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Michael Asher e i ladri di roulotte

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Una roulotte sospetta

 

Estate 1977, una roulotte parcheggiata in una strada di Münster davanti al Landesmuseum. Si tratta di una Hymer-Eriba Familia modello BS di quattro metri con le tende tirate, la porta chiusa e senza traino. Niente di memorabile. 

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Come pensano i chimici

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Un giovane ingegnere di origine indiana, Guru Madhavan, che lavora per vari enti internazionali, ha pubblicato di recente un libro intitolato: Come pensano gli ingegneri, tradotto in italiano da Cortina. La cosa è particolarmente interessante anche dal momento che, come hanno scritto due docenti inglesi, Diego Gabetta e Steffen Hertog, autori di Ingegneri della Jihad (Università Bocconi Editore), i gruppi di fondamentalisti islamici sono composti in maggior parte da ingegneri e da personale di formazione tecnica (ne ho parlato qui). Gli ingegneri, sostiene Madhavan, “sono integratori capaci di prelevare idee da flussi di sapere e combinarli tra loro”.

 

Detto altrimenti, non esiste una cosa chiamata “ingegneria” senza l’aggettivo che la definisce – almeno cinquanta a stare stretti – poiché gli ingegneri adattano le tecniche necessarie ai diversi contesti; la loro prerogativa principale risiederebbe nel “pensiero sistemico modulare”: risolvono problemi ricorrendo a diverse tecniche, mai a una sola. Ora lo scrittore Marco Malvaldi, autore di gialli molto popolari, ha dato alle stampe un libro intitolato L’architetto dell’invisibile (Cortina pp. 201, € 19) che reca come sottotitolo: Come pensa un chimico. Malvaldi, che è chimico fisico, ha deciso di raccontare una serie di vicende legate agli atomi, alle molecole, alla Tavola di Mendeleev, all’energia, all’autorganizzazione della materia e ad altro ancora.

 

 

Qual è il modo di ragionare specifico dei chimici secondo lo scrittore? Molto diverso da quello degli ingegneri, sebbene un punto comune esiste: risolvere problemi. Con una differenza. Gli ingegneri, come ha spiegato uno di loro, Henry Petroski in Gli errori degli ingegneri (Pendragon), non solo cercano soluzioni, ma immaginano i disastri a partire da ciò che hanno progettato e cercano sempre di trovare il modo per evitare ogni possibile catastrofe. C’è almeno un chimico che ragiona così, o almeno ragionava. Si chiamava Primo Levi e, come sa chi ha letto uno dei suoi più bei libri, L’altrui mestiere (Einaudi), era angustiato dalla possibilità della catastrofe, non solo quella sperimentata in prima persona ad Auschwitz, ma anche quella che incombeva nello stabilimento chimico che dirigeva a Settimo Torinese, la SIVA. L’ha raccontano in vari capitoli di quel libro, e non solo lì. Dunque, come ragiona un chimico? Per diverse linee guida, prima di tutto. La chimica è fatta di quantità e qualità; bevuta in eccesso l’acqua può uccidere, assunto in dosi minime il cianuro è innocuo.

 

Questa è la quantità. La qualità ha invece che fare con la bellezza: per il chimico la simmetria delle molecole ha un ruolo fondamentale per capire come interagiscano tra di loro. Poi utilizza i sensi: la vista in primis e poi soprattutto l’olfatto, grazie al quale può arrivare a distinguere una sostanza dall’altra. Levi l’ha spiegato in un testo intitolato Il linguaggio degli odori. Per fare il chimico ci vuole naso. Un altro aspetto è pensare attraverso il processo: “inteso come azione che porta alla modifica chimica o fisica di un sistema, di un pezzettino di universo”. La cosa fondamentale è però un’altra, che probabilmente spiega perché i chimici abbiano una mente così particolare: nel linguaggio della chimica gli atomi sono lettere dell’alfabeto e le molecole sono parole. Forse non è un caso che il maggior enigmista italiano, Piero Bartezzaghi, fosse un chimico: pensava per orizzontali e verticali, per combinazioni di lettere e parole. Anche Levi è diventato scrittore attraverso la chimica, oltre che grazie ad Auschwitz, come ricordava ai suoi interlocutori. Lo stesso Malvaldi si è scoperto scrittore dopo essersi occupato di chimica; si è laureato compiendo una ricerca di chimica quantistica come un altro noto chimico fisico, Angela Merkel, illustre però non come chimico; e nel caso della cancelliera tedesca il modo ha qualche importanza per noi (lei e Malvaldi si sono occupati dello stesso problema chimico: le transazioni multifotoniche).

 

Il chimico è uno che fa un mestiere assai difficile: mettere d’accordo le quantità macroscopiche (pressione, temperatura, durezza, colore) con le caratteristiche microscopiche, per esempio la forma delle molecole stesse. Deve sempre tenere sotto controllo l’equilibrio sottilissimo tra l’esplosione e il collasso creato dalle forze elettriche. Pur occupandosi della materia, e quindi anche dell’universo in una sua significativa porzione, al chimico “interessa ciò su cui ha il potere di fare qualcosa per ottenere dei cambiamenti”. Piccoli, eppure significativi. Da quando Levi si occupava di chimica, di cui narra in Il sistema periodico (1975) e La chiave a stella (1978), a oggi le cose sono molto cambiate. Oltre alla chimica organica e inorganica, c’è la chimica fisica (quella di Malvaldi e Merkel), la chimica analitica e la biochimica, solo per restare alle macrodivisioni. Però qualcosa è rimasto identico nel modo di pensare dei chimici. Malvaldi lo spiega ricorrendo a un libro di Edward de Bono, Sei cappelli per pensare (Rizzoli). Durante le riunioni che i manager – e non solo loro – tengono per risolvere i problemi, ciascuno dei partecipanti sceglie un cappello di un determinato: colore nero per il pessimista, rosa per l’ottimista, giallo per il creativo, e così via. Poi, dopo un primo giro d’idee, ci si scambia cappello e ruolo e si continua così a pensare e discutere ad alta voce. Tutto questo serve a criticare le idee, non le persone che le hanno avute o proposte. Malvaldi sostiene che la Tavola di Mendeleev, chimico adepto dello spiritismo, sarebbe stata realizzata proprio così: serve a separare le opinioni dalle singole individualità, a smorzare rivalità personali, a far procedere la ricerca. Tuttavia Mendeleev aveva un rivale, il tedesco Julius Lothar Meyer. Questi aveva individuato l’esistenza della periodicità degli elementi, però la tavola ora porta il nome del russo, come racconta Sem Kean in Il cucchiaio scomparso e altre storie della tavola periodica degli elementi (Adelphi). La scienza è l’attività più individuale che esista, e insieme anche la più collettiva. I chimici non fanno eccezione, comunque ragionino.

 

Una versione molto più breve, e differente, è stata pubblicata su “La Repubblica” il 22 novembre 2017.

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Spettacolo dell'anno

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L’anno scorso ci avevamo provato. Quest’anno ci abbiamo preso gusto e il gioco si è allargato. Raccontiamo la stagione teatrale trascorsa a più voci, quelle di chi abitualmente scrive sulla rubrica di teatro di Doppiozero, quelle di alcuni osservatori ospiti e di artisti che stimiamo e amiamo. Confondiamo le acque, tra chi il teatro lo fa e chi lo guarda e lo analizza, convinti che di un’unica ecosfera del possibile, dell’utopia, dello sguardo di traverso, al mondo delle ombre, al germinare in ombra, oggi si tratti. 

Abbiamo chiesto di eleggere o di raccontare lo spettacolo o il tema teatrale dell’anno. Ne è venuto fuori un caleidoscopio di visioni, una piccola enciclopedia del 2017 teatrale, delle creazioni e degli umori di una stagione, da gustare poco alla volta, da centellinare. Buona avventura (e buon 2018) anche ai nostri lettori con (in disordine di apparizione): Massimo Marino, Massimiliano Civica, Roberta Ferraresi, Graziano Graziani, Ermanna Montanari e Marco Martinelli, Matteo Brighenti, Enrico Piergiacomi, Francesca Saturnino, Daria Deflorian, Maddalena Giovannelli, Roberto Latini, Lorenzo Donati, Lorenzo Pavolini, Attilio Scarpellini, Piergiorgio Giacchè, Armando Punzo, Rossella Menna, Giuliano Scabia.

 

Il naufragio, di Leogrande-Shkurtaj-Tramacere, Biennale Musica 2014, ph. Akiko Miyake.


Alessandro Leogrande. Un rimpianto (Massimo Marino)

 

La parola fatta musica. Il dolore meditato in una ballata di fantasmi, tra sillabe esplose, frasi e grida di una lingua lontana, periodi musicali decostruiti e sublimati in pura materia sonora, in antiche polifonie popolari, in suoni liquidi o ferrosi. 

Subito prima di Natale, il 22 dicembre, ho assistito a una ripresa di Katër i Radës. Il naufragio presso i Cantieri Teatrali Koreja di Lecce. Il libretto lo aveva scritto Alessandro Leogrande per la Biennale Musica 2014. Riprendeva la materia di una sua inchiesta, sul naufragio di una motovedetta albanese carica di migranti, speronata da una nave della Marina Militare italiana di pattuglia per impedire lo sbarco dei disperati “invasori”. Lo spettacolo era un’occasione da non perdere per vari motivi: un’opera contemporanea, difficile da allestire e da far girare, con cantanti, coristi, strumentisti, con le belle musiche del compositore albanese Admir Shkurtaj, uno che sviluppa la lezione di Berio guardando alla musica tradizionale del suo paese e un po’ anche al Kurt Weill di Mahagonny, cercando nell’essenza dei suoni e delle voci il lamento, il lutto, la tragedia, gli scontri contemporanei. Lo era anche per la bella regia sognante, sincopata, di Salvatore Tramacere, che inventa un mare nero tra due file di spettatori con una pedana mobile dove riprendono vita i fantasmi dispersi in quelle acque, in una ballata civile con l’intensità arcaica, barbarica e civile insieme, di un rito di lutto e memoria. 

 

Ma era una serata speciale soprattutto perché Alessandro Leogrande, crudelmente, ci aveva lasciati a soli 40 anni meno di un mese prima. La sua vita, esemplare per lucidità politica, per capacità di interpretare e narrare le trasformazioni della società e in particolare del Sud dalla parte degli ultimi, era stata improvvisamente troncata da un malore che aveva lasciato nello sgomento chi ne apprezzava le qualità di analisi, di inchiesta, di intervento, di limpida scrittura. Questo spettacolo era stato il suo primo tentativo di portare sulla scena le sue ricerche sociali, donando a esse l’emozione della sintesi, della metafora, della lingua agita in presenza. E indicava già una strada matura di nuovo teatro politico che dialoga non solo con la cronaca ma con strati profondi, spesso in ombra, dell’umano. Dopo, in più recenti scritture per la scena, non avrebbe raggiunto gli esiti di perfetto impasto emotivo e simbolico di questa prima prova, inoltrandosi con ansia di sperimentare in un (difficile) teatro del presente, ricco di umori e di promesse ma evidentemente ancora in cerca di quadratura tra temperature diverse.

 

In questo testo c’è tutto: i volti, i cuori dei morti annegati, la musica che riesce a donare fulgore alle parole e viceversa, la sfida a estrarre figure e senso al buio della morte. Scriveva Leogrande, in un articolo di presentazione, parlando di vicinanze tra riti mortuari balcanici e salentini: «Un comune Ade, le cui pareti non si possono abbattere, tant’è che l’incontro con chi non c’è più, il prestare ancora una volta ascolto al loro canto muto, può avvenire solo nel sogno. O nell’opera, appunto, che è in fondo quello strambo terreno, libero da molte leggi, in cui il sogno può rifiatare». Basta chiudere gli occhi e l’immaginazione dipinge un mondo altro dalla realtà, come dice alla fine dello spettacolo di Koreja a Lecce la voce placida di Alessandro, in un lontano ricordo di pace e felicità nella campagna dei nonni, tra le Murge. 

 

Manifesto premi Ubu 2017.


Cambio della guardia, senza squillo di tromba (Massimiliano Civica)

 

Esporrò dei fatti, senza fornirne un'interpretazione e senza esprimere un giudizio di valore. Proporrò insomma unicamente uno spunto di riflessione, perché non ho chiaro se quanto è accaduto sia da leggere positivamente o meno.
Gli ultimi premi Ubu hanno sancito un cambio della guardia: i "nuovi" artisti (che in Italia vuole dire comunque gente di mezza età, intorno ai 50 anni) hanno preso il posto dei "vecchi".
La modalità particolare di questo cambio della guardia merita qualche osservazione.
L'ultimo avvicendamento di portata simile in Italia era stato annunciato, preparato e "chiesto a gran voce" tramite un convegno: quello di Ivrea.
Ai tempi di Ivrea, il "nuovo" teatro, con i rappresentanti del "vecchio" teatro ancora vivi, vegeti e seduti sulle loro poltrone, aveva con forza reclamato spazio e potere. Si era trattato, a vedere con occhi asciutti, di un'istanza politico/economica, che aveva riunito artisti diversi, per temperamento e qualità, sotto il comune desiderio di dare l'assalto al Palazzo d'Inverno. C'erano nemici potenti da abbattere per la presa del potere e critici nuovi, agguerriti e "di parte" avevano fornito il vessillo poetico/ideologico da sventolare durante l'assalto.


Agli ultimi premi Ubu è avvenuta invece una rivoluzione senza bandiere, senza bande contrapposte, senza spargimenti di sangue, senza cadaveri di nemici da esporre e con solo qualche ferito, che ha evitato di mostrarsi tale (è vera la voce che Palazzi e la Gregori, due dei pochissimi critici cartacei, si sono dimessi dall'Ubu? Perché Palazzi, che ha fatto molto per sostenere il "nuovo" teatro, si è dimesso proprio ora?). 
Per prima cosa non c'erano vecchi potenti da scalzare: ci avevano già tutti lasciati per sopraggiunti limiti di età: morti Castri e Ronconi non c'erano più moloch dell'antico regime da abbattere. Nessuno si è curiosamente accorto o lamentato che mancava Tiezzi all'appello delle nomination: forse non viene sentito come rappresentante né del "nuovo" e né del "vecchio" mondo?
I vari "nuovi" artisti saliti alla ribalta non sono poi riuniti sotto un comune vessillo ideologico/poetico, non hanno istanze politiche/economiche condivise e non fanno parte della scuderie di un singolo critico: Deflorian/Tagliarini, Roberto Latini, Alessandro Serra, Emma Dante, Antonio Latella, Lucia Calamaro, Frosini/Timpano, il sottoscritto e tutti i rappresentati del "nuovo" non fanno squadra o clan, sono tutti artisti che hanno portato avanti il loro discorso poetico in maniera autonoma e solitaria. Certo alcuni di questi artisti si "sono guardati" e di questo sguardo reciproco si sono nutriti, ma senza sentire il bisogno di aggregarsi in un movimento con un decalogo condiviso.
Non ci sono nemmeno, almeno in maniera aperta e pubblica, critici che sentano alcuni artisti come esclusivamente "loro" e che, di conseguenza, siano "contro" qualche altro artista. Nessuno critico ha fornito poi uno schema teorico, politico o ideologico tramite cui chiamare a raccolta i "nuovi" sotto un'unica bandiera. 


Certo la rivoluzione di questi ultimi Ubu sarà stata determinata dall'ingresso tra i referendari di circa 10 critici nuovi tutti provenienti dal web, che avranno contato molto nelle vittorie del "nuovo teatro". Ma non lo hanno sbandierato: "naturalmente" seguono e sostengono artisti che sono nati e cresciuti con loro, che sono loro coetanei.
Una rivoluzione dunque vinta per inerzia e per "scomparsa" degli avversari: il puro e semplice, naturale e "fattuale", ciclo della vita, piuttosto che un avvicendamento frutto di una esplicita volontà e lotta.
Il cambio della guardia è avvenuto, senza uno squillo di tromba: qualcosa deve pur voler dire.

 

Democracy in America di Romeo Castellucci, ph. Guido Mencari.

 

Castellucci: il potere del linguaggio (Roberta Ferraresi)

 

Democracy in America può essere molte cose, far pensare a riferimenti diversi e far scaturire varie interpretazioni – come al solito il regista, Romeo Castellucci, non predispone alcuna guida rassicurante attraverso la sua opera, a cui lascia la totale eventualità d'accadere (o meno) nel corpo e nella testa di chi la guarda (e in tempi di smodato storytelling e imperativi didattici anche solo una simile, coraggiosa ostinazione basterebbe per posizionare Democracy in America e gli altri suoi lavori come uno fra i "casi" culturali dell'anno). 

 

Io l'ho pensato e raccontato – con tutta l'arbitrarietà del caso – come uno spettacolo sul potere del linguaggio (qui il link dell'articolo pubblicato su Ateatro). 

Ma alla fine di questo 2017, nonostante il regista abbia più volte dichiarato la distanza o quantomeno la non intenzionalità fra la scelta di creare una messinscena a partire dall'omonima opera di Alexis de Tocqueville ed eventuali riferimenti a quanto sta accadendo in questi mesi negli Stati Uniti e nelle altre democrazie occidentali ("questo spettacolo non è politico", si legge per esempio nella presentazione) e anche se l'allestimento in Italia non ha convinto unanimemente, Democracy in America è a mio avviso uno degli spettacoli “dell'anno”. Perché è riuscito come poche opere a far vibrare – nelle parole e nei temi, nelle musiche, nelle immagini e soprattutto nei movimenti scenici – un nervo che giorno per giorno si rivela sempre più vulnerabile e scoperto: il dubbio che il potere del popolo, dei molti, di tutti, la giustizia della maggioranza e il meccanismo gestionale della rappresentanza, l'istituzione della democrazia insomma, una volta consolidata, sia in qualche modo destinata a degenerare in sopraffazione, tirannia e barbarie; che quest'ipotesi possa essere contenuta in partenza al suo interno, già nell'idea stessa di democrazia, come seme sempre lì lì per dischiudersi.

 

La vita ferma, Lucia Calamaro; ph. Mariangela Ioffredo.

 

Drammaturgia (Graziano Graziani)

Uno dei temi di quest’anno è senz’altro la drammaturgia. Il teatro italiano è da tempo sensibile alle scritture contemporanee, ma negli ultimi mesi per varie ragioni sembra essersi delineato un orizzonte più chiaro e persino l’abbozzo di un sistema di dialogo col resto del mondo (aspetto su cui il nostro paese è più debole). Partiamo dagli ultimi premi Ubu, che in questa edizione mette in evidenza soprattutto la fucina romana. In finale per i progetti drammaturgici c’era uno dei capolavori degli ultimi anni, La vita ferma di Lucia Calamaro, che bissa per complessità e felicità di scrittura il successo del suo spettacolo di culto, L’origine del mondo; Daniele Timpano, uno degli outsider più geniali e corrosivi degli ultimi quindici anni, che con Acqua di colonia conferma il tandem creativo con Elvira Frosini; e infine il vincitore Armando Pirozzi, in realtà napoletano, ma che a Roma ha uno dei suoi baricentri come pure Massimiliano Civica, che da diversi anni mette in scena i suoi testi, confermando un sodalizio felice tra due minimalismi mai aridi, ma sempre densamente poetici. C’è poi il premio Ubu alla carriera, che fa la sua comparsa da questa edizione e premia un percorso importante come quello di Antonio Tarantino.

Invece il Premio Riccione, il più importante premio di drammaturgia, si conferma territorio di cerniera tra la letteratura e il teatro, con l’affermazione di Vitaliano Trevisan nella massima categoria, a cui si affiancano Pier Lorenzo Pisano che si è aggiudicato il Premio Tondelli grazie a una scrittura molto consapevole delle dinamiche della scena (l’autore è classe 1991), e Fabio Massimo Franceschelli, a cui è andata la menzione Quadri, che da qualche anno insiste proprio sul tema dell’incrocio tra ricerca letteraria e scrittura teatrale. Questo sguardo rivolto alla grana dello scrivere che il Premio continua a proporre è qualcosa di fecondo proprio perché mi sembra di vedere un rinnovato interesse reciproco con cui scrittori e teatranti si seguono, si osservano, collaborano e creano mondi comuni. Un passo ulteriore Riccione lo compie con un premio speciale per l’innovazione drammaturgica che è stato assegnato a Chiara Lagani per il suo lavoro con Fanny & Alexander.

Se invece volgiamo lo sguardo all’estero, o meglio alla capacità di penetrazione della nostra drammaturgia negli altri paesi, vanno segnalati due progetti importanti: Fabulamundi (anch’esso consacrato da un Ubu) e Italian Playwrights Project. Il primo raccoglie l’esperienza dello scambio bilaterale italo-francese attivato da Pav e lo trasforma in una rete europea che, nella sua ultima formulazione, coinvolge più di dieci paesi dell’Unione. Per l’Italia Fabulamundi copre un vuoto nei rapporti con gli altri paesi, solitamente in carico a istituti culturali o a istituzioni di raccordo come avrebbe potuto essere il defunto Ente teatrale italiano.  Italian Playwrights Project, ideato da Valeria Orani, crea invece un ponte tra le due sponde dell’Atlantico, tra Italia e Stati Uniti. La reciproca conoscenza delle scritture per la scena (completata dal progetto gemello American Playwrights) disegna differenze profonde ma proprio per questo stimolanti, sia nell’approccio alla scrittura che nella dimensione produttiva.

La drammaturgia italiana, di colpo, si vede proiettata in un possibile confronto – prima lasciato alla volontà dei singoli – che sicuramente segnerà le sue prossime evoluzioni. Oggi il nostro teatro è portatore di una lingua che non si conforma né a quella sorta di koinè che certo teatro contemporaneo europeo sta sviluppando, né all’orizzonte americano orientato allo storytelling. È una scrittura che ha reagito a una storica disattenzione al contemporaneo e ha trasformato questo suo elemento corrosivo in virtuosismo, con punte di genialità creativa che rendono oggi i drammaturghi italiani degli oggetti strani, difficilmente identificabili, ma di sicuro interesse. Non resta che continuare a scrutare l’orizzonte, anche grazie a questa rete di premi e progetti.

 

Ombre nell’inverno di Vinicio Capossela, ph. Chico De Luigi.


Le ombre di Capossela (Ermanna Montanari e Marco Martinelli)

 

Premessa: quando si gira tanto con le proprie opere, è difficilissimo vedere tutto quello che si vorrebbe. Capita così che ci proponiamo di andare a vedere questo o quello, di rispondere all’invito degli amici, ma poi il calendario è tiranno, e disfa i nostri piani. Gadda diceva: come faccio a leggere i romanzi dei colleghi, quando sono così mortalmente impegnato a fare decenti i miei? Detto ciò, siamo rimasti incantati da Ombre nell’inverno, un’opera che cattura per la sua scia di fiaba notturna, per la presenza corporale di Vinicio Capossela, per la sua voce abissale, per il ritmo trascinante della sua danza, per quel Dioniso che è, che è tutto lui, che fa esplodere in noi lo stupore dello sguardo, a bocca aperta, noi che ci facciamo trasportare nelle mureniche ombre di una psiche antichissima e modernissima. Questa è l’opera più bella di teatro che abbiamo visto quest’anno a teatro. Così come lo Sponzfest di Calitri, il festival diretto da Vinicio, lo riteniamo uno dei migliori festival di teatro che abbiamo seguito nelle ultime estati: la musica, il ballo, il canto, il teatro, il cinema, il cibo, il vino, sono materia di lunghi giorni di preparazione e lunghe notti senza sonno, in alchimia con la terra che li protegge, la meravigliosa coloratissima Alta Irpinia.

 

Costruire è facile?, di Battignani & Faloppa, ph. Simone Cinelli La pratica della pazienza (Matteo Brighenti).


La pratica della pazienza (Matteo Brighenti)

 

Lo spettacolo dell’anno, per me, è il modo artigianale di fare teatro di Costruire è facile? di Batignani & Faloppa, visto d’estate a Sansepolcro per Kilowatt Festival 2017, e di Lettera a una professoressa dei Chille de la balanza, visto l’ottobre scorso nell’ex manicomio di San Salvi a Firenze. Due lavori nel senso vero e stretto del termine, perché entrambi nascono concretamente ogni sera dall’opera manuale degli attori.

 

La scena è il pubblico, i pochi e poveri materiali usati, cartone, spago, legno, ferro, servono a creare il luogo dell’incontro e le parole con cui raccontarlo anche e soprattutto fuori, nella realtà del mondo. Di conseguenza, il tempo non è stabilito a priori, da un copione misurato sull’impazienza dell’effetto speciale, piuttosto è ‘naturale’, quello che ci vuole ed è richiesto dall’azione del costruire. Né di più né, in particolare, di meno.

Chiedono un impegno di partecipazione e uno sforzo di attenzione a cui non siamo più abituati, indotti ormai dal mercato o chi per esso a pretendere tutto e subito, con il maggior consumo alimentato da un sempre minor appagamento. E invece, qui qualcosa può accadere come no, ma non lo sai se non aspetti, se non arrivi alla fine, se non vai fino in fondo, insieme agli altri seduti accanto a te.

Costruire è facile? e Lettera a una professoressa mettono in atto la pratica della pazienza e non a caso si confrontano con l’esempio di due maestri irregolari: Bruno Munari, che il 2 febbraio 1956 si reinventa fabbricante di giocattoli per la trasmissione Rai Costruire è facile; don Lorenzo Milani che, con l’esperienza rivoluzionaria di Barbiana, afferma il diritto di tutti allo studio contro la scuola classista degli anni ’60.

 

Quella che per Munari è una certezza da insegnare, per David Batignani e Simone Faloppa è una domanda da condividere, messa a punto incontrando gli artigiani nelle piazze d’Italia, la loro condizione di marginalità progressiva e inarrestabile. La stessa cura verso i marginali, gli ultimi, appartiene a Claudio Ascoli che, con la partecipazione di Sissi Abbondanza e Monica Fabbri, consegna la storica Lettera a una professoressa al palcoscenico di una nuova ‘scrittura collettiva’, come fu in origine per sei allievi sotto la guida di don Milani.

 

La pazienza viene ripagata con la libertà di scegliere attivamente. Ognuno contribuisce, per proprio conto e secondo le proprie capacità, al sapere dell’altro e alla riuscita comune, tanto da costituire una temporanea comunità che il Priore di Barbiana avrebbe chiamato ‘educante’. Nessuno viene o si sente escluso, perché ci riuniamo tra eguali a un tavolo. Batignani & Faloppa l’hanno realizzato davanti ai nostri occhi con una perizia che sembra magia; i Chille sono andati a prenderlo dalla casa e dalla biografia di Ascoli.

Attorno al cartone di Costruire è facile? e al legno di Lettera a una professoressa. dopo che alle cose, mettiamo mano a noi stessi. Una sorprendente esperienza di riscoperta che il cambiamento è di tutti per tutti. Non uno di meno.

 

Lettera a una professoressa, di Chille de la Balanza, ph. Paolo Lauri.


Perché la fatica di creare e pensare? (Enrico Piergiacomi)

 

Credo che la questione fondamentale dell’anno sia quella provocatoria che segue. Perché gli artisti si ostinano ancora alla fatica di fare poesia, in un momento storico in cui la ricerca della bellezza sembra essere diventata un’attività superflua?

Mi pare che il problema risulti oggi urgente, dato il declino inesorabile dell’efficacia della poesia sulla vita collettiva. 

La mia opinione è che creare e pensare sono attività che apparirebbero valevoli di essere coltivate, persino nel peggiore dei mondi possibili. Quand’anche l’arte non dovesse avere più efficacia, o fosse vietata da un dio malvagio che la considera un ingombrante dinosauro del passato, varrebbe comunque la fatica di dedicarsi a essa per almeno tre ragioni.

La prima è che nell’esistenza naturale e nuda c’è in sé qualcosa di ripugnante. Almeno noi esseri umani non riusciamo ad accontentarci di quello che la natura ci ha dato. Ascoltare, vedere e altre attività naturali grezze ci vengono presto a noia. L’arte ci salva però dal tedio, portandoci a praticare meglio quello che già facciamo spontaneamente e a trarne una gioia inaudita. L’attività di guardare e ascoltare supera i propri limiti, ad esempio, se si va spesso a teatro, perché arriva a cogliere, attraverso il lavoro degli attori, strutture ritmiche e visioni che non esistono in natura.

 

Una seconda ragione che potrebbe indurre un artista a cercare la bellezza è di carattere morale. L’arte è sempre uno sforzo di creazione, dunque qualcosa che indirettamente si oppone alla spontanea tendenza umana ad abbandonarsi al male e alla distruzione. Questi atteggiamenti violenti vengono, infatti, senza alcuna fatica: ferire o sfasciare cose/persone è ben più facile che costruire un’amicizia e una casa. L’arte è così qualcosa di innaturale, se appunto l’essere umano naturale preferisce distruggere e odia la fatica o il sacrificio che richiedono la ricerca della bellezza. In un mondo puramente malvagio, così, la poesia ricercata clandestinamente avrebbe la sua ragione di esistere, perché emetterebbe una piccola fioca luce in un mondo buio e prevaricatore.

La terza ragione è legata alla seconda. Opponendosi alla facilità del male, gli artisti perfezionano la natura e la dotano di una bellezza che essa apparentemente non ha. L’orrore di esistere diventa così qualcosa di meno gravoso: forse con sforzi congiunti e collettivi, esso potrebbe persino sparire. Se poi esiste davvero un dio malvagio che regola il cosmo, o uno buono ma incapace di creare un mondo perfetto, si avrà almeno l’orgoglio di aver fatto qualcosa di meglio di una divinità. Gli artisti creerebbero una perfezione che la potenza divina non è stata capace di concepire.

 

Verso il mare, Tonino Taiuti, ph. Francesca De Paolis.

 

Tonino Taiuti, l’incantamento fuori dai canoni (Francesca Saturnino)

 

La poesia di Viviani e la spaventosa maschera di Pulcinella, il Don Fausto di Petito; i silenzi e il buio di Antonio Neiwiller; la Lingua tosta e incancrenita di Basile e di Enzo Moscato. Ancora, la sperimentazione totale di Beckett e Harold Pinter. I fraseggi scomposti del free jazz di Bill Frisell e Paul Motian; la pittura dadaista. È difficile collocare la figura di Tonino Taiuti, così come il suo Teatro che, senza troppo clamore, nutre la scena napoletana da oltre trent’anni. Basterebbe dire, forse, che è un attore sopraffino. Pensiamo ai suoi storici duetti con Silvio Orlando e Enzo Moscato, fino alle recenti interpretazioni in Circo Equestre Sgueglia di Raffaele Viviani, regia Arias, American Buffalo (regia Marco D’Amore) con cui ha spopolato fino a qualche settimana fa nei teatri di mezza Italia. O, ancora, il raffinatissimo gioco di Play Duett, frutto di una gustosa collaborazione con un talento della scena contemporanea come Lino Musella. Eppure, oggi, come quando iniziò, è fuori dai circuiti ufficiali che Tonino Taiuti,  si concede di spingere il “gioco” ancora più in là: ne è un esempio Verso il mare, suo ultimo lavoro inedito in cui, solo in scena, si abbandona a una suadente e allucinatoria distesa di evocazioni, silenzi e «parole salvagente». Un piccolo gioiellino, andato in scena solo per pochi giorni al teatro Civico 14 di Caserta lo scorso ottobre.

Venuto fuori dal movimento tellurico del 1980 che sconvolse Napoli anche dal punto di vista artistico e teatrale, Tonino Taiuti fa parte di un nutrito gruppo di cosiddetti auto-attori che cambiarono la percezione e la narrazione della città. Non più la Napoli-cartolina con i suoi totem di caffè, famiglia e presepe, ma un viaggio scomposto nelle sue viscere buie, tra puttane, travestiti e topi che si muovono nel sottosuolo poroso, infestato di fantasmi, anime purganti in una Lingua pulsante e viva. Taiuti, Enzo Moscato, Annibale Ruccello, Antonio Neiwiller nacquero o, anzi, fuoriuscirono, mentre Eduardo, arrivato al suo apice, moriva. Questi giovani teatranti con una formazione non canonica, che in gran venivano dallo studio dell’antropologia o della filosofia, avevano bisogno di “uccidere” il padre e confrontarsi con una madre ancora più ingombrante. «Un veleno che hai dentro, un cordone ombelicale. Un magma, un flusso che mi è venuto addosso. Mi so’ perso. Sono annegato». Così Taiuti parla della Tradizione anche nel suo recente Verso il mare, prezioso pastiche in cui l’artista fa (inter)agire la “Lengua” napoletana antica, ritmica e poetica da lui masticata ad arte con le visioni di Shakespeare, Eliot, Baudelaire su un mare di suoni distorti della sua chitarra elettrica e macchie di colore pittate estemporaneamente su tela. Tradizione declinata in una continua pratica di attraversamento, scomposizione, contaminazione: tradimento. È in questo corto circuito, su questo limen tra il “dentro” e il “fuori”, tra l’amore profondo e la messa in discussione attraverso il perenne confronto con altro (artistico, teatrale, formale) che sta la cifra altissima di quest’artigiano che possiede il dono dell’incantamento e del gioco, soprattutto. Che ancora oggi è restio a essere messo in una casellaChe vediamo più spesso altrove che sulle scene della sua città, e spesso nei circuiti off: in quel buio sacro, lontano dal lustro degli stabili nazionali, dove (ancora) avviene il Teatro.

 

Empire, di Milo Rau, ph. Marc Stephan.


La spettatrice rivoltata (Daria Deflorian)

 

Rischio di passare per esterofila. Un po’ è vero. Quando passo il confine – me ne accorgo ancora in questa Europa così poco europea – subito mi esalto per un nonnulla, per il tappetino per fare yoga messo in ogni camerino a Brive, per il teatro universitario di Montpellier zeppo di studenti e per tutto quello che succede culturalmente a Parigi. In realtà amo tanto un certo nostro teatro, ma tanto tanto. Amo una certa creatività italiana, una certa scrittura, un certo modo storto di stare in scena, certi spazi scenici, certe svolte come Euphoria di Silvia Rampelli, e giuro, anche certe regie, come quella di Massimiliano Civica per Un quaderno per l’inverno. Ho visto l’altra sera all’Angelo Mai a Roma Bermudas di Mk/Michele Di Stefano e ho gioito tanto, ma tanto tanto. Ripeto. Rischio di sembrare esterofila, ma ho passato un settembre meraviglioso. Come spettatrice, intendo. Guerrilla de El Conde de Torrefiel, Sur le fil di Nacera Belaza a Short Theatre (grazie alle scelte di Fabrizio Arcuri e Francesca Corona) e Empire di Milo Rau visto a Contemporanea a Prato. Tre gioielli in meno di un mese. 

 

Non voglio recensire quello che ho visto, ma raccontare qualcosa di queste esperienze e parto da Milo Rau. Avevo già visto Five Easy Pièces, sempre a Short Theatre l’anno prima, sarei andata a vedere Compassion due mesi dopo a Parigi per il Festival de l’Automne. Sono una sua fan. Ecco come è andata: ero a Terni per il festival, sono ripassata per Roma solo per prendere il treno per Prato per poi tornare la notte a Roma. Quelle cose che si fanno solo per amore, per passione. Ho pranzato a Ravioli Lu con Claudio Morganti e altri amici, alle cinque ero al Fabbricone. Col timore di una delusione, come capita a certi appuntamenti. Invece no. Nessuna delusione, ma quella sorpresa di conoscere meglio qualcuno che ti era piaciuto tanto la prima volta e dire: è proprio uno in gamba. A me piace fare la spettatrice. Anzi non tanto farla, ma essere una spettatrice. E mi piacerebbe in un futuro ancora non visibile avere uno spazio per il contemporaneo a Roma per ospitare spettacoli, promuovere artisti, dare opportunità a giovani e non giovani. Ho già dato il nome alle due sale: una si chiamerà Divano e l’altra Termosifone. Luoghi comodi, accoglienti, che ti fanno sentire a casa. Anzi approfitto di questo spazio per dirlo un po’ più ufficialmente: io, Antonio Tagliarini, Silvia Rampelli, Michele Di Stefano, Attilio Scarpellini e altri amici vorremmo tanto uno spazio. Ce lo date, per favore? Senza presunzione, pensiamo che insieme a qualche organizzatore di quelli giusti – e li conosciamo – potremmo fare un buon servizio pubblico. 

 

Ma a parte queste divagazioni. Empire. Uno di quei lavori senza picchi, senza rivelazioni, senza finali. Un pezzo di vita recisa come un mazzo di fiori e dipinta. Come certi vasi di fiori di Cézanne. Ecco, non volevo fare una recensione e rischio di farla. E allora concludo. Ancora oggi discuto tra me e me su Guerrilla e rivedo i corpi nel buio di Sur le fil come se fossi in una notte, in una periferia, in un Paese dove non sono mai stata. Grazie quindi a FinEstate, il network dei festival che mi ha regalato questo settembre. Ho visto in questo 2017 spettacoli forse più belli, più risolti, che più mi assomigliano, ma questo ancora chiedo al teatro, rivoltarmi come un calzino. 

 

Une chambre in Inde, Théâtre du Soleil, ph. Anne Lacombe.


C’è tutto il mondo, in quella camera in India (Maddalena Giovannelli)

 

Mentre sui palchi d’Europa si moltiplicano i video dispositivi, le cuffie, le meta-meta-meta performance, nella periferia di Parigi la grande signora del teatro francese porta in scena la sua ultima fatica, Une chambre en Inde. Sotto la lente di Ariane Mnouchkine, le questioni capitali della creazione artistica: quanto siamo disposti a lasciarci modificare da ciò che accade nel mondo? L’arte che amiamo è capace di aiutarci nella comprensione di quel mondo? O serve solo a darci conferme? 

The Square di Ruben Östlund, Palma d’oro a Cannes, offre risposte ciniche e surreali alle stesse domande. Cornelia, la protagonista alter-ego di Mnouchkine, dirà invece al suo pubblico che per lei, semplicemente, non è più possibile continuare a fare teatro come prima dopo i fatti del Bataclan. Cos’altro fare? Non c’è risposta, c’è solo il rovello di una notte intera, che è poi l’arco dell’intero spettacolo. 

La quasi ottantenne Mnouchkine ha ancora voglia di regalarci una lezione sulla natura stessa del teatro, e di mettersi alla prova con forme e codici nuovi, che tutto sembrano tranne uno stanco ripetersi del già noto. C’è ancora tanto da imparare, da questa giovanissima vecchia che prende gli applausi a piedi scalzi.

 

I giganti della montagna, di e con Roberto Latini, ph. Futura Tittaferrante.


Appunti per un elogio del sipario (Roberto Latini)

 

Scrivo con piacere intorno a un tema intrattenibile, mutabile, ma come fosse possibile.

Scrivere è già di suo un teatrino, con tutte le caratteristiche della scena che si apre oltre la

grammatica evidente e, a proposito delle parole, so che certe poche volte si combinano e

altre spesso che-peccato non combinano un bel niente. Un po’ come il Teatro.

L’assoluto certamente non è dato. Resterò coscientemente nel relativismo, come la

percezione insegna. Vorrei dire perciò (però) non di quanto visto, ma del Teatro che vorrei,

di quello che ho creduto forse di vedere, di quello che spero, quello fuori dall’architettura

di progetto, senza la sapienza che diventa strategia; di quello che non si rappresenta, che

schiva la recita, che non è intrattenimento, che non reclama la visione, né del tempo, né

dello spazio scenico. Quello che non mortifica lo sguardo e ogni aspirazione. Che non

pretende, non presume.

Non posso definirlo dentro una tendenza, ma vorrei parlarne invece intorno alla tensione.

Quando il Teatro accade, cade, piove improvvisamente addosso e intorno e dentro a se

stesso, come la fantasia del Purgatorio di Dante o di Calvino a proposito di Visibilità.

Approfitto per scrivere invece qualche appunto intorno a quale penso sia per me

l’occasione del sipario che si apre alla platea o di quando sono spettatore, “a-spettatore",

di cos’è che spero, aspetto, aspetto e spero, senza averne nemmeno mai davvero

capacità o certezza di coscienza.

Ci giro intorno, come in un corteggiamento che mi illude, che mi fa credere di potervi

essere ammesso, mi fa credere di poter credere, perché è questo credere che voglio,

fortemente, tra le luci artificiali del palco o nel buio innaturale di platea. Il patto è stabilito,

me lo ricordo sempre.

Penso al sipario che si apre, all’inizio, come le braccia che ci tengono tra le braccia e che

si chiude, alla fine, come tra le braccia che ci tengono tra le braccia.

Il sipario è la questione, l’emozione, anche quando non c’è.

Anche quando non c’è, mi sembra di vederlo sempre.

Nel I atto di La Tempesta, Prospero dice a Miranda:

“The fringed curtains of thine eye advance

And say what thou seest yond.”

“Spalanca il frangiato sipario dei tuoi occhi e dimmi cosa vedi laggiù”

Lei risponde.

“What is ’t? A spirit?”

“Che cos’è? Uno spirito?”

Ci penso.

Ci penso sempre.

Ci penso sempre in tutte le decisioni che decido mentre sono in scena e anche in quelle

di quando sono seduto lì davanti e un Prospero qualsiasi, dal palco, mi pone la domanda.

Vorrei rispondere come Miranda, sempre.

Sono così quando sono spettatore.

Vorrei chiedere cos’è, senza davvero saperlo, col rischio reale di non capirlo davvero.

Vorrei rispondere anch’io con una domanda e dire: “È uno spirito?”

Ci penso.

Ci penso sempre.

Nel I atto di I Giganti della Montagna, Cotrone dice ai suoi:

“Su, svegli, immaginazione! Non mi vorrete mica diventar ragionevoli!”

Immaginazione!

Lo dice rimproverando la paura, nella bellissima certezza esclamativa di chi sa come

vincerla la paura, di chi sa che vincerla si potrebbe.

Immaginazione! Un esortativo definitivo. Un’esortazione che definisce la questione,

risponde alla domanda.

Prospero e Cotrone, così lontani e così vicini, ed entrambi all’atto I.

Shakespeare e Pirandello, così vicini e così lontani, ed entrambi nell’opera testamento,

nell’ultima scena del loro scrivere, sospesi e magici come quei protagonisti.

Ci penso.

Ci penso sempre.

Tra i pensieri pensati, i tra i pensieri pensanti altri pensieri, la sfida è a quel che sembra, a

quel che capisco, alla velocità con cui posso capire, con cui mi sembra di capire, di

tenermi nella sollecitazione della curiosità, del verosimile, del probabile, del potenziale.

Il Teatro non è conquista, certamente non certezza, non ne ha a che fare, non può darne –

a chi interesserebbe veramente?

Questo è quello che spero quando sono in platea, quello che aspetto; questo è quanto

aspetto e spero quando dal palcoscenico lo vedo che quel buio lì di fronte vuole dirmi che

il vedere non si vede.

Quello è il buio che si sente.

Dal sipario in poi, non si può guardare, si può sentire solamente.

"Sentire” è, insieme, ascolto e sensazione.

Ecco, come quando tra le braccia,

come di fronte a un sipario.

 

Il filo di Arianna, di Enrique Vargas, ph. Stefano Di Cecio.


Vargas: un teatro che cura (Lorenzo Donati)


I versi di Itaca di Konstantinos Kavafis ci attendono sulla soglia del Filo di Arianna di Enrique Vargas, maestro del cosiddetto “teatro sensoriale” che il Funaro ha ospitato a Pistoia nel settembre 2017. Si tratta di uno spettacolo storico, quello che nel 1993 inaugurava il tragitto poetico dell'artista colombiano, un teatro dove si cammina, si esplorano spazi al buio, si percepisce con il tatto perché privati della vista, si annusano profumi che accendono memorie e si scava nella propria interiorità. Il filo di Arianna chiede agli spettatori di entrare per guardare dentro al proprio animo, ma anche di considerare lo spettacolo un viaggio, con l'auspicio di Kavafis: arrivare il più tardi possibile, perché non è nella meta il significato del cammino. Al Funaro si entra e un alchimista ci attende per mettere a punto una «ricetta per un uomo che ancora non si conosce», miscelando percentuali di «timore, valore, curiosità, oblio». Ci sediamo al suo fianco, la nostra polverina è pronta e con una carrucola raggiunge il piano superiore, dove ci attende la seconda stazione. Saliamo le scale e iniziano le tappe di un percorso di formazione, o meglio di un riallineamento con la nostra interiorità: siamo ancora in grado di fare i conti con le nostre emozioni profonde? Procediamo a tentoni incontrando donne che ci prendono per mano, qualcuno ci porge specchi che procurano una visione ribaltata, svelando orditi di fili sul soffitto; ci sediamo al pianoforte con una sposa e il nostro passato riaffiora toccando piccoli oggetti in una valigia; scivoliamo in un cunicolo che ci sprofonda in un una stanza ricolma di semi, poi siamo condotti in giacigli che paiono bare, fino alla visione del mostro, quel Minotauro che s'imprime in uno specchio al posto della nostra immagine riflessa, quell'altro da sé che vorremmo fosse diverso da noi, e invece...

 

In termini socio-antropologici si è discusso molto della differenza del teatro, che gli conferirebbe una nuova occasione proprio nell'attuale società ipermediatizzata. Quello di Vargas è un esempio denso di tale strada. Un teatro come universo artigianale analogico, manifestazione forse residuale di un'arte che ricostruisce le regole del mondo per analogia facendoci esperire diverse condizioni dell'umano: dalla nascita alla paura degli incontri, dal raffronto col diverso alla morte. Ma soprattutto, quella di Vargas è un'arte che guadagna una nuova pregnanza proprio nell'ipervelocità odierna: è una sospensione immersiva, un teatro che mette a margine il “come-se” rappresentativo e così invita a fare i conti col “sé”. Lo spettacolo in definitiva siamo noi, le nostre domande, le decisioni che abbiamo preso nella vita e quelle che prenderemo, la possibilità di spaesamento e di incontro che ci daremo. In questo senso Ilfilo di Arianna inverte l'odierno paradigma cognitivo del surf, della lettura a scorsa veloce, dunque è uno spettacolo che cura, riprendendo i termini del dibattito attorno alla società dalla stanchezza: un'arte cucita su spettatori che cercano la densità in mezzo a forme artistiche allo stato gassoso. 

 

Il cielo non è un fondale, di Deflorian-Tagliarini, ph. Elizabeth Carecchio.


Il cielo (Lorenzo Pavolini)

 

Sarà per via della stagione dei termosifoni, che ci sorprende incantati al loro magico tepore, con lo sguardo fuori dai vetri, ma se devo dire adesso un teatro che mi ha accompagnato lungo tutto l'anno, è quello del Cielo non è un fondale di Deflorian/Tagliarini, dove una consistente sezione finale è affidata ai giudiziosi accoppiamenti di Daria con un simbolo radiante di così borghese e monumentale fattura da apparire insieme il furto impossibile di un senza tetto e l’ultimo baluardo di un nobile spiantato, un termosifone-cuccia di Snoopy di cui si finisce per abitare il culmine inospitale, distesi immobili a fissare il cielo mentre una lama di domande attraversa la spina dorsale, fino a farsi irresistibile corrente, discorso. Ecco, prima ancora che si distenda nel canto di Monica Demuru, mi è sembrato di assistere a una di quelle rarissime occasioni in cui lo svolgersi di una corrente di domande – che dall’altruismo radicale si prosciuga nell’incapacità di frequentare lo scandalo degli altri – riesce a materializzarsi in una relazione pubblica e insieme intima, poetica, capace di tutta la spezzatura a cui può far spazio la scena, quando disconosce il suo inganno e convoca concittadini al cospetto di una compagnia. Perché il modo di essere compagnia di Deflorian/Tagliarini sembra fondato sulla medesima innaturale equidistanza che ci colpisce quando osserviamo la foto scattata da Jack London al popolo degli abissi, sgranato sul prato di Green Park nella Londra del 1902, in un sonno osceno. Un’immagine che si inserisce nella trama dello spettacolo con la precisione di un segnalibro; da spostare fino ai giorni nostri, per poi rileggere. Così come le canzoni che fanno da struttura portante, accensione e bacino di raccolta, punto di fuga e d’implosione a questo spettacolo come alle giornate di molti di noi, arresi al suo formato psicotropo vincente e insuperabile, tanto da invocare “ancora, ancora, bis!”.

 

Insomma mi sento di fiancheggiare per quel che vale questo modo di essere compagnia a teatro, che mi appare adeguato a una relazione paritaria e adulta tra chi assiste e chi propone, a fronte della maniera di quella regia direttoriale, che dispone ogni cosa in un abecedario personale, innalzando l’artista regista a personaggio vertice della società dello spettacolo, condannandolo nel migliore dei casi a un’auto-antologia di gesti mirabili (l’esempio più riuscito per me quest’anno sono le Bestie di scena di Emma Dante) e corpi nudi che si compongono in un fregio con la profondità illusionistica di bassorilievo. 

 

[nessuno me lo ha chiesto ma se dovessi dire un libro solo che nell’anno che si conclude avrei voluto continuare a leggere con lo stesso gusto con cui canticchio ancora nella testa Il cielo non è un fondale, direi senza indugio, Giorni selvaggi, una vita sulle onde di William Finnegan]

 

Euphoria, di Silvia Rampelli, ph. Maurizio Felicetti.


Così vicino, così lontano (Attilio Scarpellini)

 

Era molto difficile, nel settembre di quest’anno, pensare che Silvia Rampelli, presentando la versione definitiva di Euphoria al Teatro India di Roma, avrebbe potuto far meglio di quanto aveva fatto con lo studio che “Habillé d’eau” aveva portato sul palcoscenico di Castiglioncello nemmeno tre mesi prima: quei trenta minuti di una folgorante partitura drammaturgica per soli corpi, dove tutto, dal suono alla luce, veniva incorporato in un atto letterale, e per questo misterioso, aveva bruscamente spostato l’orologio dello spettatore nella temporalità indecidibile dei sogni che, come dice Pavel Florenskij, precipitano verso il presente. Sospese nella fragile perfezione di un’epifania, le immagini di Alessandra Cristiani, Eleonora Chiocchini e Valerio Sirna, sembravano darsi una volta per tutte nella loro irripetibile, perché umanissima, trasfigurazione: non si entra due volte nello stesso fiume, quando il teatro è un’esperienza. Ma lo studio visto a Castiglioncello, riportato nella prima parte dello spettacolo andato in scena a India, è diventato una miniatura, la scrittura minuta di un’inaspettata rivelazione dello spazio – è bastato che con il gesto di chi scioglie un nodo Alessandra Cristiani abbattesse un sipario perché davanti agli spettatori si spalancasse, con tutto il suo respiro, l’aperto, quell’altrove nascosto e a un tempo generato dal ricamo ossessivo dei gesti e dei movimenti dei tre performer. E in questa ferita aperta, quasi solare, di quello che José Bergamin chiamava lo “spazio temporalizzato” del teatro, ognuna delle tre figure tornava a iscriversi, in bilico tra la propria parabola singolare e una generale perdita di confini: le luci di Gianni Staropoli scavavano una strada, così come prima avevano scolpito corpi e volti, nella musica di Tiago Felicetti si mescolavano voci di bambini e forse remoti rintocchi di campane (questo non è che un ricordo), l’intera grafia della scena debordava e si riversava dalla propria economia letterale nell’evocazione euforica di quello che non c’è e che non si vede.

 

Per un momento, allora, non siamo più stati a teatro, nei limiti di un luogo e di un genere, proprio come in altri momenti ci capita di non essere più in altri luoghi che amiamo immensamente, come la letteratura o la pittura, talvolta il cinema, o la chiesa e il tempio, o qualunque altro spazio recintato dalla passione degli uomini per la bellezza, ma in quell’improvviso trasalire dell’intimità che illumina certi incontri dove tra me e te, tra noi e gli altri, le barriere sono di colpo cadute. Strano che questo avvenisse con corpi così dissimili dai nostri, in condizioni che sono e restano quelle della visione e della sua alterità, in una drammaturgia dettata da un’espressività tanto rigorosa quanto intraducibile. Ma sul palcoscenico di Euphoria il corpo parlava all’anima nella lingua perduta della beatitudine (che spingeva i Padri della Chiesa a pensare che i corpi gloriosi si muovessero nello spazio danzando, “senza scopo e senza necessità”). E nel contempo, la sua bellezza non aveva nulla di ineffabile poiché portava tatuati su di sé tutti i segni e le ferite della mortalità: nel passo breve, gauche et veule, di Valerio Sirna, che si rannicchiava in una struggente camminata chapliniana, nel corpo espanso e metamorfico di Alessandra Cristiani (sirena, insetto, leda biomorfa arpiana o brancusiana, che con le sue linee nude aveva disegnato, all’inizio dello spettacolo, una perfetta rimembranza del violon d’Ingres di Man Ray), nelle spezzature brusche e volatili dei movimenti di Eleonora Chiocchini che, a un certo punto, scaturivano in un sorprendente raptus danzato sigillato da una caduta così plastica dall’essere senza rumore. Otra hermosura, un’altra bellezza pervadeva i volti, ora vuoti, ora spettrali, ora dolcemente sospesi, dei tre danzatori di Silvia Rampelli così vicini e così lontani. 

 

Danio Manfredini

 

Grazie (a) Danio (Piergiorgio Giacchè)

 

Lo spettacolo dell’anno oppure un solo spettacolo all’anno?

Non è un gioco di parole ma purtroppo uno scherzo del destino, alias mercato. Danio Manfredini non ha fortuna con il “vendere” ma continua a essere il più generoso nel “regalare”. Sarà per questo che – sotto le feste – richiesto di un parere o di un ricordo circa i migliori spettacoli dell’anno, mi viene per primo il nome di Luciano che poi è il titolo dell’ultima opera di Danio, pescata a Bologna in una rara replica di un’unica sera. Qualche anteprima c’era stata, mi dicono, ma uno spettacolo di Manfredini ha bisogno di una lunga gestazione e intensa rielaborazione. Erano queste le condizioni anzi le ambizioni di tutto il teatro che una volta era di ricerca… ma poi è diventato di sperimentazione e infine si è liquefatto in diffusa e diluita performatività. In altre parole. il “nuovo” è avanzato troppo per lasciare spazio e dare tempo a Danio e al suo metodo e perfino al suo mondo, e però, se si è incontrato Luciano la sera giusta, si riconosce che i tempi lunghi e i mondi liberi sono ancora i segni migliori che il teatro di questi decenni ha saputo dare. E che Danio Manfredini – insieme a davvero pochi altri – sa ancora difendere, anzi curare come una ostinata Vocazione, che poi è il titolo del suo spettacolo precedente. 

A proposito di quel “vecchio” spettacolo mi viene in mente una stroncatura di tale Tommaso Chimenti, uno che predica la critica liberatrice ma razzola nel giornalismo quotidiano: il fatto è che fra le righe di quell’articolaccio c’erano cose vere di cui l’autore non aveva capito nulla. È vero ad esempio che Danio Manfredini va considerato un “artista”, molto prima di guardarlo come attore; non è però vero che l’artista va in gloria perché di questi tempi dell’arte non frega più niente a nessuno, e accade per avventura ma è anche una sventura quando l’arte ti tocca.

 

Ebbene, Danio Manfredini è davvero “toccato” in tutti i sensi e con molti talenti: sa cantare e danzare e disegnare e scrivere prima ancora di scendere in scena a recitare. Come succede agli artisti, Danio a teatro dà appena i resti, ovvero riporta e fa ac-cadere in scena i segni di altre esperienze e i sensi di alte sensibilità, che poi – proprio come rimprovera il Chimenti – sono sempre le stesse… Ma come e perché dovrebbero essere diverse soltanto i critici lo sanno, perché gli artisti il loro mondo se lo vivono e il loro modo se lo portano addosso come una gioiosa condanna. E Danio Manfredini artista “lo nacque” e magari se ne dispiace, visto che è un termine e un ruolo da sempre in bilico fra la riconoscenza e la marginalità, fra la A maiuscola delle antologie e la a minuscola delle canzoni di Jannacci. Ecco, Manfredini è un vero artista alla milanese, impanato e fritto in mezzo al misto di degenti psichiatrici e omosessuali poveri e migranti dispersi. In quell’ambiente tutto e troppo umano, Danio ci sta “come un pesce fuor d’acqua” e però è in grado di nuotare e pescare le strambe saggezze, le vacanze mentali, le disperate voglie e le sconsolate vite che sono la sua ispirazione e la sua respirazione scenica. L’effetto è quello di sconsolata leggerezza e di divertita amarezza per la loro vita e per la nostra vita, sempre che vita ci sia.

 

Così Luciano, appena si apre il sipario, ci sbatte in faccia la prima battuta che insieme ride e deride la sua e la nostra esistenza: “sembra che la vita adesso sia scappata via da tutti”. E questa Fuga della Vita, da inseguire o da mendicare ma infine da accettare, è il motore anti-ironico che Danio ha appreso dai suoi incontri e dai suoi “personaggi”. Fra i tanti, Luciano è un lungo degente e un vecchio amico, che lo conosce talmente bene da fare di Manfredini un personaggio e rimetterlo al suo posto: “te fai l’operatore, suoni, canti, reciti, dipingi. Sei un artistone. Te ci capisci. Te ci accudisci”.

È dunque autobiografico questo spettacolo, ma di Luciano e non di Danio. Di un “Luciano” di cui si invidia la poesia della libertà (e viceversa) e infine il sogno di un’altra vita che, se si è matti, si può fingere di vivere meglio che a teatro. Sul finale Luciano – nel corridoio dello psichiatrico, dopo aver attraversato parchi e panchine e cessi e cinema e discoteche – dichiara di non chiamarsi più così. Adesso – dice lui - “ si chiama Fra Castoro. Frequenta l’università Cattolica con ventinove di media e studia sempre e non ha tempo neanche per fumare…”.

E c’è da credergli!

 

Le parole lievi, di Armando Punzo, Compagnia della Fortezza, ph. Stefano Vaja.


Non meno di questo(Armando Punzo) 

 

Lo spettacolo dell’anno dovrebbe essere lo spettacolo del secolo se non del millennio. C’è uno stare coraggioso dell’artista sul limitare del precipizio e del cielo con davanti gli occhi raggianti di chi vede e sente con tutti i sensi aperti la sua visione galoppante, e perché sia toccato a lui questo miracolo non lo sa, ma rischia e va avanti senza fermarsi, pensando che ci sia qualcosa di equivalente dei momenti alti del teatro nell’esperienza della vita. Attimi senza limiti, momenti luminosi, liberi, vivi, che attendono di manifestarsi e a cui bisogna tendere. Sembra non si possa più avere coraggio, perché è contro di noi che dovremmo usarlo. Sembra non essere più necessario per vivere la vita che ci è data. E non si tratta di voglia di eroismo, di spinta narcisistica in avanti di un sé maggiorato da contrapporre a un sé ordinario di basso profilo. È una forza attiva che ha in sé la levità di una rivolta, non fulminea, immediata, ora e qui per me, ma di lunga durata, calma, convinta, profonda, una rivolta efficace che ribalta l’esistenza e concede di vedere cieli azzurri in luogo di bui orizzonti umani. 

Molte volte il teatro dimentica questo coraggio e si assiste allora alla replica amplificata di una vita opaca.

 

Artaud nel manicomio di Rodez. 


Lontano (Rossella Menna)

 

“Mentre la vita della società pulsava, un’altra – in parallelo – le corrispondeva sulle montagne. Instancabili e solitari, Apollo e Artemis, e anche Dioniso, continuavano a cacciare. L’energia che sprigionavano i loro gesti era il sottinteso necessario della vita della città. Si direbbe che la vita della società non abbia mai sentito di essere sufficientemente viva, e forse reale, senza quella vita parallela e superflua, vagante, degli dèi cacciatori perduti nei boschi. Come l’orazione del monaco, la corsa silenziosa degli dèi cacciatori teneva in piedi le mura che cingevano la città” (R. Calasso, Il Cacciatore Celeste, Adeplhi 2016). Sulla collina alle spalle del mio paese d’origine a un certo punto è arrivata una monaca eremita. La comunità l’ha istintivamente accolta e amata, come se la sua presenza silenziosa, superflua, inutile, incidesse in qualche modo sull’esistenza di tutti. Gli dèi che cacciano sulle montagne, il ribelle che passa al bosco, il funambulo che tende un filo tra le Torri Gemelle, Artaud che scrive dal manicomio di Rodez, Copeau e i suoi allievi in ritiro in Borgogna, il danzatore che cerca una certa qualità di movimento in sala prove, lo scrittore che passeggia, il musicista che si esercita dodici ore al giorno – sono patrimonio collettivo perché la radicalità del loro percorso è l’intelaiatura del nostro coraggio. Dèi, ribelli, eremiti e folli, gli artisti più puri, ciascuno esule della vita a modo suo, aprono un varco nella realtà, ci indicano una direzione viva, ci muovono perché muovono se stessi. Chiederemmo mai a un eremita di fare catechismo nelle scuole della città per essere un eremita più utile? Perché al teatro e ai nostri artisti, invece, facciamo proposte sempre più oscene, e non ce ne accorgiamo neppure.

 

Il Poeta Albero, disegno di Giuliano Scabia.


Il racconto del teatro (Giuliano Scabia)

 

Un testo teatrale si può anche raccontarlo. E che cos’è raccontare? È trovare la strada per entrare nell’immaginario di un altro e stare lì in quel bosco a farsi vento. Sì, perché se il racconto funziona fa suonare le foglie interne del corpo e della mente – e le rallegra. Lo sapevano bene i narratori antichi e quei poeti che giravano per i boschi a parlare con le innamorate, magari di notte con poco lume. 

E anche le bestie – soprattutto i cani e gli uccelli – sono contente a sentirsi raccontare. Anzi, tutti quei cinguettii di uccelli alla mattina e alla sera in giro per i boschi non sono che racconti per darsi coraggio, con l’augurio del buon giorno e della buona notte.

Anche per questo mi preoccupano un po’ gli uomini troppo dentro le auto e le macchine volanti: a stare in quelle cassette ho paura che gli si anchilosi la gola, la voce e il racconto – e che alla fine gli restino solo dei gran dentoni al posto dei baci.

negli speciali in home: 
Non in Box
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Una stagione teatrale a più voci
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Le sculture multi-touch di Bernini e la relatività di Einstein

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Swipe, touch, drag, pinch-open su un display per orientarmi nei vicoli del rione Pigna e in breve tempo raggiungo piazza della Minerva. Qui si erge un obelisco egizio sorretto da un elefante scolpito nel 1667 su disegno di Gian Lorenzo Bernini. Un turista si arrampica sul monumento per toccare con una mano le terga dell’animale. Un gesto propiziatorio? Toccare parti anatomiche relative alla sfera sessuale di animali che sono simboli di forza pare sia di buon augurio, ma l’elefante che regge l’obelisco non ha l’organo riproduttivo in evidenza. La parte per il tutto? Che il turista sia un esperto di retorica in vena di applicare dal vero una figura di quest’arte?

Chissà cosa ne avrebbe pensato l’autore del monumento che di retorica se ne intendeva assai. Tutti ricorderanno, per averlo visto dal vero o riprodotto nei libri di testo del liceo, il gruppo marmoreo Apollo e Dafne scolpito da Bernini. La figura di Dafne che si slancia in alto mutando in pianta di alloro trattenuta a terra dalle radici, vinta ma orgogliosa, è un’immagine retorica dell’inalberarsi, spiega Anna Coliva in uno dei saggi del catalogo della mostra dedicata a Bernini in corso a Roma presso la Galleria Borghese (fino al 4 febbraio 2018), che nel frattempo ho raggiunto spostandomi con i mezzi pubblici. 


Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina, 1621-1622. Roma, Galleria Borghese. Copyright Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo – Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622-1625. Roma, Galleria Borghese. Copyright Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.


La mostra valorizza la Galleria Borghese come teatro delle sculture di Bernini alcune delle quali concepite appositamente per dare “figura d’immaginazione” alle stanze su commissione del cardinale Scipione Borghese. Tra queste anche il Ratto di Proserpina dove la mano di Plutone che tocca e preme non lo fa per scaramanzia come quella del turista, ma per rapire la figlia di Cerere. Le dita di Plutone affondano nella carne della fanciulla con una verosimiglianza da far accapponare la pelle. Osservo con attenzione. Il dettaglio visivo trasmette una sensazione tattile se pur non stia toccando la scultura, cosa assolutamente proibita nei musei. Vedere e non toccare, come si dice, ma in questo caso tocco vedendo, cosa che è nei sogni di molti maschi italiani, almeno a credere agli stereotipi. 

Com’è possibile?

Secondo la teoria dei neuroni-specchio, un gesto o anche la sua rappresentazione può essere riprodotta dalla nostra mente insieme alle relative sensazioni, ma a suscitare questa sensazione concorre anche “l’effetto dell’immagine lontana”. L’occhio può percepire visivamente a distanza le proprietà tattili di una scultura saggiandone il volume quando il suo potenziale plastico si riassume nella veduta principale come “impressione unitaria di superficie”. Il singolare tipo di percezione è stato studiato nel contesto della pratica e della teoria della scultura. Lo scultore e teorico delle arti visive Adolf von Hildebrand scrive nel 1893: “Questa doppia percezione [tattile e visiva] di uno stesso fenomeno non si deve necessariamente produrre con due organi separati, il corpo che tasta, l’occhio che vede, ma si trova già riunita nell’occhio” (Il problema della forma, Palermo, 2001, p.36). 

 

Nel Ratto di Proserpina, esposto alla Galleria Borghese insieme ad altre ragguardevoli sculture ivi raccolte, Bernini trasforma il marmo in carne viva innalzando in modo illusorio il senso di presenza e partecipazione al ratto della figlia di Cerere. Una realtà virtuale ante litteram, si potrebbe quasi dire. Per innalzare il senso di presenza negli ambienti immersivi di realtà virtuale infatti si trasferiscono al soggetto percipiente sensazioni tattili oltre che visive utilizzando dei guanti digitali. Non disponendo di tale tecnologia Bernini usa una tecnica diversa: scolpisce e leviga il marmo. Questa percezione non ha luogo in natura ma nel mondo artificiale delle forme da lui scolpite.

Mi allontano dalla scultura per ottenere la visione d’insieme consigliata da Hildebrand e cogliere appieno i cosiddetti valori tattili dell’opera, poi mi avvicino di nuovo per osservare con attenzione il gesto di Plutone che secondo la teoria dei neuroni-specchio suscita la stessa impressione, ma per ragioni assolutamente diverse. 

 

Giunto a poche decine di centimetri dalla scultura impugno il mio smartphone e attivo la fotocamera. Per ingrandire il dettaglio delle dita che affondano nella carne di Proserpina allontano indice e pollice e poi li avvicino un po’ per ridimensionare. Qui mi blocco fulminato dalla constatazione che i gesti pinch e stretch dello zoom m’impongono di essere presente nell’atto della visione attraverso il tatto: il gesto annulla la distanza e mi porta dentro l’immagine mentre questa s’ingrandisce innalzando ulteriormente il livello di presenza e partecipazione al rapimento della fanciulla. Le mie dita scorrono sul display mentre quelle di Plutone affondano nella carne di Proserpina scatenando un’emozione inaspettata. Le emozioni suscitate dal senso della prossimità (il tatto), sono più forti di quelle suscitate dal senso della distanza (la vista), che pur le scatena. Si tratta infatti di un’esperienza tattile indiretta, che passa attraverso il visivo e i dispositivi che lo attivano (quello plastico dell’opera scultorea e quello digitale della tecnologia multi-touch), scatenando un’emozione che mi ha preso alla sprovvista. 

 

Mi siedo su una sedia lasciata temporaneamente libera dai custodi per riposarmi e raccogliere le idee. 

La mostra ha il pregio di dare risalto storico-artistico all’opera di Bernini, ma anche di farci riflettere sul fatto che il tattile, mediato dal visivo, ha un peso importante nelle odierne strategie di comunicazione e seduzione che sfruttano una risposta diretta ed emotiva, non intellettuale. La tecnica ci ha calati in un mondo di emozioni e desideri, non di pensieri, e questo dovrebbe farci riflettere sul vuoto lasciato dal pensiero critico, che è stato appunto riempito da emozioni pronte all’uso, per così dire di facile consumo. 

Non sono però queste le emozioni che le opere di Bernini suscitavano nel cuore dello spettatore seicentesco. La Transverberazione di Santa Teresa d’Avila in Santa Maria della Vittoria e l’Estasi dellaBeata Ludovica Albertoni in San Francesco a Ripa costituiscono un superbo esempio del teatro barocco degli affetti allestito da Bernini. Nelle sue sculture il tattile talvolta trionfa anche con una sensualità pagana convertita attraverso un dispositivo retorico in sentimento amoroso neoplatonico. Per esempio nel gruppo scultoreo Apollo e Dafne, corredato da un distico, intorno al quale sto girando ammirando stupefatto la maestria con la quale Bernini rende la carne, i capelli che mutano in foglie di alloro e anche l’aria che le figure sembrano spostare fuggendo l’una dall’altra. 

 

Gian Lorenzo Bernini, Transverberazione di Santa Teresa d’Avila, 1647-1652. Roma, Santa Maria della Vittoria – Gian Lorenzo Bernini, Estasi della beata Ludovica Albertoni, 1674. Roma, San Francesco a Ripa.


Di stanza in stanza le sculture si susseguono, una più bella dell’altra. Nella sala d’ingresso una stupefacente quanto sensuale Verità svelata dal tempo rapprende l’aria con un incredibile movimento ascensionale del velo, catturando anche una supposta luce che cade in diagonale dall’alto. Una scultura atmosferica che potrebbe benissimo fare a gara con quelle di Medardo Rosso. Che dire poi del Cristo crocifisso dell’Escorial in bronzo dorato esposto nell’ultima sala caratterizzato da un modellato insuperabile? 

 

Gian Lorenzo Bernini, Cristo crocifisso, 1654-1656. Madrid, San Lorenzo de El Escorial, Real Monasterio.


Oltre ad essere uno scultore, Bernini è anche architetto e scenografo. Il colonnato ellittico della basilica di San Pietro, che chiama a raccolta per unire in un abbraccio, è una straordinaria invenzione insieme architettonica e scenografica collegata all’idea che sia possibile tenere tutto insieme in una sola forma. Il tradurre tutto in un’immagine, in uno schema, in un diagramma è l’ideale culturale del tempo. Il Teatro del Mondo di Athanasius Kircher ne costituiva un formidabile esempio. Allestito dal padre gesuita presso il palazzo dei Gesuiti o Collegio Romano era costituito da una raccolta di statue antiche, strumenti matematici, coccodrilli, reperti naturalistici, strumenti ottici e musicali, monete, lucerne, prodigi naturali e una biblioteca, una raccolta eterogenea che rispecchiava l’aspirazione gesuitica alla conoscenza totale del mondo. Il palazzo dei Gesuiti, ora sede del Liceo Classico Visconti, conserva una piccola raccolta del disperso Museo Kircheriano. Si può visitare il giovedì dalle ore 14:30 su prenotazione (Wunder Musaeum c/o Liceo Classico Statale Ennio Quirino Visconti). 

 

Frontespizio del volume Romani Colegii Societatis Jesu Musaeum Celeberribum, pubblicato nel 1678 da Giorgio de Sepi. L’immagine mostra una veduta del Museo del Collegio Romano ideato da Athanasius Kircher – Sfera armillare della fine del XVII secolo. Roma, Wunder Musaeum c/o Liceo Classico Statale Visconti.


Ho fissato un appuntamento per la visita con la professoressa Paola Vasconi che ha coordinato il progetto curandone la parte scientifica. Sono in perfetto orario. Abbandono la Galleria Borghese e in mezz’ora raggiungo il palazzo dei Gesuiti. 

Tra i reperti del Wunder Musaeum figura una sfera armillare della fine del XVII secolo, ora in prestito al MAXXI per la mostra Gravity. Immaginare l’universo dopo Einstein (fino al 29 aprile 2018). La sfera armillare è composta da un meccanismo per mezzo del quale si possono invertire le posizioni di Terra e Sole così da ottenere un modello tolemaico dell’universo reversibile in copernicano. La mostra al MAXXI include opere degli artisti Marcel Duchamp, Fischli & Weiss, Laurent Grasso, Allora & Calzadilla, Tomás Saraceno, oggetti tecnologici, modelli astronomici, video esplicativi e installazioni interattive. Gravity porta l’attenzione sulla crisi attraverso la quale si giunge a un cambio di paradigma e quindi su una fase cruciale per lo sviluppo del pensiero scientifico dominata dall’incertezza. La sfera armillare con paradigma reversibile s’inserisce perciò perfettamente in questa mostra testimoniando un’età, quella di Kircher, nel corso della quale la scienza si mescola ambiguamente all’arte e alla meraviglia. 

 

Gravity. Immaginare l’universo dopo Einstein. Tomás Saraceno, Echoes of the Arachnid Orchestra with Cosmic Dust, 2017. Dettaglio. Il lavorio di un ragno, la Nephila senegalensis che tesse una ragnatela, è amplificato da microfoni capaci di captare le vibrazioni e di restituirle in suoni; allo stesso tempo lo spostamento dell’aria causato dal suono degli altoparlanti stimola gli spostamenti del ragno. Realizzare ambienti biotecnologici pare sia diventato una tendenza dell’arte contemporanea. L’ambiente realizzato a Münster da Pierre Huyghe per la manifestazione Skulptur Projekte 2017 è il più sensazionale. 


Perché questa visita alla raccolta kircheriana dopo quella alla Galleria Borghese? Kircher e Bernini collaborarono alla realizzazione di due opere monumentali: la Fontana dei Quattro Fiumi in piazza Navona e l’Obelisco della Minerva eretto nella piazza omonima, dove mi trovavo qualche ora fa. 

A questo punto, visto che ho ancora qualche ora di luce, perché non godermi per l’ennesima volta la visione dei due gruppi scultorei avvitati nell’aria di Roma?

Mentre m’incammino verso piazza Navona raccolgo le idee per preparami alla “lettura”, anzi a una ri-lettura delle due opere e godere al meglio la loro visione, stavolta guardando con intelligenza invece che guardando e basta. I monumenti includono due obelischi con geroglifici tradotti da Kircher. I suoi tentativi di decifrazione si rivelarono fallimentari in quanto compromessi dall’errore di credere che il geroglifico avesse un significato simbolico anziché linguistico (Giuliano Mori, I geroglifici e la croce. Athanasius Kircher tra Egitto e Roma, Scuola Normale Superiore, Pisa, 2016). Fu in relazione a questo fraintendimento che Bernini venne edotto da Kircher sul supposto significato simbolico-allegorico dei geroglifici incisi sui due obelischi.

 

Gian Lorenzo Bernini, Fontana dei Quattro Fiumi, 1649-1650, modello in legno, terracotta e cera. Bologna, Accademia di Belle Arti - Gian Lorenzo Bernini, Fontana dei Quattro Fiumi, 1648-1651. Veduta parziale. Roma, piazza Navona.


Nel frattempo ho raggiunto piazza Navona, affollata come sempre. Sono pronto per goderne appieno la visione. Il Rio della Plata, uno dei quattro fiumi della fontana monumentale, è rappresentato in forma di figura colossale con la mano sinistra protesa, secondo i maligni, per difendersi dal crollo della prospicente chiesa di Sant’Agnese in Agone progettata da Francesco Borromini, formidabile competitor di Bernini nell’ambiente artistico della Roma barocca. La fontana monumentale può essere osservata con piacere tra gli spruzzi d’acqua e interpretata in senso letterale, vale a dire figurativo. Può altresì essere letta come allegoria delle quattro parti del mondo convergenti verso la cuspide dell’obelisco, da Kircher assimilata al punto geometrico e questo all’Uno, fonte e origine di tutti i numeri, e così via lungo una catena di associazioni simboliche, che includono anche l’interpretazione dei segni geroglifici incisi sull’obelisco: frasi fatte che si ripetono sui lati dell’obelisco, formule stereotipate celebrative che sappiamo avere un valore fonetico-sillabico che il padre gesuita però ignorava.

Qui viene il bello.

Secondo la semiologa Caterina Marrone (I geroglifici fantastici di Athanasius Kircher, Viterbo, 2002), un segno, anche linguistico, può essere trasformato in un simbolo se motivato, nel caso di Kircher nei modi più stravaganti, come nel caso della sua interpretazione dei geroglifici incisi sui due obelischi. Nel sostenere questa tesi la docente di Filosofia del Linguaggio richiama gli studi di Saussure sull’arbitrarietà del segno linguistico. La motivazione consiste nel trovare un legame naturale tra il significante e il significato: “Il simbolo della giustizia, la bilancia, non potrebbe essere sostituito da qualsiasi altra cosa, per esempio da un carro” (Ferdinand de Saussure, Corso di Linguistica Generale, 1967, p.87). La semiologa sostiene dunque che motivando i segni Kircher opera una loro metamorfosi in simboli, in costellazioni polisemiche dove i significati si concatenano in una serie di rimandi associativi. Talvolta li muta anche in immagini figurative come dimostra il caso delle lettere alfabetiche lette da Kircher come figure. Per esempio, la Aè interpretata come la stilizzazione di un Ibis con le zampe divaricate e il becco che le interseca. 

 

L’approccio kircheriano alle immagini si rivela sorprendentemente attuale non solo per il contributo dato alla storia del pensare per immagini (Marrone scrive addirittura di “shock gestaltico”, p.115), ma anche e diversamente per aver messo in luce una cangianza dell’immagine. Siamo infatti continuamente a contatto con immagini cangianti, immagini che possono mutare in simboli e segni, anche linguistici. Per esempio, osservando l’immagine della mela di Apple a cosa pensiamo? Nella maggior parte dei casi alla nota azienda di prodotti tecnologici anziché al frutto. Il valore logografico dell’immagine prevale non solo su quello figurativo ma anche su quello allegorico (il frutto proibito della conoscenza) che sembra essere all’origine della sua adozione come logo di Apple. Il senso dell’immagine oscilla quindi tra un’interpretazione letterale (mela), una allegorica (frutto proibito della conoscenza) e una logografica (“Apple”, il nome dell’azienda). Inoltre, la parola “morso” in lingua inglese “bite”, essendo omofona al termine “byte” del linguaggio informatico, introduce un gioco fonetico. 

Giochiamo frequentemente con le immagini in questo modo rendendole cangianti. Kircher lo faceva in modo sistematico. 

Mi allontano da piazza Navona per tornare al monumento eretto in piazza della Minerva. 

 

Il papa Alessandro VII Chigi incaricò Bernini di progettare un basamento per l’obelisco ritrovato nel giardino dei Padri Domenicani della chiesa di Santa Maria sopra Minerva suggerendo di farlo poggiare sulla groppa di un elefante Obeliscoforo, così come figura in una xilografia inserita nel volume Hypnerotomachia Poliphili pubblicato a Venezia nel 1499. L’elefante della xilografia è un’allegoria della forza della mente che regge la Sapienza rappresentata dall’obelisco. L’elefante scolpito da Ercole Ferrata su disegno di Bernini è perciò un simbolo, come si evince dall’epigrafe posta alla base del monumento, ma al tempo stesso è anche una figura di immediata e larga comprensione attraverso la quale il monumento comunica lo sforzo che la base deve sostenere per reggere l’obelisco, trasmettendo a distanza una sensazione muscolare, così come il Ratto di Proserpina trasmetteva a distanza una sensazione tattile. Per mezzo dell’artificio scultoreo il carico concettuale o meglio dire “concettista” di quest’opera lambiccata, carica di allegorie e analogie stravaganti e ricercate si scarica sul piano percettivo. I processi percettivi, con sensazioni ed emozioni al seguito, incrociano così i concetti suscitando emozioni intelligenti, in grado cioè di comunicare e trattare con i processi di astrazione. La moneta di questo scambio è l’immagine cangiante pronta a mutare in simbolo o segno, anche linguistico, che il Seicento colto e raffinato di Athanasius Kircher e di Gian Lorenzo Bernini mette a profitto. 

 

Potremmo farlo anche noi, mi viene improvvisamente da pensare tornando con la mente alle considerazioni sulla tecnica che ci ha calati in un mondo di emozioni pronte all’uso e di facile consumo, sulle odierne strategie di comunicazione e seduzione che sfruttano una risposta emotiva, non intellettuale. Perché non usare la stessa moneta per riscattare l’emozione e renderla intelligente? Lo si potrebbe fare attraverso un’educazione all’immagine cangiante da effettuare in ogni ordine di scuola, non solo artistica, data la sua reversibilità in simbolo o segno, anche linguistico. 

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Frankenstein 200, 44 e il sesso

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Se l’originale compie oggi 200 anni, la sua versione comica ne fa 44. Partorito nella Villa Diodati a Ginevra nel 1816 nel corso di un consesso letterario da alcuni personaggi oggi celebri, l’originale di Mary Wollstonecraft Godwin in Shelley s’intitola Frankenstein ovvero Il Prometeo moderno. Il suo discendente, più semplicemente, Frankenstein junior. La leggenda vuole che Gene Wilder abbia parlato dell’idea del film a Mel Brooks sul set di Mezzogiorno e mezzo di fuoco e abbia ricevuto un primo secco diniego: “Un altro ancora! Ma abbiamo già avuto il figlio di, il cugino di, il cognato di. Non c’è bisogno di un altro Frankenstein!”. Wilder propose il nipote del creatore del mostro, un medico che vive a New York, e che si vergogna del nonno. Non si sa cosa scattò nella mente di Brooks, forse la questione della vergogna, forse altro, fatto sta che esclamò: “Ma è divertente, si può fare!”. La Creatura di Mary Shelley è figlia della scienza settecentesca e della ricerca profana dell’Assoluto. La scrittrice inglese presenta ai suoi lettori un mostro, in un romanzo con cui inizierebbe, a detta di un illustre anglista, il genere fantascientifico. Mel Brooks e Gene Wilder invece propongono qualcosa di diverso: la Creatura come archetipo del Capitalista. Nella scena finale l’ex-mostro ora acquistato al consorzio umano è nel letto, indossa un paio di occhialini da lettura e ha aperto davanti a sé una copia del “Wall Street Journal”; la moglie, l’ex fidanzata del dott. Frankenstein neurologo, si prepara a entrare nel talamo dopo una cena mondana con suocero e famiglia. Sono sposati e lui appartiene oramai alla lobby newyorkese.

Anni fa Franco Moretti in un suo saggio propose il mostro-senza-nome di Mary Shelley quale immagine del Proletariato indomito in lotta con il nascente Capitalismo, prodotto abnorme dei nuovi sistemi di produzione che schiavizzano le masse contadine espulse dalle campagne e le aggiogano alla tecnologia del Capitale.

 

I due burloni di Hollywood mettono in scena il rovesciamento perfetto: l’ex proletario, il reietto, diventato il Padrone: un finanziere. Se ne saranno accorti? In realtà erano partiti per rifare in chiave comica l’intera progenie dei film scaturiti dal Frankenstein del 1931 interpretato dal magnifico Boris Karloff, al secolo William Henry Pratt, e tutti i suoi succedanei: La moglie di Frankenstein (1935), Il figlio di Frankenstein (1939) con Bela Lugosi, fino a La casa di Frankenstein (1944) con Glenn Strange nei panni dell’orribile creatura e Boris Karloff finalmente sollevato dal ruolo abituale di Mostro. Come ha sottolineato la critica, Frankenstein Junior riprende varie scene proprio dal secondo film della serie, e la recitazione di Gene Wilder risente dalla visione di tutte quelle opere cinematografiche: puro espressionismo tedesco pre-Hitler. Persino le scenografie usate dai due autori sono le stesse utilizzate dal regista del film del 1935, James Whale, conservate in un garage per quarant’anni. Per quanto Mel Brooks, interrogato dai critici, abbia negato di aver voluto fare una parodia di quei vecchi film dell’orrore, a tutti gli effetti è di questo che si tratta. L’etimo del termine “parodia” è: “vicino al canto”. In origine la parodia derivava dalla rapsodia, dalla poesia, e ne rovesciava il senso: dal serio al comico. Tutto il cinema di Brooks è fondato sul rifacimento e soprattutto sul rovesciamento. Si tratta di cinema sul cinema. Per questo piace: fa ridere. E fa ridere perché abbassa il modello cui s’ispira.

La seriosa storia di Mary Shelley diventa un film dell’orrore, e questo è già una variazione del modello di partenza; Brooks la trasforma a sua volta in parodia dell’orrore. Come ha fatto? Un’intera generazione di spettatori ha imparato a memoria le battute che Gene Wilder e Marty Feldman pronunciano nel corso del film; la loro origine si trova nell’umorismo ebraico, nella Freedonia hollywoodiana. Tuttavia l’umorismo ebraico non è sufficiente a spiegare il tema sottotraccia del film. Quello che fa scattare il Witz, il motto di spirito, è infatti il sesso. Certo, dietro alla parodia di Frankenstein Junior c’è il dottor Freud, seppur orecchiato in articoli e discorsi ascoltati nella mecca del cinema. Non è infatti necessario aver letto Freud per essere freudiani, basta essere ebrei e spiritosi.

Il sesso comincia con la scena sul binario del treno che porta il neurologo in Transilvania per raggiungere il Castello del nonno e riceverne l’eredità. Friederick Frankenstein (Gene Wilder) e la fidanzata Elizabeth (Madeline Kahn) devono congedarsi. Lui tenta di baciarla, ma lei con varie scuse lo blocca. Elizabeth, che appare carica di eros e apparentemente pudibonda, gatta morta, accetta il bacio con il gomito: comica allusione. All’arrivo nella Transilvania Station appare Inga (Teri Garr), oltre allo spassoso Igor (Martin Feldman) vero motore di battute e scherzi del film, lui stesso scherzo di natura. Il viaggio sul carro di fieno del dottore e di Inga è pieno di allusioni sessuali, sino a quella in cui il dottor Frankenstein allude ai due battenti del portone, mentre aiuta Inga a scendere dal carro (“Mai visti due così”), e lei ritiene l’osservazione riferita ai suoi seni. Insomma, tutto procede di allusione in allusione, compresa la figura di Frau Blücher (Cloris Leachman) dall’aspetto terribile – quasi una Kapo – ma anche amante innamorata del defunto Barone Frankenstein, quello che abbiamo visto nella scena iniziale mummificato dentro la sua bara: amore e morte. Eros e Thanatos sono svolti da Wilder e Brooks, autori della sceneggiatura, in chiave comica. Questa coppia dà il là al film e alla sua parodia; si passa dal “come se” della storia originaria, il film del 1935, al “così è troppo” di Junior. L’aggettivo-sostantivo Junior sta per “minore”, e anche per “più piccolo”, e il tema delle “dimensioni” è uno degli altri nuclei comici di questa pellicola. Che la chiave sia sessuale lo racconta anche un altro dettaglio: la gobba di Igor. Si racconta che Feldman l’abbia spostata a destra e poi a sinistra in diverse scene del film, e che inizialmente la troupe non si sia accorta di questo suo gioco. Non è difficile leggere in questa “malformazione” che cambia orientamento una delle varie allusioni sessuali.

Il tema delle coppie è uno dei meccanismi narrativi più importanti del film: Frau Blücher e il Barone, Inga e Fredrick, Fredrick e Elisabeth, Fredrich e Igor, Elisabeth e il Mostro. Ma anche Elisabeth e Inga: la prima è la donna virago, carica di eros prorompente, la seconda la donna-ancella dalla sessualità più sottile, ma non per questo meno evidente, dedita agli amori ancillari. Nella scena di sesso tra lei e il dottore – scene pudiche, in cui non si vede niente, in stile anni Trenta – i due prendono il posto del Mostro sul tavolo del laboratorio trasformato in talamo amatorio. A interromperli arriva Frau Blücher con la notizia che la fidanzata di lui, Elisabeth, sta per arrivare.

Ma è la Creatura, il Mostro, a definire l’aspetto sessuale dell’intera parodia comica. Il suo cervello è stato tratto da un “Abnormal”, invece che dal titolato Hans Delbruck, per un errore di Igor (si è spaventato della propria immagine specchiata e ha lasciato cadere il cervello buono). È lui il “minore”: il Mostro. Ha paura del fuoco. Si tratta della ripresa di un motivo del film del 1931, in cui Fritz, il servo, nano diabolico con accenti sadici, tormenta Boris Karloff-Mostro con una fiaccola. Il fuoco è una chiara metafora del desiderio sessuale, che la Creatura teme e da cui è nello stesso tempo attirato. La folla stessa dei cittadini a caccia del mostro (l’assemblea dei cittadini è una delle scene più divertenti del film) esprime la volontà di trovare il maniaco-sessuale. Ce lo conferma la scena con la bambina dove velatamente si allude alla pedofilia. Il Mostro è il “perturbante” del film, per dirla con Freud. La mostruosità della creatura è manifesta attraverso la forma del suo cranio, lo sguardo, le dimensioni del corpo, ma anche celata: la potenza sessuale. Il finale farà andare tutto a posto: quadratura del cerchio. Prima di arrivarci c’è però il rapimento di Elizabeth, oggetto del desiderio della Creatura, e la scena di sesso nel bosco. Elizabeth rivela la sua vera natura e dà sfogo al desiderio che tratteneva a fatica: tutto rinviato alla prima notte dopo il matrimonio. Il Mostro possiede doti sessuali che Elizabeth, ancora vergine in attesa del matrimonio, ha intuito, ma ancora teme. Il passaggio all’atto svela la natura del desiderio della ragazza. Fanno l’amore con soddisfazione. Lo rifanno sette volte (numero preferito di Elisabeth). Le due coppie, infine, si ridistribuiscono. Il dottor Frankenstein decide di conferire normalità al Mostro e s’immola sull’altare della scienza. La Creatura diventa così umana acquisendo la parola che gli mancava e anche il senno. Cosa riceve il dottore in cambio della parte del suo cervello donato da lui al Mostro? Lo scopre la moglie-assistente Inga, che finalmente convola a nozze con l’amante. Tutto finisce in gloria. Il gioco è fatto. Con la sua sottile comicità allusiva, probabilmente Mel Brooks ha reso visibile il non detto del Prometeo moderno di Mary Shelley. La sessualità è il vero rimosso di quella storia concepita da Mary Shelley con trasformazioni e manipolazioni, così come dei film che ne sono stati tratti, qualcosa che c’era ma restava sottotraccia e che lo spassoso film di Wilder e Brook rende invece perfettamente visibile usandolo come motivo comico. Ci fa l’occhiolino, come più volte Igor nel corso del film, ammicca, è malizioso, allude a qualcosa d’altro. La comicità è proprio questo, come nel perfetto freudismo hollywoodiano. Si ride utilizzando i luoghi comuni. Alla faccia del politicamente corretto.

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La politica dell’identità

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Migliaia di catalani sfidano il governo spagnolo per affermare il proprio diritto all’indipendenza. Pochi giorni dopo migliaia di cittadini lombardi e veneti chiedono maggiore autonomia da Roma in un referendum consultivo, seguiti nel giro di qualche settimana dai cittadini della Corsica. I diritti dei migranti (e quelli, simmetrici, dei nativi) tengono banco nelle campagne elettorali europee e americane. In Italia il progetto di legge sul cosiddetto Ius Soli monopolizza il dibattito fra i partiti di sinistra, in vista delle elezioni che si terranno in primavera.

 

A poco più di un anno dal referendum che ha innescato la Brexit, dopo una campagna presidenziale dominata dallo slogan ‘America first’, non c’è dubbio che identità e diritti siano entrati di forza nel discorso politico contemporaneo. Gli effetti sono dirompenti: la ‘politica dell’identità’ scompagina destra e sinistra – intesi come schieramenti, ma anche come categorie concettuali che hanno orientato la politica occidentale nel corso dell’ultimo secolo. Il Partito Repubblicano negli Stati Uniti è uscito lacerato dalle elezioni presidenziali, mentre Cameron in Gran Bretagna ha dovuto rassegnare le dimissioni dopo avere perso un referendum fortemente voluto da una parte del suo stesso partito. I leader laburisti hanno contribuito alla vittoria del Sì evitando di prendere una posizione netta, fra mille polemiche, mentre in Italia il partito democratico ha lasciato libertà di voto nei referendum delle regioni settentrionali. L’identitarismo non sembra portare semplicemente voti alla destra o toglierli alla sinistra. Piuttosto, rende necessario un ripensamento profondo del significato di destra e di sinistra, e delle politiche a loro connesse.

 

Mark Lilla insegna scienze dell’uomo e scienze politiche alla Columbia University. In The Once and Future Liberal: After Identity Politics (Harper Collins, 2017) offre un’analisi interessante e provocatoria della politica della identity politics, delle sue cause, e dei problemi che essa solleva nel contesto della politica americana. The Once and Future Liberalè un pamphlet rivolto principalmente ai militanti e agli elettori del Partito Democratico (essendo ‘liberal’ notoriamente difficile da tradurre nel gergo politico europeo, mi arrangerò usando l’espressione ‘di sinistra’). La tesi di Lilla è che il Partito Democratico inseguendo l’identitarismo ha progressivamente perso di vista il centro di gravità dell’elettorato americano – la classe media lavoratrice, per lo più bianca, che costituisce la spina dorsale sociale e politica degli Stati Uniti. Il costo di questa deriva identitaria è stata l’esclusione progressiva e sistematica dagli organi di governo locali, statali, e federali. Per dare un’idea, i democratici oggi controllano gli organi esecutivi e legislativi in sette stati, contro i ventiquattro dei repubblicani; mentre a livello federale i repubblicani da tre anni hanno la maggioranza in entrambi i rami del congresso.

 

Che le sconfitte democratiche siano da imputare alla politica dell’identità non è ovvio né banale – anche perché l’identitarismo di sinistra non è facile da definire. Per Lilla è l’eredità di due grandi rivoluzioni culturali indipendenti e apparentemente antitetiche: il radicalismo extra-parlamentare degli anni Sessanta-Settanta e l’individualismo reaganiano degli anni Ottanta del secolo scorso. L’argomento è chiaramente delicato: le battaglie per i diritti civili sono giustamente considerate un capitolo glorioso della sinistra americana. La lotta contro la segregazione razziale, l’abolizione delle leggi contro l’omosessualità, la legislazione sull’aborto e sul divorzio sono vittorie delle quali i democratici vanno giustamente fieri. Lilla non è un revisionista, e concorda che queste grandi conquiste devono essere celebrate e difese da tutti gli uomini e le donne di sinistra. Sostiene anche, tuttavia, che i movimenti radicali hanno introdotto un modo di fare politica che, di fatto, ha preparato il terreno alla politica dell’identità.

 

Lilla ne enfatizza due aspetti: da una parte il movimentismo degli anni Sessanta avrebbe insegnato a tre generazioni di attivisti che si può fare politica in modo efficace mantenendosi al di fuori delle istituzioni. Anzi, esso avrebbe introdotto l’idea che si debba fare politica fuori dalle istituzioni, in contrapposizione con la politica dei partiti tradizionali e i compromessi che questa inevitabilmente richiede. La politica movimentista da questo punto di vista offre dei vantaggi non indifferenti: in primo luogo permette di investire tutte le energie nel perseguimento di un singolo obiettivo. Non ponendosi come scopo di governare il Paese, inoltre, può permettersi di ignorare la costruzione di maggioranze stabili, non ha bisogno di tenere insieme coalizioni eterogenee, e può abdicare al compito di trovare un punto di equilibrio fra i diversi interessi rappresentati all’interno dei grandi partiti.

 

 

La seconda eredità importante del movimentismo – in parte legata alla prima – è l’idea che si possa fare politica scegliendo selettivamente i propri cavalli di battaglia, e che attraverso l’attività politica sia possibile affermare la propria identità individuale. Lottando per i diritti, i militanti lottano anche per affermare la propria identità – di donna, di omosessuale, di transgender, di nativa, di afro-americana – fianco a fianco con altre donne e uomini che hanno a cuore gli stessi obiettivi politici e personali. L’identitarismo fornisce dunque motivazioni formidabili che, paradossalmente, sono compatibili con la cultura della destra individualista. Dopo tutto, cos’è più importante del diritto di esprimere liberamente sé stessi, e di vivere come ci pare e piace?

 

The Once and Future Liberalè scritto per provocare. Prevedibilmente Lilla è stato accusato di superficialità, di generalizzare in modo eccessivo, e di privilegiare l’aneddoto alla solida ricerca empirica. Ma si tratta, appunto, di un pamphlet. Come tutti i buoni pamphlet, The Once and Future Liberal mette a fuoco un problema reale, e come molti pamphlet non propone soluzioni precise. La parte migliore è la breve analisi delle cause profonde dell’identitarismo, e più in generale della cultura individualista. Sono cause economiche e sociali, riconducibili alla conquista del benessere e alla stabilità politica che, a partire dal secondo dopoguerra, ci ha permesso di dedicare sempre più tempo al perseguimento degli interessi privati – il lavoro, la cura della famiglia, gli amici, gli hobby personali. L’altra faccia di questa libertà è che dedichiamo sempre meno tempo alla cura degli interessi collettivi – in parte forse perché li consideriamo acquisiti – e trascorriamo sempre meno tempo con persone che non vivono come noi. Nel lungo periodo questa disabitudine genera una ridotta capacità di vedere il mondo con occhi diversi, di comprendere il punto di vista di chi non la pensa allo stesso modo, e soprattutto di trovare soluzioni condivise ai problemi che affliggono le nostre comunità.

 

È un’analisi convincente specie nel contesto americano, dove la segregazione sociale ha raggiunto uno stadio più avanzato rispetto ai paesi europei. Un fossato sempre più profondo divide, da una parte, i professionisti liberal, altamente educati ed economicamente privilegiati che abitano sulle due coste; e dall’altra la piccola borghesia bianca a bassa educazione, intensamente religiosa, minacciata dalla globalizzazione, che vive nella fascia centrale del Paese. Ma la politica dell’identità non è una questione puramente americana, ed è impossibile leggere il pamphlet di Lilla senza farsi trascinare dalle analogie con quanto accade in Italia e in Europa.

 

Dopo quattro anni di governo, la legge sulle unioni civili è forse l’unica vittoria inequivocabilmente ‘di sinistra’ della quale può fregiarsi il Partito Democratico italiano. Una vittoria difficile, acquisita in seguito a molti rinvii e dopo una lunga mediazione con i partiti centristi della coalizione. Poiché nella politica dell’identità ogni compromesso è un inaccettabile compromesso, l’approvazione della legge è stata accompagnata e seguita da aspre polemiche – addirittura dalle dimissioni di deputati, come Michela Marzano, che avevano combattuto in prima linea per i diritti degli omosessuali.

 

Il copione tende a ripetersi. Da mesi l’agenda politica della sinistra è dominata dal tentativo di comporre un’alleanza in vista delle prossime elezioni. Di fronte alle difficoltà di trovare un accordo su altri temi economici e sociali, l’attenzione si è concentrata sullo Ius Soli. Peccato che il Partito Democratico sia al governo (anche) con alcuni partiti di centro-destra, i quali non hanno nessuna intenzione di votare la legge dello Ius Soli. Ma la politica dell’identità non si pone obiettivi di governo – meglio dunque rompere le righe e andare in ordine sparso alle prossime elezioni.

 

Jordi Ballart, fino al mese scorso sindaco di una cittadina catalana, è stato costretto alle dimissioni per avere osato criticare gli indipendentisti dopo il referendum. Intervistato dal Guardian, esprime preoccupazione per la mancanza di interesse da parte dei radicali identitari per i temi politici tradizionali. ‘Sembra che esista soltanto l’identità. Chi parlerà durante questa campagna elettorale dei problemi reali che devono affrontare le persone? Del tipo di Paese nel quale vogliamo vivere; delle politiche sociali, dell’educazione e della sanità?’

 

Come ci ricorda Mark Lilla, quando la politica dell’identità prende il sopravvento, lo fa a discapito della politica di governo. E rinunciare alla politica di governo ha gravi conseguenze, in primo luogo per i soggetti che i movimenti identitari vorrebbero difendere.

 

L’accusa più pesante contro la sinistra dell’identità è che lascia i gruppi che sostiene di volere aiutare più vulnerabili di quanto sarebbero altrimenti. […] In una democrazia l’unico modo di difenderli in maniera significativa – invece di fare gesti vuoti di riconoscimento e ‘celebrazione’ – consiste nel vincere le elezioni e nell’esercitare il potere nel lungo periodo, a ogni livello di governo. E per ottenere quel risultato bisogna avere un messaggio che tenga insieme il maggior numero di persone possibile.

 

L’analisi di Lilla induce dunque a una riflessione più ampia. La politica dell’identità diventa un problema quando si muove nel vuoto, finendo per occupare spazi che non le competono. È bene non illudersi che la politica tradizionale possa essere sostituita dall’identitarismo, ma non è chiaro come riempire il vuoto. Lilla non offre soluzioni, tranne un vago invito a portare l’idea di cittadinanza al centro della politica di sinistra. Ma anche quello di cittadinanza è un concetto che va riempito di contenuti.

 

Sembra che gli schieramenti tradizionali oggi non siano in grado di coagularsi intorno a un’idea di destino comune. Le lotte per i diritti sono parte integrale della vita democratica, e nessuna democrazia può vivere senza diritti. Ma allo stesso tempo nessuna democrazia può vivere soltanto di diritti. Urge quindi trovare dei buoni motivi per stare insieme, alternativi all’identità etnica e al rifiuto dei diversi dei quali si nutre la destra xenofoba. Una narrazione del “noi” – una storia in grado di indicare chi siamo e dove vogliamo andare – appare quanto più necessaria.

 

La politica dell’identità si illude che la difesa degli ‘io’ possa supplire alla mancanza del ‘noi’. È un’illusione pericolosa: il vuoto degli ideali collettivi sarà riempito in qualche modo – da una nuova concezione comunitaria e solidaristica, o dalla politica etnica e razzista che sta rialzando la testa in tutto il mondo occidentale.

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Mulas prima di Ghirri e Struth

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Ugo Mulas, tra il 1959 e il 1961, rivolge la sua attenzione sull’avvento di un pubblico di massa dedito alla fruizione dell’arte negli spazi museali. D’istinto coglie i dipinti nei musei e nelle gallerie come fossero fotografie, e fotografandoli innesca un parallelismo concettuale fra i due medium. Coglie i visitatori mentre guardano le opere esposte, e intuisce una nuova variante del ritratto di gruppo: da un lato persone in carne e ossa, dall'altro ritratti pittorici e sculture.

 

Ugo Mulas, Danimarca 1961, Louisiana Museum of Modern Art, Courtesy Archivio Ugo Mulas.

 

Le figure dipinte e i loro spettatori vengono fissate nell’unità di un collegamento significativo e significante. Mulas dà visibilità al momento esatto in cui si esprime un modello di fruizione estetica. In Russia (1960) ritrae un gruppo di persone di spalle, colto mentre è in relazione col grande telero esposto in una sala del museo. I due piani, quello degli spettatori e quello del soggetto nel dipinto, sembrato diventati tutt’uno, fusi in una nuova immagine, formidabile, tanto che d’acchito pare un collage concettuale. In questa intuizione sembra realizzarsi “il miracolo delle immagini che creano se stesse” (A.C. Quintavalle, Conversazioni con Ugo Mulas, Parma 1973, p. 47).

 

Ugo Mulas, Danimarca 1961, Louisiana Museum of Modern Art, Courtesy Archivio Ugo Mulas.


Circa un decennio prima di Luigi Ghirri e di Mitch Epstein e trent’anni prima di Thomas Struth, il fotografo bresciano immagina che lo scatto della fotografia generi un interessante campo di equivalenze, ridefinendo la qualità dell'esperienza dei visitatori tramite una relazione differenziale con le proprietà delle opere d’arte. Intende la fotografia come un processo intellettuale e analitico di conoscenza, e cerca di riattivare un inedito dialogo fra due realtà separate. Con questo medium rende visibile l'oggetto della ricezione collettiva simultanea: coglie il nuovo soggetto estetico collettivo, ovvero il complesso del rapporto museo-spettatori. E allo stesso tempo porta a galla il conflitto in cui la pittura è stata coinvolta attraverso la riproducibilità tecnica del quadro per mezzo della fotografia. 

 

Ugo Mulas, Colloquio col vento, Consagra, Spoleto (1962), Bergamo, Collezione BACO.


Mulas è il primo fotografo-artista che legge il museo come paradigma della coscienza estetica, ovvero come una zona di contatto fra i presupposti dell’arte e le richieste della società. In questo contatto il museo e i suoi fruitori divengono un soggetto sottoposto a una continua ridefinizione. I suoi scatti rivolti ai musei, alle persone nei luoghi espositivi, agli artisti, alle loro opere, ai loro studi pongono l’attenzione sulla produzione estetica della società e sul potente catalizzatore delle ambizioni culturali del pubblico: il museo e le gallerie importanti catalizzano le masse, le trasformano nel contenuto stesso del museo, inteso come modello di tutte le forme di “socializzazione” controllata, ovvero come luogo entro cui condurre la confluenza fra l’estetizzazione della vita sociale e la socializzazione delle qualità estetiche dell'arte. 

Dal 1959, nell’arco di un decennio, Mulas continuerà a sondare le consuetudini legate alla fruizione dell’arte e a leggere le trasformazioni delle esposizioni, viaggiando per attraversare – oltre i musei, le gallerie, le inaugurazioni delle Biennali, le strade e le piazze di Spoleto per la mostra “Sculture nella città” del 1962 – anche le collezioni private d’Europa e d’America, e osservare il rapporto dei visitatori con le opere negli spazi pubblici e dei collezionisti negli interni delle loro abitazioni, dove gli oggetti d’arte appartengono ancora al rito intimo della contemplazione assorta.

 

Jan Vermeer, Allegoria della pittura (1666 ca.), Vienna, Kunsthistorisches Museum.

 

Nella storia dell’arte, il grande precedente pittorico di un soggetto descritto di spalle mentre mette in azione un’opera dello sguardo e della visione retinica è l’Allegoria della pittura (1666 ca.) di Jan Vermeer, ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna. E tornano alla mente anche quelle opere del XVII e XVIII secolo, dove i pittori raffigurano i nobili nelle sale in cui sono esposte le collezioni di quadri e di sculture. Per esempio Frans Francken il Giovane (1581–1642), Willem Van Haecht (1593–1637), David Teniers il Giovane (1610 – 1690) e Johan Zoffany (1733 – 1810) realizzano diverse versioni che hanno per soggetto i conoscitori d'arte, i diplomatici, i visitatori, ritratti nelle sale di un nobile collezionista o gli scorci delle gallerie e le Wunderkammer, dipinti che sono una combinazione tra la conversation piece e la tradizione prevalentemente fiamminga del XVII secolo.

 

Willem Van Haecht, La Galleria di Cornelis Van Der Geest (1628), Anversa, Rubenshuis.

 

Anche Ghirri dà molta importanza a questa intuizione concettuale e trasferisce l’atto del vedere dal pittore a coloro che si nutrono di opere artistiche, contemplando assorti dipinti e sculture nei musei (emblematica è Milano, Castello Sforzesco del 1986, dove un gruppo di persone guarda la Pietà Rondanini, mentre, come nelle pale o negli affreschi rinascimentali, uno degli astanti rivolge gli occhi verso chi ha realizzato l’opera, fuori campo). Nella serie Diaframma 11, 1\125, luce naturale (1970-1979), poi declinata ulteriormente con altri scatti realizzati tra il 1980 e il 1988, Ghirri ingloba le persone che si rapportano con le immagini, trasformandole nella stessa sostanza, così che il loro atto entri nell’opera di chi li ha visti vedere:  “Questo essere attori sempre, di avvenimenti che in gran parte non conosciamo, su fondali e quinte fittizie, anche quando deleghiamo a una fotografia una nostra identità è per non dimenticare che la ricerca di una identità è sempre una strada difficile. Per questo, accanto a una serie di persone in posa per la foto ricordo, voglio sottolineare l’esistenza di un’immagine altra che io non ho mai visto, del tutto simile alla mia e nella quale e solamente nell’altra è intenzionalmente l’immagine che desiderano dare di se stessi”.

 

Johan Zoffany, Veduta della Tribuna degli Uffizi (1776), Windsor, Royal Collection.


Questa tipologia verrà ripresa e percorsa da Thomas Struth dal 1989, con fotografie di grandi dimensioni: il ciclo Museum Photographs coglie la sovrapposizione di una sfera mondana estetizzata e di opere d’arte funzionali alle esigenze della società dello spettacolo, entro il fenomeno della museificazione spontanea. Testimonia la corrispondenza fra la composizione dei dipinti e l’involontaria disposizione dei turisti nel museo. Struth mette in scena visitatori che riflettono anche mimeticamente l’arrangiamento spaziale, le posture e i colori dei dipinti: «Ho avuto le prime idee al Louvre nel periodo di Natale; era molto affollato e ho pensato che il mondo dei visitatori del Louvre, persone dall'età e provenienza etnica più diversa, fosse incredibilmente simile ai temi dei dipinti».

 

Luigi Ghirri, Milano, Castello Sforzesco (1986), Bergamo, Collezione privata.

 

I suoi scatti scelgono come soggetto portante la difficile coabitazione del museo e delle opere d’arte con il turismo culturale. Il complesso visitatori-opere-museo raffigurato dalle Museum Photographs fa percepire anche la presenza di un cortocircuito: lo spazio espositivo, istituzionalizzato e divenuto soggetto per l’arte, fa convergere arte e società nella loro paralisi museale. Struth mostra l’eguale rilevanza compositiva che assumono i capolavori dell’arte moderna e i turisti che esistono nello stesso spazio. Allo stesso tempo ci si accorge che lo spazio museale rappresenta la scena di un mancato dialogo fra i turisti e le opere. 

 

Mitch Epstein, Springfield, Massachusetts, 1973, Bergamo, Collezione privata.


Ritornando a Mulas e alle persone raccolte in luoghi espositivi, ho ritrovato scatti eloquenti nel volume edito recentemente da Humboldt Books, che raccoglie le immagini e gli scritti realizzati durante un reportage condotto in Danimarca nel 1961 (con testi di Dario Borso e Giorgio Zampa, Milano 2017, pp. 94, euro 18). Notevole la fotografia (a pagina 67) che collega la natura – le erbe del giardino e il monumentale albero secolare – con la trasparenza riflettente delle vetrate esterne del Louisiana Museum of Modern Art.

 

Thomas Struth, National Gallery, London (1989).


E il sottile rapporto esterno/interno viene condotto in modo magistrale nei due scatti dove le persone che guardano le opere nel museo sono figure in controluce, mentre sullo sfondo le grandi vetrate fungono da diaframma concettuale e lasciano vedere il laghetto e la lussureggiante vegetazione. I fruitori dell’arte nello spazio museale qui paiono privati delle loro connotazioni fisiognomiche, sagome in ombra rispetto all’apertura verso la realtà della natura, quasi fossero solo comparse, messe lì per far risaltare il biancore della luce e i riflessi degli alberi nel lago che vibrano al di là delle vetrate, come in un grande quadro pittorico.

 

Ugo Mulas, Danimarca 1961, Louisiana Museum of Modern Art, Courtesy Archivio Ugo Mulas.

 

E notevole è anche la fotografia che apre la sequenza montata nel libro, dove turisti ripresi di spalle, sul viale chiaro che porta a una residenza maestosa, nel chiarore di un giorno soleggiato, nella sua semplicità è esemplare per svelare la poetica di Mulas: “Ho sempre avuto, prima istintivamente poi consapevolmente, una tendenza a riprendere quelle cose che sono banali”.

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I sogni nel cassonetto

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Fra i registi contemporanei, forse nessuno riesce a mettere in difficoltà il recensore quanto Woody Allen. Da una parte per via della sua inarrestabile prolificità (un film all'anno da quasi cinquant'anni, con impressionante regolarità); dall'altro, l'assoluta trasparenza di ciascun lavoro e la sostanziale “prevedibilità” delle scelte tematiche e stilistiche (e quante volte abbiamo letto o sentito dire che “Allen fa sempre lo stesso film”?). Un unicum di cui spesso è difficile rendere conto senza rifugiarsi nello schematismo “sì/no/ni”.

 

 

 

Prendiamo questo La ruota delle meraviglie. Uscendo dal cinema con alcuni amici, ci scambiamo pareri a caldo, ma il copione è già scritto: uno dice che il film è bolso, un altro replica che non ha senso definirlo così, un altro ancora che è tutto sommato meglio del precedente. Dopodiché si passa ai confronti: c'è chi confonde i titoli (Magic in the Moonlightè venuto prima o dopo di Blue Jasmine?) e chi ammette sottovoce di averne perso qualcuno per strada (qualcuno si ricorda di Sogni e delitti?). In ultimo, si intona la solita commemorazione al personaggio Allen e al suo cinema che fu. Commemorazione inevitabilmente provvisoria, destinata com'è a durare soltanto fino al prossimo film. Vien da pensare che recarsi al cinema per un film di Allen ha più a che vedere con l'antropologia spettatoriale che con la cinefilia in senso stretto. Bisognerebbe anzi dedicarsi allo studio dei meccanismi psicologici che guidano lo spettatore alleniano, magari cominciando da quell'inconfondibile «senso di cordialità e calore» che emana dal font “Windsor” dei titoli di testa (una questione che gira in rete da qualche anno e che è stata recentemente ripresa in un articolo molto divertente di Piero Trellini).

 

La ruota delle meraviglie non è esattamente un'eccezione alla regola. La trama, ambientata a Coney Island e dintorni negli anni Cinquanta, intreccia le vicende di quattro personaggi: Ginny (Kate Winslet), cameriera in un ristorante di pesce con un passato da attrice; Humpty (Jim Belushi), suo secondo marito, giostraio nonché ex alcolista; Carolina (Juno Temple), sua figlia di primo letto, già “pupa del gangster”, che ritorna inaspettata da papà con la coda fra le gambe e due malavitosi alle calcagna; infine Mickey (Justin Timberlake), narratore non esattamente attendibile della storia, bagnino e aspirante drammaturgo, che seduce entrambe le donne, provocando la pericolosa gelosia dell'una e condannando involontariamente l'altra a una brutta fine.

 

Justin Timberlake, Kate Winslet e Juno Temple.


Già da questo stringatissimo resoconto si respira una certa aria di famiglia. La Ginny di Kate Winslet, per esempio, col suo carico di ambizioni frustrate e i suoi rovesci esistenziali, è una sorta di versione proletaria della Jasmine di Cate Blanchett, incluse le strizzate d'occhio a Tennessee Williams (e forse anche al Wilder di Viale del tramonto); mentre il narratore interno che si rivolge direttamente allo spettatore, è una figura ricorrente nel cinema di Allen fin dai tempi di Amore e guerra: correva l'anno 1975.

 

Anche i temi squadernati dal film sono i soliti: il conflitto fra realtà e illusione, che nutre buona parte della produzione alleniana, a cominciare da un capolavoro come La Rosa Purpurea del Cairo (1985); e la questione della responsabilità morale e del senso di colpa, sulla quale il Nostro è tornato con una consuetudine quasi ossessiva negli ultimi anni, da Match Point a Irrational Man. Il tutto, naturalmente, esposto alla maniera dell'ultimo Allen, cioè riducendo i sottintesi al minimo e dichiarando il tutto a voce spiegata, con didascalica insistenza; di contro, si nota un sempre più frequente (e preoccupante) disinteresse nei confronti della tenuta del racconto, con passaggi rabberciati alla sans façon e svolte narrative risolte in modo spesso meccanico o sciatto.

 

Insomma, se La ruota delle meraviglie ha delle qualità, vanno cercate altrove. Per esempio, nell'inedita piega cinéphile dell'estetica alleniana. Per la prima volta, nelle sue sempre più numerose incursioni nel passato (ben tre negli ultimi sette film, volendo escludere il “viaggio nel tempo” di Midnight in Paris), il Nostro affronta gli anni Cinquanta. E lo fa affidando le luci a Vittorio Storaro, che inventa per il film una tavolozza di colori squillanti alla Norman Rockwell. Una scelta che ha fatto storcere il naso a molti, ma che a mio avviso risulta pienamente funzionale. Difatti, se in passato – e soprattutto per i suoi film (melo)drammatici – Allen aveva guardato perlopiù Oltreoceano, al bianco e nero di Fellini o ai colori lividi di Bergman, stavolta decide di fare un tuffo in pieno melò hollywoodiano, ispirandosi a un maestro del genere come Douglas Sirk. Il quale, come anche i meno cinefili sanno, si serviva dei colori sovraccarichi, giulebbosi e volutamente kitsch del Technicolor per dare quella patina d'irrealtà ai conflitti (sociali e di genere) che nell'America di Eisenhower non potevano essere trattati apertamente.

 

 

Nella stessa direzione sembra andare la scelta di Coney Island come sfondo della vicenda, “rivitalizzata” per l'occasione con una robusta dose (insolita per Allen) di effetti digitali. Anche qui è in gioco la memoria del cinema, soprattutto di quello muto: Buster Keaton & Fatty Arbuckle (Coney Island, 1917), Clara Bow (It, 1927), Harold Lloyd (Speedy, 1928); e c'è anche la memoria dello stesso Allen, a cominciare dall'indimenticabile casetta sotto le montagne russe di Io e Annie. Ma la Coney Island degli anni Cinquanta è soprattutto l'epitome ormai in declino del divertimento di massa, o, per dirla con Rem Koolhaas, «il luogo di riposo definitivo per frammenti futuristici, cianfrusaglie meccaniche e spazzatura tecnologica». Una discarica di sogni, in altre parole. Più che le facili allegorie (vedi la giostra e la ruota delle meraviglie), è proprio l'aria di putrefazione emanata dai baracconi in via di smantellamento a fornire uno degli aspetti più suggestivi del film: il contrasto fra i sogni dei personaggi e il destino di decadenza e morte che attende tutti quanti.

 

Paese dei sogni inevitabilmente destinato a un fin troppo brusco risveglio (come ricorda Koolhaas, “Dreamland” era appunto il nome del più vasto parco di divertimento dell'isola, ridotto in cenere da un incendio già nel 1911), Coney Island è però in grado di produrre da sé i propri “anticorpi”. Alla memoria cinefila del luogo è legato infatti Il piccolo fuggitivo (1953), caposaldo del cinema indipendente “made in NY” e incentrato sui “quattrocento colpi” domenicali di un ragazzino sperduto fra le attrazioni del parco. Non so se Allen l'abbia visto, ma sembra venire proprio da quel film l'invenzione più originale de La ruota delle meraviglie: Richie (Jack Gore), figlio che Ginny ha avuto dal primo marito e che più di tutti sembra vittima delle frustrazioni degli adulti intorno a lui. Sembra. Perché mentre gli adulti si abbandonano ai propri sogni impossibili, lui si accontenta delle fantasie a buon mercato di Hollywood (lo vediamo brigare sui centesimi per poter correre al cinema). E se nel film tutti cercano di costruire qualcosa di nuovo e duraturo, Richie assembla complesse “sculture” con pezzi di manichini e oggetti trovati qua e là (altri rifiuti, altri rottami...) soltanto per il gusto di dar loro fuoco. Un'immagine surrealista, quasi magrittiana. 

 

«Spesso mi domando cosa ci veda quel ragazzino, dentro quelle fiamme», si domanda sua madre. La sceneggiatura non spiega nulla: Richie è una figura sfuggita di mano ad Allen (per fortuna!), una scheggia impazzita nella quale chiunque è libero di vedere quel che preferisce. Un piccolo angelo sterminatore del mondo ipocrita degli adulti? L'annuncio del caos imminente? L'incarnazione stessa di Coney Island, della sua insopprimibile vocazione alla catastrofe? Per quanto mi riguarda, mi piace pensarlo come un alter-ego in miniatura dl meticoloso Woody, che da mezzo secolo in qua, con pazienza mette insieme i cocci sparpagliati del nostro mondo e, una volta all'anno, brucia tutto nella luce abbagliante del grande schermo.

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Woody Allen, “La ruota delle meraviglie”
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Nuovi mercati metropolitani e convivialità 2.0

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Con la valanga globale che ha dissacrato ogni tradizione e l’impoverimento della qualità dei prodotti dovuto a produzioni intensive e modelli di consumo fuori controllo, la generazione postmoderna si trova ad affrontare un drammatico vuoto nostalgico nei confronti della propria infanzia gastronomica, così recente ma ormai parte di un’altra era sociale. 

 

Il cibo è da sempre lo specchio culturale di un popolo e la risposta più immediata a uno dei bisogni primari dell’individuo. Dal rapporto diretto con le risorse del territorio, infatti, nascono piatti immortali che affinano l’identità collettiva di una comunità. Creazioni che i ritmi della modernità industriale prima e post-industriale poi hanno elevato da essenza a desiderio, da sussistenza a nicchia edonistica. Nell’amorfo tessuto metropolitano, in particolar modo, l’intenso profumo d’identità locale emanato da piatti della tradizione contadina e di strada diventa merce preziosa che si arricchisce di nuovi significati sociali. Attraverso la riorganizzazione degli spazi di consumo, anche l’arte culinaria decide di cavalcare prepotentemente la pressione subliminale del biocapitalismo (V. Codeluppi), puntando tutto su emotività individuale e coinvolgimento empatico. Riprodotto e riproposto secondo i canoni dello spettacolo, il cibo della classicità passa dal retroscena dell’ambiente familiare ai riflettori di eventi tematici destrutturati, per poi essere dematerializzato dai flash di instagram e inghiottito da occhi virtuali. E così, nei centri urbani europei, chioschi vintage ammassati l’uno di fianco all’altro sfornano Delikatessen glocali in contesti suggestivi, come ex edifici portuali o vecchi complessi industriali riqualificati.

 

 

Se i non-luoghi classici di cui parla il sociologo francese Marc Augé – aeroporti, supermercati, autostrade – si caratterizzano per l’assenza di una valenza storica e per l’incapacità di sviluppare identità e relazioni, questi nuovi contenitori metropolitani trascendono tale definizione e si travestono da luoghi autentici in cui coltivare emozioni. Non a caso, essi costruiscono la loro anima attraverso simulacri di storie e localismi tipici di luoghi “reali”, nel tentativo di sfuggire, appunto, all’anonimità e all’asetticità del non-luogo. Il risultato è la proliferazione di officine dell’effimero che racchiudono i sapori del mondo e reinventano un presente cosmopolita, spesso a prezzi non proprio popolari. Oltre al gradevole aroma delle cose genuine di una volta e al forte odore di gentrificazione, d’altronde, l’offerta comprende la ghiotta occasione per turisti ed espatriati di dimostrare a sé stessi e al mondo intero il proprio prestigio sociale e affettivo. Un’esperienza prettamente figurativa che mantiene la promessa di colmare quel vuoto identitario – tipico delle metropoli contemporanee – attraverso la messa in scena di riti e rituali che riesumano un calore familiare ormai smarrito. Ecco allora che l’arancino dello stand siciliano al Mercato Metropolitano di Londra assurge a simbolo paradossale per l’hipster in fuga da quella provincialità che, se riproposta con filtri stilistici appropriati, può essere sbandierata come autorevole vessillo nella lotta per corroborare la propria distinzione.

 

 

Al contempo, per emanciparsi dal passato, gli sarà sufficiente spostarsi di qualche metro, degustare gourmet dal carattere esotico e candidarsi, così, ad esperto cittadino del mondo. Si può qui osservare la transitorietà in divenire dell’homomobilis (G. Amar) che, emulando figurativamente il migrante descritto da Augé, taglia i ponti con il luogo di provenienza e s’imbarca senza identità verso qualcosa che non raggiungerà mai. Un nomadismo identitario, insomma, che svela il bisogno di riscrivere le proprie origini rendendole mitiche e, parallelamente, di fluttuare tra culture diverse con leggerezza e disincanto.

 

La spettacolarizzazione del cibo si svolge in teatri che esaltano al massimo quel romanticismo dei mercati rionali, ripuliti però da tutte le loro imperfezioni boccaccesche e re-settati a favore della convivialità 2.0.

È questa l’atmosfera che si respira, ad esempio, al Markthalle Neun di Berlino in cui si passa, senza soluzione di continuità, dall’angolo della pasta fresca emiliana al Ramen giapponese, fino alla brasserie biologica parigina invasa dai fumi del BBQ messicano.

 

 

Un labirinto multiculturale in cui il design è l’unico vero Leitmotiv: chioschi e banchetti in materiali grezzi come ferro e legno, mattoni a faccia vista, caratteri tipografici rustici, Apecar e furgoncini Anni Sessanta che rievocano aneddoti che la maggior parte dei presenti non ha mai realmente vissuto. In questo non-luogo farcito di capitale emozionale, i piatti proposti drammatizzano il folklore delle osterie di passaggio e appaiono esteticamente impeccabili a discapito del gusto che, in questo spettacolo grottesco, non va oltre al ruolo di comparsa. Il palinsesto culinario raggiunge l’apice con i festival monotematici dedicati a cucine remote e affascinanti, come il “Georgien Spezial” dedicato alle prelibatezze georgiane. L’intensità spettacolare del festival, dal latino giorno di festa, è un format che ben si sposa con un’altra caratteristica della contemporaneità, ovvero la natura ludica ed edonica di un consumo esperienziale che rivela il piano di adolescenza infinita dell’odierno puer aeternus (M. Maffesoli). Il tutto a garanzia del sentimento inedito di essere sospesi nel tempo e nello spazio, di essere ovunque e da nessuna parte, pellegrini globali all’avanscoperta d’identità autoctone attraverso la sollecitazione della propria memoria gustativa. Poco importa se reale, o genuinamente fittizia. 

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La spettacolarizzazione del cibo
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Il confine che ci attraversa

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C'era una volta l'Europa, verrebbe da scrivere.

«Quest'idea ci girava in testa già da un po'. Percorrendo la frontiera esterna – la grande crepa – abbiamo notato moltissime spaccature nel sogno europeo. C'è l'immensa voragine dei profughi; la breccia dei nazionalismi, la chiusura delle frontiere e la minaccia dell'uscita del Regno Unito dall'Ue, il populismo e l'islamofobia, la crisi che ha opposto il Nord al Sud, la rottura di un blocco di Paesi dell'Est che vedono in Bruxelles la nuova Mosca; il baratro della Siria, dell'Iraq e della Libia. E poi c'è la Russia, un abisso enorme sul quale abbiamo l'intenzione di affacciarci. “Ci sono crepe più grandi e altre più piccole. E sono tutte collegate”, mi dice Carlos subito prima dell'attentato. “Se non si riparano quelle, collassa tutta la struttura”». 

Chi scrive è Guillermo Abril, giornalista spagnolo classe '81 che nel 2015, con il cortometraggio A la puertas de Europa, vince il World Press Photo con il fotografo Carlos Spottorno, connazionale nato a Budapest dieci anni prima di lui. Insieme hanno fatto un libro che – per dirla con le parole di Fabio Geda, che firma la commossa Prefazione – “è un'esperienza estetica impressionante che trascende la fotografia per invadere il campo della graphic novel”. 

 

 

La crepa (Add Editore 2017)è innanzitutto un viaggio iniziato nel dicembre del 2013 e diviso in tappe. Melilla, enclave spagnola su terra africana. Tracia, regione in cui si incrociano Grecia, Bulgaria e Turchia. Lampedusa, isola italiana più vicina all'Africa che all'Europa, e fregata Grecale, usata per operazioni di soccorso nel sud del Mediterraneo. Röszke, frontiera tra Serbia e Ungheria. E poi Pabrade – Lituania, a otto chilometri dalla Bielorussia –, Medyka – confine tra Polonia e Ucraina –, Szczurkowo – confine tra l'unico territorio russo che affaccia sul Baltico e quello polacco –, Narva e Salla – confine tra Estonia e Russia e Finlandia e Russia – e tanti altri luoghi che, ancora di più oggi in cui quelle interne sono così sotto i riflettori, ci sbattono in faccia la natura delle frontiere esterne dell'Europa. A volte ottusamente burocratiche, a volte anacronistiche e inutili, e a volte spietate, feroci, arroganti. 

 


Ma più che un viaggio, quello che i testi meravigliosi di Abril e lo sguardo nitido di Spottorno ci raccontano sembra l'esito disastroso di un'illusione, “quella sensazione d'impotenza di fronte alla storia che si ostina a ripetersi”, scrivono a un certo punto. I ritratti delle persone che hanno incontrato in questo loro interrogare i limiti incerti del nostro continente sono posati: dalle grottesche messiscene proposte ai giornalisti da uomini in divisa, al commovente senso del dovere di chi prova a tamponare una politica comunitaria nel migliore dei casi miope (nel peggiore complice), lo sguardo di Spottorno e la penna di Abril cercano sempre l'umanità nei protagonisti del loro racconto, anche dove questa sembra essere evaporata. E il trattamento cromatico la amplifica a dismisura, come nel caso della smorfia del colonnello della Guardia Civil che rassicura i giornalisti, come se fossero in un videogioco e non nella vita reale: “Roba forte, vedrete”, dice.

 

 

La ricordo bene, Melilla. 

Ci sono stato anche io, nel 2015, per realizzare uno speciale di Rai Cultura. La barriera alta sei metri si perdeva a vista d'occhio, dividendo questo confine estremo della Fortezza Europa dal resto del mondo, a sud. La vigilanza era imponente. Io e il film-maker “Ziblab” eravamo marcati a uomo da Juan Antonio, addetto alle relazioni esterne della Guardia Civil. Era gentile, educato, a tratti sembrava quasi affettuoso ma mai invadente. “Adesso stanno cercando altre rotte,” ci diceva, “passare di qua è troppo difficile”. 

Ci aveva accompagnati dalla barrera (la valla, la barriera, il muro) al cuore della cittadina – lui guidava il suo fuoristrada, noi a rimorchio con l'auto affittata. Alla centrale di controllo, era sceso dal fuoristrada. Le sue mani erano quelle di un burocrate che non ha mai sollevato un peso, che non ha mai sudato – se non per il caldo africano – dentro quella divisa verde. Le aveva appoggiate sulla mia spalla, con ostentata complicità. E a me era tornata alla mente la storia di Maurice Rossel, delegato del Comitato Internazionale della Croce Rossa che arrivò alle soglie di Auschwitz e si fece imbambolare da un ufficiale delle SS che riconobbe come suo simile. E che non andò oltre, non provò ad aprire gli occhi e a farsi voce dello sterminio degli ebrei d'Europa che era in corso. Quella mano sulla spalla per me fu uno schiaffo, come lo è stato cominciare a leggere La crepa, senza sapere che il racconto sarebbe iniziato proprio di lì. 

Perché noi andiamo e veniamo, facciamo reportage, scriviamo articoli, proviamo a denunciare quello di cui ci vergogniamo – in quanto europei, in quanto esseri umani. E poi torniamo a casa. Ma su quei confini, per chi è costretto ad attendere – settimane, mesi, anni – il momento giusto per passare, le giornate sono infinite. Su quei confini la gente aspetta, la gente prega, la gente muore. 

 

 

Ed è quello che ci raccontano i disegni di Andrea Ferraris, che con Renato Chiocca firma La cicatrice. Sul confine tra Messico e Stati Uniti (Oblomov Edizioni 2017), un reportage a fumetti che si apre con uno slogas dei latinons negli Stati Uniti: “We did not cross the border, the border crossed us”. Non abbiamo attraversato il confine, il confine ha attraversato noi – è quello che sembra sia capitato agli autori, che iniziano il racconto con una storia drammatica realmente avvenuta a ridosso della barriera americana, in cui il muro sempre protagonista della cronaca recente – e dannatamente simile a quello di Melilla – si scopre complice, o involontario coprotagonista, di un omicidio. La storia comincia con due ragazzi, sospesi nella terra di nessuno. 

 

Quella terra di nessuno che l'artista francese JR ha sfidato in ottobre, organizzando uno straordinario pic-nic al di qua e al di là del muro che separa Messico e Stati Uniti, che visto dall'alto regalava speranza ai nostri occhi. 

Giornalisti, fotografi, fumettisti, registi, artisti. Spagnoli, italiani, francesi. E queste sono solo due – appassionate, commoventi – delle tante opere che in questo scorcio di Europa in crisi provano a impostare una contronarrazione, per iniziare a raccontarci una storia diversa, una storia del presente in cui ci sono idee, energie e persone che giorno dopo giorno si battono per riparare queste crepe, per curare queste cicatrici, per abbattere questi muri. 

 

 

Per riprendere – ancora – le parole della Prefazione di Fabio Geda a La crepa, è anche grazie a queste persone che ci possiamo chiederci “ciò che siamo e ciò che vogliamo diventare”. Perché queste vite che volano via mentre le nostre scorrono si possono trattenere, perché queste porte sprangate si possono ancora aprire. 

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Umberto Fiori: la profondità dell’evidenza

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La luce sul muroè il titolo del documentario dedicato a Umberto Fiori. Prima che poeta Fiori è stato negli anni Settanta la voce del gruppo musicale “Stormy Six”, oltre che autore di alcuni dei testi eseguiti dal gruppo. Il film, opera di Giovanni Bonoli e Massimo Cecconi, è stato proiettato di recente a Milano. Racconta attraverso brani d’interviste con l’artista e interventi di suoi amici ed estimatori, la multiforme attività di Fiori. 

Negli Ottanta il gruppo si scioglie e Fiori si trova a ricominciare da capo. La poesia sarà il suo approdo. Pur avendo scritto anche alcuni saggi e un romanzo, e pur presentandosi ancora di tanto in tanto sulle scene come cantante, da allora si è mantenuto fedele alla poesia con la pubblicazione di diverse opere che, dopo essere uscite singolarmente per editori come San Marco dei Giustiniani, Marcos y Marcos e Mondadori, sono state raccolte qualche anno fa in un unico volume (Poesie 1986-2014, Oscar Mondadori, 2014) con l’aggiunta di un poemetto inedito che lascia intendere come l’attività poetica sia destinata a continuare. Dunque non è forse ancora giunto il momento di fare un bilancio della sua carriera letteraria. Tuttavia, a questo punto, potrebbe giovare prendere in considerazione l’opera poetica di Fiori nel suo complesso, almeno per delinearne lo spirito che la anima fin dagli esordi e rintracciarne gli elementi costanti.

 

Fiori, pur indossando l’abito dell’osservatore, non se ne sta in un angolo: è uno fra “tutti”, uno che guarda gli altri anche per vedere se stesso, e per capire cosa significa entrare prima in contatto e poi, appunto, in relazione. Così la sua poesia riesce a essere a un tempo distaccata e partecipe. In essa c’è l’umanità anonima, ma c’è anche un individuo con la sua voce ben distinta, che descrive e racconta quell’umanità. Il poeta è sì uno fra tutti, ma non uno dei tanti. “Mi chiamo Erik Satie, come tutti”, è una delle citazioni che Fiori ha posto in esergo a una sua raccolta (dal titolo Tutti, appunto), e che rende bene l’idea. 

Se l’attenzione del poeta è attirata da qualcuno o da qualcosa, non è per scelta preventiva, ma per una specie di predisposizione alla scoperta improvvisa, di sensibilità all’apparizione, all’illuminazione – verrebbe quasi da dire. Lo stile invece, come vedremo, è frutto di una precisa volontà comunicativa. Ed è proprio la combinazione tra il soggetto di cui si occupa e il linguaggio usato per trattarlo a rendere questa poesia così riconoscibile. Il mondo che il poeta ci presenta risente del suo spirito personale, e quindi, pur essendo lo specchio di quello quotidiano, è così fortemente caratterizzato che dopo la lettura – passando per certi luoghi, assistendo a certe scene, incontrando certe persone, ritrovandosi in certe situazioni – sarà difficile non esclamare: “Sembra di essere in una poesia di Fiori!” 

 

In tutti i componimenti di Fiori la perspicacia, unita alla chiarezza, è accattivante. Cominciata la lettura di un testo, possiamo stare certi che il suo esito sarà come la dimostrazione di un teorema: si resterà convinti, si sentirà di non avere obiezioni – e di essere felici di non averle – e ci si arrenderà con piacere a un’evidenza che ci dichiara limitati (perché noi non c’eravamo mai accorti di certe verità che avevamo sotto gli occhi tutti i giorni!), e nello stesso tempo dilata i nostri confini, e quindi anche i nostri orizzonti. Quei muri di cui il poeta parla, quelle case, quelle cancellate, quei cantieri, quei prati li abbiamo visti anche noi, su quell’autobus siamo saliti anche noi, quella sirena nella notte l’abbiamo sentita anche noi, quella discussione l’abbiamo avuta anche noi. Tutti abbiamo visto, sentito e fatto le stesse cose di Fiori, ma lui ha saputo trarne osservazioni e analogie di valore universale. E ha saputo trarne conclusioni. Conclusioni che, appunto nel finale di ogni poesia, sono in grado prima di sorprenderci e poi di lasciarci compiaciuti. 

 

ALLARME

 

In piena notte

sui viali scatta un allarme.

Si ferma, e poi ripete

due note acute, tremende, con la furia

di un bambino che gioca.

Nei muri bui dei palazzi lì sopra

le finestre si aprono, si accendono.

 

Tranne la strada

in mezzo ai rami, vuota,

niente si vede. 

Si tirano le tende

e si rimane intorno a questo urlo

come si sta in un campo

intorno a un fuoco. 

 

da Esempi (Ed. Marcos y Marcos, 1992)

 

Sì, tutti abbiamo avuto le stesse esperienze di Fiori, ma solo lui le ha sapute rendere significative. Di più: solenni.

Solenni. Il termine potrebbe apparire inappropriato, vista l’ordinarietà delle scene descritte nei testi. Ma se ci facciamo caso, leggendo siamo indotti ad assumere spesso l’atteggiamento serio e composto di chi si trova di fronte a un luogo sacro; eppure ci stiamo occupando di un bar, di una piazza o di un condominio. 

Che cos’è allora questo senso di profondo rispetto che nasce in noi di fronte alla vita comune brulicante nei versi? Forse è la risposta umana più elementare alla rappresentazione dell’esistenza altrui, rappresentazione che in questi testi è così autentica da chiamarci in causa, trasformandosi in ammonimento, giacché all’autenticità non siamo tanto abituati. È come se gli altri, senza nemmeno volerlo, ci incalzassero, ci costringessero a definirci in rapporto a loro, divenuti improvvisamente sacri da ordinari che erano. Come se ci chiedessero: ti sei accorto di me? hai riconosciuto il mio mistero? capirai mai davvero chi sono?

 

STAZIONE

 

Nella sala d’aspetto

a un certo punto il rombo delle chiacchiere

è finito di colpo.

 

È stato lì che tutti

ai nostri posti

abbiamo alzato gli occhi e per un attimo

ci siamo visti.

 

da Esempi (Ed. Marcos y Marcos, 1992)

 

Fiori, in buona parte della sua prima poesia, si presenta come “uno” (cioè si identifica in una persona qualsiasi) che si sposta per la città a piedi o con i mezzi pubblici. Spesso è un passante, qualche volta un “passeggiatore solitario”, che si imbatte in qualcuno o qualcosa. Ogni fatto – il più usuale, il più banale – per lui potrebbe assumere le caratteristiche dell’evento, che in quanto tale contiene e trasmette senso, impone una sosta, un intervallo celebrativo in cui raccogliere e concentrare i pensieri; anzi, il pensiero, quello che normalmente si sfilaccia disperdendosi tra le mille incombenze della vita. 

Nel suo andare il poeta è una specie di romantico dimesso, che non fantastica e non si esalta, e che – con insaziabile interesse e compassata meraviglia – trova il sublime non nella natura, non nelle vette, negli abissi o negli spazi sconfinati, ma nell’immediato, nel familiare, nella routine: nel mondo consueto, insomma, dove sembrerebbe davvero difficile smarrirsi, e invece appare addirittura augurabile, giacché solo chi si smarrisce cerca la strada giusta. Chi conosce già bene il percorso, infatti, spesso neanche si accorge di star camminando. Fiori invece ha la curiosità (e spesso anche la chiaroveggenza) degli smarriti, cioè di quelli che cercano un orientamento leggendo in ogni cosa – in ogni ombra, quasi – un segno che rimandi a qualcos’altro, possibilmente a una verità: non alle grandi verità metafisiche, si intende, ma a quelle più modeste, quelle che possono accompagnare la vita di ogni giorno fornendo un minimo di rassicurazione. 

 

VISTA

 

La luce sul capannone,

le due finestre murate

e il fosso, lì sotto, e i platani,

hanno ragione.

 

Guardi, e ti chiedi

come sia possibile

imparare da loro.

 

da Esempi (Ed. Marcos y Marcos, 1992)

 

L’impressione è che questo passante o passeggiatore solitario sia un uomo che si lascia raggiungere e occupare dalle tante forme – dai tanti volti – del mondo altrimenti evanescenti. Prima coglie, poi capisce; cioè accoglie. Una volta accolta la realtà, diventa poeta e si incarica di restituirla e condividerla, e a questo punto noi lettori ci rendiamo conto di quanto – della realtà e del suo significato – ci sia sempre sfuggito. Come siamo distratti, come siamo ciechi! E invece Fiori… Fiori, per così dire, è un visionario senza allucinazioni, un visionario a cui appaiono non le cose soprannaturali, ma quelle reali. È un visionario che vede quel che si vede. E proprio per questo vede anche quel che non si vede. 

Il poeta si muove dunque come un esploratore di ambienti già noti, ma con lo spirito con cui un esploratore vero si muoverebbe in un territorio sconosciuto: è attento, curioso, pronto a godere – se càpita – di una “bella vista”, delle “belle giornate” (come Montale dei limoni), ma soprattutto ad allarmarsi ad ogni rumore sospetto, cercando spiegazioni. Ha qualcosa del “botanico del marciapiede” baudelairiano, qualcosa dell’umile – e in un certo senso candida – disponibilità walseriana all’incontro, e qualcosa del semplice andare per le strade alla Sbarbaro: una predisposizione che è quasi un destino. È comunque più uno che si sposta tra due luoghi che un girovago senza meta. Perciò, se succede qualcosa che attira il suo interesse, si tratta di un incidente che interrompe il corso delle cose. Ma se il comune viandante è infastidito dall’interruzione, che ritiene gli faccia solo perdere tempo, il poeta invece ne è stimolato, perché in fondo l’interruzione è una tregua nella silenziosa guerra quotidiana. Ed è proprio nella tregua che si ritrova il valore del tempo, vale a dire della vita: la vita che è esposta a ogni sorta di insidie, di cui giungono di tanto in tanto dei segnali a chi è capace di riceverli. 

 

In Fiori, appunto, opera sottotraccia un acuto senso dell’insidia. Nella sua poesia c’è ansia, anche se a volte espressa con distacco o velata di ironia. Ansia per il mondo, per ogni elemento che lo compone. Anche in questo caso – come in quello della verità – non si tratta di qualcosa di metafisico. Fiori, pur mantenendo perlopiù un tono calmo e un contegno misurato, entra in allarme per le forme minori del male, quello che si presenta sotto l’aspetto dell’imprevisto, della discussione, dell’incomprensione, dell’equivoco, dell’incongruenza, del litigio: dell’imperfezione, in una parola. Tuttavia, attraverso questo interesse per le forme minori del male, è come se ci segnalasse l’incombenza del male metafisico, che potrebbe pure – come è sempre successo – assumere storicamente aspetti mostruosi, per non dire catastrofici. Per un motivo o per un altro nel mondo manca l’armonia, anche quando sembra che ci siano tutte le condizioni perché si realizzi. E se è vero quanto scrive Sartre, cioè che “l’inferno sono gli altri”, allora per reazione nasce subito il desiderio dell’opposto, cioè che gli altri siano il paradiso. Ma è un desiderio destinato a rimanere inappagato, o a trovare una soddisfazione solo parziale.

 

A voi io penso sempre. Penso alla mia

infinita mancanza.

 

Cos’altro ho avuto in testa,

tutta la vita?

 

Lo so, non ci sarete

mai abbastanza.

 

Ma perché allora, perché

non ce ne andiamo tutti via?

 

da Voi (A. Mondadori ed., 2009)

 

Ph Albarran e Cabrera.


Gli altri, appunto. Come si è detto, una volta entrati a far parte della poesia di Fiori, gli altri (e le situazioni in cui si trovano) ci costringono a fermarci e a soffermarci, a esserci e soprattutto a essere, mentre credevamo di dover solo fluire, trascorrere, svanire come anonimi uomini della folla. Ci sbagliavamo. Noi siamo perché guardiamo, e non solo perché pensiamo, sembra suggerire il poeta. Meglio ancora, siamo perché guardiamo in faccia. E infine siamo perché entriamo in relazione. Che quest’ultima sia fugace o durevole, superficiale o intima, facile o complicata, non importa: il contatto è sempre un’affermazione di esistenza. Dobbiamo solo stare attenti alle distanze, alla giusta misura. Dipenderà anche da questo se gli altri saranno l’inferno o il paradiso. È la giusta misura – così rara, così ardua – il presupposto necessario dell’armonia nelle relazioni con gli altri. 

 

CONTATTI

 

Lo vedi come sono

storto, contratto? Lo vedi questo piede,

quando mi siedo, come lo metto?

È tutto per lo sforzo, in tanti anni,

di non urtare le persone. Stretto

contro un sedile, dentro l’autobus pieno,

stare a posto, evitare

coi miei vicini

persino il minimo contatto.

 

Sulle panchine delle sale d’aspetto

o in treno, in corridoio, era una pena

ogni momento sentire sfiorarsi il buio

del mio ginocchio e del loro.

 

Ore e ore, giornate intere:

uno di fianco all’altro

stavamo, come i gusti del gelato

nel bar della stazione.

 

Di vero tra noi, di giusto,

lo spazio di due dita

era rimasto. 

 

da Tutti (Ed. Marcos y Marcos, 1998)

 

Insomma, nella poesia di Fiori ci sarebbe materia di approfondimento per studiosi di prossemica e antropologi, oltre che per psicologi e filosofi. Se ne ricaverebbero spunti per analisi del comportamento umano, paragrafi e forse capitoli di un libro. Eppure attraverso immagini potenti, capaci di fissarsi nella nostra memoria, viene detto già tutto. Attraverso un istante viene raccontata una storia, come nei migliori dipinti o nelle migliori fotografie. E attraverso una breve sequenza di istanti viene rivelato il senso di una vita intera.

 

Per Andrea Afribo (autore dell’acuta introduzione alle poesie raccolte nell’Oscar Mondadori) il poeta in diversi casi dimostra di avere una “sottile vena comica” nel rappresentare gesti ed espressioni dei suoi soggetti – così inadeguati, impacciati, velleitari. Questi anonimi tizi che si incontrano in ogni angolo – e che, a pensarci bene, potrebbero essere l’immagine di ognuno di noi, del nostro lato insufficiente – ben presto sono avvolti in un’aura umoristica, in senso pirandelliano. Il poeta, infatti, prima avverte il contrasto tra ciò che dovrebbe accadere e ciò che invece accade, e poi riflette, con poche parole folgoranti o con similitudini inattese. In queste occasioni l’umanità ci appare prima comica, appunto, e poi tragica. Tragica perché neanche si accorge di lottare per consistere, più ancora che per esistere. La comicità allora, sempre in termini pirandelliani, diventa umorismo e spinge alla pietà. Le scene descritte da Fiori, inoltre, sconfinano nel comico quando si incentrano sulla banale quotidianità dell’uomo, sui suoi tentativi – non si sa se più goffi o più miseri – di innalzarsi, magari ragionando e sproloquiando durante una discussione per ottenere una vittoria del tutto inutile. E in un certo senso si potrebbe considerare comico – con una striatura patetica – anche il piacere di essere notati nel mare magnum dell’anonimità urbana. 

 

CAPO

 

Quando uno per strada

sente chiamare «Capo!»

e si volta, e si accorge che ce l’hanno

proprio con lui,

gli sembra un onore grande

essere lì presente: uno che passa,

un uomo valido, che può dare una mano

e poi sedersi a tavola, magari

al ristorante, mordere il pane

e ricordarsi il mondo della luna,

dove non si era niente.

 

da Chiarimenti (Ed. Marcos y Marcos, 1995)

 

Nelle opere di Fiori non ci sono solo personaggi. Ci sono anche le cose, perlopiù appartenenti a un mondo en plein air. E anche le cose, nella sua poesia, sono “gli altri”. E sono testimoni. Tutto ci osserva mentre noi passiamo. Le cose non ci vedono, ma noi abbiamo la sensazione di essere visti. Non è che una proiezione, naturalmente, ma è di questi giochi mentali, di queste illusioni, che si vive e si muore. Un muro, una strada, una casa: tutto ci guarda, ci chiama. Così, ancora una volta, siamo costretti a definire la nostra identità, perché non ci siano equivoci insanabili, dal momento che alle cose non possiamo fornire spiegazioni o giustificazioni. Siamo inoltre costretti a rispondere a domande non poste, il che certo ci fa sentire creature deboli e sperdute, ma dotate pure di senso e di valore. Il senso e il valore – la dignità, verrebbe da dire – di chi appunto è chiamato a dare risposte, cioè a essere responsabile.

 

MURO

 

In certe ore

sopra il distributore di benzina

un muro nudo si illumina

e sta contro l’azzurro

come una luna.

 

A un certo punto uno

abita qui davvero

e guarda in faccia queste case, e impara 

a stare al mondo,

impara a parlare al muro.

 

Impara la lingua,

ascolta la gente in giro.

Incomincia a vedere questo posto,

a sentire

nel chiaro dei discorsi

la luce di questo muro.

 

da Esempi (Ed. Marcos y Marcos, 1992)

 

Che possa essere l’inanimato a rivelarci che abbiamo un’anima è una felice scoperta della poesia di Fiori, il quale, piuttosto che volare in un cielo astratto, preferisce lasciarsi contaminare da immagini e suoni terreni, senza compiacimento e senza voluttà, bensì con la sommessa gioia filosofica di chi crede che la gloria non risieda nello splendore, ma nella apparentemente tranquilla, grigia, normale evidenza del mondo. 

 

Detto questo, detto che gli ingredienti della poesia di Fiori sono le cose, i fatti e le parole di ogni giorno, bisogna sgombrare il campo da un possibile fraintendimento. Siamo di fronte a una poesia fatta di cose minime, ma non minimalista, perché i suoi elementi costitutivi si pongono in rapporto con un mondo più grande. Una stella nello spazio celeste è apparentemente una minima cosa, ma di per sé non è affatto piccola, e rimanda ai segreti dell’universo. Anche il corpo più bello è composto di cellule, e i discorsi più importanti sono composti di singole parole. Le unità elementari che costituiscono il mondo e la vita sono dunque l’oggetto di interesse di questa poesia così lieve e insieme così severa, di questa poesia fatta di una povertà illuminante: perché è proprio grazie alla povertà che si riconosce il valore di ogni cosa. E non tragga in inganno la concretezza dei suoi ingredienti: la poesia di Fiori sottintende un pensiero continuato. È una poesia pensante, ma soprattutto pensosa. Una poesia in cui il pensiero si sviluppa per situazioni, personaggi, accadimenti, non per speculazione. L’autore, ricorrendo spesso allo “straniamento”, che per lui è una forma mentis prima che una tecnica letteraria, contribuisce alla scoperta delle verità più chiare, che sono paradossalmente le più invisibili. Nelle scene descritte tutto all’inizio è come deve essere, però d’un tratto succede qualcosa, una minima cosa, che crea una distanza fra l’osservatore e il fatto, una sorpresa, e subito dopo il bisogno di una interpretazione che provi, se non a rimettere ordine nel mondo, almeno a contenerne il disordine.

 

Fiori così, sempre intento a unire pensiero e concretezza, genera (o trova per strada) immagini destinate a produrre effetti. Ed è proprio l’efficacia la maggiore qualità della sua poesia. Il lettore non può rimanere indifferente. È toccato, coinvolto. Si ritrova. In lui succede qualcosa: vibra un’emozione, si sviluppa un ragionamento. Ma se questa poesia riesce ad essere efficace, è anche perché il poeta si considera uomo fra gli uomini, come si è detto, e sente di dover rinunciare a intellettualismi e preziosismi, virtuosismi e sperimentazioni, in nome di una volontà superiore, quella della comunicazione. Così, le verità (i “chiarimenti”) tanto difficili da raggiungere nelle infinite discussioni con gli altri, trovano nella chiarezza della sintesi poetica una possibilità di rivelarsi. 

 

DISCORSI

 

Parlare con la gente

è fatica:

sempre spiegarsi, ripetere,

mettersi nei suoi panni.

E comunque alla fine

cosa si ottiene?

È dura, la gente.

Tocca sempre riprendere da capo,

chiarire, chiedere, rispondere,

senza mai essere sicuri

se quello che si vuol dire

è veramente arrivato.

 

(…)

da Chiarimenti (Ed. Marcos y Marcos, 1995)

 

La questione del linguaggio, per Fiori, è decisiva. Si tratta di una scelta ben precisa, riguardante l’etica prima ancora che l’estetica. La poesia – come la vita – è cosa comune, dunque un dono da condividere. E qui entra in gioco la componente retorica o, se vogliamo, antiretorica del testo. È necessario perdere “tutte le bravure”, ha dichiarato una volta il poeta stesso. Ma il perdere presuppone il possedere, quindi non significa altro che possedere e decidere di tralasciare. La semplicità per Fiori non è un limite ma un punto di arrivo, è frutto di una rinuncia non di una carenza. La semplicità, nella sua poesia, è tutt’altro che ingenua. Ogni immagine è scelta per la sua capacità di diventare esemplare. Ogni frase è misurata nel suo peso e nei suoi tempi. Ogni verso, ogni strofa è come un respiro, a volte tranquillo altre affannoso, ma sempre vitale. 

Poesia antiletteraria, allora? Sì e no. Ci vuole abilità, ci vuole ingegno a dissimulare le competenze: a perderle, come si è detto. Sicuramente i testi utilizzano un lessico comune e scorrono con naturalezza colloquiale, ma l’orecchio attento può cogliervi un certo ritmo, una certa sequenza di accenti, di pause, oppure certi richiami o rimandi fonici, che non risaltano – e quindi non distraggono dal contenuto del discorso – ma comunque rivelano la presenza discreta del poeta dietro i componimenti: un poeta che non ama la musicalità troppo facile, ma che lavora sotterraneamente per ottenere un’opera a cui accostarsi anche con le orecchie, oltre che con gli occhi. Insomma, Fiori raggiunge quell’equilibrio espressivo caro a Czesław Miłosz, riuscendo nell’impresa di usare un linguaggio né troppo poetico né troppo prosastico; un linguaggio che quindi si può definire antiletterario solo in parte.

E che dire poi delle similitudini? Sono tra le figure retoriche predilette dal poeta, forse perché creano immagini, o forse perché riportano in vita lo spirito dei poeti antichi, quelli più preoccupati di inserirsi in un contesto, di coinvolgere il lettore (o l’ascoltatore) in uno spazio condiviso, sotto il segno della parola. La similitudine è un invito: entra anche tu in questa casa, partecipa alla festa del significato, non hai niente da temere perché, come vedi, qui non ci sono estranei, e io che ti parlo ci tengo a farmi capire, a farti sentire a tuo agio, visto che sei un invitato. 

Così le similitudini proposte non sono (o almeno non sembrano) ricercate, ma comunque risultano sempre originali e sorprendenti (“sta al centro del parcheggio, l’autobus vuoto, / come un tempio in una valle.”). Sono similitudini perentorie. Tutto è chiaro, tutto è più chiaro, alla fine.

 

STARE

 

A volte in una via

tranquilla, piena di ombra,

si vede dove stiamo,

cosa ci regge.

 

È un posteggio, qui,

non un posto.

Un magazzino,

una specie di sgombero.

 

Tutto vicino:

le cose grandi

e le cose da poco

gomito a gomito.

 

Si sta col cielo, qui,

e con la terra,

come per strada i piatti

col frigo e le piante grasse

per un trasloco.

 

La poesia di Fiori, in definitiva, rispetta il lettore. Grazie alla sua evidenza lo raggiunge e ne attrae l’attenzione. E grazie alla sua capacità di indicare senza impartire lezioni e di illuminare senza abbagliare, lo affianca amichevolmente nel suo cammino.

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Che cos'è oggi la letteratura

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Pensavo alla letteratura, ai libri che hanno intrecci con altri libri, ai libri che creano forme nuove. Pensavo al fatto che questi libri oggi, come nel passato, non arrivano al popolo, che intanto si è dissolto, ma non arrivano neppure agli altri scrittori e a quelli che una volta divugavano la letteratura. Questo lavoro assicurava la lenta combustione che la letteratura deve avere, permetteva a un libro di trovare negli anni i lettori che meritava. Oggi accade semplicemente che non ci sono luoghi per proteggere i libri belli, per tenerli a caldo. Arrivano in libreria, se arrivano, arrivano agli amici di chi li ha scritti, arrivano ad avere anche qualche recensione, ma è come se portassero il segno di una vicenda privata: appartengono solo a chi li ha scritti, non sono da considerare un patrimonio collettivo, non sono neppure da confutare, non c’è neppure bisogno di rimuoverli, il chiasso delle parole che si producono ogni giorno provvede da solo a mettere la letteratura in una condizione di irreperibilità. 

 

È superata la questione tra le opere facili e quelle difficili, tra l’alto e il basso, semplicemente le parole letterarie stanno a mezz’aria come tutte le parole che pronunciano ogni giorno milioni di persone. Siamo dentro un fenomeno scandaloso che non scandalizza nessuno. La parola non viene da nessun silenzio, non ha nessun silenzio a cui appoggiarsi. Il silenzio semmai è il prodotto del libro bello. Si può solo quantificare quanto silenzio produce, come se a un certo punto si potesse pensare che solo l’indifferenza è la prova della qualità di un’opera. Ma pure questo ragionamento è un errore. In realtà, semplicenente, il giudizio non si forma e non viene pronunciato, non c’è giudizio per la letteratura né da parte di una cerchia ristretta né da parte della comunità dei lettori.

 

Ph Murray Fredericks.

 

Al massimo si parla di un libro per qualche tempo, può anche accadere che venga acquistato, ma non c’è modo di collocarlo nella cristalliera della letteratura nazionale. E questo semplicemente perché la cristalliera non c’è più. Il grande imputato del furto è la Rete, ma si potrebbe anche pensare che sono gli scrittori stessi, che si ostinano a pensare alla letteratura come a un oggetto che deve avere una certa pellicola formale, e magari è proprio quella pellicola che non ha più senso. Se una volta la scrittura era il desiderio che si opponeva alla norma, ora bisogna pensare a un lavoro di restauro. Sembra quasi che gli scrittori per fare letteratura non debbano più essere dei sovversivi, ma dei conservatori, sembra che il buon senso sia più intenso del delirio.

 

Se la letteratura è portare le parole a un certo grado di intensità, oggi è molto difficile trovare questa intensità in parole pensate e stampate come letterarie. I lettori, sia quelli semplici che quelli smaliziati, sembra abbiano bisogno di parole esposte, dirette, senza profilattico. Non si tratta più di sottrarre alla realtà qualcosa che poi la realtà deve cercare, si tratta di sottrarre all’irreale qualcosa che apparteneva al reale. Forse facendo un’operazione di questo tipo si fa la letteratura possibile al tempo della Rete, un luogo che è tutto un gigantesco sintomo nevrotico di un’umanità che non esiste.

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South Africa. Diario di viaggio

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Parte prima

 

Tra i jacaranda esplosi di violenti rossi e malva, nel quartiere di Linden, a nord di Johannesburg, è l’ora di uscita di bambine e bambini da scuola. C’è il filo spinato elettrificato e le mura sono alte. La zona residenziale è molto curata. All’angolo, di fronte alla scuola, un emporio di formaggi naturali invita coloro che passano in Suv a fermarsi per assaggiare un ritorno alla terra e ai sapori autentici. Gli scolari cominciano a sciamare. Sono ben curati, vestiti con le divise della scuola. I loro genitori aprono le portiere delle grandi auto e dei pick-up perfettamente puliti. Sono tutti a piedi nudi e, senza scarpe, salgono sui veicoli dei padri e delle madri. È una scuola boera, frequentata dalla minoranza bianca che per ventisei anni ha dominato questa terra con l’apartheid, il regime segregazionista rimasto in vigore fino al 1991. Allevati dai genitori per essere dei veri africani, orgogliosamente afrikaaner, attaccati alla terra e alle tradizioni, sono pronti a dimostrarlo con tenacia e con tutti i mezzi, farmer nel cuore anche se gestiscono banche e miniere. I piedi nudi sono il simbolo del loro non essere viziati dalle comodità cittadine e dal successo economico. Oggi però tutto questo è simbolo di una sconfitta. Subito dopo le elezioni, che hanno portato Mandela a essere il primo presidente di un Sud Africa liberato dall’apartheid (1991), tre dei sei milioni di bianchi che costituivano la minoranza al potere – su una popolazione di cinquantacinque milioni di neri, coloured e indiani – sono andati via. Oggi, i tre milioni che rimangono sono un visibile resto sospeso tra chi vuole rimanere per una sincera affermazione di una democrazia arcobaleno (un’idea sempre più difficile da abbracciare) e tra chi vuole restare perché ha ancora in mano gran parte della ricchezza del paese. 

 

Nelle stesse ore in cui le scuole si svuotano, il centro di Joburg, come tutti qui chiamano la capitale economica e finanziaria del paese, mostra la sua trasformazione in atto, che ha cambiato radicalmente il volto del “financial district”. Laddove c’erano le sedi di banche, holding, società che gestivano oro e diamanti, ora c’è un quartiere abbandonato fatto di edifici in vetro e cemento, con le orbite vuote dei portoni e delle finestre, le facciate scrostate. Abbandonato e occupato da una marea di disperati homeless, di neri esondati dalle township, di nuovi immigrati da paesi come Botswana, Zimbabwe, Mozanbico. Dormono per terra, in edifici senza luce e acqua. Ci inseguono ossessivamente e a volte minacciosamente per avere qualche rand. Anche se i nuovi imprenditori neri stanno cercando di riportare in vita il centro con jazz club, guesthouse e gallerie d’arte, se cercate di farvi un giro più largo dell’isolato che contiene la loro buona volontà, vi dicono di farlo con molta prudenza e circospezione. Aggiungono che non è molto diverso qui dalle grandi città del mondo, ma poi vi raccomandano di non oltrepassare la linea invisibile che separa questa parte della città da un’altra oltre Constitution Hill, la storica collina dove è stata approvata la nuova costituzione. Oltre quella collina c’è una zona grigia, pericolosa, disperata, arrabbiata.

 

 


The “rage” è la marca di scarpe da donna più venduta alla nuova piccola borghesia nera emergente. Scarpe sexy, ben disegnate e a poco prezzo. Ma “rage” è anche la parola più sentita. A 26 anni dalla fine dell’apartheid, con un parlamento e un governo costituito in gran parte da neri, la distribuzione della ricchezza è cambiata ben poco. Sono lì a dimostrarlo le immense township, come Alexandra, Soweto e le altre decine di baraccopoli di milioni di abitanti neri e coloured. Un termine con cui qui vengono chiamati i mezzo-sangue, il misto di abitanti originari, khoisan e bianchi, di malesi, cioè di popolazioni provenienti dall’Asia e mescolatisi con neri e indiani. I coloured sono oggi i nuovi discriminati. Ci sono certamente i nuovi ricchi black e c’è soprattutto una classe di politici black ricca e super-corrotta capeggiata dal ladro per eccellenza: il presidente Jacob Zuma. 

 

Si dice che due rand (la moneta sudafricana che subisce una svalutazione che si va pericolosamente accelerando) su tre delle imposte pagate dai cittadini vengono stornati, rubati dalla corruzione politica. Zuma è uno zulu che appartiene al partito di Mandela, quell’African National Congress (ANC) che ha avuto migliaia di martiri e centinaia di migliaia di militanti e che ha messo in ginocchio i nazisti bianchi al governo, Botha, De Klerk e compagnia bella. Mandela l’aveva però annunciato che la caduta dell’apartheid sarebbe stata solo l’inizio “Now we are free to be free”. Oggi, a distanza di ventisei anni da quello storico momento, sono molti i giovani neri nati “liberi” che gli rimproverano di non avere fatto quello che si doveva fare, soprattutto levare ai bianchi le risorse che appartenevano al paese, nazionalizzare le miniere e la terra. Il Sudafrica di oggi continua a produrre buona parte dell’oro e dei diamanti che vanno in giro per il mondo, ma i profitti non ricadono sul paese. La questione della terra e della proprietà è più scottante che mai.

 

L’ANC si è trasformato in una democrazia cristiana che distribuisce assistenza. Si parla del sessanta per cento di neri impiegati in mestieri pubblici che non sono altro che un tipo di welfare, soldi dati alle township con una politica immobiliare pubblica di costruzione di nuove case unifamiliari. Una politica che ha migliorato (in dieci anni se ne sono costruite milioni) radicalmente le condizioni di chi ci abita, ma che li ha piantati ulteriormente in queste immense distese di lamiera e baracche che sono anche la continuazione di un apartheid sociale e non più razziale. Il partito al governo sta semplicemente consumando le risorse che ha trovato all’arrivo al potere, e adesso con l’acqua alla gola ha chiesto un prestito alla Banca Mondiale per continuare a pagare i milioni di assistiti e sotto-assistiti. Il paese è in bancarotta, si parla di catastrofe imminente. Le campagne non hanno acqua, perfino Capetown, la bellissima città ventosa tra l’Oceano Indiano e l’Atlantico, è in condizioni critiche, e non si tratta solo della siccità e dello slittamento della stagione delle piogge dovuta al cambiamento climatico. 

 

La fuga dei bianchi adesso è accompagnata dalla fuga dei neri e coloured. Visto che ci vogliono dai dieci ai diciotto mesi per ottenere un visto, già si sa che il 2018 sarà l’anno della più grande fuga dal paese, superando i sette milioni che già sono andati via negli ultimi venti anni. La gente fugge dalla “rabbia”, la rabbia nera di chi si aspettava che il paese diventasse un luogo vivibile e più giusto e invece si è visto ricacciare nella propria emarginazione. La rabbia dei neri che si sono trovati a contare ventimila morti nella repressione avvenuta subito dopo la caduta dell’apartheid, proprio per mano di quel De Klerk che ha avuto il Nobel per la pace con Mandela, e a causa della guerra politica tra l’ANC e l’Inkhata Freedom Party, il partito Zulù che non aveva accettato la vittoria dell’ANC. Si parla di ventimila mila tra morti e scomparsi nei dieci anni dopo la caduta dell’apartheid. I neri fuggono dall’insicurezza delle città, dal pericolo di essere oggetto di furia e aggressioni da parte di altri neri e coloured. Le loro township sono considerate le più pericolose. È una storia complessa, raccontata magistralmente in tono tragicomico in Born a CrimeNato come crimine da Trevor Noah, il divertentissimo anchorman che oggi vive negli USA e anima il Daily Show su Comedy Central. Fuggono i bianchi, anche quelli che si sono battuti con Mandela, sia quelli progressisti che vogliono cambiare il paese, sia quelli che si stanno prodigando per risanare l’economia e hanno inventato nuove produzioni sostenibili. Fuggono perché sono tartassati dalle imposte, mentre i figli hanno pochissimo accesso alle università. La questione del colore, rovesciata, ma poi mica tanto, continua ad essere determinante.

 

Quelli tra i black che ce l’hanno fatta vengono odiati dalla maggioranza black e apostrofati “coconut”, neri di fuori come il cocco ma bianchi dentro; i meticci, i coloured vengono chiamati “yellowbone”, ossa gialle, rispetto ai “blackbone”, le ossa nere dei black al 100%. Il colore della pelle è ancora il criterio per avere più o meno diritti ed è la causa principale della violenza interrazziale. In parlamento, una parlamentare bianca si è lamentata che in spiaggia ci fossero tante scimmie, intendendo i black. È stata subito espulsa dal parlamento e dal paese. Ma un parlamentare nero le ha risposto dicendo che i bianchi andrebbero tutti cacciati e che a parecchi di loro bisognerebbe tagliare la lingua. La questione della violenza è qualcosa che è difficile affrontare. Mandela è stato accusato di avere coperto gli omicidi organizzati dalla sua ex moglie, Winnie Mandela, con la tecnica atroce del necklace, del laccio intorno al collo. Omicidi che fanno parte del pre ma anche del post-aparthied. La violenza la si sente nell’aria soprattutto a Joburg, anche se vi dicono che in buona parte è normale per un paese che ha subito secoli di vera violenza bianca.

 

Anche i neri però vogliono andar via perché è come se le grandi masse black liberate non vedano di buon occhio chi emerge, chi si smarca dalla maggioranza e quindi automaticamente diventa parte di quella “negroland” di cui parla Mago Jefferson in Negroland, confessioni di una borghese afroamericana. Nessuno come Nadine Gordimer ha raccontato gli anni dopo la caduta dell’apartheid. Nello struggente Ora o mai più una giovane coppia mista, lei nera, lui bianco, entrambi militanti, decidono che il loro paese non è più un posto in cui vivere, proprio perché in una coppia mista le contraddizioni, i pregiudizi, le rabbie esterne e i problemi interni sono più pesanti. 

 

 

Perché sono venuto qui? Per un progetto di formazione degli studenti dell’Università di Slow Food. Questo comporta che essi incontrino presidi e persone che lavorano in altri paesi connessi alla stessa filosofia: sicurezza alimentare, sostenibilità ambientale e giustizia sociale. E attraversare Johannesburg tra farmer, butcher, macellai di carni allevate senza additivi pesanti, produttori di birra bianchi e neri, ma anche gardener a Soweto, chef neri e imprenditori di locali nella fascia più pericolosa tra le township, è stata un’esperienza formidabile. Un Sudafrica che cerca di attraversare il buio e di scrollarsi di dosso la corruzione politica, ma anche il fatalismo degli assistiti. Due magnifici personaggi, Caroline, una butcher, bianca, figlia e nipote di macellai, che ha deciso di salvare la competenza che esiste tra i neri riguardo alla carne – i black vanno pazzi per il “braj”, il bbq, che è il momento di vera socializzazione di tutto il paese – e allo stesso tempo è l’animatrice di Slow Food in Sudafrica. E poi c’è Calvin, un giovane nero di Soweto che ha lanciato un movimento per il recupero degli spazi abbandonati a Soweto e per la loro trasformazione in orti che diano da mangiare agli studenti delle scuole. In un paese in cui la Del Monte e le altre enormi multinazionali dell’agricoltura obbligano tutti a comprare i semi geneticamente modificati e in cui l’alimentazione è tutta ogm, con l’effetto di milioni di persone affette da obesità e da diabete. E poi siamo andati nelle zone rurali, soprattutto nel Limpopo a vedere l’altra faccia del paese, quello tutto nero, che è molto più rilassato e cordiale di Joburg (“risposta armata” viene scritto su ogni cancello chiuso), senza fili spinati e guardie armate.

 

La campagna è piena delle tradizioni delle tribù Tsonga, Xhosa, Ndebele, Zulu (in Sudafrica ci sono ventidue lingue africane e alcune di esse mantengono le tracce delle lingue degli antenati khoi-khoi e San prima che i bianchi li cacciassero e distruggessero il loro modo di vita rendendoli schiavi. Alcune lingue hanno gli schiocchi – x, q, ! –, che affascinano i linguisti, e sono legati alla incredibile cosmologia di antichi regni e di millenari nomadismi). In campagna abbiamo incontrato Themba, un giovane che anima il progetto “Diecimila orti” lanciato da Petrini qui qualche anno fa: un modo di mobilitare le donne, di metterle in cooperativa. Una bellissima mattina Themba ci ha portato dalle signore del sale, grandi madri che nei costumi Tsonga estraggono il sale dal letto di un fiume con una tecnica che sembra uscita fuori direttamente dal paleolitico e che è un presidio slow food Sale di Baleni. Con Themba abbiamo imparato molte cose andando in giro per mercati, partecipando ai “braj” e alle cene tribali dove il sistema alimentare locale ci veniva offerto come qualcosa da sperimentare direttamente nel suo contenuto simbolico e nutritivo: polenta “pap”, erbe selvatiche, larve di cicale, piatti di farina di arachidi e di zucca, manghi, e tutto ciò che tribù per tribù era cibo di festa o quotidiano. 

 

Alla domanda del perché sono qui veramente, devo però rispondere in altro modo. Sono qui perché ho deciso di voler capire cosa significa vivere in paesi in cui i neri non sono solo “ospiti” discendenti di schiavi o di colonizzati trapiantati nelle Americhe o in Europa. Volevo capire cosa significa essere neri come nativi, nero la cui casa è l’Africa. Cosa significa per un nero essere africano. Ho deciso di immergermi nelle realtà africane senza alcuna pretesa di fare cose utili, di mescolarmi o altro. No, vorrei soltanto stupirmi come mi è successo in Kenya qualche mese fa, dove sono stato approfittando di un altro progetto sull’alimentazione. Il cibo è una scusa, una chiave, un modo straordinario di entrare nel mondo africano, di infilarsi in esso senza fare troppo rumore. E lo stupore è arrivato, di fronte alla diversità, ma anche alla costanza, ai modi di pensare e di vivere, all’estetica africana, al quotidiano, che va dal modo di camminare delle donne al modo di danzare degli zulu che si lanciano all’indietro per cadere con le spalle a terra. È un mondo di sguardi, di risate, di scherzi, un mondo soave ma che può essere arrabbiato, serissimo. Quello che ho appena imparato è che non ne sappiamo  molto, e che più se ne sa, più profondo è lo stupore. È un omaggio a Michel Leiris, che queste cose le aveva provate nel suo lungo viaggio in Africa e le aveva annotate nel suo Afrique Fantôme. L’Africa come mondo che i bianchi possono capire e conoscere certamente, ma solo se si riescono a sbarazzare di qualunque pretesa di comandare, come è stato tragicamente nella storia degli ultimi secoli, ma anche di aiutare, come è stata l’illusione distruttiva degli aiuti allo sviluppo che hanno fatto tantissimo danno, forse più del neocolonialismo. E in cui il Sud Africa sta cadendo: in un mondo in cui “money” è la cosa più importante e la si vede come un “miracolo” che dovrebbe arrivare da fuori. 

 

A Gyani, in Limpopo, Themba ci accompagnava a vedere le decine di chiese nate come funghi in tutta la regione, chiese cristiane di qualunque tipo di setta che però sono accomunate da una stessa storia: un prete o un profeta che comincia a predicare invitando tutti a pregare per diventare ricchi. E il segno che il miracolo sta per arrivare è che il prete stesso è capace di comprarsi una Mercedes-Benz con i soldi dei fedeli. Il demonio, i demoni da cacciare con preghiere e rituali e un misto di stregoneria e medicine tradizionali devono lasciare il posto ai “money”, che sicuramente prima o poi pioveranno sui fedeli. È quella che gli antropologi sudafricani Comaroff, marito e moglie, chiamano nuovo capitalismo religioso. E non avviene solo qui, ma contemporaneamente in Russia, in America Latina e in Asia. E se il miracolo non arriva sarà sempre colpa di qualcuno.

 

Parte seconda

 

E ieri sfidando il vento a settanta chilometri orari sulla spiaggia di Clifton Beach a Capetown, un luogo che sembra strappato alla Costa Azzurra se non fosse per l’imponenza e la minacciosità dell’oceano e del kelp, delle immense alghe, pensavo che invece la caduta dell’apartheid si vede, eccome. Queste famiglie black con i loro bambini che affrontano la risacca, queste magnifiche fanciulle nere che si fanno i selfie in costume accanto alle palme, un matrimonio coloured celebrato sulla spiaggia. Deve essere davvero qualcosa per i quarantenni, per i cinquantenni che fino al ‘91 non potevano venire qui, non potevano frequentare i quartieri dei bianchi, i bar, i luoghi di ritrovo, la città. Adesso potersi muovere liberamente deve essere un piacere unico, da spiegare ai ventenni che non sanno cosa significava avere un pass che doveva essere timbrato all’uscita delle township e ritimbrato al rientro. Che non sanno che le famiglie dei coloured venivano rilocate in lontanissime periferie, agglomerati di baracche, e che spesso, visto che i figli non avevano lo stesso colore di pelle dei padri, venivano separate. Se uno pensa alla follia tutta afrikaaner e tutta olandese di queste leggi recentissime, degli anni ’60, vengono i brividi. Com’è possibile che un paese moderno che aveva abolito lo schiavismo abbia potuto concepire qualcosa che somiglia da vicino a immensi campi di concentramento? Nella logica delle township c’è una barbarie che a distanza di sessant’anni viene difficile da spiegare.

 

Barbarie british e afrikaneer messe insieme e spavaldamente, opposte alla condanna del resto del mondo, alle denunce delle Nazioni Unite. In realtà una complicità che vedeva Europa e Stati Uniti fare il doppio gioco. Rimane un mistero da spiegare però: com’è possibile che gli europei abbiano fatto un tale tragitto dentro la barbarie e a soli vent’anni di distanza dalla caduta del nazismo? Oggi è difficile perdonare tutto questo, anche se i giudizi del “Tribunale della riconciliazione” hanno cercato di far superare al paese questo orrendo passato prossimo. E se si pensa che i torturatori, gli assassini sono ancora a piede libero e che hanno raccontato con freddezza quello che fecero, allora si capisce la rabbia che cova ancora nel paese. Mandela è stato un grandissimo politico che aveva capito che la caduta dell’apartheid era legata alla capacità di gestire il negoziato, ma è stato anche un toccasana della coscienza europea. La sua non radicalità – però armata – ha permesso al paese di uscire dal Medioevo, ma sono per primi i bianchi a dovergli essere riconoscente per avere contribuito a voltare pagina. E un’altra cosa che si dimentica è che il governo nazista anglo-boero dell’apartheid è caduto anche grazie all’embargo e alla condanna del resto del mondo, per quanto ipocrita e parziale. Questo per ricordare che le pressioni internazionali contano molto.

 


Oggi a Capetown si capisce come potrebbe essere il Sud Africa del futuro: un posto bellissimo, con grandi e moderne infrastrutture, gestito bene, dove si può circolare per strada e frequentare la spiaggia. Però basta guardarsi intorno per vedere che per ora il prezzo di tutto questo è un’enorme spesa per la sicurezza, dove migliaia di guardie private sorvegliano locali e strade per consentire ai turisti di sentirsi in un posto normale. Capetown è l’opposto di Joburg da questo punto di vista, anche se Joburg è la capitale finanziaria e Capetown la vecchia capitale politica.

A Capetown ci sono le township, ci sono i coloured e ci sono gli homeless, ma probabilmente è il carattere piacione, il clima magnifico, il vento, i cieli veloci e la lentezza della città a rendere il tutto meno esasperato. Viene chiamata “Nine Months City”, perché ci vogliono almeno nove mesi per fare qualunque cosa.

 

In generale, entrare nella pelle di chi oggi, black o coloured, vive in Sudafrica significa provare il brivido, la vertigine di poter andare dovunque, di poter godere degli spazi e delle risorse di questo paese, per poi successivamente capire che c’è un apartheid molto più sottile che permane, che le township sono ancora lì, luogo di emarginazione per eccellenza, concepite come dormitori senza alcun luogo d’incontro, senza piazze, né servizi, né negozi. La grande politica del “township improvement” ha confermato e acuito la divisione spaziale. Anche se una classe media ha cominciato ad abitare i quartieri dei bianchi, anche se le spiagge oggi sono miste, veri quartieri misti fanno fatica a nascere e ci sono solo zone di confine in cui avviene una certa faticosa commistione. Un urbanista geniale e oggi molto famoso in Sudafrica, Edgard Pieterse, sostiene che il governo dovrebbe concentrarsi su queste aree di transizione, investire nella possibilità di convivenza. Le coppie miste neri e bianchi rimangono poche, mentre quelle tra le varie identità tribali nere sono da tempo uso comune. Il problema è che al fondo di tutto questo c’è un equivoco non chiarito. Solo un accesso effettivo alle risorse per bianchi, neri e coloured può formare una nuova classe dirigente mista, ma siamo ben lontani da questo, per ora. Quello a cui si assiste è l’emergere timido di un’imprenditoria dove i bianchi sono richiesti dai neri perché hanno più esperienza e accesso alle informazioni e dove i neri non vogliono la gestione delle imprese per non essere guardati dagli altri neri come quasi bianchi. Per aprire qualunque impresa però ci vogliono almeno i tre quarti di impiegati neri.

Oggi il mio barbiere su Long Street, “Widow Maker” (la sola scritta mi ha invogliato ad entrare, la bottega era piccola ma magnifica), mi spiegava che alla sicurezza ci tengono tutti e che sono gli stessi esercenti a pagarla. E mi ha rivelato qualcosa che avevo notato in questi giorni. Ci sono barboni, clochard che indossano il giubotto giallo dei guardiani e che in effetti sono pagati, pur ubriachi e ciondolanti, per farlo. Una strategia che funziona, per quanto chi li incontra non capisce mai se stiano chiedendoti qualcosa o indirizzandoti verso qualcosa. È l’aria di questa città caldissima e ventosissima, adesso prima di Natale, che rende tutti un po’ meno impauriti e spavaldi.

 

C’è un’atmosfera easy going che rende tutto godibile, come il bellissimo orto botanico al centro della città, il magnifico museo che ospita i grandi fotografi e la nuova arte etnica, i negozi che si concedono al turismo, ma anche alla qualità. E poi ci sono le librerie, fornitissime, affastellate dei libri di Coetzee e della Gordimer, ma anche di moltissimi altri autori antichi e di adesso. Della Gordimer è uscita una biografia mentre lei era in vita, No cold kitchen, di Donald Suresh Roberts, che lei ha contestato duramente. Le ha dato fastidio la descrizione del suo ruolo all’interno del governo di Mandela? L’essere stata troppo accondiscendente, avere coperto i casini che già da allora si profilavano nel governo? O invece a darle fastidio è stato l’aver pubblicato le lettere del marito a cui è rimasta accanto fino alla fine (di lui) pur avendo un affair da vent’anni con un uomo più giovane? D’altro canto la sensualità della sua scrittura, l’incredibile affezione per il desiderio, la caldissima maniera di raccontare le storie di sesso e di sentimenti, non fanno certo pensare a una donna rassegnata al “declino”. E i suoi ultimi libri, quelli scritti dopo che la biografia era già uscita, sono di una vivacità e di una sensualità sorprendente, come per esempio Ora o mai più o Beethoven era per un sedicesimo nero (c’è in questo volume un racconto magnifico su come lei si ri-incontrerà in un’altra vita con Edward Said, un uomo che ha molto amato, una grande dichiarazione di fede nella comunione dei santi – scrittori).

 

 

Il mio barbiere è per un sedicesimo siciliano, ma non si ricorda il cognome della nonna. E per il resto è molto mescolato, con altri bianchi, apparentemente. È simpatico, gioviale come potrebbe essere un californiano, ma senza alcuna affettazione californiana, come se la gente di qui avesse mantenuto uno spirito pionieristico. Finirò per innamorarmi di questa città, anche se Joburg mi fa pensare che molta parte della verità è altrove.

La cosa più forte dei giorni a Joburg è stata la visita allo chef Makalo e alla sua scuola di cucina per i ragazzi della vicina township di Midrand. È lui con la sua stazza da lottatore a condurci al Busy Corner. In pulmino ci descrive il crinale su cui corriamo che è sospeso tra la township di Midrand, tutta nera, ed Ebony Park, la township coloured in cui i neri non entrano per paura di essere derubati – a detta di Makalo. Quando arriviamo al Busy Corner, un enorme edificio con tetti a falda, grandi vetrate e tanto fumo che esce, l’effetto coprifuoco è sconcertante. Veniamo presi in carico dalla “sicurezza” black– questa volta in veste femminile, che ci scorta all’interno e ci fa accomodare in una zona leggermente discosta dalle altre. Intorno enormi barbecue, un bancone trasparente, con la scelta di tutta la carne possibile, e una folla di donne ed uomini black vestiti come se ci fosse una festa. E la festa c’è: l’Imbizo Shisaniama è un tipo speciale di “braj”, di barbecue, ed è una maniera di mangiare che significa essere neri a Joburg. Qui si mangia, si beve, si balla al ritmo del kweito, ma anche dell’hip hop e dell’elettronica. Siamo gli unici bianchi, oggetto di curiosità e di approcci tra lo sfottente e la sfida. Caroline la butcher, che ci ha organizzato le visite slow-food, ci racconterà che eravamo “custoditi” con particolare attenzione: qualche giorno prima era scoppiata una rissa e uno degli avventori era stato ucciso a coltellate. L’energia esplosiva si sentiva, sull’orlo di qualcosa, era sull’orlo che sedevamo, il limite tra due township tesissime. Quando usciamo “scortati” ci pregano di non allontanarci dal recinto, di non mettere nemmeno il naso fuori.

Joburg è il coprifuoco. Il mio barbiere mi dice che il Sudafrica è il primo mondo e il terzo mondo insieme: se fossi stato solo a Capetown non l’avrei mai capito.

 

Parte terza

 

Nel museum dell’Apartheid che si trova a Soweto, un capolavoro di come raccontare la storia di un paese e la storia della sua gente, si trova una ricostruzione ideale della cella che ha rinchiuso per una buona dozzina di anni a Robben Island Nelson Mandela (che tra una cosa e l’altra ne ha passati 27 in carcere). Si trova in un cortile esterno del museo, le mura rappresentate da una fitta intelaiatura di grate di ferro. C’è una panca e un’immagine, la riproduzione di una delle due foto che Mandela teneva in carcere. È l’immagine di una donna Xhosa, la tribù a cui Mandela apparteneva, che danza nuda. È una donna imponente e allo stesso tempo agile, con i grandi ma sodi seni al vento. È un’immagine che mette allegria, l’idea stessa della vita pulsante (l’altra foto era un ritratto di Winnie Mandela). Nella mostra dedicata a Mandela che si trova dentro al museo dell’Apartheid c’è un’osservazione che fa onore a tutto il museo. Si dice che Mandela, a differenza di figure come Gandhi a cui si ispirava – e che era cresciuto in Sudafrica e qui aveva elaborato la sua idea di lotta non-violenta e boicottaggio – non era un asceta. Quindi per lui stare chiuso per tanti anni in carcere deve essere stata una sofferenza indicibile. Ricordarsi che c’era la vita che lo aspettava doveva essere una specie di dovere nei confronti di sé stessi. Winnie era la seconda moglie, ma il suo rapporto con le donne era sempre stato di grande interesse – liberato si sposò per una terza volta – e così la sua curiosità per la musica, per la danza, per lo sport – era stato un pugile. Mandela aveva vissuto nelle township che erano allo stesso tempo un luogo di miseria ma anche di vitalità sorprendente – nel bene e nel male lo sono ancora, tutta l’innovazione musicale viene ancora da lì. Quindi l’immagine della donna nuda che balla è particolarmente significativa. E la mostra su Mandela si impegna a dimostrare che non era né un santo, né uno che aveva sempre ragione, un uomo normale, pieno di dubbi, tentennamenti e contraddizioni. Viene da pensare, mentre si gira tra queste sale, a personaggi simili ma di cui si è costruito il cenotafio in totale dispregio del loro lato autenticamente umano, Mao, Lenin, Castro. Per girare il Museo dell’Apartheid e la Mostra su Mandela ci vogliono tre ore piene, tra video, documenti, foto, ricostruzioni storiche e ricostruzioni di come si è formata l’opposizione nera, dal partito comunista all’ANC, all’African National Congress. E nonostante la presenza all’interno dell’ANC di alcuni bianchi, soprattutto dell’avvocato ebreo che sosteneva e difendeva gli arrestati, viene ribadito molto fortemente che all’interno del mondo “white” l’opposizione organizzata è stata sempre molto timida e incapace davvero di fare una qualunque differenza. I neri ce l’hanno fatta da soli, pagando di persona con migliaia di vittime e anni interminabili di torture e di carcere. A tutti viene ricordato che l’inizio della fine dell’apartheid è scoccato quando nel 1976 una manifestazione di giovani studenti di Soweto era scesa per strada per protestare contro l’abolizione dell’insegnamento in lingua locale, xhosa o zulu o ndebele e l’obbligo di insegnare in afrikaaner. La polizia aveva sparato ad altezza uomo, uccidendo un ragazzo di 15 anni, Hector Pieterson. Un fotografo presente Sam Nzima aveva colto la scena terribile di un altro giovane che teneva in braccio Hector morente e della sorella che urlava. La foto fece il giro del mondo e scosse la comunità internazionale rispetto alla follia boera e dei white south-afrikans. Tra l’altro il giovane che teneva in braccio, Mbuysha dovette scappare perché diventato lui stesso simbolo dell’anti-aparthied e l’ANC riuscì, pare, a farlo uscire dal paese. 

 

 

Andiamo in giro per Orlando West, questa parte di Soweto con Calvin che ci mostra gli orti che sta installando con un movimento di giovani negli spazi lasciati vuoti accanto alle scuole – oggi buona parte delle scuole di Soweto sono poco frequentate, i genitori neri preferiscono mandare i loro figli in scuole private, quelle pubbliche sono molto scarse nell’offerta di formazione. Con Calvin poi andiamo a casa di una famiglia con cui prepariamo uno schisa-nyama, la versione black del braj, del barbecue. Ed è un’occasione per farci raccontare qual è il cibo delle township: carne, salsicce, chakka-lakka, un’insalata marinata tagliata a pezzetti e piccantissima e pap, la polenta di farina di mais che è stato ed è lo “starch”, il cibo carboidrato base che riempie lo stomaco. Mentre siamo lì appare la birra tradizionale fermentata in casa in grandi bidoni di plastica, umqombothi. È una poltiglia compatta con un fondo liquido e acido che bisogna versare in bocca, passandoselo. Tradizionalmente è molto più che una birra, è un modo di interrogare gli antenati riguardo ai problemi domestici. È a loro che si offre questa bevanda sperando che ci aiutino e che poi ci lascino in pace. 

 

Ascoltando la padrona di casa sotto il tetto di lamiera rovente che ripara questa abitazione affollata – è stata rinnovata e ampliata con l’aiuto del fondo governativo, viene da pensare che le township che hanno una storia a volte di due secoli sono il modo con cui i bianchi hanno distrutto tra relocation forzate e gated communities l’enorme cultura nera che vi era in questo paese. Il patrimonio ricchissimo di lingue, di storia, di conoscenza del territorio, di medicina tradizionale, di allevamento ed agricoltura, di narrativa, di artigianato, di mitologia, tutto questo spazzato via dalla stupidità bianca e dalla convinzione che si potesse gestire un paese a a stramaggioranza nera con i campi di concentramento. Ma è un must del colonialismo, qui come in Kenya, la convinzione che bisogna ridurre i neri alla povertà culturale e alimentare estrema per piegarli. Oggi è di questo che soffre ancora il paese, per quanto le stesse township sono state e continuano ad essere un luogo di estrema creatività, come le storie di Sophietown, la township di Capetown rasa al suolo dai bianchi perché troppo vivace e oggi quelle di Gugulethu nella stessa Capetown e di Alexandra e di Soweto dimostrano. C’è un video molto bello prodotto dai nuovi gruppi musicali neri delle township che lo racconta, “Future Sound of Mzansi, 20 years into South Africa’s Democracy – welcome to the apartheid afterparty”. È il sound che viene fuori dalle township di Durban, Capetown e Joburg, un sound che nasce nel kweito che è un genere musicale lento e sincopato e poi si scatena nell’house e nell’elettronico al cui suono si balla fino all’alba. Buona parte di questi gruppi fanno la propria carriera come d-j nei parties e su YouTube – come racconta Trevor Noah nel suo “Born a crime”, anche lui ha fatto carriera come dj – e poi a volte raggiungono la scena londinese e internazionale. 

 

Una riflessione su questa maniera molto particolare di viaggiare attraverso “slow food” e le sue infinite connessioni in tutto il mondo, i presidi, i prodotti dell’arca, cioè quei prodotti che devono essere custoditi perché rappresentano un patrimonio di diversità alimentare, agricola, di allevamento, ambientale. Con gli studenti visitiamo birrerie artigianali, allevamenti di pecore “Pedi”, cioè una razza che appartiene all’etnia Pedi, dei farmers che producono formaggi a latte crudo, dei mercati rionali afrikaan e neri, le signore del Limpopo che fanno il sale su un fiume, le iniziative per i diecimila orti in zona Tsembha e così via. 

 

Il cibo, nelle sue componenti originarie, le risorse da cui proviene, e nelle sue trasformazioni culturali, gastronomia, sistemi alimentari, maniere di conservare, maniere di scambiare, è una finestra inedita, sì molto nuova per chi pensa di poter capire un posto. Perché col cibo arriva la vita quotidiana di un luogo e della sua gente, cioè il modo di entrare davvero dentro alla sua cultura. È una scusa, è un modo di partire da qualcosa di molto concreto per occuparsi poi del resto, ma è un modo efficacissimo. Lo vedo con gli studenti che mi accompagnano e che sono costretti a spalancarsi qui al mondo e alla sua complessità. Il Sud Africa è un posto particolarmente complesso, ma dalla birra domestica ai vermi – mopede – che si mangiano nel Limpopo è un modo di affacciarsi a una umanità inaspettata e di capire qual è la nostra responsabilità ma anche la nostra gioia partecipante a tutto questo. 

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Doppio sogno

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Palazzo Madama di Torino è uno scrigno che racchiude meraviglie. Il Museo Civico di Arte Antica, creato nel 1861 per volontà della Città di Torino, risale al lontano XIII secolo d.C., quando le cronache ne registrano la presenza come Castello di Torino, sede della corte d’Acaia. Le fondamenta poggiano però su mura di epoca romana e proprio la sua lunghissima storia ha permesso la stratificazione di elementi architettonici e lo sviluppo delle collezioni permanenti all’interno della residenza sabauda, trasformandola in quello che oggi possiamo ammirare come una delle realtà espositive più preziose della città.

In occasione di Artissima 2017 e Contemporary 2017, Elisa Sighicelli è stata chiamata a realizzare un progetto site specific che mettesse in dialogo elementi del museo con le proprie opere, creando un ponte tra passato e presente. È nato così Doppio Sogno, progetto installativo dalla lunga gestazione che si articola negli spazi fastosi delle sale barocche, al primo piano dell’edificio. 

 

Sighicelli opera su un piano estetico-percettivo e, per inserirsi nel discorso che i singoli elementi del museo intrattengono tra loro, sceglie di concentrarsi sulla veranda juvarriana. Si tratta di un salotto del piano nobile che affaccia su piazza Castello e, internamente, sulla doppia rampa dello Scalone d’onore, splendido esempio di riqualificazione barocca, opera dell’architetto messinese Filippo Juvarra che completa l’avancorpo del palazzo nel 1721, lasciando però incompiuto il progetto originale. L’ambiente costruito da Juvarra, grazie ai finestroni che permettono un trionfo di luce, è fastosamente scenografico e ricorda una maestosa galleria. Si tratta senza ombra di dubbio di uno degli esempi più alti di architettura barocca settecentesca e la perfetta fusione tra l’apparato decorativo, la luce e gli spazi ha sedotto Sighicelli, che per un anno si è dedicata alla concezione e allo sviluppo del progetto espositivo.

 

Riflettente trasparente, 2017 fotografia stampata su raso triptych, each photograph 246 x 135 cm.


Procedendo con meticolosa pazienza, l’artista torinese ha fotografato le finestre interne della veranda, scattando durante le diverse ore del giorno, studiando l’incidenza della luce e le rifrazioni sulle vetrate e sugli specchi. Le foto selezionate sono diventate il soggetto dei due trittici su raso e di due opere singole su cartongesso. L’irregolarità dei vetri antichi, simili a una superficie liquida, e i giochi di luce sono riprodotti nelle stampe su tessuto, e l’esperienza visiva dell’osservazione delle finestre si traspone nell’apparente fissità delle fotografie. Si tratta di una operazione che richiama la specificità del Barocco, in cui era uso modellare materiali tradizionali come il marmo attraverso il virtuosismo tecnico, evocando materie dalle caratteristiche tattili come soffici cuscini, veli, corde, carni, così da indurre uno stato di meraviglia nello spettatore. L’attenzione per i tessuti inoltre accompagna da sempre la ricerca di Sighicelli, già artista di Gagosian, Giò Marconi e Carbone di Torino, influenzata dall’Arte Povera e da un certo minimalismo. Nel ciclo Untitled del 2014, ad esempio, cattura dettagli di stoffe colorate per poi installarli in galleria inserendo veri chiodi nelle stampe, in corrispondenza dei punti in cui il panneggio si piega. Il risultato è un’immagine volutamente ingannevole, che elide la staticità della fotografia giocando con i differenti piani della rappresentazione, creando un continuum tra ciò che è oltre l’immagine, ciò che è nell’immagine stessa e ciò che è al di qua del piano di rappresentazione. La bidimensionalità delle opere viene contraddetta dall’illusione ottica e da elementi che oltrepassano il limite naturale della superficie della foto. 

 

Osservando l’evoluzione dei lavori dell’artista nel corso degli anni si coglie una precisa intenzione estetica e una volontà anti-narrativa: nelle opere di Sighicelli non ci sono storie da raccontare, piuttosto un intenso invito a osservare. Di formazione scultorea, l’artista conserva un interesse spiccato per il “display” e la relazione che l’oggetto instaura con lo spazio. Passando dal linguaggio plastico a quello fotografico, mantiene viva l’attenzione per ciò che comporta l’installazione e le dinamiche generate dalla presenza della foto intesa come oggetto, nella sua realtà fenomenica, e non come strumento di narrazione. Intenzione pienamente espressa anche nel progetto site specific voluto per Palazzo Madama, che condensa in sé una serie di temi cari all’artista.

 

Uno, trentasei e sei, 2017 fotografia stampata su raso trittico, immagine a sinistra 225 x 140 cm immagine al centro 225 x 118 cm immagine a destra 225 x 134 cm.


Il primo trittico che accoglie lo spettatore è Riflettente trasparente (2017), che inquadra la finestra interna della Veranda Sud, ripresa in un arco temporale che evidenzia differenti condizioni luminose. La morbidezza del raso crea un suggestivo effetto di liquidità che richiama proprio le caratteristiche di riflettenza delle cornici e la viscosità dei vetri, evocando una dimensione sensoriale e pittorica. Collocata all’interno della Sala Quattro Stagioni, l’effetto mimetico dell’opera è impressionante: ad una prima occhiata, è difficile accorgersi che si tratti di un’opera contemporanea e l’effetto sullo spettatore è piuttosto straniante. Anche Uno, trentasei e sei (2017), trittico collocato nella Camera Madama Reale, prosegue letteralmente il gioco di specchi, stavolta scegliendo di inquadrare porzioni differenti della stessa finestra, pur mantenendo invariata la dimensione dei tre singoli elementi dell’opera. L’attenzione si sposta qui alla relazione tra le porzioni dell’elemento fotografato ma la malìa evocata dalle tre opere rimane invariata. Osservandole si è presi in una vertigine dello sguardo, l’effetto “trompe l’oeil” fa sì che le opere rimangano sospese tra staticità e movimento, in una perenne condizione di indeterminatezza che l’occhio cerca di combattere, come se per propria natura necessitasse di una certezza della forma in cui acquietarsi. L’artista però non sembra interessata ad affermare uno statuto degli enti definitivo: sebbene la sua ricerca si manifesti attraverso un registro estetico, si avverte una inquietudine delle cose che contagia lo spettatore e lo induce ad indagare, cercando delle coordinate per comprendere l’attestazione dei piani di realtà e finzione. Si tratta di un tentativo destinato a fallire, perché malgrado le immagini create da Sighicelli non siano mendaci, tuttavia sono volutamente ambigue e elusive. Anche in Through the Single Glass (2017), nella Piccola Guardaroba, e Gyproc Habito Forte 5979 (2017), collocata nel Gabinetto Cinese, benché il supporto della tela venga sostituito dal cartongesso e la stampa venga ripresa dall’artista che sovradipinge la foto con vernici opalescenti, il gioco di mascheramento prosegue. 

 

Through the single glass, 2017 fotografia stampata su raso 140 x 140 cm.


John Berger scrive “La maschera non era che un trucco per smascherare”. La maschera che ritorna alla mente passeggiando per i saloni barocchi della mostra è naturalmente quella di Eyes Wide Shut, l’ultimo film allucinato (o il sogno lucido?) di Stanley Kubrick. La maschera è ciò che rimane dell’orgia a cui partecipa Fridolin, protagonista del romanzo di Arthur Schnitzler, che diviene Bill nel film che Kubrick trae dalla novella Doppio Sogno, datata 1926. Oggetto che nasconde, viene evocata per disvelare, proprio come accade nel teatro in cui il travestimento dell’attore e l’esercizio della finzione sono propedeutici al raggiungimento della verità. Siamo in un territorio di sogni, nella Vienna di Freud e delle sue incursioni nell’inconscio, e le opere di Sighicelli sembrano rimandarci lì, a quella zona offuscata tra il sonno e la veglia, tra la realtà e la possibilità, giocando a ingannare per svelare qualcosa che avevamo trascurato. Di fronte a ciò che consideriamo come assodato, il dato reale, cosa ci sfugge? Cosa stiamo smarrendo nel momento in cui posiamo il nostro sguardo distrattamente, accontentandoci della visione ammansita, e cosa invece si insinua nella sguardo che scruta e cerca, facendoci vacillare per un attimo, mettendo in discussione le nostre certezze? Come un’ombra che cattura la nostra attenzione nella coda dell’occhio, o una forma familiare che non riconosciamo e ci destabilizza, il fluttuare di queste forme ci interroga. Allusione, invito, ossessione dello sguardo ma anche ironia e una forma sottile di voyeurismo sono tratti che appartengono alla ricerca dell’artista, percorsa da una energia magnetica.

 

Gyproc Habito Forte 5979, 2017
fotografia stampata su cartongesso, pittura opalescente 143 x 95 x 3.

 

Nella sottrazione del racconto si condensa una forza psichica che diventa reale, e che connette tutte le opere in una rete di cui si avverte la vibrazione. Gyproc Habito Forte 5791 (2017), collocato tra due finestre, sembra riprodurne la forme e mutuarne le ombre, ma è un altro tranello, e anticipa l’ultima opera che da il titolo alla mostra, ovvero Doppio Sogno (2017), collocata proprio nella veranda. Giunti alla fine del percorso, osservando l’incandescenza dell’oro antico e le forme acquose del vetro impresse sul tessuto impalpabile, riemerge quel senso di mistero che accompagna lo spettatore lungo tutta l’esperienza della mostra. Si potrebbe tornare indietro, cedere alla tentazione di cogliere un dettaglio che ci era sfuggito, rimanere in contemplazione ancora di fronte alle opere, in attesa di una risposta. Vero è che nella dittatura dello storytelling, è difficile accettare di lasciarsi andare ad una esperienza visiva fondata sull’incertezza. Sembra che Sighicelli, eliminando l’onere del racconto, intraprenda una strada di condensazione e liberazione delle immagini, alla ricerca di una piena espressione visiva, svincolata dalla zavorra della certezza interpretativa. Una messa in discussione del dato oggettivo e un’operazione che mira a decostruire internamente la cartografia del reale, lavorando con il bisturi dello sguardo. Una lezione importante, per noi spettatori abbagliati da immagini che sbandierano una presunta verità, facendo capolino senza requie da l’infinita messe dei personal device e degli schermi digitali.

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Un intervento di Elisa Sighicelli a Palazzo Madama
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Una grande poetessa e un autoironico poeta

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E dilaga l’orda dolciastra dei piacioni su YouTube

Tutta la poesia che precede la documentazione sonora e visiva è muta. La leggiamo, prima. Dopo, anche se non si può certo dire che la poesia sia un genere documentatissimo, possiamo ascoltare e vedere la poesia. Nel secolo audiovisivo non sempre questo significa vedere-sentire il poeta; ci sono poeti che leggono orrendamente i loro testi magnifici, come Giuseppe Ungaretti, e altri che nel live documentato hanno cambiato la storia della poesia del Novecento, come Allen Ginsberg. Potremmo disperarci di non poter vedere o ascoltare Edgar Allan Poe, o William Blake, o Majakovskij… abbiamo Carmelo Bene che legge Majakovskij, e finissimi attori che rimettono nel testo qualcosa che la sola lettura non ci può dare. Uno dei miei primissimi ricordi di forte emozione poetica risale a quando, bambino nell’era del vinile, nella non nutrita discoteca di mio padre scovai un long playing nel quale Arnoldo Foà leggeva Federico Garcia Lorca, tradotto ovviamente: il Lamento per Ignacio Sanchez Mejìas mi ha dato per la prima volta la convinzione che la poesia era l’emozione più bella e assoluta che avevo mai provato, e mi ha convinto di voler imparare a scrivere come poeta.

 

 

Se avessi ascoltato Carmelo Bene che leggeva il Llanto non avrei avuto lo stesso choc dionisiaco, perché non ero pronto al testo e al contesto, al tragico e folle e sardonico sarcasmo di Carmelo Bene; mi bastava il silenzio finalmente rappresentato tra una parola e l’altra, tra una linea e l’altra; il bianco da quel momento poteva per me essere il silenzio che alla poesia serve per inspirare, per caricare l’ascolto della densità che segue, il verso dopo. Arnoldo Foà (nella traduzione di Carlo Bo?) era solenne, straziante, virile, funebre e anche se non sapevo ancora che in quella poesia c’erano la sensibilità e l’estetica di un apollineo ma sanguigno omosessuale, da quel momento ero preso, come Dioniso prende, e nell’apollineo della parola scritta scava un turbine violento di passione e di canto.

 

 

 

 

Mi ha fatto pensare questo l’ondata dionisiaca che Kate Tempest trattiene e poi scatena in acquazzone-lavacro-di-amore nel suo magistrale poemetto Let them eat chaos (Che mangino caos). Kate (Esther Calvert, all’anagrafe) ha 32 anni, ma ha volto e voce di adolescente; non ha una voce teatralmente educata, ha la sua voce; ma non è una voce languida di poetessa triste. Non si accompagna con la lyra con cui si accompagnavano tutti i poeti greci, ispirati dal fuoco passionale e dionisiaco delle Muse, ma conosce molto bene l’arte che le Muse hanno scaturito, ovvero la mus-ica, che è rimasta tanti secoli con la poesia, sino alla lengua de oc, ai troubadours che Dante conosceva e omaggiava non accompagnandosi più con la musica (dicono che Petrarca invece a volte si accompagnasse con il liuto cantando i suoi versi, ma non trovo il link!), e che erano “cantautori” che si accompagnavano con il liuto di origine andalusa. Non si accompagna con l’organetto a mantice indiano con cui Allen Ginsberg si accompagnò quasi sempre, e che se tace mentre lo leggiamo lo dimezza. (Ginsberg cantò Blake, trasformando le sue Songs of Innocence and Experience in nursery rhymes, in ballad ubriaca, in foolish song). 

 

 


Kate Tempest è una MC, una Mistress of Ceremony: il rap con i DJ ha aggiunto ai dozens di strada dei quartieri afroamericani di New York alla fine dei Settanta i primi scratch da vinile; i dozens erano battaglie di insulti tra gang in rime, erano cioè poesia di strada cui dopo si è aggiunta la musica come frammento ritmico, e non come melodia. Sul palco ricorda a memoria, senza sbagliare una parola, o perdere mai le svolte struggenti del suo lamento o furiose della sua invettiva, le centocinquanta pagine del suo poema. La accompagnano alcuni strumentisti, che al suo scritto (che possiamo leggere tradotto davvero bene da Riccardo Duranti per e/o) e alla sua passione aggiungono un doppio ai silenzi.

 

Kate racconta sette insonni nella stessa notte di Londra; «It’s four eighteen» sono le 4:18 di lui e lei strafatti di menfetamina o distrutti da un turno di notte, etilisti in vicoli sordidi e fighetti e fighette della City con i loro weekend e i loro mutui. Tutti sono disperatamente soli, ma sono «the people. The life. | Their faces are bright in your body. | You’re feeling. | You want to be close to them. | Closer»: Kate comincia così verso il pubblico nelle sue potenti e stupende performance; è veramente maestra di cerimonie, è sacerdotessa druidica, invasata dai suoi dei, sudata, con i boccoli biondi che mulinano sulle guance infuocate; vuole che noi ci avviciniamo a tal punto alla sua rappresentazione che sentiremo nel nostro corpo la luce di quei volti. Poi, capiremo, siamo noi quella gente.

 

Noi insonni che non capiamo più niente della nostra vita, che camminiamo di notte cercando invano il sollievo dell’alba, e dovremo tornare al lavoro senza aver dormito. Soffocati dalla non-vita. Alternando scariche di rapper e declamazioni di tragicità shakespeariana Kate Tempest lavora a un crescendo magistrale, nella sua ora di poetessa parlante, talvolta quasi cantante: l’elettricità emotiva si addensa in modo insoffribile, sino a che la tempesta shakespeariana arriva nella notte di Londra, spalanca con i suoi turbini le porte degli appartamentini dei miseri sette-noi, scroscia il diluvio universale che toglie il secco della solitudine cui è restato solo un sesso piacevole e senza relazione emotiva; sappiamo tutto, dei bombardamenti delle guerre dei bambini morti

 

neanche una traccia d’amore 

nella caccia 

al massimo 

profitto. 

 

Qua

nel paese

dove a nessuno 

frega un cazzo. 

 

ma tutto rimbalza come un’eco ovattata in noi

 

bloccati 

come pietre 

in un 

ruscello pigro.

Siamo persi Siamo persi Siamo persi Siamo persi Siamo persi 

Siamopersisiamopersisiamopersi

Siamo 

davvero

persi. 

 

 

«Londra è una fortezza per ricchi, se non ce la fai sei fuori» ma il chaos dell’uragano sta arrivando, e infine arriva l’orgasmo della catarsi, la pioggia sveglia i morti viventi, ognuno vede l’altro, e la piccola sacerdotessa chiude con parole stupende: «La fiducia è la fiducia è una cosa che non vedremo mai finché l’Amore non sarà incondizionato. Il mito dell’individuo ci ha lasciati scollegati smarriti e in stato pietoso. Me ne sto sotto la pioggia in una fredda notte londinese urlando ai miei cari di svegliarsi e amare di più. Scongiurando i miei cari di svegliarsi e amare di più».

 

 

La piccola grande Kate in Gran Bretagna è ripresa e prodotta dalla Bbc, e sale sul palco di Glanstonbury come Jeremy Corbyn, come lui accolta dalle ovazioni del popolo rock. Viene premiata dalla bella società letteraria, riceve nomination nei premi discografici pop. Kate è una grande poetessa e una eccellente performer, dà voce al sentire di un tempo e di una generazione. Ma la celebrità le viene dalla poesia per musica, dalla passione condivisa che la musica ha reso turgida nei suoi versi, che sono, muti, notevole letteratura. Nella sua ora sul palco fa ridere di gusto il pubblico due volte, ma tira dritto senza godersi l’applauso.

 

A Torino, che non è più una piccola Parigi e non è mai diventata una piccola Londra, ci sono poeti che sono stati pubblicati «nella bianca Einaudi» e ce n’è uno che no, si rammarica sarcastico di non esserlo stato ma che ora è pubblicato da Rizzoli e vende – dice – 20.000 copie. Quando Guido Catalano faceva i suoi primi reading nei caffè intellettuali di Torino qualcuno dell’Einaudi andava a sentirlo, rideva, lo trovava indubbiamente letterario, ma non lo pubblicava; Catalano non si accompagna alla musica suonando alla chitarra, o cantando, o rappando, anche se è un campione delle poetry competition. Sognava di diventare una rockstar e ha cominciato con un gruppo nella stagione del rock demenziale. Non ha la crudeltà autodistruttiva di Freak Antoni, infatti è ancora vivo.

 

 

Ha cominciato cabarettando accompagnato dal cantautore genovese/torinese Federico Sirianni, e dal 20 gennaio 2018 parte per un tour italiano con Dente («Non un reading, non un concerto, non una commedia dialettale e nemmeno uno spettacolo circense, non un balletto, un workshop, uno spogliarello burlesco e neppure una dimostrazione di prodotti di bellezza o aspirapolveri: il cantautore emiliano e il poeta torinese incrociano chitarra e penna, per parlare d’amore a modo loro»).

 

Ha infine avuto la sua celebration nell’auditorium della Scuola Holden di Alessandro Baricco: ha esordito dicendo che quello spazio gli piace un casino, e che quando avrà preso ancora più diritti d’autore se lo comprerà, e ne farà il loft dove vivrà. Valerio Magrelli, poeta della bianca Einaudi e poetissimo della società letteraria italiana, quando è uscito il suo Ogni volta che mi baci muore un nazista si è costretto a recensirlo su “la Repubblica” e a dirne abbastanza bene sino una perfida chiusa finale. Ma una autrice Einaudi, Michela Murgia, implacabile stroncatrice, lo ha elogiato nella sua rubrica nella trasmissione televisiva Quante storie su Rai3 dopo averlo scoperto al Circolo dei Lettori risalendo la lunga coda di pubblico in attesa di entrare a un reading di questo tipo. Catalano tiene ora ogni domenica sul nuovo, gramelliniano inserto torinese del “Corriere della Sera” una spiritosa rubrica di consulenza amorosa, “Gli amori ai tempi di Torino”.

 

Catalano è un poeta comico, merita di entrare nella nostra genealogia letteraria di poeti comico-realistici, sì, dopo i giullari anonimi, e Cecco Angiolieri; non è un clerico ma certo vaga molto, ormai, di teatro in teatro. Sta con Trilussa e Freak Antoni nel pantheon delle argute risate e delle consce bevute. Si limita a tanti tanti baci e il cazzo lo nomina come interiezione, ma si capisce che potrebbe andarci giù esplicito come il Baffo. Non è la Comedia di Dante, ma anche Dante non ebbe timore di censire condotte scandalose. 

 

Catalano della torinesità ha l’understatement violato nella storia letteraria di Torino soltanto da Baricco; di Gozzano ha un po’ di ironia erotico-malinconica, ma non ha nulla da rievocare, né con struggimento né con grazia: buffamente inclemente con se stesso, adora tutte le donne che bacia, cui dice spessissimo che sono bellissime; le donne sono ologrammi che hanno lasciato il suo letto la mattina, o che non ci sono entrate la sera; sono intime e insieme sfuggenti, se ne percepisce una regalità tirannica, che il poeta buffo infiora e deflora, amaramente certo che nessuna resterà da lui, un poeta con la barba. Certamente c’è il Ronald Laing di Mi ami? e lui dichiara di venire da Prévert, e la lingua parlata e pop di Catalano, la sua parlata non teatrale con erre moscia nei suoi reading saporitissimi per chi vuole è piena di letteratura, anche con un po’ di Pasolini:

 


Ciao belle labbra lontane

Il vecchio Pier Paolo

sarebbe stato fiero di noi

vederci baciare

sotto il sole della grande città capitale

sotto quel sole di periferia

tu

e quel vestitino leggero

che quasi il vento

se lo portava via

io

che non mi facevo capace

di quant’eri bella da fare paura

 

 

Non credo che siamo di fronte a un revival della poesia. Quello che è certo è che molti poeti hanno capito che solo riabbracciando teatro e musica e voce e pubblico si può testimoniare con il proprio corpo che la poesia è una dimensione per riflettere sul nostro vivere. Ancora a Torino uno scrittore, Dario Voltolini, dopo gli anni in cui aveva fondato con Baricco la Scuola Holden, dopo gli anni di romanzi con Feltrinelli, si è nascosto nel silenzio, e si è seduto negli angoli ombrosi dei bar e delle vinerie di Torino a guardare gli altri e a esplorare se stesso. Nel settembre 2017 l’Einaudi che ignora Catalano ha pubblicato un “racconto in versi” che definirei un poemetto onirico e ondeggiante nella memoria dolorosa e famigliare: Pacific palisadesè stato portato in scena al festival Romaeuropa da Alessandro Baricco, con le musiche live di Nicola Tescari ed è andato in prima serata su Rai3.

 

Il testo recitato sul palco dall’amico scrittore non è lo stesso del libro: Baricco ne recide il dolore e la miserabile compassione per gli altri e per sé, la leggendarietà opaca e sbiadita di santo bevitore, e ne fa una apollinea e delicata suggestione di memorie, di personaggi in una città. Le pacifiche palizzate di Voltolini (ricordo di una località sull’oceano californiano) sono quella barriera che mettiamo tra noi e il mondo, per proteggerci dal dolore; ma non è un muro, e neanche alto, è una palizzata che le ondate dell’oceano possono trafiggere, spingendo con violenza emozioni che non volevamo nella nostra più vulnerabile, inconscia intimità; e l’amore spesso è l’ondata più imponente, che ci lascia rovesciati al suo rifluire. Questo concept con cui Voltolini ritorna ha bellezza poetica, e immane delicatezza, insieme pietosa e impudica verso sé.

Tempest, Catalano si sputtanano sui palchi, lei con grandezza shakespeariana, lui con dimessa ma gagliarda autoironia. A Pacific palisades mancano ancora la voce e la presenza di Dario Voltolini.

 

 

Tempest, Catalano, Voltolini certo beneficiano del teatro, della musica, della televisione, di Instagram e di YouTube: ma è la poesia che si espande e si fa vedere. La loro audience non è di adolescenti che non leggono e che hanno bisogno di poesia che interpreti i loro turbamenti e le loro tristezze.

Invece ci sono “poeti” che vanno a capo con i loro pensierini, e li chiamano versi e quindi poesia, che vanno su un palco con la loro chitarra e scrivono anche canzoni melodiche come Gio Evan (al secolo Giovanni Giancaspro), che hanno centinaia di migliaia di contatti in rete e vengono ora pubblicati da Fabbri Editori, sorella della Rizzoli di Catalano ingoiata da Mondadori.

 

  

 

E Fabbri pubblica anche Love her wild del misterioso e mascherato Atticus the Poet, che su Instagram posta fotografie in bianco e nero gotico-romantiche glam con i suoi brevissimi pensieri con tanti a capo. Sul libro di Atticus c’è una fascetta che rassicura i nostri Romei e Giuliette che Atticus è un grande poeta, firmato Francesco Sole. Non sapendo chi costui fosse indago e scopro che all’anagrafe egli è il ventiduenne Gabriele Dotti, belloccio con voce educata televisivamente che ha inondato YouTube con le sue “poesie” pubblicate da Mondadori! “Francesco Sole” avrebbe tradotto Atticus, lui, un “progetto” della agenzia di management televisivo di Francesco Facchinetti figlio del Pooh, apparso su Canale 5 accanto a Belen Rodriguez nel format Si tu que vales; i duri e puri youtubers si sono indignati che tale giovinotto venisse mendacemente lanciato in tv come un “fenomeno fattosi da sé sulla rete”. Una tv che ha lo stesso proprietario (Mediaset) di Fabbri, Rizzoli, Einaudi e Mondadori.

 

In questa personale odissea tra i poeti “popolari”, di lettura in lettura, di video in video, sono così finito in un dilemma sgradevole: gli adolescenti che non leggono più, ma che vivono amore e tristezza autentici, se consumano sul web o addirittura in libreria questi pensierini carini e senza cultura credendoli “poesia” (visto che Mondadori stampa “poesie” sulla copertina di “Francesco Sole”) incontreranno mai la passione stupenda di Kate Tempest? L’autoironia sentimentale di Guido Catalano? Le sfumate reminiscenze dolorose di Dario Voltolini? In quale punto della “rete” si apre una voragine spaventosa tra la letteratura e la letteratura fake? 

 

Ritrovo Pasolini: «La poesia non è merce perché non è consumabile. Non è prodotta “in serie”: non è dunque un prodotto. E un lettore di poesia può leggere anche un milione di volte una poesia: non la consumerà mai».

Riapro, né pessimista né ottimista, Let them eat chaos:

 

È la Generazione a Noiaunica

il prodotto della pubblicità occulta

e della manipolazione,

una pallottola per tutti. Il brutale dovere dell’assistenza,

coraggio! Scarpe nuove! Belle acconciature.

stronzate

canzoni

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Un manifesto critico contro pigrizia e stupidità

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Secondo una recente indagine Demos-Coop, il 56% degli italiani ha considerato “vera una notizia letta su internet che poi si è rivelata falsa”. Il 23% “ha condiviso in rete contenuti per scoprire successivamente che erano infondati”. 

Un dato ancora più inquietante: a credere alle fake news sono più volentieri le persone con titolo di studio medio (42%) o alto (49%) che basso (7%); lo stesso accade con le condivisioni. Le principali vittime (ma anche i complici) delle fake news sono i giovani istruiti, sempre più connessi e attivi anche attraverso gli smartphones (demos-coop, Osservatorio capitale sociale – 57 – I media, internet e le fake news, 18 dicembre 2017).

È un sintomo di quello che Jean-Claude Michéa aveva definito il “progresso dell'ignoranza”: “nei paesi più industrializzati la popolazione scolastica è sempre più permeabile ai differenti prodotti della superstizione (dalla vecchia astrologia al moderno New Age), (...) la sua capacità di resistenza intellettuale alle manipolazioni dei media o alla massificazione della pubblicità diminuiscono in modo inquietante” (Jean-Claude Michéa, L'insegnamento dell'ignoranza, Metauro, Pesaro, 2004, p. 14, n. 4). Andare a scuola e all'università non vaccina dalla credulità e dalla superstizione, al contrario di quello che potevano credere gli illuministi. 

 

Per chi cavalca l'ondata di panico morale, con striduli allarmi sul degrado dell'informazione 2.0, la soluzione è semplice: bisogna imporre una censura sui contenuti, per impedire alla mandria delle bufale online di travolgere l'ingenuo e sprovveduto cittadino con menzogne appetitose (le esche del clic baiting). Il custode ideale della verità sarà un filtro, ideato e gestito dai padroni dei motori di ricerca e dei social network. A salvarci dagli errori umani sarà l'oggettività dell'algoritmo, in grado di discriminare le proposizioni vere da quelle false, contrassegnate con un'apposita bandierina rossa.

Il sistema non funziona, pare siamo più efficaci i “contenuti correlati”. E non può funzionare: la macchina della verità non esiste, bastano poche lezioni di storia della filosofia per capire che la verità è una domanda e non una risposta, una ricerca continua e non un catechismo. 

 

Servirebbe piuttosto quella che Michéa definisce intelligenza critica, cioè “quell'attitudine fondamentale dell'uomo a capire sia in che mondo gli è capitato di vivere, sia a partire da quali condizioni la rivolta contro un tale mondo è una necessità morale” (Michéa, cit., p. 13, n. 4). Oggi la necessità di intelligenza critica e di spirito critico è “uno slogan educativo diffuso – una competenza vagamente definita che speriamo venga acquisita dai nostri figli nel percorso verso l'età adulta –, ma le ricompense per non usare l'intelligenza sono abbondanti e immediate”, come nota A.O. Scott nel “dialoghetto morale” che apre il suo Elogio della critica. Imparare a comprendere l'arte, riconoscere la bellezza e sopravvivere al mondo contemporaneo (traduzione di Massimiliano Matteri, Il Saggiatore, Milano, 2017). 

Spiega Scott: “Come consumatori di cultura, siamo cullati nella passività o, mal che vada, spronati a una sorta di 'pseudo-autocoscienza', siamo incoraggiati ad assumere un'identità conservativa, da tifoseria, o un eclettismo superficiale e semi-ironico. Allo stesso tempo, come cittadini del medesimo territorio politico, siamo reclutati in un clima polarizzato di ideologica aggressione in cui troppo spesso la battuta sbruffona prende il posto della discussione. Non c'è spazio per il dubbio e il tempo della riflessione è ridotto al minimo” (pp. 18-19). 

 

Proprio per difendere lo spazio del dubbio e della riflessione Scott, attualmente a capo della sezione di critica cinematografica del “New York Times” (ma molti degli esempi che utilizza arrivano dalla letteratura o dall'arte) ha scritto questo appassionato pamphlet, tutto costruito sulla natura ambigua e paradossale della critica e di conseguenza di chi la pratica. 

Il suo Elogio parte dai punti deboli della critica, a cominciare da quelli che la accompagnano da sempre (o almeno dai tempi di Platone e di suo fratello Glaucone): la critica è “pronta a sottrarre temporaneo prestigio, importanza, clamore al durevole lavoro dei veri artisti (…), è utile e provvisoria (…), inessenziale e sostituibile”, dice Scott citando lo Steiner di Vere presenze. È essenziale “come le formiche a un picnic”, secondo l'espressione di Addison DeWitt in Eva contro Eva.

 

Anche molti artisti hanno dichiarato (e strillano oggi con clamore sul web) che il giudizio del critico è irrilevante, parassitario, sadico, perverso. Tuttavia nello stesso momento in cui lo dichiarano con tanta enfasi, gli riconoscono autorevolezza e importanza, e si inchinano al suo potere (p. 123). Questa posizione sottende un altro paradosso: per molti artisti e per una parte del pubblico, la bellezza parla da sola. Deve parlare da sola, senza filtri o mediazioni. È di per sé autosufficiente, non ha bisogno di spiegazioni. Si tratta solo, come ha scritto Susan Sontag in Contro l'interpretazione, di “fare esperienza della luminosità della cosa in sé, delle cose per quelle che sono”. Ma i casi sono due: o tutte le opere sono ugualmente belle (in un orizzonte di totale relativismo), oppure bisogna dire che alcune sono belle e altre no, e dunque applicare una scala di valori.

Di fronte a ogni opera, il critico cerca proprio quella “condizione primigenia”, l'esperienza estatica della “cosa in sé”, assolutamente personale e spesso radicata nel vissuto più intimo, come la Madeleine di Proust. È un complesso di emozioni specifico e in sostanza incomunicabile. Ma poi il critico sente la paradossale necessità di “spiegare” – prima di tutto a se stesso, in un percorso di auto-conoscenza – e poi di condividere il senso più profondo di questo incontro.

 

Nonostante tutte queste contraddizioni, per Scott la critica resta “un'arte più vasta delle altre: ce n'è una quantità maggiore, il suo scopo è più alto e i suoi metodi sono più eclettici” (p. 27). Di più: ogni arte è “una forma di critica ben riuscita” perché, come spiega George Steiner, “ogni forma seria di arte, di musica, di letteratura è già un atto critico, una critica della vita”. L'artista, come scrive Boltanski sulla scia di Castoriadis, si fa “portavoce di una comunità virtuale a venire” (Christian Boltanski, Della critica. Compendio di sociologia dell'emancipazione, traduzione di Francesco Peri, Rosenberg & Sellier, Torino, 2014, p. 151). Di più: la critica è già parte della prassi artistica perché “trova dimora nelle ombre che calano tra l'intenzione e l'atto, tra l'ispirazione e l'opera inevitabilmente deludente che ne deriva” (p. 43). Il “critico primigenio” è stato Colui che terminata la creazione “posò gli occhi su ciò che aveva fatto e vide che era cosa buona” (p. 46).

Però non appena si salta dal trampolino teologico, si sprofonda subito nelle sabbie mobili dei paradossi. La critica è un ossimoro: “una forma d'arte a se stante” che però “esiste per esaltare le altre forme artistiche”. È “impossibile” e insieme “vitale e necessaria all'umanità per riuscire a comprendersi”. “Non potrà mai morire” ma è “in continuo pericolo di estinzione”. Insomma, è “paradossale e tautologica”, perché critica è “qualsiasi cosa faccia un critico” (p. 231). Nelle intenzioni, è “un dialogo – una discussione appassionata, razionale”, ma spesso risulta “più una performance”, che si riesce solo “a compiere davanti a un pubblico” (p. 237).

 

La fragilità strutturale della critica è anche questione di buona educazione. Riteniamo che “reprimere l'istinto critico sia una delle chiavi di volta per la conservazione dell'armonia, della civiltà e di un dignitoso ordine sociale” (p. 115). Perciò il giudizio critico deve dunque cercare un equilibrio impossibile tra sincerità e cordialità, tra le nostre convinzioni più profonde e le convenzioni esteriori e ipocrite del buon gusto e del senso comune. Così i “critici remissivi” vengono periodicamente colpiti da “epidemie di gentilezza” (come lamentava Jacob Silverman su “Slate”), mentre in altri casi prevalgono invece crudeltà e sarcasmo. Una sola certezza: “Nessun critico con un minimo di rispetto per se stesso può farsi baluardo della moderazione” (pp. 156-157), nella lode come nella stroncatura. 

Emergono anche i paradossi insiti all'attività critica. Si parla di un oggetto (l'opera) o delle sensazioni di chi la incontra? (p. 50) In quale misura il giudizio è soggettivo, personale, e quanto può diventare – sulla scia di Burke e Kant – oggettivo, universale? (p. 55-57) Nel cammino verso una irraggiungibile oggettività, quale ruolo può avere la scienza, che ragiona in termini quantitativi e non qualitativi?

L'opera è autosufficiente o ha – deve avere – un rapporto con la realtà? La rispecchia, nelle sue contraddizioni, o la espande, aprendo gli infiniti del possibile? Deve offrire solo un piacere estetico, emozionale? Oppure deve “cambiare la vita”, come in un celebre verso di Rilke? E deve cambiare noi, oppure trasforma la realtà? E se tutti cambiassimo vita sull'onda dell'emozione, che succederebbe alla società? (Michel Maffesoli risponderebbe che l'estetizzazione della vita quotidiana nella società contemporanea è un processo irreversibile).


A rendere la pratica più difficile sono le contingenze che oggi marginalizzano l'intelligenza critica: la banalizzazione dell'arte determinata dalla scolarizzazione e dal turismo di massa (che cosa vedono i 6 milioni di visitatori che ogni anno affollano il Louvre?), la mercificazione dell'esperienza estetica dovuta all'asservimento al mercato capitalistico: la conseguente “enorme e indiscriminata disponibilità di stimoli estetici – di storie e giochi, immagini e personaggi, quasi tutti etichettati e commercializzati – (...) preclude il tipo di rapimento che Rilke esaltava”, perché ci riduce tutti a consumatori. E arriva l'istupidimento critico determinato dall'eurocentrismo e dal maschilismo del canone, e dal discutibile contrappeso del politicamente corretto. 

Su questa base già precaria si innestano altri paradossi, quelli che riguardano la figura stessa del critico. Il singolo può essere “stupido, cattivo, capriccioso” (magari pure libidinoso), ma nella sua pratica dovrebbe ispirarsi a ideali elevati, ponendo la propria comprensione allo stesso elevato livello dell'opera con cui si confronta (p. 127). Il compito diventa ancora più arduo perché “il critico sfortunato è preda di una spirale autolesionista, a causa della quale i suoi presunti obiettivi – celebrare il buono e condannare il cattivo – vengono mandati a monte dalla mole di mediocrità con cui si trova a lottare” (p. 135), a causa di una produzione gigantesca, di basso livello ma di travolgente successo popolare. La critica agisce all'interno di un poderoso apparato culturale e commerciale, e rischia così di ridursi a servizievole ancella di pubblicità, promozione, marketing: “la distribuzione di consigli per gli acquisti trascina inevitabilmente l'atto di selezione nella palude del relativismo. L'abbastanza buono diventa nemico del meglio”. 

 

 

A quel punto il critico deve decidere se imboccare “il cammino dei fanatici o il sentiero degli onnivori” (p. 188). Si ritrova lacerato da due desideri incompatibili: eliminare la separazione tra sé e il pubblico (p. 190), identificandosi con i suoi lettori, o mantenere una “inevitabile distanza”, orgoglioso della propria inavvicinabilità, considerata magari presupposto di imparzialità. Nell'era della cultura di massa, può cercare la popolarità, inseguendo i gusti del pubblico, facendo la mosca cocchiera dei “Mi Piace”. Al contrario, può andare contro l'opinione comune, contro il Dasein heideggeriano (“ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte”), rifiutando di allinearsi al gusto imperante e alle mode, Così il critico può decidere di esprimere e imporre il suo gusto idiosincratico, minoritario, eccentrico, snob: “in una cultura democratica, il critico è di frequente, forse in via definitiva, in conflitto con in gusto comune, e per questa ragione viene visto come un eccentrico” (p. 140). Il suo è oltretutto il gusto di chi ha visto o letto troppo (p. 165) e dunque rischiano di sfuggirgli “le proprietà distintive di specifici esemplari” (pp. 166-167). 

Si scontrano due visioni apparentemente inconciliabili: da un lato “l'idea di autorità critica”, dall'altro “l'ideale di un sapere diffuso”. Per Scott, ottimista autodistruttivo, queste visioni sono “le espressioni antitetiche di un'unica spinta verso il giudizio globale, verso un'esperienza estetica totalizzante che, una volta raggiunti eliminerebbero del tutto la necessità dei critici” (p. 143).

 

Un altro paradosso nasce dal rapporto con la storia. Il critico è da sempre lacerato tra “culto della morte” e “dogmatica religione del nuovo”. La critica, “dalla notte dei tempi, si è consacrata a venerare e preservare i capolavori e le tradizioni” e rischia di ammantarle “di un'aura di insuperabilità” (p. 170). L'unica verifica del valore di un giudizio sarebbe il tempo, ma il “critico dedito a scovare la novità è per definizione abbagliato dal presente” (p. 163). La tradizione appare logora e scontata, il selvaggio ed effimero accanimento per il nuovo è invece deleterio ed effimero” (p. 175). Ma proprio la continua evoluzione delle arti e del gusto rappresenta la garanzia della necessità futura della critica, il vaccino contro la sua mortalità. 

 

Altri paradossi riguardano la figura professionale dei critici, che sono “obbligati a fare ciò che per chiunque altro rappresenta un lieto passatempo, l'esatto opposto di un lavoro” (p. 133). L'amore per l'arte dovrebbe essere disinteressato, ma bisogna pur pagare le bollette a fine mese: il critico è insieme “professionista e amatore” (p. 223), con tutte le difficoltà che comporta la ricerca della “sostenibilità” personale attraverso il giornalismo o l'accademia. Però nelle redazioni di quotidiani e settimanali, sia per chi consuma le suole inseguendo la cronaca sia per chi gestisce la macchina redazionale, il critico è un corpo estraneo, un intellettuale che se ne sta al calduccio nel suo studio senza scendere in trincea (anche se di questo aspetto Scott non fa cenno). Anche l'altra opzione, la carriera universitaria, ha le sue controindicazioni: “i ricercatori lo riterranno un intruso, proveniente dal mondo degli artisti, selvaggio, irrazionale e intellettualmente sospetto, gli artisti a loro volta potrebbero sospettarlo di tradimento” (p. 211). Del resto i docenti e i ricercatori tendono a seguire “con zelo metodi oggettivi e quasi scientifici” e sono “poco inclini a esprimere giudizi sul valore e sul significato” (p. 211). Nell'era degli esperti, questo rappresenta un ulteriore problema. È vero, il critico è uno specialista che studia e si documenta, e per farlo può utilizzare diversi saperi specialistici. Ma al tempo stesso risponde a un “progetto universale”: vive nel mondo dell'intuizione, del giudizio e della congettura, il suo metro è la qualità e non la quantità.  

Il “soluzionismo” (Morozov), ovvero l'atteggiamento schematizzante e quantificatore, con il sostegno della neuroscienza e della psicologia evoluzionista, ipotizza Scott, forse ci spiegheranno perché siamo come siamo e dunque cosa ci piace e perché ci piace” (pp. 158-159). Il canone potrà allora essere sostituito dai “Mi piace”, da sondaggi, liste, menu (p. 107), dalle nuove scoperte: però tutto questo può dirci cosa pensano o dicono certe persone, ma “non può dirci se hanno ragione” (p. 159).

 

Da questo groviglio di contraddizioni non può che emergere una figura ambigua. Il critico è una creatura marginale, “un tizio invecchiato precocemente e con le vene varicose, alquanto sudicio, afflitto da debiti da saldare e un'infinità di distrazioni”. Ma all'improvviso sostituisce “la vestaglia sciatta con un elegante smoking” e si rivela l'esponente di una “scelta élite di mandarini della cultura”, dotato di “spietato savoir faire” e di una “personalità forte e autoritaria” (pp. 134-135). 

Questo essere schizofrenico è al tempo stesso distaccato e partecipe, analitico e appassionato, “il più cinico e il più sincero degli uomini” (p. 138).

Non è finita. Scott traccia una linea che parte dalla musica (che è pura “forma”, dunque libera dal fardello del significato), passa – aumentando via via il tasso di “contenuto” – per la danza, le arti visive e la letteratura (e magari si spinge fino al documentario cinematografico). Arriva finalmente alla critica, che è “pura argomentazione e sostanza assoluta” (p. 180). Tuttavia, ammette Scott, il critico non convince tanto con “la forza delle sue idee ma il carisma della sua voce”. L'importante non è cosa viene detto, e nemmeno tanto come viene detto: è “piuttosto una faccenda di personalità” (pp. 147-148), che può emergere solo attraverso una disciplina di scrittura, uno stile (p. 200). 

 

Intrappolata nei suoi paradossi, la critica resta una entità inafferrabile, in continua evoluzione, sfuggente e arrogante: “La grande varietà di scuole, stili, personalità e teorie – per non parlare dell'incessante proliferare di opere e attività che invitano a produrre nuove analisi critiche – la rende quasi impossibile da definire”. A questo si aggiungano le “lotte fra varie fazioni, posizioni, personalità, una successione di scismi causati da differenze di gusto, temperamento e ideologia” (pp. 194-196). Gli intellettuali sono un “gregge di menti indipendenti” (Harold Rosenberg, p. 189), “arringatori rivali e litigiosi” (T.S. Eliot, p. 197). 

A tutto questo intrico – l'orizzonte in cui Scott si è formato e si è affermato professionalmente – si sono aggiunti “l'ascesa di Internet e il crollo della curva di attenzione collettiva; la diffusione dei social media e la polarizzazione della vita politica; il declino di tutto e il trionfo del contrario di tutto” (p. 201). Insomma, l'impatto della rete, ovvero la gratuità e la facilità d'espressione e d'accesso. È un bene o un male? Si tratta di intonare un inno alle nuove frontiere della critica o di intonare un compianto funebre?
C'è un dato di fatto, o l'ennesimo paradosso. Dopo l'avvento del web non c'è mai stata così tanta produzione critica, e tuttavia, o forse proprio per questo, i presagi sulla morte “sono più forti e insistenti che mai”. Orwell ha scritto che la critica sarebbe stata migliore se fosse stata in minore quantità, ma è un augurio vano, come aveva notato qualche decennio prima di lui Henry James: “un bene di consumo del quale l'offerta, a prescindere dalle stime sulla domanda, sarà senza dubbio l'ultima cosa che ci verrà a mancare” (p. 198). 

 

Ma questa esplosione quantitativa non riflette necessariamente una necessità. Per molti osservatori – e anche per molti aspiranti critici – l'attuale mercato del lavoro culturale riduce la critica a succursale dell'ufficio marketing, destinato a diffondere consigli per gli acquisti meno efficaci degli algoritmi di Amazon e Netflix. 

Vale la pena di riallargare l'orizzonte, perché l'arte – o meglio, la critica che fa l'arte alla società – e la critica che se ne fa interprete e portavoce, hanno un ruolo politico centrale nella nostra società: “Almeno nelle prime fasi, la critica radicale si appoggia spesso e volentieri a forme di espressione legate alla creatività artistica, come la poesia, le arti plastiche o il romanzo, nelle quali è socialmente consentito (almeno a partire dall'epoca romantica) condividere con l'opinione pubblica esperienze e sentimenti personali, e la cui vocazione estetica permette di eludere i requisiti di coerenza e giustificazione giuridico-morale che vincolano il discorso argomentativo” (Boltanski, op. cit., p. 161). Dal punto di vista sociologico, l'arte e la critica possono assumere un valore profetico, anche nel loro groviglio di paradossi e contraddizioni. O forse proprio nel loro groviglio di contraddizioni.

La sottile riflessione di Scott ci fa a capire che il cammino verso la verità non si può risolvere con il codice binario, con la logica del vero/falso. Il pensiero critico rifugge dalle semplificazioni e si nutre di paradossi. La sua strada è spesso tortuosa, piena di trappole e irritanti sottigliezze. Risente di tutte le debolezze umane e delle vulnerabilità di ciascuno di noi. Però resta l'unica strada per esercitare l'intelligenza, per affinare la capacità di giudizio, per negoziare i sistemi di valori. Per imparare a guardare e re-inventare il mondo. Per capire in “quali condizioni la rivolta contro un tale mondo è una necessità morale”.

 

C'è un mondo in cui la critica è diventata praticamente impossibile: “Allo stato attuale delle cose è la chiusura della realtà su se stessa a scoraggiare la critica” (p. 223): lo viviamo nella nostra esperienza quotidiana, nel rancore impotente che ci consuma. Boltanski immagina anche una società pacificata e priva di conflitti dove la critica non sia più necessaria: “L'emozione collettiva parla di una speranza sempre delusa in un mondo riconciliato nel quale la critica non avrebbe più ragion d'essere” (p. 153). La stessa provocazione l'aveva lanciata Scott: “Non dovremmo più aver alcun bisogno dei critici, salvo nella misura in cui tutti noi dovremmo aspirare a diventare critici” (Scott, p. 144). 

A partire dalle contraddizioni del presente, Boltanski sogna piuttosto una società in cui “la critica, lungi dall'aver portato a termine una volta per tutte il suo compito, non sarebbe destinata a scomparire, ma anzi, al contrario, a irrobustirsi instaurando rapporti di tipo nuovo tra le istanze critiche e le istanze istituzionali, pur riconoscendo a sua volta la propria fragilità” (p. 225).
Della fragile necessità del pensiero critico si fa carico garbatamente anche Scott, ma lascia il messaggio finale a Anton Ego, il critico gastronomico del film Ratatouille. Non sarà l'utopia di emancipazione prefigurata da Boltanski, non è l'arma finale contro le fake news. Però può essere un punto di partenza comprensibile a tutti, anche al 60% degli italiani che non leggono nemmeno un libro all'anno ma probabilmente guardano Masterchef:

 

Per molti versi la professione del criticoè facile: rischiamo molto poco, pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al nostro giudizio. Prosperiamo grazie alle recensioni negative, che sono uno spasso da scrivere e da leggere, ma la triste realtà a cui ci dobbiamo rassegnare è che, nel grande disegno delle cose, anche l'opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale. Ma ci sono occasioni in cui un critico qualcosa rischia davvero... ad esempio, nello scoprire e difendere il nuovo. Il mondo è spesso avverso ai nuovi talenti e alle nuove creazioni: al nuovo servono sostenitori! Ieri sera mi sono imbattuto in qualcosa di nuovo, un pasto straordinario di provenienza assolutamente imprevedibile. Affermare che sia la cena sia il suo artefice abbiano messo in crisi le mie convinzioni sull'alta cucina è a dir poco riduttivo: hanno scosso le fondamenta stesse del mio essere! In passato non ho fatto mistero del mio sdegno per il famoso motto dello chef Gusteau "Chiunque può cucinare!", ma ora, soltanto ora, comprendo appieno ciò che egli intendesse dire: non tutti possono diventare dei grandi artisti, ma un grande artista può celarsi in chiunque. È difficile immaginare origini più umili di quelle del genio che ora guida il ristorante Gusteau's e che, secondo l'opinione di chi scrive, è niente di meno che il miglior chef di tutta la Francia! 

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Escamotages magici per tempi angusti

Amor vacui. L’attore e l’assenza

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«Assomigliano a sordi coloro che, anche dopo aver ascoltato, non comprendono; di loro il proverbio testimonia: “Presenti, essi sono assenti”». Questo frammento di Eraclito – tramandato nel libro V degli Stromati di Clemente di Alessandria – descrive una forma di «assenza» negativa. Vi sono persone che, pur essendo fisicamente presenti di fronte a qualcuno che sta rivelando loro qualcosa di importante ed eccezionale, risultano del tutto estranee alle parole dette. Esse scivolano su di loro senza produrre alcun effetto, ad esempio un avanzamento di conoscenza. Se applicassimo ora tale discorso oltre Eraclito, potremmo annoverare tra i “presenti-assenti” anche certi attori. Mi riferisco a coloro che, sulla scena, non sono in autentico ascolto dei loro colleghi e con il pubblico che è li pronto ad ascoltare, oppure che “recitano” la loro parte in modo inerte e morto. La loro “presenza” scenica è in realtà appunto una forma di assenza: parlano e agiscono, ma senza avere consapevolezza, attenzione e cura di quanto vanno dicendo/agendo. Non sarebbe così peregrino descrivere il loro comportamento riscrivendo il frammento eracliteo: «Assomigliano a muti gli attori che, anche dopo aver parlato o agito, non hanno comunicato o stimolato nulla; di loro il proverbio testimonia: “Presenti, essi sono assenti”».

 

D’altro canto, questa concezione assai intuitiva del rapporto presenza-assenza può anche essere rovesciata in senso positivo. Vi sono infatti attori e attrici (o più in generale artisti di teatro) che intendono il loro lavoro in termini di sottrazione e pulizia del gesto artistico, ossia che mirano a eliminare tutto il superfluo e a lasciare che, sulla scena, si manifesti solo qualcosa di essenziale. Il palcoscenico si trasforma, così, da luogo fisico dove il cosiddetto “io” di chi recita si espone e si mette in mostra, in uno spazio dove prendono vita visioni poetiche, che spesso hanno poco a che fare con la personalità o la biografia dell’artista. Ora, questo tipo di attore o attrice cerca, in altre parole, di mettere in scena un’assenza di sé. Egli crea un vuoto per far sì che “appaia” qualcosa di diverso da quello che lui conosce ed è normalmente, almeno per qualche secondo, allo sguardo e all’udito del pubblico convenuto. Per tali attori o attrici, il proverbio menzionato da Eraclito per attaccare i presenti-assenti andrebbe a sua volta adattato, stavolta per sostenere che la loro ricerca di questa “assenza” è in realtà una segreta forma di “presenza”. Infatti, facendo il vuoto intorno a sé e al proprio povero “io”, evocano visioni interessanti e profonde, che trattengono la nostra attenzione sulla scena. Di loro si dovrebbe insomma dire: «Assenti, essi sono presenti».

 

Giani, La fanciulla di Corinto.


Entro questa seconda categoria di artisti “minimalisti” ed essenziali, che certo andrebbero studiati meglio, perché questa manciata di considerazioni astratte non rispecchia adeguatamente il loro lavoro, annovererei anche il collettivo artistico di Masque Teatro. Tra i loro più recenti spettacoli rientra, infatti, Just Intonation, ideato da Lorenzo Bazzocchi e andato di recente in scena al festival Crisalide XXIV: Il sole imprigionato. Esso va esattamente nella direzione di quell’“assenza” positiva che ho finora molto vagamente e impropriamente delineato. Con il seguito di questo articolo, spero di poter dare qualche utile elemento di spiegazione in più e, a partire appunto da Just Intonation, di elaborare delle considerazioni più generali sul senso profondo della poetica dell’attore “assente-presente”.

 

Vi sono due fonti di ispirazione di questo spettacolo. Il primo è il racconto La tana di Kafka, che in estrema sintesi racconta di un non specificato animale solitario che si costruisce, in alcune gallerie sotterranee, un luogo da cui proteggersi dagli attacchi di bestie predatrici più giovani e forti di lui. Esso è interpretato dall’attrice Eleonora Sedioli, che lungo tutto lo spettacolo non pronuncia una singola parola e, entro una scena fiocamente illuminata in cui si sente echeggiare senza sosta il vento, si impegna unicamente a compiere dei micro-movimenti sopra una grande arpa rotta, abbandonata sul pavimento.

Il secondo motivo ispiratore è la macchina, inteso da Bazzocchi in senso niente affatto deteriore. Siamo abituati ad associare questo termine a qualunque marchingegno tecnico dalle procedure ripetibili, automatizzate e prevedibili, dunque che non può generare nulla di diverso da quello che è stato preventivamente programmato a fare. (L’esempio più semplice è la catena di montaggio, che dà sempre luogo alla produzione di un oggetto in serie, a meno che non intervenga un errore o un inceppamento nella dinamica produttiva). Ma forse questa nostra abitudine linguistica andrebbe rivista: un processo ripetibile, automatico e prevedibile si attaglia di più a parole come “macchinario” o “meccanismo”. La macchina in sé può indicare, invece, qualunque strumento artificiale creato dall’uomo che ha, al contrario, la capacità di affinare ai massimi livelli una determinata facoltà naturale umana, facendole raggiungere una precisione e una cura altrimenti impensabili, se non persino irraggiungibili. (Per chiarire anche qui con alcuni esempi, si pensi al microfono che riesce ad amplificare la voce del cantante, o agli strumenti di igiene dentale, che arrivano a curare i punti delle gengive che le nostre dita toccherebbero a fatica). Nel caso di Just Intonation, la macchina è rappresentata da un pianoforte posto sulla scena. La sua tastiera è pilotabile a distanza e in remoto, dunque suonata in “assenza” di un pianista.

 

A unire queste due figure (= la bestia di Kafka e il pianoforte) interviene un “terzo” protagonista, che media le loro solitudini: la musica. Come infatti nell’originale racconto kafkiano l’unico elemento di contatto tra l’animale e il mondo esterno è costituito dai rumori / suoni che provengono al di fuori delle sue gallerie, che al tempo stesso gli impediscono di abbandonarsi al piacevole silenzio della sua tana, così nello spettacolo Just Intonation il corpo dell’attrice entra in relazione con la materia sonora, deformando sulla sua scia i suoi micro-movimenti abituali. Volendo supporre un rapporto biunivoco, potremmo aggiungere che anche il pianoforte, emettendo musica, entra in rapporto indiretto con la bestia. Esso a un certo punto suona per qualcuno e per accompagnarlo nella sua difficile ricerca di un movimento espressivo: prima era un pezzo di materia inerte, che accumulava su di sé marciume e polvere di anni.

Ora, questa relazione tra la solitudine della bestia con quella del pianoforte non va intesa sotto il segno della “presenza”. I due non cercano attivamente un’intesa reciproca, né tentano di imporsi all’attenzione dell’altro. Al contrario, bestia e pianoforte si trovano in due sistemi chiusi, perché sono unicamente concentrati sul loro compito di generare movimento e musica. Essi creano intorno a sé un vuoto e uno spazio privato, dove una qualunque invasione fisica improvvisa da parte dell’altro non farebbe che rompere l’incanto di quanto ha luogo sulla scena. Il loro incontro avviene, semmai, per puro caso. Non c’è intenzionalità nel loro trovarsi uniti o in contatto: semplicemente, questo contatto accade senza essere stato preparato. E in questo istante privilegiato, i due corpi riescono temporaneamente a sfuggire alla loro prigione e solitudine, seppure per ricadervi subito dopo. I corpi dell’attrice e del pianoforte perdono, grazie alla musica, il loro contorno e le loro forme, diventando a loro volta eterei come le note musicali. Da gravi e ingombranti enti imprigionati e isolati che erano, essi diventano per qualche attimo in tal modo sottili/leggeri, come un’ombra senza peso.

 

Just Intonation.


Se le notazioni elaborate sinora in merito a Just Intonation hanno un senso, esse ci dicono qualcosa di generale su cosa potrebbe essere la ricerca di una “assenza” positiva a teatro. Anzitutto, ciò potrebbe significare, in termini operativi, che l’attore o l’attrice non si costringono a far sì che l’incontro tra lui/lei e gli altri artisti, il pubblico, gli oggetti di scena abbiano per forza luogo. Egli o ella si impegna all’unica cosa che è in suo potere: creare una condizione di vuoto dove potrebbero aver luogo concentrazione e ascolto. Il resto è lasciato succedere spontaneamente, nella consapevolezza che costringere l’accadimento della relazione porta, spesso, all’impedimento del suo nascere. Inoltre, il confronto con Just Intonation apre la via per una possibile definizione del concetto di “assenza” a teatro. “Assentarsi” non significa affatto, per un attore e un’attrice, non essere calmo, attento e vigile sulla scena. Significa invece tentare di fare qualcosa che libera dai gravami dell’“io” cosciente, il quale è in genere una barriera fatta di pregiudizi, abitudini cognitive e resistenze, che precludono alle persone di incontrarsi e comunicare per davvero. Distruggendo questa scorza, sia pure per brevi attimi, il teatro si riverbera positivamente sulle nostre vite, aiutando gli artisti che si sono svuotati e il pubblico che ha potuto assistere al generarsi di questo vuoto a costruire meglio le loro relazioni, in un clima di maggiore condivisione e ascolto reciproco.

 

Ci sono tuttavia almeno due modi di intendere lo svuotamento che, se ho ragione, ha luogo a teatro in spettacoli come Just Intonation. Il primo è che gli artisti che attraversano la scena subiscono una trasformazione fisica. Se nella quotidianità quelli hanno necessariamente un “io” e alcune inevitabili opinioni pregiudizievoli, resistenze, ecc., nello spazio poetico del teatro riescono sul momento a perderli. La consueta debolezza della loro umanità viene per un po’ di tempo fuggita e obliata. Il secondo modo di intendere lo svuotamento riguarda, invece, l’atto conoscitivo dello spettatore. Quando diciamo che gli attori o le attrici hanno affatto attorno a sé un vuoto, forse si intende dire che la percezione dei membri del pubblico è stata affinata a tal punto dal processo artistico che questi riescono a concentrarsi sui ritmi e i movimenti che hanno luogo sulla scena, dunque a percepire tempo e spazio in modo “puro”. Mi pare, però, che questi due lati dello svuotamento non si contraddicano, anzi si implichino a vicenda. Gli attori e le attrici che svuotano fisicamente la scena di ciò che è ordinario o superfluo consentono al pubblico di concentrarsi. Viceversa, il pubblico – adottando la giusta concentrazione – accompagna e agevola il lavoro degli artisti, i quali riescono così temporaneamente a liberarsi della loro fragile umanità e di diventare espressione pura di visioni poetiche pure.

 

Pollock, Brown and Silver.


Da questa modesta e imperfetta analisi, potremmo derivare un ultimo spunto teorico. Siamo normalmente propensi a considerare il silenzio, la solitudine e il vuoto come realtà negative, ovvero a considerarle come condizioni di debolezza ed assenza di vitalità. Chi sta in silenzio è perché non è capace di parlare, il solitario consiste in chi non ha saputo procurarsi amori e amicizie, chi si è svuotato è colui che ha rinunciato all’incessante soddisfazione dei propri desideri. Il corrispettivo emotivo di questo atteggiamento mentale è condensato nella dicitura “orrore del vuoto”, horror vacui: la paura di trovarsi improvvisamente circondato dal nulla. L’artista minimale ed essenziale che lavora a teatro ci suggerisce, però, che può esistere anche una sorta di positivo amor vacui. Silenzio, solitudine, vuoto sono concetti-limite che indicano spazi o condizioni poetiche in cui, proprio perché non c’è o non accade “nulla”, allora si può dare manifestazione e movimento a qualunque cosa. Nella pienezza, può accadere solo quello che già c’è. Nel vuoto, può aver luogo l’inedito e l’imprevisto.

Si è detto (ammantandosi di una presunta autorità divina) che in principio il mondo cominciò con il verbo. Si è trattato di un grave errore, di cui paghiamo ancora le conseguenze. La ricerca più vitale va ora forse alla cessazione del verbo, con tutti i suoi rumori molesti e le sue menzogne perverse.

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Coco di Lee Unkrich

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“Che cos’è la morte?” Quando un bambino ce lo chiede non è semplice rispondere. “La nonna è andata in cielo” oppure “ci continua a guardare da un altro luogo”. È difficile però dare l’idea di che cosa sia l’irreversibilità, la definitiva scomparsa di qualcosa o qualcuno, il fatto che anche in un mondo che pare aver accorciato tempi e spazi fino a rendere tutto sempre accessibile, c’è qualcosa che invece finisce per sempre. È forse per questo che da sempre gli essere umani si sono immaginati l’esistenza dei defunti oltre la morte del loro corpo, come per relativizzare l’assoluta caducità della propria esistenza su questo mondo. Nella cultura messicana, ad esempio, si pensa che i defunti continuino a vivere nell’aldilà sottoforma di scheletri, ma che una volta all’anno vengano a trovare i propri cari che continuano a ricordarli. È il famosissimo Día de los Muertos, che cade tra il 31 ottobre e il 2 novembre, culto sincretico pre-colombiano poi ripreso nel calendario delle festività cattoliche, e ormai celebratissimo non soltanto nel Messico del Sud dove è nato, ma anche in tutte quelle parti degli Stati Uniti dove la popolazione di cultura messicana è dominante, come in California o in Texas. È un giorno dove nelle case messicane si costruiscono degli altari decorati con fiori di tagete, detti ofrendas, dove vengono poste le foto dei propri antenati per far sì che ritornino, almeno per un giorno, là dove sono vissuti quando erano in vita. 

 

La vita e la morte insomma. O per meglio dire, la presenza della morte nella nostra vita. È un tema che farebbe venire le vertigini anche alle più alte speculazioni filosofiche, ed è abbastanza stupefacente pensare che proprio questo sia il tema di Coco, il nuovo film della Pixar: cioè un cartone animato il cui destinatario principale sono dei bambini (che è cosa diversa di un film da bambini… anzi, la complessità e la profondità di Coco mettono in imbarazzo la stragrande maggioranza dei film “per adulti” che si vedono al cinema normalmente). Ma un’industria dell’entertainment come la Pixar che ha già prodotto Inside Out o Up non è certo nuova all’idea di affrontare temi tutt’altro che semplici in una forma narrativa per ragazzi, anche se forse questa volta il regista Lee Unkrich e il suo team sono riusciti a fare qualcosa di ben più strabiliante persino dei loro illustri predecessori. 

 

 

I morti non sono mai solo morti, ma danno anche forma alla storia, alla cultura e ai desideri di una famiglia. E come accade sempre col passato rischiano di determinare e ingabbiare il futuro. Se uno nasce da genitori e antenati poveri è spesso destinato a fare la stessa fine, così come chi è figlio di dottori finirà molto probabilmente per fare carriera. I Rivera, i protagonisti di Coco, sono dei calzolai e il destino di chi nasce in quella famiglia sarà quello di essere dei calzolai, senza fare troppe storie. Ma come sa bene la psicoanalisi, una famiglia non trasmette solo i propri insegnamenti espliciti, ma anche e soprattutto i propri non detti, i propri silenzi, in una parola i propri sintomi. E i Rivera un sintomo lo trasmettono molto chiaramente: il proprio odio per la musica. “Siamo l’unica famiglia di tutto il Messico che odia la musica” dice Miguel, il protagonista dodicenne del film. Il peccato originale della famiglia sarebbe proprio quello del patriarca, il trisnonno di Miguel, che un giorno decise di abbandonare la famiglia per andare a fare il musicista mariachi traumatizzando la madre e poi la figlia (ora inferma e in sedie a rotelle) che ha atteso tutta la vita che lui tornasse. In cima all’ofrenda di casa dei Rivera, c’è una foto con il volto del padre strappato, perché tutte le memorie famigliari hanno una ferita, un personaggio mancante, un trauma da nascondere, un qualcosa insomma che manca e che rende l’insieme dei ricordi incompleto. 

 

È in quel tassello mancante dell’album famigliare dei Rivera che andrà a inserirsi la vicenda di Miguel. Il passato non ci determina mai fino in fondo, c’è sempre una possibilità, anche se piccola, di riarticolare e di rivisitare la memoria degli antenati. E Miguel farà proprio quello, vivrà il suo Día de los Muertos facendo il percorso inverso: sarà lui che andrà a visitare i propri antenati per trovare il suo desiderio e essere artefice della sua vita, e non saranno loro a fare visita ai vivi per mostrare alla famiglia quello che è stato il passato. I morti e gli antenati riguardano il futuro, riguardano cioè quello che noi vorremo fare di loro, senza che il peso della loro memoria ci schiacci. E così Miguel deciderà, in barba al divieto famigliare (o forse proprio per via di quello) che lui farà il musicista lasciando tutti nello sconcerto.

 

Il viaggio di Miguel nell’aldilà che compone la parte centrale del film non è solo visivamente da lasciare a bocca aperta con una ricchezza cromatica mai vista prima nei film della Pixar, ma è anche un vero e proprio bildungsroman con il quale il ragazzino scoprirà se stesso andando alla ricerca di quel tassello mancante della propria memoria famigliare. Il colpo di genio di Coco però è nel mostrare come la memoria non sia solo una vicenda di “scoperta” di qualcosa che c’è già e che rivela la verità della storia famigliare, ma sia una questione di testimonianza. Miguel scoprirà che i morti non vivono per sempre nell’aldilà: nel momento in cui il loro ricordo svanisce dalla mente dei vivi, il loro scheletro scompare per sempre e lascia il mondo dell’aldilà così come il loro corpo aveva lasciato quello dell’aldiquà. E questa seconda morte, quella per così dire simbolica (che, si dice nel film, “prima o poi arriva per tutti”) èdavveroirreversibile

 

Il vero ricordo insomma non può essere custodito per sempre e non è impresso in nessuna fotografia, vive solo nella memoria flebile di una vecchia bisnonna inferma che non riconosce più nemmeno i suoi famigliari. Coco, appunto. Bisogna imparare a vivere con la fragilità e l’incertezza della memoria dei propri cari, con qualcosa che non è custodito da qualche parte per sempre ma di cui solo noi possiamo essere artefici e testimoni nel presente partendo dai propri desideri più che dall’insegnamento di un passato già dato. Sapendo che la vita è un equilibrio fragile proprio perché è destinata inevitabilmente e irreparabilmente a essere cancellata da questa terra. E questo, ci dice Coco, lungi dal paralizzarci, deve diventare il vero motivo della nostra gioia. 

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Emilio Isgrò cerca un impiego

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Chi ha modo di frequentare Emilio Isgrò ne conosce il carattere. Irriverente, è il primo connotato che viene da associargli: parte non esigua del successo crescente che negli ultimi anni hanno i suoi lavori – in particolare le cancellature cui deve una fama internazionale appunto un po’ sulfurea – si deve al frisson con cui sempre ci fa riflettere sul senso di quel gesto concettuale sovranamente ambiguo che è in sé la cancellatura, e su quello che nello specifico ha “cancellare”, di volta in volta, l’Enciclopedia Treccani, I Promessi Sposi, la Costituzione Italiana o il Debito Pubblico (sfortunatamente, in questo caso, solo in effigie). Così che, confesso, mi ha preso in contropiede la notizia che lo scorso 6 ottobre Isgrò – da sempre un trickster, uno spiritello dispettoso – ha compiuto ottant’anni. L’evento è stato doverosamente celebrato, ma nel suo stile: senza sussiego e senza retorica (o meglio, con retorica ironicamente rovesciata, a sua volta “cancellata”).

 

La Triennale della sua Milano (nato a Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, Isgrò è milanese ormai da più di cinquant’anni) ha ospitato la mostra I multipli secondo Isgrò (promossa da Editalia e curata dal complice più assiduo, Marco Bazzini), fra i quali spiccava una serie di coloratissimi semi d’arancia realizzati in ceramica. Il tema del Seme si è affiancato negli ultimi tempi a quello della Cancellatura: e infatti un gigantesco esemplare, il Seme dell’Altissimo in marmo bianco alto circa sette metri (che ingrandisce l’oggetto reale, come recita la scritta alla sua base, un miliardo e mezzo di volte), commissionato due anni fa dall’Expo e dall’artista donato alla città, è stato per l’occasione collocato in via definitiva nei giardini antistanti la sede della Triennale: come «fondamenta di un’arte civile».

 

Ma soprattutto è uscito da Sellerio Autocurriculum (pp. 222, € 14), sorprendente autobiografia di uno che, avendo fatto il giornalista culturale per tanti anni, si può dire abbia conosciuto tutti; e in anni in cui valeva la pena, decisamente, conoscere tanta gente. L’irriverenza di Isgrò dà sapore, un sapore certe volte piccantino, alle tante icone nazionali, e non, che ha avuto modo d’incontrare; e del cui carattere – a loro volta –riporta pieghe inedite e sempre curiose. Dall’infelicità di Piero Manzoni, «concettuale dal volto umano», al «sempiterno Umberto Eco in ascesa perenne», dal «trotterellante Palazzeschi» a Paolo Volponi cantante «più intonato» di Montale, dallo «spocchioso» Calvino a de Chirico «attore non inferiore al pittore», da Ezra Pound a John Kennedy. Un Pantheon tutto rivisitato a testa in giù: con una scrittura sempre pungente, che corre a rompicollo da un decennio all’altro. Del resto Isgrò nasce poeta, e all’attività artistica (nella quale non a caso gioca sempre un ruolo decisivo la parola) ha sempre affiancato quella letteraria, narrativa e anche drammaturgica (con l’epocale Orestea negli anni Ottanta messa in scena, per volontà del sindaco Ludovico Corrao, sulle rovine di Gibellina distrutta dal terremoto del Belice nel ’68). 

 

In genere, in libri così fitti di nomi e aneddoti, manca dalla scena il personaggio più importante: quello col nome in copertina. Non è questo il caso. Anzitutto perché Isgrò non manca di parlare del suo lavoro d’artista, di commentare le varie interpretazioni – altrui e proprie – che, nell’ormai mezzo secolo da quando sono apparse, hanno ricevuto le Cancellature. Ma, per evitare di mettersi su un piedistallo, adotta uno stratagemma retorico geniale: presentando questo suo testo come un curriculum, allestito al fine di trovare finalmente un «impiego a tempo indeterminato». In ogni migrante, ancorché di successo come lui, resta sempre un certo senso di precarietà; e Isgrò, irriverente con se stesso per primo, in questo suo testo si presenta proprio come un postulante. Per esempio quando si affaccia dal lunatico Gian Giacomo Feltrinelli, che allora pubblicava gli autori della neoavanguardia e gli aveva fatto sapere di essere interessato alle sue poesie visive (si è venuto a sapere di recente, dal volume dedicato l’anno scorso da Federico Milone alle carte preparatorie dell’antologia del ’61 I Novissimi, riscoperte a Pavia nell’archivio di Alfredo Giuliani, che il nome dell’allora ventitreenne Isgrò figurava nell’elenco dei papabili). Quella mattina, però, trova «l’Editore» con la luna storta. «Tre giorni fa mi hai detto che trovavi bellissime le mie cose e volevi pubblicarle». «Sì, è vero, ma non so se fra tre giorni mi piaceranno ancora come tre giorni fa». Allora il postulante prende la porta con uno scatto d’orgoglio: «Le mie opere sono fatte perché piacciano anche fra tre secoli». C’è tutta l’ambivalenza di Isgrò, in questo scambio di battute. Fra tre secoli non lo so (e non lo sa neppure lui), ma sta di fatto che oggi, a cinquant’anni da quell’episodio, le sue opere sono esposte in tutto il mondo.

 

Cortellessa: Presenti il sofista siciliano Gorgia da Lentini come tuo spirito guida, Emilio, e non c’è dubbio che tua sia l’attitudine a guardare le cose sempre «di lato e di scorcio». Però c’è anche, in te, una fierezza quasi leonina, e che si deve al tuo carattere «febbrile» (un aggettivo che torna più volte nel testo). Basta guardarti negli occhi per rendersene conto. Ricordi la grande mostra del 2008 al Centro Pecci di Prato, curata da Marco Bazzini e Achille Bonito Oliva, che è stata fra l’altro l’occasione in cui ci siamo conosciuti, e che s’intitolava Dichiaro di essere Emilio Isgrò (capovolgendo e “cancellando” il tuo precedente lavoro intitolato Dichiaro di non essere Emilio Isgrò). In fondo, direbbe Philippe Lejeune, ogni autobiografia si fonda su una dichiarazione di coincidenza fra l’anagrafe e la soggettività. Si afferma la volontà di esserci stati, e di esserci per il futuro.

Isgrò: L’autobiografia si fa alla fine di una carriera, il curriculum all’inizio... Sì, il libro enuncia la volontà di esserci. Non tanto in quanto Isgrò, ma in quanto titolare di un mestiere che rischia di sparire in un assetto, come quello attuale, in cui la vecchia figura dell’artista come intellettuale non può più avere neppure il vizio del narcisismo!

 

AC: La dichiarazione di esserci è anche uno stratagemma per superare il “complesso del cancellatore”. «Come Penelope», scrivi, «cancellavo di giorno ciò che scrivevo di notte». Una frase che può spiegare pure l’ambivalenza fra scrittura e immagine, fra letteratura e arte, come tentativo di sabotare sempre se stessi, e al tempo stesso ricostruirsi dopo essersi distrutti.

EI: Mi sono sempre riconosciuto in quella novella di Pirandello, Il corvo di Mizzarò, in cui l’uccello si mette a covare le uova al posto della compagna fuggita dal nido. Anch’io mi sono trovato a svolgere ruoli che non avrei mai pensato mi sarebbero toccati…. La cancellatura comunque, ormai lo si è capito, non è quella distruzione che veniva paventata, o esaltata, all’inizio del mio percorso. Sono nato con una musica nelle orecchie che mi ha sempre accompagnato; come avrei potuto distruggere, in nome di una scelta di poetica, ciò che mi dava così grande piacere? Come avrei potuto negare Bellini? È come chi in nome della nouvelle cuisine rinneghi l’ossobuco con risotto. A questo tipo di rinunce non sono mai stato disposto. La cancellatura mi era servita come gesto, come punto di non ritorno, come dire, «ragazzi, più avanti di così non si va; ora torniamo a Giuseppe Verdi!».

 

AC: O a Garibaldi…

EI: Ecco, sì, viva Garibaldi! Io stesso ho capito col tempo che se si cancella è solo per costruire, per creare. Quello che fa davvero la cancellatura è riproporre una dialettica del linguaggio, nel tempo in cui in apparenza, dopo il crollo dell’idealismo e del marxismo, la dialettica non serve più a nulla. Ma ogni artista, se non di una dialettica in senso classico, ha bisogno di una pendolarità; di essere questo ma anche altro. La possibilità di essere figlio di Dio e figlio, o almeno nipote, di Satana.

 

AC: Scrivi: «Credo in Dio al mattino, al pomeriggio non più».

EI: Di solito al mattino sono credente, al pomeriggio comincio a vacillare, al tramonto…

 

AC: … sei un nichilista…

EI: … assoluto!

 

AC: Alle cancellature si era molto appassionato, ricordi, anche Andrea Zanzotto. Del resto anche lui scriveva qualche volta delle parole con sopra un tratto orizzontale, sulle orme di Lacan… 

EI: Era l’aspetto del mio lavoro che più lo interessava, certo. Come Pasolini aveva apprezzato le mie poesie giovanili, ma la cancellatura gli aveva fatto venire una febbre addosso (anche Stefano Agosti, sempre in chiave lacaniana, se ne interessò; anche se lui la ricollegava al bianco di Mallarmé mentre la cancellatura non è questo, non postula il vuoto, interroga la possibilità della parola umana di sopravvivere). Tutta l’opera di Zanzotto, del resto, si può leggere come cancellatoria… l’accumularsi verbale, per strati successivi, è come la stratificazione di colore in una tela informale, che cancella quello che sta sotto ed emerge a tratti. 

 

AC: Magari anche questo è un effetto del codice autobiografico, ma certo per essere una persona che ha conosciuto tutti, alla fine ti presenti come uno che resta sempre “non allineato”, che non si può associare a niente e a nessuno.

EI: Questo isolamento non mi fu tanto imposto dagli altri, ero io a non avere tanta facilità nei rapporti sociali. Ci sono sempre stati affetti, amicizie, questo sì.

 

AC: Ti descrivi come un timido. Con le donne e non solo. Pur essendo, come dimostri anche in questa occasione, un gran chiacchierone! Molto divertente il racconto della cena con Leonardo Sciascia, in cui rimanete in silenzio tutto il tempo…

EI: Non si direbbe, è vero, ma in effetti sono sempre stato un timido. Perdo la mia timidezza solo quando sono sul palcoscenico, come capita del resto a tanti comici... Comunque è così. Polemico sempre, militante spesso, organico a nulla. Avrei potuto passare la mia esistenza molto quietamente in biblioteca a leggere, a scrivere, e naturalmente a cancellare. Tutto quello che mi è successo è stato preterintenzionale, ha sorpreso me per primo. La cancellatura l’avevo presa subito molto sul serio, per esempio, ma la sua reale portata si è manifestata solo nel corso degli anni.

 

 

AC: In ogni stagione la cancellatura acquista un senso diverso. Per esempio a distanza di poco tempo tu cancelli la Costituzione ma, spieghi, solo per mettere in guardia da coloro che vogliono cancellarla; e poi però cancelli il debito pubblico!

EI: La cancellatura non è uno stile…

 

AC: … infatti… è quello che i filosofi definiscono un dispositivo. Ogni volta può essere usata in contesti diversi con fini diversi…

EI: Solo adesso i critici d’arte cominciano a intenderla in questo modo. È anche frutto della mia sicilianità. La nostra è una cultura che cerca sempre di tenere insieme gli opposti. In Sicilia c’era stato il futurismo, ma con una coloritura bucolica… C’era un futurista piuttosto noto, Giacomo Giardina, che era un pecoraio. Solo in Sicilia sarebbe potuta succedere una cosa del genere. Il barone futurista Jannelli voleva trasformare il teatro di Siracusa in un pascolo. Mio nonno poi, che si chiamava Emilio Isgrò come me, era contemporaneamente anarchico e monarchico… Del resto c’erano anche certi futuristi russi, come Chlebnikov, che andavano in cerca degli etimi slavi più arcaici. Non sono mai stato troskista, anche se mi accusava di esserlo Francesco Leonetti (ma solo perché lavoravo con Arturo Schwarz, che troskista lo era davvero), però mi affascinava, di Trockij, il suo motto secondo il quale «la rivoluzione salta sulle spalle del passato». Perché altrimenti avrei scritto in dialetto l’Orestea di Gibellina? Questa cosa sconvolgeva gli avanguardisti più “allineati”! 

 

AC: L’Autocurriculum potrebbe essere la versione scritta “davvero” dell’Avventurosa vita di Emilio Isgrò, lo pseudo-romanzo concettuale che nel ’74 ebbe in sorte, per un equivoco, di finire candidato al Premio Strega. Mi ricorda le vite degli avventurieri veneziani che aveva antologizzato Giovanni Comisso, uno degli illustri collaboratori cui toccava subire, non sempre di buon grado, il tuo editing quando eri redattore al Gazzettino di Venezia.

EI: Silvano Nigro lo legge come un testo picaresco, e forse non ha tutti i torti. È il mio spirito di bastian contrario…

 

AC: A proposito di artisti “non allineati”, racconti che ti attraeva la Jugoslavia di Tito. Un regime non certo democratico, e neppure convinto davvero dall’arte moderna, ma che la promuoveva, strumentalmente, in alternativa al conservatorismo del blocco sovietico.

EI: Quelli del Gruppo 63 mi hanno sempre guardato con curiosità. Mi sentivo più vicino a loro che alle avanguardie artistiche di quel tempo. Potevo non condividere certe cose che scriveva Edoardo Sanguineti, gli preferivo Le ceneri di Gramsci di Pasolini, ma capivo bene cosa voleva fare. Quando si ricorda di essere un poeta, certe sue cose sono memorabili [a questo punto Isgrò dice a memoria i versi di Erotopaegnia, «In te dormiva come un fibroma asciutto»…]. Alfredo Giuliani, che era di gran lunga il meno normativo del Gruppo, ma anche Nanni Balestrini, mi hanno sempre avuto in simpatia; fu Balestrini a venirmi a chiedere le prime poesie per il verri. Qualcun altro, certe volte, mi ha guardato invece con una certa impazienza. Come Elio Pagliarani, che prima mi chiamò a collaborare all’Avanti!, ma in seguito mi trattò con una certa freddezza… sicché mi è piaciuto omaggiarlo, a tanti anni di distanza, con una mia cancellatura, Rosso Pagliarani, che è stata appena consegnata, come premio Pagliarani, al poeta Carlo Bordini. Elio era arrivato all’avanguardia quando aveva già scritto cose diverse e in sospetto di neorealismo, e forse voleva mostrarsi sin troppo zelante, ma ricordo bene quando uscì La ragazza Carla. Con tutto il suo cattivo carattere, era il più poeta dei suoi compagni.

 

AC: Racconti di quando hai esposto in una mostra di Fluxus, ma aggiungi di non aver mai fatto parte di Fluxus, di essere stato vicino ai poeti visivi del Gruppo 70, a Firenze, ma di non essere mai stato dei loro… È come se tu fossi il Groucho Marx dell’avanguardia italiana: non vorresti mai far parte di un gruppo che ammettesse fra i suoi soci uno come te!

EI: Hai toccato il punto… prendiamo il Gruppo 70. Condividevo il loro spirito d’avventura, ma mi sono allontanato da loro quando li ho visti irrigidirsi in un’ideologia. Il côté diciamo sanguinetiano dell’avanguardia, quello organico appunto, non mi è mai appartenuto. Lamberto Pignotti aveva un’idea protonovecentesca di avanguardia, dai principi non si deroga. Io invece derogavo solo da quelli!

 

AC: Da cosa si può derogare se non dai principi? La forza e al tempo stesso la debolezza dell’avanguardia diciamo “classica” è la radicalità delle sue negazioni. Si fonda sull’esclusione di tutto quanto ecceda la propria poetica. Invece tu cerchi sempre il punto di compatibilità, quello che hai chiamato il momento dialettico, di ogni posizione. A partire dalla tua. 

EI: Il mio miglior amico di gioventù era un poeta triestino, Guido Costantini, imparentato alla lontana con Scipio Slataper e forse anche con Svevo, di madre anglicana e padre ebreo, era stato campione di nuoto e aveva fatto la Resistenza, era iscritto al PCI…

 

AC: … tu non sei mai stato iscritto a un partito?

EI: Mai. Ma ho sempre votato da quella parte. Una volta però ho votato per il manifesto, al tempo della campagna per far uscire Valpreda dal carcere. Ero redattore di Tempo illustrato, che era pieno di comunisti duri e puri per i quali questa cosa fu uno scandalo… pare che avessi fatto qualcosa di politicamente scorretto. Non era stata la prima volta, non fu neppure l’ultima.

 

AC: Mai stato tentato dall’astensione?

EI: Ora un po’ tentato lo sono, ti confesso. Non so che pesci pigliare. Questa sinistra che divora i suoi figli… Ti parlavo di Guido Costantini, mi colpì molto – avevo vent’anni – quando fu cacciato dal PCI durante la polemica sui medici ebrei accusati di aver complottato per uccidere Stalin. Lui, che era mezzo ebreo, a quel punto si ribellò. A quel tempo ero un militante anch’io, ero cresciuto con un padre e una madre mai “allineati” al conservatorismo democristiano che imperava allora in Sicilia… insomma ero un pecoraio futurista e comunista anch’io. E Guido in quell’occasione mi disse una cosa che ho sempre ricordato: «non bisogna mai partire dal presupposto che il tuo avversario abbia torto; devi ascoltarlo, e se ha ragione devi avere il coraggio di riconoscerglielo». 

 

AC: Parliamo del Seme dell’Altissimo. A proposito della tua «arte civile» dici che il tuo ispiratore è Manzoni – non Piero ma Alessandro – per l’idea dell’arte come educazione. Educazione spirituale ma, soprattutto, civile. 

EI: Non ho mai voluto fare un’arte “impegnata”, ma invece mi riconosco in un’«arte civile». Cioè un’arte che sia sempre non impegnata ma impregnata: del sociale che sta tutto intorno. Persino la cancellatura è così: una spugna che ogni volta prende senso dal tempo e dal contesto in cui viene operata.

 

AC: Nel poemetto I funerali di Corrao, dove celebri la figura del sindaco-demiurgo di Gibellina, ricordi la figura di Saiful, il ragazzo del Bangladesh che lui accolse nella sua casa e alla fine gli tagliò la gola con un coltello. È una tragedia non solo siciliana, non solo italiana. Forse oggi la cosa più giusta da cancellare sono le frontiere di questo mondo sempre più impaurito e aggressivo. 

EI: È quello che ho fatto con le mie cartine geografiche cancellate. Ma le frontiere fisiche che si possono cancellare riemergono come frontiere culturali. Oggi lo «scontro di civiltà» di cui parlava Samuel Huntington non è quello fra il Nord e il Sud del pianeta, o quello fra gli scintoisti e gli atei confuciani della Cina e il resto del mondo, ma quello fra la vecchia Europa e quello che non si può non tornare a definire, come una volta, l’imperialismo americano. La posta in gioco è la libertà del mondo. Gli americani non sono più i garanti delle libertà umane. E non dipende da Donald Trump. Lui è l’effetto, non la causa. È un figlio degli anni Sessanta, della Pop Art; Trump è un nipotino di Andy Warhol. La grande arte americana finisce quando tutti credono che cominci, con Pollock e Rothko. Spero che la loro schiacciante egemonia culturale non prosegua come egemonia militare globale, sino a trascinarci tutti nella catastrofe. E spero che sia la migliore cultura americana a impedirlo. D’altra parte Obama è venuto a chiedere lumi alla Merkel… non certo una rivoluzionaria ma una che, seppur convinta che i Berliner Philharmoniker siano un covo di sovversivi, non ha mai fatto loro mancare il supporto che gli si deve.

 

AC: Vuoi dire che l’Europa riserva nei confronti alla cultura, malgrado tutto, un ruolo che in America è tramontato da tempo?

EI: Per loro conta solo la forza economica, oltre a quella militare. E questo modello sta stravincendo anche da noi, purtroppo. C’è da sperare che questa struttura a fisarmonica che ha l’Europa la faccia sopravvivere. Proprio perché poco coesa, forse, si dimostrerà più elastica di quanto si potesse pensare. Sono suonate tante campane a morto per l’Europa ma non si è ancora sfasciata, no? Magari si sfascia prima l’America. Lo ripeto, Trump è un nipotino di Warhol. Warhol aveva lavorato sull’anonimato (il famoso quarto d’ora di celebrità per tutti) come su un pericolo, o almeno così spero che si possa leggere la sua opera. Ma oggi Trump non esprime altro che l’anonimato assiderante della provincia americana. E il mondo dei social network realizza la profezia irridente di Warhol.

 

AC: Ti sei trovato in sintonia con Gino Di Maggio, racconti, forse perché lui è nato a Novara di Sicilia e tu a Barcellona di Sicilia. E commenti: «i siciliani non sono mai anonimi, ma omonimi». 

EI: Uno, nessuno e centomila. 

 

AC: Quando parli della mafia scrivi «tutto ciò che scrivevo e facevo come artista in qualche modo veniva da lì. Da quello sconquasso, da quella paura». Dall’Italia in frantumi di cui ti parlava Ottiero Ottieri. 

EI: Di questo parla L’Orestea di Gibellina. Lo capirono magistrati come il povero Ciaccio Montalto, che di lì a poco dalla mafia verrà ammazzato, e che era venuto a vedere lo spettacolo.

 

AC: Forse è un moto “manzoniano”, il tuo di darti coraggio. Per Don Abbondio una cosa sola non si può fare, cioè appunto darsi coraggio da sé. Che è invece proprio quello che fa, sempre, il tuo personaggio. Pur non essendo il tuo un temperamento particolarmente ardimentoso, tutto quello che hai fatto si può riassumere all’insegna di questa tempra artificiale. Hai fatto un po’ come il Barone di Münchhausen che, in quella poesia di Zanzotto nella Beltà, si solleva dalla palude tirando sé stesso per il codino.

EI: Sempre preterintenzionalmente, ma sono uno che va fino in fondo. Se una cosa «s’ha da fare», per dirla appunto con Manzoni, si fa. Il Dio in cui credo la mattina, forse, non mi guarderà come un pusillanime. Quando ha cancellato I Promessi Sposi, la riflessione che ho fatto (l’ho scritto nel catalogo della grande antologica che mi ha curato Bazzini, a Palazzo Reale l’anno scorso) è stata sulla sua scelta trasgressiva, lui rampollo dell’aristocrazia illuminista ingessata nei versi neoclassici, di un italiano “popolare” (anche se quella lingua non veniva parlata, in effetti, da così tante persone). Era quella la sua scelta di progresso, anche in senso “illuminista”. È comunque una scelta simile a quella che farà Pasolini quando, rispetto alle Ceneri di Gramsci, adotterà la lingua del cinema. Mi piaceva il grande Lucio Piccolo, barone di Capo d’Orlando e poeta straordinario, che si professava saragattiano (e per lui questa era una grossa trasgressione, lo diceva a bassa voce) e per discrezione non parlava mai del suo più celebre cugino. Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Salvo una volta in cui raccontò un episodio in cui Tomasi, con lo sprezzo tipico degli aristocratici siciliani, a un contadino che a Palermo gli aveva chiesto la strada per andare al Teatro Massimo, indicò la strada opposta. La nobiltà che rivendicava Piccolo era una nobiltà politica, non di sangue.

 

AC: Sei avverso all’elitarismo, al sussiego appunto aristocratico che ostentano tanti di coloro che seguono l’arte contemporanea.

EI: L’arte purtroppo non è per tutti, lo so io per primo. Ma non ho mai fatto nulla per escludere qualcosa o qualcuno. Non ho mai inseguito il successo immediato, ma ho sempre pensato che quello che andavo facendo, col tempo, sarebbe stato capito, si sarebbe affermato. Ho sempre cercato un’arte inclusiva. Oggi la parrucchiera e il fruttivendolo mi chiedono notizie delle mie cancellature, i bambini corrono dietro alle mie formiche. È meglio, mi dico, aver avuto successo con un certo ritardo. Altrimenti magari mi sarei adagiato…

 

AC… avresti trovato subito lavoro! Invece lo devi cercare fino alla fine dei tuoi giorni… Il Seme è di per sé un simbolo di speranza, di futuro. D’altra parte, a sottrargli ogni retorica è la sua misura gigantesca. È come un futuro che fosse già presente, e che con la sua incombenza ci schiaccia. Anche in questo caso ci metti di fronte a una dialettica…

EI: … l’ottimismo e il pessimismo… in questi casi si cita sempre Gramsci. Come tutti i siciliani, io sono d’indole pessimista. Non credo in nulla, forse nemmeno in me stesso. Il Seme si chiama «dell’Altissimo» perché si possa pensare a chissà quale trascendenza; ma in realtà questo titolo si deve solo alla cava da cui è stato tratto il marmo, che è quella del Monte Altissimo appunto. Sono un pessimista, ma un pessimista di buon carattere. Mi sono sempre fatto trascinare dagli amori, dagli entusiasmi. Solo uno con un buon carattere può finire per vedere nella cancellatura un campo arato in cui piantare un seme! E mi piace che stia a Milano, l’unica città europea da dove penso possa rinascere l’Italia. Ormai, dopo tanti anni, mi sento un po’ milanese anch’io. E neppure Milano vuole escludere, la sua natura è inclusiva. Anche Milano, insomma, ha un buon carattere!

 

AC: Mi ha divertito molto l’episodio della tua performance su Garibaldi, Disobbedisco, cui assiste il ministro Alfano che poi ti parla dell’importanza del dissenso ma, ça va sans dire, «al fine di costruire il consenso». Ecco, usando le categorie dell’avanguardia degli anni Sessanta, tu ti senti più un Apocalittico o un Integrato?

EI: Questa è la domanda più perfida che tu potessi fare. Se uno è alla ricerca perenne di un lavoro vuol dire che ha gran voglia d’integrarsi, certo; ma vuol dire pure che integrato non è. Diciamo che sono un apocalittico con un buon carattere.

 

Una versione molto più breve di questa intervista è uscita il 18 dicembre su «La Stampa»

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