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