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Design africano

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Sottotitolo: 
intervista a Mugendi M’Rithaa

English Version

 

“Finché i leoni non avranno i loro scrittori, i racconti di caccia continueranno a glorificare il cacciatore”.

Proverbio nigeriano

 

lettera27 e Mugendi M’Rithaa si sono incontrati a Milano in occasione della sua presentazione a Meet the Media Guru - Future Ways of Living, in collaborazione con la Triennale di Milano che si è tenuta alla Fabbrica di Vapore. L’intervista che segue è il risultato di un'appassionante conversazione tra Mugendi M’Rithaa, Elena Korzhenevich, Adama Sanneh e Tania Gianesin. Ringraziamo in particolare Anna Barbara e Luca Poncellini per aver contribuito "da remoto", con spunti e domande stimolanti che ci hanno guidato nell'intervista.

 

 

Elena Korzhenevich: In qualità di curatore di Design Indaba, uno dei più importanti festival africani dedicati alla creatività, può dirci qual è l’idea di fondo che anima quest’iniziativa?

 

Mugendi M’Rithaa: Design Indaba si tiene ogni anno da ventidue anni. Mi occupo in particolare della sezione dedicata al design industriale. Alla base di Indaba, organizzazione per la quale nutro un profondo rispetto, vi è la consapevolezza che il potenziale creativo dell’Africa è ancora del tutto inesplorato. L’idea non è soltanto quella di portare il talento creativo in Africa, a beneficio delle industrie creative africane, ma anche di mettere in mostra le pratiche creative emergenti nel continente. In questo senso, Design Indaba è una piattaforma molto importante che mette a confronto in uno spazio dialogico designer internazionali e locali (e quando dico “locali” intendo “africani”, non solo di Città del Capo o sudafricani). Design Indaba è anche una piattaforma online volta a promuovere i migliori prodotti di design, attraverso il progetto “The most beautiful object in South Africa”: può trattarsi di un’app, di una sedia o perfino di un lavoro a maglia ispirato alla cultura locale. L’idea di fondo è quella di sensibilizzare e informare l’opinione pubblica su ciò che accade nel continente africano dal punto di vista creativo.

 

Mugendi K. M'Rithaa.

 

E.K.: Come mai, secondo lei, dopo tutti questi anni di attività, il design africano è ancora così poco conosciuto qui in Occidente? Quali ostacoli ha incontrato nel cercare di diffonderne la conoscenza a livello internazionale? 

 

Vi è, a mio parere, un duplice fattore. Da un lato, il problema riguarda l’Africa: siamo noi stessi a non aver raccontato in maniera adeguata la nostra storia. Come dice il proverbio nigeriano, “finché i leoni non avranno i loro scrittori, i racconti di caccia continueranno a glorificare il cacciatore”. La sensazione è che designer e creativi africani non abbiano sufficiente fiducia nel proprio talento creativo, quindi noi stessi tendiamo a imitare ed esaltare ciò che arriva da fuori. E questo è il primo problema. Il secondo riguarda la visione stereotipata che il mondo ha dell’Africa, che non aiuta a comprendere come l’Africa abbia molto di più da offrire, oltre all’artigianato. Gran parte di ciò che viene visto come arte o design africano viene solitamente associato a forme artigianali del tutto rudimentali, etichettate come tradizionali o etniche. E ogni volta che un designer africano tenta di discostarsi da quelle forme e sperimentare qualcosa di più moderno e cosmopolita, la gente fa di tutto per riportarlo verso l’etnico.

 

 

E.K.: Ha anticipato una delle domande che volevo farle: perché, secondo lei, il pubblico internazionale tende a pensare al design africano come a un insieme di souvenir esotici o kitsch, anziché concentrarsi sugli oggetti esteticamente più interessanti che vengono prodotti ogni giorno in Africa?

 

Sibusis Brian Mokhachane,backpacks, Accessories designer and Social enterpreneur, South Africa.

  

A rischio di semplificare eccessivamente la questione, la riassumerei in due parole: la prima è ignoranza. Nessuno lo ha informato meglio, per cui il pubblico non conosce la ricchezza del panorama creativo africano. Ecco perché è fondamentale il ruolo di un’organizzazione come la vostra nel promuovere una visione alternativa del mondo e dell’Africa all’interno di un contesto globale. La seconda parola è arroganza, che dal mio punto di vista si traduce nel rifiuto di accettare che dal continente africano possa nascere qualcosa di eccellente, entusiasmante e del tutto innovativo. Sull’ignoranza possiamo agire, promuovendo una maggiore informazione, ma l’arroganza va affrontata con forza, perché qualunque cosa diciamo, la gente ha già un’idea ben precisa e non è disposta ad ascoltare.

 

 

E.K.: Crede abbia senso parlare di design africano? Cosa si intende per design africano?

 

No, credo che l’Africa sia troppo grande perché si possa parlare di un “design africano”. Anche un Paese come l’Italia, di dimensioni estremamente ridotte a confronto con l’Africa, varia enormemente da città a città, per cui ridurre l’Africa a un’unica idea o rappresentazione stilistica è errato. Si può parlare di elementi di design per i quali si riscontra una certa comunanza tra i vari Paesi africani, come ad esempio l’uso di colori e materiali rustici, legati alla terra, o la ricorrenza di determinati motivi o elementi cromatici, ma in tutta onestà non posso affermare che esista qualcosa di definibile come “design africano” o “stile africano”. Credo che sarebbe un insulto alla creatività di un continente popolato da più di un miliardo di persone e composto da 54 Paesi. È troppo ricco per poter essere ridotto a un unico concetto.

 

 

E.K.: Sarebbe un po’ come dire “design europeo”, non avrebbe senso…

 

Esattamente. Se prendiamo il design di IKEA e lo chiamiamo design europeo, sarebbe un insulto nei confronti di molte altre forme di design. Anche se proviene dall’Europa e ha una sua chiara riconoscibilità dal punto di vista estetico, non vuol dire che sia questa l’unica tipologia di design prodotta in Europa. La mia sfida personale è proprio questa: difendere il continente africano ogni qual volta se ne presenta l’occasione.

 

 

E.K.: Se dovesse indicare alcuni temi o concetti chiave che l’Africa propone per il nuovo millennio, quali sarebbero?

 

Un primo tema è l’informalità. L’idea che le cose non debbano essere necessariamente formali per poter essere considerate una forma d’arte o di design. Il secondo è l’hackability: la capacità di trasformare, combinare, mutare la destinazione degli oggetti, far funzionare qualcosa unendo vecchio e nuovo, mescolando, mettendo insieme Africa e Occidente. Un altro concetto chiave è l’ibridazione. L’idea di non perseguire forme pure, ma combinare in maniera pragmatica diversi elementi. E poi vi è l’autenticità, che vuol dire non nascondere nulla alla vista: se, ad esempio, nel design vi è un filo metallico, esso rimane visibile, non viene trasformato in qualcosa di irriconoscibile, diventa pura espressione.

 

 

E.K.: Il tempo è uno dei parametri fondamentali del design. Oggi vi è un design “usa e getta” e un design orientato al recupero. Un design che produce scarti, immondizia, e un design che nasce da quell’immondizia. Qual è il modello al quale si ispira o intende orientarsi il design africano?

 

La verità è che esistono entrambi i modelli e questo nasce da una necessità. L’hackability, la riciclabilità, l’informalità fanno parte della realtà in cui vivono la maggior parte degli africani. Ovviamente vi sono anche africani che possono permettersi di creare mobili nuovi, per cui non vi è solo il riciclo o il riuso di materiali esistenti: si realizzano anche delle cose nuove. Vi sono, quindi, entrambe le cose, ma se dovessi indicare delle percentuali, direi che vi è un 20% di nuove creazioni e un 80% di materiali riciclati; e questo nasce da un’esigenza pratica.

 

Madri Van Zyl Iioni jewellery, Jewellery designer, South Africa .

 

E.K.: Le forti ondate migratorie verso il nostro Paese hanno generato nuovi modi di vivere gli spazi, di consumare. È possibile concepire questi immigrati come il nuovo target di un nuovo design? Quali risposte dà il design alla nuova emergenza migratoria?

 

Come disse una volta un mio amico dello Zimbabwe, “l’Africa non è povera, ciò che le manca è soltanto una gran quantità di denaro”. Quello che ha l’Africa è l’umanità. Quando penso agli immigrati che dall’Africa arrivano in Europa e nel resto del mondo, penso all’umanità che essi portano con sé. Un’umanità che si traduce in un senso di comunità. Vedo come la tecnologia ha ridotto al minimo l’interazione tra le persone. La tecnologia, a mio parere, dovrebbe essere un supporto, non un elemento che si sostituisce alle relazioni umane. Alla base delle comunità africane continua a esserci l’idea che “io sono perché noi siamo”. Il rinnovamento che esse possono portare all’interno delle comunità europee è dunque legato alla centralità del fattore umano in ogni nostra attività. Riportare l’elemento umano al centro del mondo del lavoro, della vita sociale, delle innovazioni tecnologiche, del design: potrebbe essere questo un contributo davvero vitale.

 

 

E.K.: Oggi è tempo di recuperare la dimensione sociale del design e abbandonare o dimenticare quell’aspetto glamour che lo rende banale, ma che molto spesso è l’unico a essere pubblicizzato. Qual è, secondo lei, il ruolo politico del design?

 

Il design sociale è il settore in cui, a mio avviso, tutti i designer dovrebbero investire. Vi è un’espressione utilizzata in ambito giuridico che mi ispira particolarmente: è il concetto di “probono”, ovvero l’idea di devolvere il ricavato del proprio lavoro “per una buona causa”. Vorrei invitare i designer a impiegare anche solo il 20% del proprio tempo a favore di un design socialmente responsabile. Oggi il mondo è investito da un’ondata di caos sociale, economico e politico che non ha precedenti. Non abbiamo mai vissuto una simile condizione di instabilità. Allo stesso tempo vi sono al mondo più designer di quanti ce ne siano mai stati. I designer sono per natura ottimisti, sia da un punto di vista professionale che talvolta anche personale. Io mi definisco un ottimista critico. Dal momento che siamo esperti in problem solving, il design può avere un ruolo fondamentale nel mondo odierno. Ogni designer assume una posizione ben precisa attraverso le scelte che opera, poiché ogni scelta di design ha un impatto sulla società. Ma non sembriamo essere consapevoli di questo potere. L’ultima frontiera del design è la leadership politica. E vorrei che i designer iniziassero a influenzare il pensiero politico e i leader dei loro rispettivi Paesi attraverso le proprie competenze e il proprio modo di pensare. Il design può davvero contribuire a risolvere alcuni problemi, ovviamente non da solo, ma insieme ad altre discipline.

 

 

E.K.: Può dirci qualcosa sulla formazione nell’ambito del design in Africa? Crede ci sia un numero sufficiente di scuole di design? Pensa possano essere migliorate? Qual è lo scenario attuale?

 

La formazione nel campo del design manca di un’unica cosa: il riconoscimento. Il riconoscimento di ciò che significa intraprendere un percorso formativo in questo ambito. Sono stato il primo in famiglia a occuparmi di design e a studiare questa disciplina, ma nessuno capiva realmente di cosa si occupa un designer (“puoi farmi un ritratto?”). Manca, da parte delle istituzioni, il riconoscimento del design come professione a tutti gli effetti. In molti Paesi africani il design è considerato solo in parte una professione, diversamente da quanto accade per chi fa architettura, ingegneria o giurisprudenza. E, in qualità di educatore in materia di design, la mia sfida più grande è quella di riuscire a far comprendere alla società civile che il design può davvero contribuire al benessere delle persone. Da qui la necessità di ripensare il sistema educativo e orientarlo verso l’impegno sociale, divenendo quindi co-designer, insieme ai membri della comunità, e agendo sulla loro conoscenza tacita, profondamente radicata nell’esperienza individuale.

 

Megan Smith, Billy button black, Textile designer, South Africa.

 

E.K.: Il design guarda alla Cina per la produzione e la Cina guarda all’Italia per il design. Cosa possiamo imparare dall’Africa?

 

Ciò che rende unica l’Africa è che il design creato nel continente africano nasce da necessità concrete. L’Italia può essere considerata all’avanguardia per ciò che riguarda il pensiero creativo, il design e l’innovazione, e vanta molti dei brand più famosi al mondo. Non credo vi siano altri Paesi in grado di produrre un simile livello di eccellenza nel design a livello globale. E poi c’è la Cina, che è diventata letteralmente la fabbrica del mondo, producendo qualunque genere di merce. In Africa la produzione industriale è molto meno sviluppata. In Cina vi è una produzione di massa, in Africa una produzione guidata dal bisogno, per cui la mentalità dell’“hacker” e del “maker” è fortemente radicata nel continente africano. Il secondo elemento che caratterizza in maniera esclusiva il contesto africano è legato alle opportunità tecnologiche offerte dalla stampa 3D e dalla prototipazione rapida. La mia previsione è che la supremazia cinese sulla produzione mondiale andrà a decrescere. Perché con la stampa 3D e la prototipazione rapida ci sarà una nuova rivoluzione, analoga a quella prodotta in campo editoriale dal desktop publishing: prima a pubblicare erano solo le grandi case editrici, ora può farlo chiunque disponga di uno scanner e di una stampante. L’epoca della democratizzazione della produzione è alle porte. Abbiamo case in 3D, cibo in 3D, veicoli in 3D. Se l’Africa continua a potenziare la cultura del “maker” e dell’“hacker”, che già appartiene al nostro DNA, credo riusciremo a diventare autosufficienti intorno al 2050. 

 

 

E.K.: Questo per ciò che concerne la produzione, che dire del consumo? Crede che l’esportazione del design africano all’estero aumenterà o si tenderà a consolidare il consumo interno al continente?

 

Credo si procederà in entrambe le direzioni. Per prima cosa, dal punto di vista dei progetti legati all’economia, il XXI secolo sarà il secolo dell’Africa. Ma ciò non avverrà in automatico, dovranno essere il design e la creatività a guidare questo processo. Se pensiamo a Paesi come la Nigeria, il Ghana, il Sudafrica o il Kenya, vediamo che vi è una classe media in espansione che ha avuto accesso ai migliori esempi di design e creatività prodotti a livello globale e che adesso chiede una maggiore qualità da parte delle produzioni locali. Tuttavia, per rimanere competitiva, l’Africa deve comunque esportare. Tornando al discorso della proporzione 80/20, credo che la maggior parte di ciò che produciamo continuerà a essere consumato all’interno del continente africano e il restante 20%, costituito dai prodotti di maggiore qualità, verrà esportato all’estero e troverà un mercato globale.

 

 

A.S: Da un lato assistiamo all’espansione della classe media all’interno del continente africano, dall’altro le potenzialità connesse a tale crescita spesso rimangono tali. E dal punto di vista dei brand, le statistiche rivelano che l’80% dei brand percepiti come marchi di qualità non sono africani. Perciò, finché non avremo dei brand africani, l’Africa rimarrà in secondo piano. Cos’è che deve accadere perché ci siano una moltitudine di brand africani riconosciuti non solo all’estero ma anche all’interno delle economie africane, senza che essi vengano però inglobati in un grande e anonimo brand africano?

 

Per prima cosa, i governi devono essere molto più attivi nel promuovere soluzioni e prodotti locali. Lo vediamo già nella produzione di contenuti televisivi, il 90% dei quali – su pressione di molti Paesi africani – deve essere prodotto a livello locale, catalizzando in tal modo i talenti creativi esistenti sul territorio. L’elemento locale è l’élite locale. Se si inizia a essere più “patriottici” verso le soluzioni prodotte localmente, le evoluzioni future potranno essere davvero significative. Prendiamo ad esempio la musica africana: non c’è bisogno di vendere la musica africana agli africani, perché essi amano già la propria musica; e lo stesso può dirsi per la moda africana. Ma la tendenza è meno netta per altri prodotti, come scarpe, cappelli o automobili. Se riusciamo a portare lo stesso entusiasmo di cui gode la musica o la moda africana nella promozione del brand africano, allora riusciremo a sostenerlo.

 

 

AS: Come valuta la situazione dell’espansione dell’élite africana in Nigeria, Sudafrica, etc., e come può, questa élite, avere un ruolo di traino in ambito creativo?

 

Siyanda Mazibuko, Pate arts and crafts, Furniture designer. South Africa.

 

Dobbiamo fare un passo indietro e concepire le sfide che l’Africa è chiamata ad affrontare come un potenziale da mettere a frutto. Il primo fattore da considerare è la politica. Gran parte dell’élite africana non ha fiducia nel proprio sistema politico, quindi il denaro guadagnato in ambito locale finisce nei conti all’estero. Perciò, se queste persone iniziano a fidarsi del proprio sistema politico, potremo assistere a dei cambiamenti nel lungo periodo. L’Africa è uno dei pochi luoghi dove è ancora possibile realizzare profitti e, per l’appunto, entrare a far parte rapidamente di una élite. Ma la ricchezza dell’Africa non è distribuita in maniera omogenea, per cui se riuscissimo a mettere insieme le risorse e a far in modo che esse abbiano un impatto critico, potremmo raggiungere degli ottimi risultati.

 

 

AS: Cosa fanno le organizzazioni come la vostra per educare e sensibilizzare i consumatori sull’importanza della produzione e dei brand locali?

 

L’utilità di Design Indaba e di altri festival di design in Africa è quella di mostrare al pubblico ciò che esiste attualmente sul mercato. I visitatori rimangono piacevolmente sorpresi dalla qualità dell’offerta locale. Queste organizzazioni chiamano quindi a raccolta in uno stesso luogo industria e commercio. Solitamente i creativi non brillano per senso degli affari. Quando si tratta di potenziare la produzione delle loro splendide creazioni, non sono in grado di farlo. Perciò la nostra opera di sensibilizzazione può favorire l’incontro tra spirito imprenditoriale e talento creativo, in una modalità sostenibile, e credo che questo possa costituire un fattore di crescita.

 

 

EK: Un’ultima domanda: qual è il più grande stereotipo sul continente africano che vorrebbe abbattere?

 

Il primo, sottolineato anche da Binyavanga Wainaina, è che l’Africa non è un Paese. E questa è per me una grande sfida personale. Quando viaggio in varie parti del mondo, la gente mi dice: “Al tuo rientro, salutami il tal dei tali in Lagos”, senza considerare che io mi trovo a Città del Capo… Un altro stereotipo è legato al fatto che ciò che avviene in una parte dell’Africa in qualche modo diventa un problema africano. Se vi è un attacco terroristico in una località africana, allora la gente dice che l’Africa non è un luogo sicuro. Questa idea stereotipata dell’Africa, vista come un unico grande Paese, è un problema. Una delle mie slide più note si intitola “Le reali dimensioni dell’Africa” e mostra come l’Africa possa contenere al suo interno Cina, Stati Uniti ed Europa… e resta ancora spazio.

 

Ciò che dichiaro in questa intervista sono riflessioni nate dall’esperienza personale di un individuo che ha trascorso la maggior parte della propria vita nel continente africano, senza per questo pretendere di comprenderne la complessità. Come afferma Kwame Nkrumah, non sono africano perché sono nato in Africa; sono africano perché è l’Africa a essere nata in me. Ed essa può nascere in qualunque individuo, a prescindere dal fatto che provenga o meno da questo continente. L’Africa è un modo di vivere. E può tornare a contagiare il mondo con la sua umanità, la sua gioia e la sua ricchezza.

 

 

Traduzione di Laura Giacalone.

 

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Occhiello: 
intervista a Mugendi M’Rithaa

African design

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Sottotitolo: 
Interview with Mugendi K. M’Rithaa

Italian Version

 

“Until lions have their own historians, tales of the hunt will always glorify the hunter”

The Nigerian proverb

 

lettera27 and Mugendi K. M’Rithaa met in Milan, where he came for his presentation at Meet the Media Guru: Future Ways of Living series in collaboration with Triennale of Milan that took place at the Fabbrica del Vapore. The below interview is the result of the passionate conversation between Mugendi K. M’Rithaa, Elena Korzhenevich, Adama Sanneh and Tania Gianesin. A special thank you to Anna Barbara and Luca Poncellini for providing us with some stimulating questions for the interview.

 

 

Elena Korzhenevich: You are the curator of Design Indaba, one of the most important festivals of creativity in Africa, can you tell us about the vision behind Design Indaba?

 

Mugendi K. M’Rithaa: Design Indaba is hosted every year and has been running for the last 22 years. I have been specifically curating the industrial design section.  What I know of Indaba, which is an institution I have a lot of respect for, is the realization to that we know very little about the creative potential of Africa. It’s about bringing the creative talent into Africa for the benefit of the African creative industries, but also about showcasing the emerging creativity from the continent. In that sense it’s a very important platform that brings international and local designers together (and when I say local I mean African, not just from Cape Town or South Africa) into a space that is dialogic.  They host  an  on-line platform where they constantly push the idea of what is a good design, they sponsor something called “The most beautiful object in  South Africa”, which can be an app, a chair or even a piece of knitwear inspired by a local culture. It’s really about bringing a certain sensibility and understanding about what is actually happening on the continent from the creative point of view.

 

Mugendi K. M'Rithaa.

 

EK:  Why do you think today, after all these years of activity, there is still so little awareness of African design here in the West?  What obstacles have you encountered in spreading the message and telling the world about it?

 

My understanding is twofold. I think part of the problem lies in Africa itself, we have not told our story sufficiently. To reference the Nigerian proverb: “Until lions have their own historians, tales of the hunt will always glorify the hunter”. There is a sense that the African designers and creatives may not have had as much confidence in their own creativity and so we tend to mimic and praise that which comes from elsewhere. That’s the first problem.  The second problem is the stereotypical view of Africa on the part of the global audience, which does not expand the understanding that Africa has much more to offer than crafts. A lot of what is seen as African art or design is still seen as very rudimentary crafts, set in traditional and ethnic kind of labels.  And every time an African designer tries to break away from that and move into something much more modern and cosmopolitan people want to push it back towards the ethnic.  

 

 

EK:  You have just anticipated one of our questions: why do you think the global audiences tend to promote the idea of African design as some kitsch exotic souvenirs instead of telling the stories of the aesthetically powerful objects you produce every day?

 

Sibusis Brian Mokhachane, backpacks, Accessories designer and Social enterpreneur, South Africa.

 

With the risk of oversimplifying things I would reduce it to two words: the first one is ignorance. No one told them better, they don’t know about the richness that is out there, that is why the role of organization such as yours is so important in giving them an alternative view of the world and of Africa within the context of the world. The second word is arrogance, which to me is the refusal to accept that something brilliant, exciting and out of the box is coming from the continent. Ignorance we can help, by bringing the information, arrogance can only be met with force, since it means that no matter what we say, you have already made up your mind and you are not going to listen. 

 

 

EK: Do you think it makes sense to talk about African design? What is African design?

 

No, I think Africa is too big a place to reduce it to an African design.  Even a country like Italy, small by African standards, has such an enormous variety from one city to the other, so for one to reduce Africa to one idea or to one stylistic representation is wrong.  One could speak of elements of African design, where there is commonality, like the rustic use of earth colors and materials which are earth-friendly, the use of pattern or color, those are common across the continent, but I cannot with all clear consciousness say that there is such thing as an African design or African style. I think that would be an insult to the creativity of the continent with over a billion people and 54 countries, I think it’s too rich to reduce into one thing. 

 

 

EK: I guess it’s like saying a “European design”, what does it even mean?

 

Precisely.  If you take an IKEA design and call it a European design it would be an insult to many other design traditions. It’s coming out of Europe and it has a very clean aesthetic, but that is not to say that this is all that comes out of Europe.  And this is a personal challenge I have, to be the one who has to defend the continent occasionally. 

 

 

EK: If you had to suggest some key words and themes that Africa can suggest us to face the next millennium what would they be?

 

One theme would be informality. The idea that things don’t have to be formal for them to be considered a form of art or design. Second thing is hackability. The idea of hacking, mixing, re-purposing, making things work from old and new, mixed, West and Africa mixed.  Another element is hybridity.  It’s the idea of not pursuing pure forms, but having a pragmatic mix. And then there is authenticity, which is about not hiding the pieces, for instance if there is a piece of wire in the design, you can see it, it’s not transformed into something you cannot recognize, it’s a pure expression.

 

 

EK: Time is one of the parameters of design.  At the moment there is still a disposable design and at the same time the design that repairs.  A design that produces trash/waste and design that is born of that waste.  Which model does the African design have and which one does it want to follow?

 

The truth of the matter is that it’s both and it’s born out of necessity.  The hackability, the recyclability, the informality is the reality that most Africans live with. Of course there are still Africans who can afford to make fresh furniture, so it’s not just about recycling ore reusing of what exists, but it’s also about creating newness. So it’s both, but if I had to give percentages it would be 20% of the newness and 80% of recycling and that is out of necessity.

 

Madri Van Zyl, Iioni jewellery, Jewellery designer, South Africa.

 

EK: The strong immigration in our country brings new ways of living the spaces, of consuming.  Can these immigrants be a new target for a new design? What answers does design give to the new migration emergency?

 

As my friend from Zimbabwe once said “Africa is not poor, it just doesn’t have a lot of money”.  What Africa has is the humanity.  When I look at the immigration coming from Africa to Europe and the rest of the world, what they bring with them is that humanity. And the extension of that humanity is the sense of community. I have watched the ways that the technology has reduced the interaction between the people to a minimum. Technology in my view should be an enabler, but it should not replace human relationships. What I know about African communities is still very much “I am because we are”.  So the way they bring freshness into European communities is by placing the human at the center of everything we do. Putting the human back into our business, social life, technological innovations, into our design.  And it could be a very vibrant contribution.

 

 

EK: Today is the time to recover the social dimension of design and abandon or neglect that glamour that banalizes the design, but which is also often the only part that is being publicised. What do you think is the political role of the design?

 

I think that social design is the area that has to be invested in by all designers.  You know, the legal profession inspires me, since they have this concept of pro-bono, where you make your money with the corporate sector, but you donate your money on a pro-bono basis for what they call “a good cause”.  I would like to challenge the designers, even if it’s 20% of their time, to do socially responsible design.  Today the world is going through an unprecedented chaos socially, economically, politically, we are more uncertain than we have ever been.  At the same time we have more designers in the world than we ever had.  Designers by nature are the optimistic people, professionally, if not personally.  I call myself a critical optimist.  Since we have a training in problem solving, the kind of world we live in today needs a design agency. As a designer you deliberately make a statement through the design choices you make, because each design choice has an impact on the society.  But we don’t seem to be aware of that power. The last frontier of design is going to be in the political leadership. And I would challenge the designers to start infecting the political thinking and leadership of their countries with the kind of design skills and thinking that come natural to them. It could really help solve some of the problems, not alone of course, but together with other disciplines. 

 

 

Can you comment on the educational aspect of design in Africa?  Do you think there are enough design schools? Do you think they can be improved? Can you comment on the scenario?

 

Design education in Africa suffers from one thing: recognition. The recognition of the nature of design training. I was the first one in my family to go into design field and study it, and people didn’t really understand what the designers do (can you draw me?..) We are lacking the recognition from the government to acknowledge design as a full profession. In many African countries design is considered a semi-profession, unlike architecture, engineering or law.  And the biggest challenge for me, having been a design educator, is to get the civil society members to recognize what design can actually do to contribute to their well-being. It means re-hashing our educational system to focus on the community engagement, so that we become co-designers with the community members and tap into their taciturn and embedded knowledge.

 

Megan Smith Billy button black, Textile designer, South Africa. 

 

EK: The design looks at China for production and China looks at Italy for design.  What lesson can Africa teach us?

 

What makes Africa unique is that the designs produced on the continent are driven by need. If I look at Italy as beacon of design thinking, creativity and ideation, Italy has some of the most famous brands globally. I don’t think any country can produce the amount of premium globally recognized designer goods per capita as Italy.  And then you have China, which has literally become the factory for the rest of the world, manufacturing anything you can imagine. In Africa the manufacturing is happening at a much lower level.  China is mass production, Africa is the production for need, so the hacker and the maker mentality is based on Africa. The second thing unique to the African context are the technological possibilities that have been introduced with 3D printing and rapid prototyping. My projection is that China’s hold on the world’s production is going to decrease with time.  Because with the 3D printing and rapid prototyping there is going to be a new revolution, just as what desktop publishing did to the printing industry, where before only big publishing houses could publish and now anyone with the scanner and printer can do the same. The time is coming where we can democratize production. We have 3D houses, 3D food, 3Dvehicles.  If Africa can live through a maker and hacking culture that we already have and that is part of our DNA, I think we can become self-sufficient around the year 2050. 

 

 

Adama Sanneh: That’s in terms of production, what about in terms of consumption?  Do you think we will be looking for the outside consumption and exporting the African design or do you think we will be also looking at establishing the consumer base within the continent?

 

I think it will be both.  First of all, the 21st century by all economic projects will be Africa’s century. But it’s not going to happen by default, it has to be driven by design and creativity. If you look at countries like Nigeria, or Ghana or South Africa or Kenya you’ll see an expanding middle class that has been exposed to good design and creativity at a global level and they are demanding a better quality from their own people. The growing middle class in Africa is going to be a growing demand pool for African products. But for Africa to remain competitive it still has to export. Going back to the 80-20 split I think the bulk of what we produce will be consumed on the continent and the 20 % driven by excellence and quality will end up going out of the continent and will find a global market.

 

 

AS: On the one hand we are growing the middle class on the continent and there is a lot of potential, on the other hand often it still remains in this potential state. And from the branding standpoint the studies show that 80% of the brands that are perceived as quality brands are not African brands. So until we will not have African brands there will not be African agenda. So what has to happen so that there are a lot of African brands that are not only recognized outside of the continent, but also inside by the African economies, without running the risk of being diluted into a bigger anonymous African brand?

 

First of all governments must be much more proactive in the way they promote locally made solutions and products. We already find it in the TV content, where a lot of countries insisted that 90% has to be local content, which has become a catalyst for local creativity. The local element is the local elite.  If they begin to be more “patriotic” towards the locally produced solutions, a lot can move in the future.  For example, African music: you don’t need to sell African music to the Africans, they love their own music, same with African fashion.  But when it comes to a different object, like a shoe or a hat or a car, then we start to get very fuzzy. If we can inject the enthusiasm of the African music and fashion into the African brand we can see it being sustained. 

 

 

AS: How do you access the situation with the growing African elite in Nigeria and South Africa, etc. and how can they play a role of real drivers of the creative fields?

 

Siyanda Mazibuko Pate arts and crafts, Furniture designer, South Africa.

 

We have to step back and see the challenges faced by Africa in terms of unlocking that potential.  I would say straight at the top is the politics.  A lot of African elite do not have faith in their political system, so even if they are making their money locally, you will find it in foreign off shore bank accounts. So once they start trusting their political systems in the long term we will see a shift happening. Africa is one of the few places where you can still make profits, and you are right, the people are moving very fast into that elite bracket. But the wealth of Africa is spread too widely and too thinly, so if we could amalgamate the resources so that they have a critical impact we could be truly successful. 

 

 

AS: What can organizations like yours do to educate and sensitize the consumers on the importance of local branding and production?

 

I think that Design Indaba and other design fairs in Africa are very helpful to showcase to the public what actually exists.  Local people get pleasantly surprised about the quality of the local offer. So these organizations can bring industry and business into the same space. Usually the creatives lack a business acumen. When it comes to scaling up on the production of their beautiful objects they fall short. So our awareness creation could also be a sort of match making, bringing the entrepreneurial spirit into the creative space in a sustainable manner, then I think we will be on a trajectory of growth.

 

 

EK. The last question is what is the biggest stereotype you would like to subvert about the African continent?

 

The first one, and Binyavanga Wainaina spoke about it, is that Africa is not a country. It’s a big challenge for me.  I travel around the world and people say “when you go back say hello to someone in Lagos” and I am in Cape Town, so…  And another stereotype is that something that happens in one part of Africa somehow becomes an African issue. If there is a terrorist attack in one part of Africa then people say Africa is not safe. This idea of stereotyping Africa and lumping it up into a huge place is an issue.  One of my most popular slides is called “The true size of Africa”, in which you see that China, the US, Europe disappear into it and there is still space to spare. 

 

My disclaimer for this interview is that all these reflections are very personal, of an individual who spent most of his life on the African continent, but this is by no means to say that I understand the complexity of my own continent.  As Kwame Nkrumah said: I am not an African because I was born in Africa.  I am in African because Africa was born in me.  And it can be born in anyone, you don’t have to have come from Africa.  It’s an exclusive ethos. Africa can infect the world with its humanity again, with its joy and its richness.

 

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Interview with Mugendi K. M’Rithaa

Spagna. Le elezioni 26 giugno

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Venerdì scorso ho visitato con due nipoti trentenni la mostra Campo cerrado. Arte y poder en la posguerra española. 1939-1953 che prende il titolo da un’opera dello scrittore nato francese e nazionalizato spagnolo Max Aub. Di idee socialiste, durante la Guerra Civile Aub si impegnò con la Repubblica e tra le altre azioni, collaborò con André Malraux nel film L’espoir. Sierra de Teruel (1939). Campo cerrado (Barcellona brucia, tr. Ignazio Delogu, Roma, Editori Riuniti, 1996) è stato scritto e pubblicato in esilio in Messico nel 1943. Si tratta del primo volume del monumentale progetto El laberinto mágico che comprende i titoli Campo de sangre, 1945; Campo abierto, 1951; Campo del Moro, 1963; Campo francés, 1965 e Campo de los almendros, 1968 dove partendo dalla propie esperienze personali, prima del colpo di stato, in guerra e in fuga, nei campi di concentramento e in esilio, presenta la molteplice realtà della Spagna dei vinti.

 

Nel percorso della mostra si parlava con le giovani nipoti e mi è venuto in mente un libro appena pubblicato in versione spagnola, Miedo y progreso. Los españoles de a pie bajo el franquismo. 1939-1975, opera di Antonio Cazorla, uno storico che lavora in Canada autore di una interessante biografia di Franco impostata come costruzione di un mito. In Miedo y progreso ci si ritrova, come spiega Antonio Muñoz Molina recensendolo, con una Spagna di miseria e di paura che è stata quella dei vinti più poveri, quelli che hanno sofferto gli anni dell’isolamento: basta pensare al 1945, conosciuto come “anno della fame” perché la campagna non ha dato niente, perché i più poveri non avevano soldi per compare il pane al mercato nero, perché si moriva per strada con il ventre gonfio per aver mangiato solo dell’erba. Miedo, paura degli anni delle persecuzioni e dell’ingiustizia, dell’integralismo cattolico e della miseria morale della dittatura nel momento in cui si verificava il progreso di un paese che si è costruito sull’oppressione da parte di una minoranza di arricchiti, sullo sforzo silenzioso e impaurito dei vinti.

 

La scelta del titolo della mostra focalizza l’aggettivo cerrado, chiuso, infatti presenta in diversi percorsi le proposte artistiche della Spagna franchista dei primi tempi, un paese che doveva vincere i rossi anche nell’arte, come si proponeva il falangista grande ammiratore di Mussolini, Ernesto Giménez Caballero, amico di quel Sánchez Mazas, la cui storia è stata raccontata da Javier Cercas in Soldati di Salamina. Si tratta infatti dello spazio soffocante e inabitabile per i vinti che invece negli spazi del potere produceva opere d’arte: ritratti di gerarchi dall’impronta avanguardista, copertine delle riviste che imitavano la hitleriana Signal , architetture e urbanistica di stampo internazionale, ripresa dell’eredità surrealista. In conclusione, la netta appropriazione della modernità da parte della cultura ufficiale, come nel caso della partecipazione alla Triennale del 1951 a Milano con uno stand progettato dall’architetto Josep Antoni Coderch e dal poeta Rafael Santos Torroella dove si mostravano opere di Picasso o Mirò appropiandosi di artisti antifranchisti, che è servito alla Spagna ad aprire una minima finestra sul campo internazionale dell’arte come si desume dalle parole di Gio Ponti su Domus riportate gloriosamente dal giornale franchista ABC, dove il prestigioso architetto afferma che dopo tutto Lorca, Picasso e Mirò sono spagnoli e che in questa mostra, sente per prima volta un impulso verso la Spagna, in una sorta di riconoscimento di cui hanno subito approfittato i franchisti promuovendo nuove mostre a scopo di internazionalizzare il regime.

 

La mostra si ferma al 1953, il libro invece continua fino alla morte di Franco nel 1975, per cui si potrebbe dire che ambedue coprono un arco di tempo della storia recente spagnola alla quale guardare con speciale interesse in questi giorni. Così dicevo alle mie nipoti.

Dopo due giorni, la domenica abbiamo avuto la ripetizione delle elezioni politiche, dato che nello scorso 20 dicembre 2015 i risultati ottenuti non hanno reso possibile la formazione di un governo. In quella occasione i risultati hanno dimostrato che malgrado i clamorosi casi di corruzione politica all’interno del partito di governo, il Partido Popularè stato il partito più votato ottenendo 123 seggi. Abituato a governare in maggioranza assoluta (176 seggi), ha rinunciato a formare governo. Perciò il giovane socialista Pedro Sánchez, con 90 seggi per il PSOE (Partido Socialista Obrero Español) ha fatto un passo avanti proponendo un accordo con Ciudadanos (40 seggi) e Podemos (69 seggi), i due partiti nuovi. Il primo si presenta come centrista e liberale, in lotta aperta contro la corruzione e contrario all’indipendentismo catalano (di fatto è nato in Catalogna contro i movimenti catalanisti); il secondo è la confluenza di diversi gruppi provenienti dai movimenti di indignados del 15M e diversi partiti extraparlamentari di sinistra che si erano presentati con successo alle elezioni europee e amministrative e regionali ottenendo il governo municipale di grandi città come Madrid e Barcellona. I comunisti di Izquierda Unida con altri partiti di sinistra sotto il nome di Unidad Popular (2 seggi) avevano proposto di unirsi a Podemos, ma il giovane partito, in seguito alle diverse posizioni emerse a questo riguardo, non ha voluto.

 

La proposta di accordo a tre (PSOE, Ciudadanos e Podemos) non è andata avanti perché Podemos ha considerato impossibile arrivare a un accordo di massima su un programma economico e sociale che ritenevano eccessivamente vincolato alle proposte di Ciudadanos, molto liberale e vicino a posizioni di destra. Il risultato è stato un accordo firmato soltanto dal PSOE e da Ciudadanos. Quando in sede parlamentare Pedro Sánchez ha assunto la responsabilità di conformare il governo non ha ottenuto l’appoggio di Podemos incassando inoltre le pesanti parole del lider, Pablo Iglesias, contro il PSOE nei giorni più oscuri della lotta antiterrorista contro l’ETA negli anni ’80.

 

Santos Yubero: Terrazas de café sin público, 1939.

 

Nell'impossibilità di un governo, è ricominciata la campagna elettorale che ha visto il discorso di Podemos caratterizzare per due decisioni: una ha concordato di presentarsi con Izquierda Unida– una decisione non ben vista da tutti i comunisti di queste sigle – e ha cominciato a ‘ammorbidire’ il discorso. Ogni giorno Pablo Iglesias si presentava come meno comunista e più conciliatore, finché nelle ultime settimane ha definito il suo programma come socialdemocratico. Il simbolo dell’alleanza che ha preso il nome di Unidos Podemos era un cuore. Le parole pronunciate richiamavamo una sorta di innocenza e di purezza che coniugava il riconoscimento delle bontà di Papa Francesco alla proclamazione di Zapatero come il miglior presidente della storia democratica spagnola. Vale a dire: voleva aggiungere ai suoi elettori i voti dei socialisti più a sinistra, i voti delle organizzazioni civili cattoliche di sinistra, che in Spagna attraverso Caritas si curano della maggioranza delle mense sociali e delle persone a rischio di esclusione, i voti delle ONG, ma anche quelli dei dissocupati dei ceti medi, degli universitari che sono andati all’estero per lavorare, dei vecchi exvotanti socialisti... voleva tutti , e questo è stato formulato attraverso un discorso che poteva servire per tutto e per tutti, un discorso buonista trasversale.

 

Inoltre i sondaggi davano per scontato un ‘sorpasso’ – si è usata la parola italiana, che si leggeva sui giornali e veniva usata nei talk show dai giornalisti e dai sociologi. Gli esperti politologi affermavano che il primo posto della sinistra sarebbe toccato a Unidos Podemos che aveva lasciato il PSOE al terzo posto nel panorama politico spagnolo. Tutti gli studi davano per scontato il grande successo di una sinistra alla sinistra del PSOE: Unidos Podemos.

In parallelo alle inchieste, negli ultimi giorni di campagna si sono pubblicate le intercettazioni di certe conversazioni tenute nel 2014 nello studio del Ministro degli Interni con il Direttore dell’ufficio anticorruzione catalano, nelle quali cercavano di poter accusare diversi membri dei movimenti catalanisti, alcuni con importanti cariche nella Generalitat (il governo della Catalogna), in modo da renderle pubbliche prima del referendum indetto il 9 novembre 2014 per ottenere l’appoggio popolare a una futura autodeterminazione catalana. Il presidente in carica, Rajoy, ha appoggiato il suo Ministro e non ha chiesto le dimissioni, mostrando di nuovo l’appoggio incondizionato ai suoi compagni di partito come ha fatto con tutti i casi di corruzione e di arricchimento abusivo (ad esempio, sono stati pubblicati i messaggi di Whatsapp scritti da Rajoy all’ex tesoriere del partito che aveva accumulato più di 40 milioni di euro solo nei suoi conti correnti in Svizzera: “Luis sé fuerte”, vale a dire, “Forza, Luis, mantieniti forte”).

 

Poi è successa la Brexit.

 

Sebbene questo potrebbe spiegare che la domenica 26 giugno, tre giorni dopo il referendum nel Regno Unito, gli spagnoli abbiano votato in maggioranza per la sicurezza del già conosciuto Partido Popular (137 seggi) con 14 seggi in più riguardo a dicembre, non è tanto chiara la ragione per cui non abbiano tenuto conto delle intercettazioni del Ministro o degli ultimi casi di corruzione appoggiando un presidente che ha sempre sostenuto i corrotti. A questo si sarebbe dovuto aggiungere lo scontento della popolazione riguardo a una politica di austerità, di tagli alla sanità e all’istruzione pubblica durata da quando c’è il governo del Partido Popular ma che sembra ormai dimenticata.

E d’altra parte non si è verificato il sorpasso e Unidos Podemos (71 seggi) ha perso più di un milione di voti, anche il PSOE ha perso voti ma ha respirato mantenendosi come primo partito di sinistra (85 seggi). Anche Ciudadanos ha perso anche 8 seggi, perché l’elettore di destra che a dicembre ha voluto castigare Rajoy votando questa proposta contro la corruzione, domenica scorsa ha invece preferito ‘il voto utile’.

 

Tutti i sondaggi davano una novantina di seggi a Unidos Podemos di fronte all’ottantina del PSOE e ai 124 – 129 per il Partido Popular. Ma Unidos Podemos ha perso l’appoggio anche nelle città dove già governa in coalizione con il PSOE con soddisfazione da parte dei cittadini di sinistra, come nel caso del comune di Madrid o la regione Valenziana, due ex feudi del Partido Popular più corrotto. Tra le possibili spiegazioni si trovano l’eccessivo presenzialismo di Pablo Iglesias e la sua arroganza, il cambiamento riguardo all’alleanza con i comunisti di Izquierda Unida, le discussioni interne, la scelta di una strategia di campagna dove mostrarsi come bravi e dolci ragazzi sempre con un sorriso bonario, la proclamazione di essere socialdemocratici, vale a dire una quantità di contraddizioni che il cittadino di sinistra non è tanto disposto ad accettare.

Cos’è successo? Se vogliamo capire forse vale la pena ritornare alla mostra. Le mie nipoti lavorano fuori Madrid ed erano venute da Parigi e da Barcellona per votare. Abbiamo discusso sulla preferenza dei giovani per Unidos Podemos, l’opzione che gli ha restituito la voglia di andare alle urne facendogli credere di nuovo alla politica e, soprattutto, facendogli pensare a un futuro diverso da questa Spagna d’oggi. Noi della generazione nata negli anni ’50 abbiamo già dimenticato questa voglia di futuro, la stessa che sentivamo quando ventenni facevamo la lotta antifranchista, senza tenere conto del rischio di finire in commissariato, delle bastonate e della tortura, anche della prigione.

Anche loro dovranno fare una lunga strada prima che i giovani politici ex indignados siano in grado di organizzare una vera alternativa, imparino ad essere meno contraddittori e si muovamo non portati dall’urgenza. E in questa strada dovranno imparare a non fidarsi troppo dei sondaggi, a tenere in conto che non si può giocare con certe parole vincolate alle ideologie, neanche per portare avanti una strategia di campagna.

 

La mia generazione ha saputo del silenzio e della paura, anche del progresso altrui. Ha saputo delle grandi ingiustizie, dei condannati a morte, dei fucilati, della repressione negli scioperi dei lavoratori, della censura, del leggere certi giornali tra le righe, del ritorno dall’estero con tanti libri probiti. E quella vita di ogni giorno era la realtà e ci portava ad aver speranza, specie chi aveva la fortuna di vivere in città e di studiare al di fuori dei circuiti della chiesa cattolica o della falange, chi aveva la fortuna di arrivare all’università malgrado le spie politiche in aula e i poliziotti nei corridoi.

I giovani d’oggi hanno il diritto di lottare per la loro speranza, perciò il voto delle nostre generazioni la scorsa domenica ha rovinato un po’questo decreto, lo ha ritardato di qualche anno. Ma loro sentono l’urgenza, hanno fretta, come sempre si ha in gioventù, e non vogliono sentire di farsi un’esperienza nell’oposizione. Sono arrabbiati e vogliono capire cos’è successo, perché tanti dei loro votanti sono rimasti a casa domenica scorsa. Perciò ieri sera hanno inviato un documento a tutti i circoli con delle proposte per la discussione.

Nel camminare tra i documenti della mostra, ricordavo la Spagna franchista e le mie nipoti mi dicevano: “Saltate sempre fuori con la storia”. Pensavo allora ai molti spagnoli che guardavano con ammirazione questi simboli del progresso dalla moderna architettura

o della fotografia, ricordavo che molto spesso si incontrava gente che sosteneva il franchismo, nei negozi, nei taxi, nei tram, mentre a casa si stava in silenzio. Un silenzio che da piccola mi aveva fatto pensare che anche noi formavamo parte di quella normalità. L’atmosfera della città era la tranquillità di un lungo dopoguerra, di un riassestarsi lentamente per riprendere fiato aggrappandosi a quelle piccole dimostrazioni del progreso. Ma questa tranquillità nascondeva la paura silenziosa, el miedo.

Domenica scorsa si è rinnovata in certo modo questa sorta di paura, è facile spolverare un’atmosfera vissuta di recente dalle nostre generazioni: da una parte, la destra, ripristinando il ricordo del progresso franchista, ha voluto sostenere un governo stabile e protettore dei benestanti, alla quale ha aderito come negli anni ’50 e ’60 una massa consistente proveniente da realtà più lontane dal benessere, una massa impaurita che è facile ingannare come è successo con la Brexit; dall’altra, la sinistra ha fatto delle scelte moderate sostenendo debolmente il PSOE che rischiava la scomparsa, ma anche evitando di votare i comunisti alleati di Podemos e infine, in tanti casi, non andando a votare.

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Pokémon GO

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Sottotitolo: 
Mondi possibili troppo reali

Più usata di Whatsapp, genera dipendenza, pericolose distrazioni, fa scoprire cadaveri e rende vulnerabili alle rapine. Non è una droga, non è un device di ultima generazione, ma un gioco, un videogioco per iOS e Android, dedicato ai Pokémon, gli antesignani di Peppa Pig e i successori di Holly e Benji. 

Pokémon GO, sviluppato da Niantic e distribuito da Nintendo, ha mischiato tutte le carte in tavola, andando addirittura oltre la milionaria invenzione, ormai datata, delle console portatili, evolutesi nelle app videoludiche per smartphone. Il gioco si basa sulla realtà aumentata (AR), una tecnologia che sovrappone dati a oggetti o persone attraverso un dispositivo mobile, con lo scopo di raccogliere informazioni. Come afferma Pietro Montani in Tecnologie della sensibilità (Raffaello Cortina 2014), la realtà aumentata rovescia i meccanismi della realtà virtuale dove è “il mondo reale, ontologicamente inclusivo a venirci incontro, fornendoci una serie di informazioni”. 

 

Il discorso dei videogiochi è fondato sul concetto echiano di mondo possibile, un luogo liminare dove immergersi completamente ed esperire sensazioni travolgenti e inusuali. Location esotiche, avventure coinvolgenti e adrenalina ai massimi storici sono gli ingredienti made in Japan per combattere il disagio contemporaneo che ha contagiato il nostro mondo sensibile. 

In questo caso, però, il genere del gioco è classificato come “avventura nel mondo reale”,  per una volta le lamentele contro l'asocialità e la reclusione indotte dalle pratiche videoludiche potrebbero essere messe al bando: Pokémon GO esorta a uscire fuori e a catturare i simpatici animaletti, a trovarli e a segnalarli ci pensa lo smartphone, che funge anche da mirino e Poké Ball. 

 

 

 

La relazione tra i Pokémon e lo spazio fisico è di equivalenza semantica: i Pokémon sono suddivisi rispetto a tipi perlopiù elementali, pertanto quelli di tipo acqua potrebbero comparire vicino a laghi, fiumi, o mari. Insomma, un viaggio in un posto sconosciuto potrebbe dare la possibilità di incontrare Pokémon “esotici”, nel pieno rispetto del genius loci. 

Il gamer può creare l'avatar scegliendo i tratti somatici che più lo rispecchiano e comporre un outfit di suo gusto. La prima schermata avverte di prestare attenzione all'ambiente e mostra un avatar intento ad attraversare un ponte, che, distratto dallo smartphone, non si accorge dell'imminente attacco di un serpente marino. Il primo personaggio con cui si fa conoscenza è il Prof. Willow, studioso di Pokémon che cerca un aiutante, ovvero il gamer. Da qui si inizia il percorso di evoluzione in esperto allenatore e scienziato, come suggerito dagli obiettivi da raggiungere. Il primo step è arrivare al livello cinque, attraverso cui si può accedere alle palestre dove allenarsi o sfidare gli avversari per rivendicarle. Il mondo possibile di Pokémon Go mixa sapientemente virtuale e reale: la schermata principale, la mappa dei dintorni, è basata su Google Maps e di conseguenza ha bisogno del GPS attivo per la localizzazione dell'avatar e per la fruizione dei contenuti geotaggati. Sulla mappa compaiono Pokéstop e palestre, dove i primi sono localizzati in punti d'interesse storico e culturale come monumenti, piazze, chiese.

 

All'avvicinamento al Pokéstop corrisponde una finestra sul mondo reale rappresentata dalla fotografia del luogo d'interesse dove si trovano oggetti utili all'avanzamento al gioco, che tendono a rinnovarsi continuamente, tanto da costringere i giocatori a recarsi più volte nello stesso posto. I Pokèstop risemantizzano gli spazi ponendoli alla stregua di veri e propri luoghi del consumo primario, dove rifornirsi per “sopravvivere” nel mondo possibile. In questo modo il senso del luogo viene magnificato e muta la percezione fisica dei confini e della nozione di spazio conosciuto. In parole povere, anche se ci troviamo nei dintorni di casa nostra, il solo fatto di esperire lo spazio circostante attraverso il gioco e le sue mappe modifica la nostra percezione precedente. Non si tratta più di consultare una semplice mappa per raggiungere un luogo preciso, ma di girovagare nello spazio fisico con fare da esploratore, facendo attenzione a ogni minimo particolare. 

 

Il girovagare contribuisce a una nuova forma di rappresentazione dello spazio urbano che sviluppa nuove relazioni tra il giocatore e il paesaggio. A questo punto risulta utile il concetto di “implacement” di Edward Casey, mutuato dal Dasein heideggeriano: con questo termine crea una struttura reticolare, situata spazialmente, tra la nostra natura, la propriocezione, gli altri e gli oggetti del mondo. In questo modo si contestualizza fisicamente l'embodiment dell'essere-nel-mondo, dando senso quanto vissuto sia nello spazio digitale che in quello materiale, ormai continuamente connessi tra loro. Conferiamo senso allo spazio attraversandolo, costruendolo, rappresentandolo e pertanto il traslato di questi atti nelle tecnologie mobili contribuiscono a mutarne la nostra concezione, offrendoci prospettive diverse. Presso i Pokéstop, a volte, si trovano delle uova di Pokémon da mettere in un'incubatrice e far schiudere camminando per minimo 2 km. Il sensore pedometro dello smartphone provvederà a registrare i percorsi, che in alcuni casi si arricchiranno rispetto alla quotidianità pre-Pokémon GO, mettendo al bando pigrizia e mezzi di trasporto. Il momento in cui c'è totale sovrapposizione tra mondo possibile videoludico e mondo reale è quando si incontra un Pokémon da catturare: attraverso la fotocamera verrà inquadrato l'ambiente circostante e con le dita si proverà a mirare la bestiola per lanciare la Poké Ball.

 

Qui entrano in gioco altri due sensori l'accelerometro e il giroscopio, utili a mirare con precisione a gestire l'inclinazione e l'orientamento del display. Il giocatore se desidera può scattare una foto al Pokémon trovato in piazza, di fianco all'animale domestico, sul tavolo della cucina, immortalando il suo incontro fortuito e la sua futura preda, di cui dovrà “prendersi cura” sottoponendola a combattimenti. Su quest'ultimo punto le criticità si sprecano da parecchi anni, ma non reputo necessario esprimermi a riguardo in quanto mi preme sottolineare altri aspetti del gameplay. Ritengo che, nonostante le accezioni positive e negative, nel momento dell'interazione con il Pokémon, il corpo del giocatore, attraverso i vari sensori coinvolti, si fonde con la mappa inscrivendo la sua esperienza nello spazio urbano.

Il gioco si interseca con la vita quotidiana, accrescendo le pratiche esistenti e creandone nuove, impattando su luoghi e sensazioni. La realtà aumentata origina geografie vissute, plasmando il senso dei luoghi e le interpretazioni degli eventi. Infatti, nell'analisi di un altro gioco di realtà aumentata, Google Ingress, sviluppato sempre da Niantec, Paolo Peverini osserva che “lo spazio urbano viene concepito come una forma di co-testo continuamente accessibile”.

 

Stiamo assistendo a un passaggio di testimone dal consolecentrismo a ciò che, parafrasando Derrida, si potrebbe definire disseminazione videoludica, ossia un processo in cui i mondi possibili videoludici si manifestano attraverso tracce di significato comprese da riscritture multiple in un contesto intertestuale e multiplanare. La natura sociale e convenzionale del videogioco si mimetizza completamente nel mondo reale, stravolgendone l'estetica tradizionale, diffondendo un gameplay instabile, mutevole. La mimicry di Roger Caillois si realizza completamente in una competizione reale dove il protagonista del videogioco è effettivamente il giocatore che entra a pieno diritto nell'universo videoludico scalzando il suo simulacro. Siamo dinanzi a una vera e propria esperienza o a una pseudoesperienzaà la Baudrillard? Nel secondo caso la simulacralità è il luogo del segno che dissolve l'originale e teorizza la dissoluzione del soggetto che, entrando in contatto con il mondo possibile videoludico, esperisce nuove forme di conoscenza e fonde le sue terminazioni fisiche e nervose con il videogioco, creando una nuova entità. I Pokémon sono oggetti del mondo reale e insieme segni del mondo, segnano un'inversione di rotta perché se prima era il gamer a proiettarsi nel mondo di finzione, ora sono i personaggi con precise peculiarità grafiche e caratteriali, tanto da assumere dignità di pop-star, a essere gettati nel mondo “reale”. La narrazione è costruita dal gamer, luogo dopo luogo, scoperta dopo scoperta. La cooperazione tra fruitore e testo videoludico è contemporanea alla creazione di senso che avviene a partire dagli elementi topologici disseminati nello spazio, rappresentato mediante una cartografia. 

 

 

 

Pokémon GO costruisce senso e significato direttamente nel contesto reale di gioco, dove il ruolo principale è assunto dall'interazione con lo spazio fisico, dove, ormai, il videogame è letteralmente sconfinato, per dirla con Matteo Bittanti. La realtà virtuale si attualizza, non serve il visore per vivere un'esperienza immersiva, bensì una app e uno smartphone che, attraverso il suo schermo-finestra sul mondo, ci permette di vivere la realtà con i Pokémon. 

Gli effetti di Pokémon GO sono letteralmente devastanti: Pokémon ritratti nei posti più impensati,  su bare duranti i funerali, o gruppi estemporanei di persone riunitesi in strada che guardano un punto nel vuoto attraverso il cellulare. De Certeau ci ha parlato del consumo come “arte di utilizzare ciò che è imposto” e in Pokémon GO si sono subito manifestate individualizzazioni del gameplaying, riscrivendo addirittura i frames sociali imposti dalla giocabilità in luoghi pubblici. Qui risulta utile la performatività teorizzata da Victor Turner, ovvero la pratica corporea necessaria a una ridefinizione critica del reale e potenziale non luogo di margine e di passaggio da situazioni sociali e culturali definite a nuove aggregazioni sperimentali. Il non luogo di margine è il limen, una contaminazione che sospende le proprietà dei due mondi che unisce. Pokémon GO è un fenomeno liminoide, cioè di mutamento attivo, che sovverte gli schemi culturali esistenti. La vividezza dell'esperienza videoludica coinvolge tutti i sensi in maniera sincretica, mentre l'interattività è quasi totale perché si può interagire in potenza con qualsiasi cosa.

 

A tale proposito, Peverini afferma che si tratta di un “processo di stratificazione dei discorsi che guidano la costruzione, la rappresentazione e la rinegoziazione della vita quotidiana in chiave ludica, riguarda l’allestimento di ambienti mediali concepiti per innestarsi nello spazio urbano, sollecitando in modo innovativo l’interazione degli utenti-giocatori”. 

Lo spazio e il gioco sono in grado di connettere persone, memoria e storia, tanto che le immagini dell'apparizione del Pokémon Vaporeon al Central Park di New York sono indicative dell'ilinx, per tornare a Caillois, la vertigine provocata dal gioco: centinaia di persone hanno abbandonato le loro attività e le loro auto (!) per correre verso lo stesso punto e catturare il Pokémon raro. Potrebbero essere simili a quegli esodi di gruppo a cui siamo abituati per via degli eventi tragici, ma invece si tratta di un gioco generalmente correlato all'infanzia. La forza del brand Pokémon è tutta qui: se Google Ingress è rimasto legato alla nicchia degli hardcore gamer, Pokémon Go è riuscito a centrare ogni tipo di target, sfruttando il contagio sociale e l'engagement pregresso, sedimentatosi nel corso degli anni. Nintendo, dopo il ciclone Touch Generations (DS e Wii), si conferma ancora una volta la roccaforte dei casual gamers, l'unica azienda del settore in grado di far diventare i videogiochi un medium di massa. Che sia colpa della curiosità o della passione per le bestiole, è un fenomeno rilevante a livello globale. Ne è un valido esempio quanto accaduto il 16 luglio, il giorno in cui i server hanno smesso di fare il loro lavoro, scatenando un'inaspettata ondata di panico che ha generato milioni di discorsi sui social, sino a scalare il primo posto delle tendenze Twitter con #pokemongodown. Al bando le questioni importanti come il golpe in Turchia, l'ilinx ha mietuto le sue vittime, cinguettanti, irritate e depresse come se non ci fosse un domani.

 

 

E così termina la versione utopica del gameplay, peggiorata dal fatto che per trovare Pokémon basta stare fermi con l'applicazione in funzione e, ogni tanto, si riceveranno notifiche su ciò che succede nei dintorni. Mentre sto scrivendo questo articolo, di notte, ne ho catturati quattro, senza muovermi dalla scrivania. Ho sicuramente notato un certo coinvolgimento delle persone incontrate per strada, alcune aggregate in gruppetti, altre intente a guardare con occhi diversi il proprio quartiere, scambiandosi cenni di intesa. Il livello di astrazione è pericolosamente alto, soprattutto quando si scopre che si può barare sui percorsi usando i mezzi di trasporto. Anche i giochi prevedono gli imbroglioni e gli onesti, le interpretazioni buone o cattive. Nel mondo possibile dei Pokémon, quello previsto per il giocatore modello, bisogna uscire zaino in spalla, come gli avatar, muniti di buone intenzioni e inventiva, rivalutando e, perché no, scoprendo, posti inaspettatamente piacevoli, per mettere meglio a fuoco l'ambiente circostante, lontano dalle ombre della routine.

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Molto dobbiamo noi ad Angelo Ferracuti

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Molto dobbiamo noi ad Angelo Ferracuti, noi che come salmoni abbiamo percorso controcorrente la via dell’italica narrativa; noi che abbiamo balbettato le poesie di Luigi Di Ruscio, guardato ammirati i reportage di Mario Dondero, noi che increduli abbiamo giurato a noi stessi che non avremmo mai mangiato dai vassoi della piccola cerchia editoriale ma che avremmo continuato a usarla per raccontare il mondo dei vinti; noi che abbiamo visto il mondo culturale italiano infiacchirsi e prostituirsi, immemore dell’ammaestramento dei suoi figli migliori, dei suoi figli virtuosi, chiedendoci come potesse vivere di tanta incoerenza, di tanto fango; noi che abbiamo considerato il triste balletto delle anime brutte del mondo culturale italiano, disposte a tutto in cambio di una comparsata televisiva, una collaborazione giornalistica, un premio; brutte queste anime tanto quanto quelle di chi le governava e che per questo nulla hanno potuto contro il malaffare che infine li ha fagocitati; noi abbiamo trovato in Ferracuti un maestro di integrità e coerenza intellettuale. Molto dobbiamo noi ad Angelo Ferracuti che nel tempo ha accantonato l’impotente romanzo postmoderno per dedicarsi al reportage narrativo. Molto gli dobbiamo noi (e quelli che gliene devono sapranno riconoscersi in questa apologia), noi che volevamo ritrovare il sentiero smarrito del massimalismo novecentesco.  

 

Gli uomini e donne raccontate da Ferracuti con affetto e interesse, i memorabili minatori e gli operai di Addio, il romanzo della fine del lavoro, Chiarelettere, pp 256, uscito in questi giorni, sono uomini che non fanno notizia, nonostante non abbiano affatto intenzione di nascondere la propria esistenza, le proprie emozioni, che con la sua partecipazione, Ferracuti rende necessarie alla Storia, al di là della patina di finzione per la quale il narratore dovrebbe rimanere sullo sfondo del racconto nell’esercizio di una inetta imparzialità.

 

 

Era da tempo che Ferracuti aveva intenzione di scrivere un reportage narrativo sulla crisi che tutti viviamo. Ricordo le sue parole, il racconto dell’infruttuosa ricerca di un editore coraggioso che promuovesse un nuovo Viaggio in Italia nei luoghi del disagio e della desertificazione industriale. O, come dice Ferracuti stesso, Il racconto dominante era quello retorico dei produttori, cioè raccontare chi ce l’aveva fatta o ce la stava facendo, e andava molto di moda questa parola, resilienza, cioè capacità di resistere e reinventarsi all’ineluttabilità delle dinamiche del neoliberismo, mentre io volevo raccontare, come nella migliore tradizione letteraria di impegno civile, proprio chi non ce l’aveva fatta e stava affondando, chi non arrivava alla fine del mese, l’invisibile condizione di apnea sociale.

 

Ed è tornato a raccontarla Ferracuti con questo suo Addio, ed è tornato a farlo più forte che mai. 

Siamo nel Sulcis questa volta, la provincia più povera d’Europa, trentamila disoccupati su centotrentamila abitanti e quarantamila pensionati dell’industria, di frequente in pensione perché malati. E perché questa area d’Italia è ad alto rischio ambientale, parte com’è delle quarantaquattro aree di interesse nazionale, con Porto Marghera, Piombino, Bagnoli, Taranto, Casale, Bari, Broni e altre. La più estesa, con la terra dei fuochi, dove morire di tumore è un rischio ben oltre la media nazionale. Non è infatti difficile trovare nei terreni del Sulcis composti organici, metalli pesanti, piombo, zinco, cadmio, ferro, rame e falde inquinate.

E racconta Ferracuti, racconta di donne anziane e mariti disoccupati che non hanno più potuto pagare l’affitto. E sono stati sfrattati, e vivono per strada, dormono in automobile, d’inverno nei pressi dei silos caldi delle manifatture, d’estate al fresco del mare. 

 

E racconta di minatori morti che non sono morti ma che sono stati ammazzati, ammazzati da noi tutti, noi che non abbiamo potuto e voluto modificare questo barbaro ordine sociale. E altri minatori ancora rimasti sordi, mutilati. La miniera è così, racconta Ferracuti, è così.

E racconta degli operai dell’Alcoa, che di certe cose non è facile parlare, che raccontata una le hai raccontate tutte. E il primo passo è la cassa integrazione che è un problema perché non arriva e trascorrono mesi e intanto non sai come comprarti da mangiare, che è dura, che una mano te la danno i genitori, ma quando hai famiglia non basta mai. 

E racconta di come gli operai facciano di tutto per tirare avanti, ma proprio tutto. Come pescare di frodo, e fare contrabbando, tanto per non affondare. E di come le famiglie si sfascino e arrivi la malora. 

Che poi anche a tenerlo, il lavoro, non c’è da esserne contenti. La prima volta che uno entra in fabbrica, che ricorda l’inferno di Dante, la voglia è di andarsene perché fatichi a respirare, perché manca l’aria. Che nel reparto della fusione la nebbia è fitta e le fiamme arrivano al soffitto. E la fonderia, e le colate d’alluminio. 

 

E allora la disperazione è tanta. E tanti i fantasmi nella testa, le depressioni, i suicidi. E i tentati suicidi: settecento l’anno.

Immagini narrate centotrenta anni fa da Emile Zola nel Germinale, ritornano a vivere nel racconto di Ferracuti. Che quando arrivano richieste di aiuto al terzo mondo, dice un cassintegrato, viene da dire che il terzo mondo è qua, lo abbiamo in casa il terzo mondo. Ma quando finisce il denaro, ad arrivare non è la depressione e basta, arrivano anche droga, alcol e gioco d’azzardo; cocaina e slot machine.

Se in Italia gli occupati sono diminuiti del 2,6 per cento, nel Sulcis sono crollati del 18,5 per cento. E il 40 per cento degli abitanti in età da lavoro è senza lavoro.

E le donne poi. Il volto della sofferenza e della solitudine. Le ricerche le descrivono quarantenni, divorziate o nubili con figli a carico, senza lavoro o con lavoro inadeguato. Donne senza legami relazionali, senza classe, senza partito, sbranate dai problemi, dalle necessità. 

È l’interesse politico di Ferracuti al rapporto tra capitale e lavoro, è la grande questione di sempre, un conflitto rimosso, che, come tutto il rimosso, è tornato con grande durezza. 

Molto dobbiamo noi ad Angelo Ferracuti, per questo suo nuovo racconto e per tutti gli altri che hanno composto e continuano a comporre una nuova idea di realismo che può venire unicamente da queste scritture, se sono scritture alte e con un alto tasso di emotività.

 

E molto dobbiamo noi ad Angelo Ferracuti che non ha mai dimenticato di mettere il lavoro al centro del suo racconto, che il lavoro dovrebbe essere il racconto principale di questa nostra epoca di crisi diffusa, come lo fu nel periodo della Grande depressione.

Molto dobbiamo noi autori ad Angelo Ferracuti e molto gli dovremo fin quando noi, nel nostro percorso, non saremo a nostra volta capaci di dimostrare integrità e coerenza narrativa.

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Hong Kong: poeti, artisti e blogger

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La scena

 

Come si può scrivere di attualità politica senza cadere entro l’orizzonte chiuso della notizia? Evitare la coazione a riprendere e rielaborare ciò che già vive di vita propria sui mezzi di informazione? Non mi accontento di un racconto rimasticato, di storie che occhieggiando agli archetipi e facendo leva sulla sensazione buchino il video – come si diceva solo pochi anni fa – plasmandosi in prodotti per un mercato. 

Immagini: 

Lavoro

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Sottotitolo: 
Una parola controtempo

I volti disillusi che abbiamo avuto di fronte nei colloqui di gruppo e individuali per cercare di capire, attraverso le storie di vita, quali effetti stia producendo la precarietà lavorativa, non si dileguano col tempo. Né sono passeggere le immagini emergenti dai reattivi psicologici che abbiamo proposto a un campione rappresentativo di lavoratori precari. Forse perché quelle immagini si aggiornano senza tregua e quella condizione si estende ormai a più generazioni. Abbiamo scoperto che parlare di aspettative è diventato vietato e che funziona una sorta di autocensura tutte le volte che si tocca un tema che abbia a che fare con la progettualità. Un sentimento di fungibilità, di disposizione incondizionata ad ogni forma di impiego, è diffuso e pervade lo spazio dalla vita individuale a quella di gruppo. Ridotti a se stessi e alla propria solitudine, i giovani lavoratori precari sono una cartina di tornasole di che cos’è il lavoro, di quale significato abbia nella individuazione personale e nella costruzione di una vita.

 

C’è in questo scenario, però, un mondo emergente che non viene quasi mai considerato. Quegli stessi giovani che arrancano lungo gli impervi sentieri della precarietà, non mostrano di essere attratti dalla staticità delle forme tradizionali del lavoro. Cercano di esprimersi nella vita attiva, ma non vogliono farlo nello stesso posto per tutta la vita. Sono esploratori senza mappa in una contemporaneità rarefatta, ma non intendono rinunciare all’esplorazione come criterio permanente della propria esperienza di vita. Sarà perché il lavoro non c’è più nelle forme classiche, stabili e durature; sarà perché l’immaginario e i percorsi di crescita sono cambiati, ma appare evidente che le giovani generazioni non si identificano più, nella maggior parte dei casi, con il lavoro come destino dell’esistenza. Semmai c’è da chiedersi come mai le istituzioni di governo e il sindacato, che partecipano in modo assistenzialistico, quando va bene, del dramma della crisi del lavoro, non siano attenti a cogliere quella generatività intrinseca emergente dalle trasformazioni dell’immaginario e della dimensione simbolica del lavoro in atto ormai da anni. Potrebbe esserci lì la base per una prospettiva, per degli orientamenti e delle scelte in grado di attuare politiche e azioni per far fronte al blocco in atto, che si traduce in esclusione, ingiustizia ed emarginazione di intere parti di generazioni.

 

Se si ascoltasse quel potenziale, si potrebbero limitare le piccole grandi angosce alla base delle tante “false partenze” che gli esponenti di queste generazioni precarie sperimentano. È pieno di storie di false partenze verso mete perlopiù inesistenti il libro di Vitaliano Trevisan, Works, pubblicato da Einaudi Stile Libero. Su un sottofondo di dolore esistenziale si snodano le più svariate esperienze in quel contesto senza trama e socialità, se non per la comune distruzione del paesaggio e della vivibilità, che è il cosiddetto nord est italiano. La paura di tornare indietro è forse uno dei tratti caratteristici del rapporto con il lavoro. I contratti sono tutti a termine o funzionano i voucher come stratagemma per aggirare tasse e contributi. Lo spaesamento e le vite senza progetto fanno l’unica tessitura possibile in questo scenario in cui il lavoro come fonte di senso e significato per le donne e gli uomini appare solo un fantasma. 

 

 

 

O meglio, ad ascoltare bene i sentimenti e le storie di vita, alla parola lavoro si associano, nell’esperienza degli interessati, previsioni di disagi, inganni, trabocchetti, con soluzioni precarie definite spesso in lingua inglese, come fa notare Stefano Massini, in Lavoro, edito da Il Mulino, Bologna 2016. La parola lavoro, dice Massini, oggi è “spesso assaporata con un retrogusto ‘fish and chips’”.

 

La parola “lavoro”, connessa sempre più al sistema decisionale distante e sterminato proprio della globalizzazione, rappresenta qualcosa di distante da noi, e la sentiamo manovrata da entità estranee alla nostra cultura. Il lavoro si deterritorializza e si allontana dalle comunità che detenevano le culture e le competenze per generarlo e praticarlo, divenendo sinonimo di “confusione geografica”, di inafferrabilità dei fattori che lo determinano e generano e prendendo il marchio di “Made in altrove”. L’alienazione connessa al lavoro, paradossalmente è profonda sia dove il lavoro manca che dove ce n’è troppo. I campanelli di allarme per fermarci a pensare restano sistematicamente inascoltati, e non bastano a farci riflettere su quello che sta accadendo al lavoro neppure i tassi di suicidio degli operai in luoghi come la megafabbrica cinese di Shenzhen, dove sono assemblate le schede dei nostri smartphone. In quella fabbrica il tasso dei suicidi è diventato così alto che è stato necessario mettere sbarre alle finestre e circondare i tetti di reti. Il costo della manodopera è sceso al di sotto di ogni immaginazione: se fino a ieri la convenienza era di due dollari di paga giornaliera per un operaio cinese, già oggi i ragazzini operai vietnamiti lavorano per meno.

 

Né pare invidiabile, anche se certamente diversa, la solitudine lavorativa di tutti coloro che cercano di lavorare in proprio come free-lance nei paesi occidentali. Scrive Massini: “Percepita come sinonimo ora di ‘sforzo inutile’, ora di ‘ingiustizia sociale’, ora di ‘mal digerita sottomissione’, ora di ‘confronto impari con la tecnica’, la parola ‘lavoro’ porta su di sé i graffi di un’epoca confusa. Idolatrato dai nostri nonni e castamente amato dai nostri padri, oggi il lavoro ha finito da tempo di essere un luogo di aspettative o di conferme, caricandosi di tutte le possibili inquietudini di una suprema incognita”.  Il disincanto degli adolescenti verso il lavoro sembra pari solo all’attrazione fatale che hanno aspirando a carriere da calciatori o da veline, con relative attese di facili arricchimenti e manie di divenire famosi. Tra i giovani il diritto al lavoro e i diritti sul lavoro sono considerati solo degli accessori e la loro, nella maggior parte dei casi, è una disponibilità a fare di tutto senza alcuna sicurezza e condizione. La regressione civile che tutto ciò comporta non ha bisogno di sottolineature.     

 

 

 

Allo stesso tempo la leggerezza con cui spesso si sente parlare di lavoro e di disoccupazione non è quella di cui parla Italo Calvino nelle Lezioni americane. Si rasenta in molti casi la superficialità mista a rassegnazione sul tema del lavoro, o per vie del tutto ragioneristiche e contabili, o per vie idealistiche e frivole. Basterebbe ascoltare quanto scrive Primo Levi ne La chiave a stella per farsi aiutare a comprendere di cosa stiamo parlando quando parliamo di lavoro. Scrive Levi: 

“Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra; ma questa è una verità che non molti conoscono [...]”.

 

Poi sul rapporto con il prodotto del proprio lavoro, scrive: “Sul piacere di veder crescere la tua creatura, piastra su piastra, bullone dopo bullone, solida, necessaria, simmetrica e adatta allo scopo, e dopo finita la riguardi e pensi che forse vivrà più a lungo di te, e forse servirà a qualcuno che tu non conosci e che non ti conosce. Magari potrai tornare a guardarla da vecchio, e ti sembra bella solo a te, e puoi dire a te stesso ‘forse un altro non ci sarebbe riuscito’”.

E aggiunge: “Io credo proprio che per vivere contenti bisogna per forza avere qualche cosa da fare, ma che non sia troppo facile; oppure qualche cosa da desiderare, ma non un desiderio così per aria, qualche cosa che uno abbia la speranza di arrivarci”. 

 

La questione del lavoro non può essere separata, quindi, dai temi della creatività, cioè della possibilità di esprimere se stessi con attese di riconoscimento per vivere una vita sufficientemente buona; dai temi della giustizia sociale e da quelli dell’uguaglianza delle opportunità. 

 

Per queste e altre ragioni, a proposito dell’inserimento attivo dei giovani nel lavoro e nella società e per quanto riguarda il ricambio generazionale, le questioni sono tali da riporre al centro i temi dell’uguaglianza e del potere. Due tra i temi apparentemente superati e in buona parte rimossi nel tempo dell’individualismo esasperato e delle presunte sorti magnifiche e progressive del liberismo spinto all’estremo. Il fatto è che la questione del ricambio generazionale in posizione di vertice, ma non solo, non può essere consegnata a una disposizione di buona volontà o di attesa di comportamenti eticamente e politicamente corretti. A parte rare circostanze e ancor più rare personalità, non si è mai visto cedere spontaneamente potere e privilegi di grande o piccola portata da parte di chi li detiene. Anzi assistiamo ad una perseveranza sistematica di tenuta delle posizioni anche a fronte di evidenti fallimenti nelle scelte. Senza intervenire sulle regole non si liberano possibilità e la disuguaglianza tra privilegiati ed esclusi cresce. Si pensi solo alla distribuzione dei redditi e del lavoro. Per non parlare delle pensioni che, in molti casi, sono delle vere e proprie posizioni di accumulazione e rendita.

 

Quelle regole esigono un’azione politica e sindacale capace di riconoscere che l’esclusione crea problemi per tutti e non solo per gli esclusi. Un’altra questione riguarda la capacità non solo individuale ma organizzativa di inserire e allevare successori. Vi sono organizzazioni che premiano la capacità di crescere e allevare e regolano la rotazione e il ricambio in modo abbastanza preciso e definito. La generosità e la disponibilità spontanee devono essere guidate e incentivate. È necessario allora chiedersi che cosa si fa per gestire le organizzazioni perché siano luoghi di crescita e non solo di adempimento e di esecuzione. La disuguaglianza e l’esclusione hanno raggiunto livelli tali da creare una società bloccata. Non si tratta di intendere male il valore dell’uguaglianza perseguibile: quello che serve è un principio di giustizia sociale basato sull’obiettivo dell’uguaglianza delle opportunità e sulla differenza dei trattamenti in base ai valori espressi. Il punto di partenza è il riconoscimento del senso e del significato del lavoro. Se il lavoro non è solo il mezzo per guadagnarsi da vivere, allora è possibile accorgersi che il suo valore per noi esseri umani emerge al punto di connessione tra mondo interno e mondo esterno con la mediazione del principio di realtà. A fronte della ridefinizione e riorganizzazione del lavoro, bisognerebbe assumere il riconoscimento di questo valore come condizione per conoscere e intervenire rispetto a quello che insieme all’amore, secondo Freud, è l’esperienza più importante della vita.

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Una parola controtempo

Twitteratura in classe

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Twitter, per la sua sintetica brevità, può essere usato per comunicazioni diversissime. Nato per scambiarsi messaggi privati poco “seri”, si è trasformato in un potente strumento per raccontare e testimoniare eventi, annunciare decisioni politiche, discutere. È anche uno strumento che qualcuno ha pensato bene di accostare alla letteratura, con esiti diversi a seconda del grado di utilizzo delle peculiarità di Twitter.

Innanzitutto, fare letteratura con Twitter è – se non impossibile (si veda, per esempio, l’ormai famosissimo Black box di Jennifer Egan – quantomeno molto difficile. Come raccapezzarsi con messaggi di 140 caratteri, persi in un flusso ininterrotto di altri messaggi diversissimi tra loro, pubblicati seguendo un ordine cronologico contrario a quello a cui siamo abituati (e cioè, ciò che viene dopo si trova scritto sopra a ciò che viene prima)? Dobbiamo perciò limitarci a usare Twitter solo per “parlare di” libri e letteratura, come uno spazio dove discutere, tirando direttamente in causa autori e editori menzionandoli nei nostri tweet? Neppure. 

 

Esiste infatti una “terza via” all’utilizzo di Twitter per la letteratura, che consente di riempire i 140 caratteri di Twitter di contenuto letterario. Si tratta di quella che in inglese viene chiamata twitterature e in italiano twitteratura, e consiste nell’utilizzare Twitter per riscrivere – in modi tra loro diversissimi – i libri. Un’operazione che ha avuto finora un discreto successo, favorita dalla versatilità del social dell’uccellino blu: se un presidente del Consiglio può twittare la ratifica di una legge vuol dire che i tweet sono ormai molto più di un semplice scambio tra colleghi annoiati. Ma i tweet sono tante cose diverse tra loro proprio perché Twitter di per sé è un contenitore adattabile a contenuti diversi. E twitterature e twitteratura producono esiti diversi perché utilizzano in modo diverso le potenzialità offerte da Twitter.

 

Prendiamo un esempio concreto: Amleto di William Shakespeare. E prendiamo due esiti diversi: la riscrittura fatta da Alexander Aciman e Emmett Rensin nel libro Twitterature uscito da Penguin nel 2009 e #HamleTw, la riscrittura proposta dalla start-up italiana TwLetteratura dal primo al 23 aprile 2016: la prima stampata su carta e mai twittata, la seconda l’esito di tre settimane di tweets di utenti e scuole. Ma andiamo con ordine.

Aciman e Rensin erano due studenti americani, abbastanza secchioni, che – durante il loro primo anno di università – si sono trovati schiacciati dalla mole dei libri che gli toccava leggere. E si sono chiesti come assaporare la bellezza della letteratura senza stare seduti per ore a leggere. Hanno così pensato di riscrivere, sintetizzandoli in tweet, venti capolavori della letteratura mondiale – dall’Inferno al Giovane Holden, passando per Moby Dick, Shakespeare e l’Iliade– e fornirne una versione mignon adatta a tutti i palati. Tuttavia, si sono serviti solamente di una possibilità di riscrittura, ovvero hanno attualizzato i libri originali immaginandone autori e protagonisti come ragazzi di oggi, che parlano in slang (e infatti, alla fine del libro, è presente un glossario esplicativo delle espressioni utilizzate, ben note ai giovani e adolescenti che usano le chat o i social networks). Un’operazione “revival-simpatia” molto americana, insomma, mirata a conquistare i coetanei degli autori.

 

Nel caso dell’Amleto di Shakespeare, per esempio, tale volontà ironica è sempre riconoscibile. Il principe parla come un adolescente dei giorni nostri, che vive una profonda depressione e reagisce a modo suo: per esempio, urlando agli adulti le proprie convinzioni, che gli adulti non vogliono ascoltare (“STOP TRYING TO CONTROL ME. I won’t conform! I wish my skin would just … melt” – BASTA CERCARE DI CONTROLLARMI. Non voglio conformarmi! Voglio solo che la mia pelle … si sciolga). Oppure, in tono decisamente sarcastico: “Why is Claudius telling me what to do again? YOU’RE NOT MY REAL DAD! In fact you killed my real dad :( ” (Perché Claudio mi dice ancora cosa devo fare? NON SEI IL MIO VERO PADRE! In effetti, hai ucciso il mio vero padre :( ), dove la frase “In effetti, hai ucciso il mio vero padre” riassume la tragica verità che condurrà Amleto al finale tragico. Tutti i momenti salienti della tragedia sono twittati in modo ironico e sarcastico, associato ai riferimenti culturali dei giovani di oggi. La recita che smaschera Claudio richiede al pubblico senso dell’umorismo (“I wrote a play. I hope everyone comes tonight! 7pm! Tickets are free w/ great sense of irony” – Ho scritto una recita. Spero che tutti vengano stasera alle 7! Biglietti gratis e molto senso dell’umorismo); l’assassinio di Polonio sconvolge il giovane (“WTF IS POLONIUS DOING BEHIND THE CURTAIN?” – COSA C..O FA POLONIO DITETRO LA TENDA?); il discorso del becchino con il teschio di Yorick è molto più noioso di un video su YouTube (“The gravedigger’s comic speech isn’t funny at all. It’s heavy and meaningful. Just send me YouTube vids instead, pls. I am so borrredddd” – Il discorso comico del becchino non è per niente divertente. È pesante e senza senso. Piuttosto, mandatemi dei video di YouTube, per fav. Sono così annoiatoooooooooo); il suicidio di Ofelia è descritto in un modo beffardo (“Ophelia just pulled a Virginia Woolf. Funeral is on the morrow” – Ofelia ha fatto la Virginia Woolf. Il funerale è domani mattina). Per concludere con l’ultimo tweet: Amleto, morente, dialoga con il suo popolo menzionandolo su Twitter: “@PeopleofDenmark: Don’t worry. Fortinbras will take care of thee. Peace” – (@PopolodiDanimarca: Non preoccupatevi. Fortebraccio si prenderà cura di voi. Pace).

 

Anche il più celebre verso della tragedia è riassunto in una sigla con numeri e sigle che ne imitano la pronuncia: “2bornt2b? Can one tweet beyond the mortal coil?” (Essere o non essere? Qualcuno può twittare al di là della spirale della morte?).

La sintesi non toglie nulla al personaggio: lo stile dei suoi tweet ci rende perfettamente la tristezza, la finta pazzia, la beffarda ironia, il sarcasmo feroce di Amleto. In una parola, la ribellione – i cui tratti adolescenziali vengono sottolineati dalle espressioni gergali. 

Vediamo invece che cosa è accaduto, ad aprile, a coloro che hanno partecipato a #HamleTw, la riscrittura dell’Amleto in tweet. Il progetto si basa sul cosiddetto “metodo TwLetteratura”, che la start-up omonima ha elaborato e impiega dal 2012 per avvicinare nuovi e vecchi lettori alla letteratura. Come? Proponendo ai partecipanti di riscrivere il libro che si sta leggendo in tweet: si sceglie, oltre al libro, un calendario di lettura e un hashtag, fondamentali per seguire la struttura originaria del libro; e poi si parte. Nel caso della tragedia shakespeariana, l’hashtag scelto è stato #HamleTw e il calendario andava dal 1° al 23 aprile, con – tranne alcune eccezioni – un giorno di riscrittura per ognuna delle scene originali, da twittare associando all’hashtag il numero progressivo del capitolo. Ovvero, #HamleTw/01 per la scena I dell’atto I, il 1° aprile; #HamleTw/02 per la scena II dell’atto I il 2 aprile; e così via. TwLetteratura sfrutta appieno tutte le potenzialità di Twitter, innanzitutto la sintesi poiché la principale sfida da vincere è condensare in soli 140 caratteri tutto quello che la ricezione del testo è riuscita a suscitare nel lettore.

 

Un lettore che, per il fatto di parlare attraverso la sua identità di utente di Twitter, si ritrova “in scena” e può esprimere in maniera diretta il proprio pensiero riguardo a quello che ha appena letto. Un pensiero che può essere declinato in mille modi diversi: un riassunto e una parafrasi, favoriti dalla sintesi, ma anche un commento, una citazione, l’accostamento con un altro contenuto (video, foto, musica) proveniente dalla stessa opera o da altre opere dello stesso autore o, anche, da opere di altri autori; oppure, ancora, con un’immedesimazione dell’utente nel testo o un rifacimento in un’altra lingua, dialetto compreso. Inoltre, l’utilizzo di Twitter permette un contatto diretto tra l’utente e il contenuto del testo, disintermediato da qualsiasi altro filtro; e l’utente può liberamente interpretare il contenuto originale. TwLetteratura sfrutta inoltre anche le caratteristiche social di Twitter: la timeline di Twitter è un flusso continuo di messaggi dove ognuno può interagire in tempo reale con qualsiasi altro utente, lettore o critico o autore. Inoltre, con TwLetteratura Twitter è uno schermo che rimanda a un contenuto situato in un posto differente: nel caso di #HamleTw, il testo di Shakespeare. 

 

Più nello specifico, il gioco di #HamleTw ha prodotto 29 mila tra tweet e retweet (quasi 9 mila tweet) da parte di circa un migliaio di utenti (di cui 350 quelli che hanno scritto almeno un tweet). L’interazione è stata incrementata, oltre che dalla lettura collettiva, da alcuni account Twitter – animati da membri di TwLetteratura – che impersonavano i personaggi e l’autore del libro. C’erano il protagonista @TwAmleto di Danimarca, la bella e triste @TwOphelia, lo @SpettroTw del Re di Danimarca, padre di Amleto, (https://twitter.com/SpettroTw) e anche l’autore, celato sotto il nickname di @TheBardTw. Ognuno di questi account si è comportato come il suo personaggio, imitandone atteggiamenti e stile. Per esempio, il Bardo ha confessato: “Someone said @TwAmleto’s obsessions are not my obsessions. But he IS my obsession. Yes, I’m his father. #HamleTw/08”. Lo spettro del padre di Amleto si è reinventato burlone con tweet come “Cari @TheBardTw, @TwOphelia e @TwAmleto e adesso? Facciamo che io resuscito e ricominciamo tutto da capo ma al contrario? #HamleTw/restart”. Mentre Ofelia reinterpreta il suo suicidio citando le parole (vere) lasciate da Pavese prima di uccidersi (“Perdono tutti, a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi. #HamleTw/18”) o dà voce al dolore che l’indifferenza di Amleto le provoca (“Uccidesti mio padre e fu #comeSe non avessi mai saputo chi tu fossi @TwAmleto, e chi fossi io... #HamleTw/11”). Mentre Amleto, fedele al personaggio, ha twittato con malinconia (“Ho perso la mia allegria! Sono cupo! La Terra? Uno sterile promontorio! L’uomo? Non mi piace né la donna! #HamleTw/08”), cinismo (“Polonio, siete un pescivendolo, un vecchio seccatore rimbambito! La Danimarca è una prigione! Ed io? Faccio brutti sogni! #HamleTw/08”), accuse (“Colpa tua, Laerte! Per sete di vendetta, strumentalizzato dal Re trascuri tua sorella che ha bisogno di te! #HamleTw/18”) e poca lucidità (“Dare una risposta sensata? Il mio intelletto è malato. Ma è facile come mentire. Ipocrite la lingua e l’anima. #HamleTw”), con cui rivela una bruciante verità (“Il vostro nobile figlio è pazzo: s’interroga su ogni cosa! Allora Viva la pazzia! Viva il senso critico! #HamleTw/07”). 

 

All’interazione con i personaggi del libro hanno risposto utenti singoli, più o meno affezionati a TwLetteratura per avere partecipato a precedenti progetti proposti dall’associazione, e soprattutto scuole. Fin dal progetto #TwSposi dedicato a I Promessi Sposi e svoltosi tra 2013 e 2014, TwLetteratura considera studenti e insegnanti destinatari speciali dei suoi progetti. Con risultati incoraggianti: di progetto in progetto il numero delle scuole aderenti cresce costantemente, quasi sempre grazie al passaparola fra insegnanti; i quali si dicono soddisfatti di un metodo che coinvolge attivamente i loro studenti, solitamente apatici o indifferenti al contenuto dei libri da leggere, soprattutto se obbligatori. Per #HamleTw hanno risposto all’appello 33 classi di 18 istituti differenti (9 scuole superiori, 7 medie e 2 elementari), dal Friuli alla Calabria, che hanno partecipato creando account Twitter riferiti alla classe. A questi, si sono sommati gli utenti singoli, divisi tra fedelissimi e semplici curiosi, catturati dall’hashtag o magari da qualche tweet di @SpettroTw. 

I tweet dei partecipanti sono stati diversissimi, stimolati dal segnale orario lanciato ogni sera a mezzanotte dall’account Twitter di @TwLetteratura, per esempio: “Essere, o non essere... questo è il nodo”. Segnale orario, #HamleTw/17. Atto IV, scena II”, contenente il link alla pagina del sito con la descrizione del progetto. C’è stato chi ha optato per un riassunto del capitolo o di una sua parte: “La regina tenta di condurre alla ragione Ofelia ma non ci riesce”, twitta la classe @2APirandelloRC con l’hashtag #HamleTw/16 e riassumendo il nucleo della scena V del IV atto. Oppure, la classe @Venturi2M riassume così la II scena del II atto, laddove il re e la regina – insieme a Polonio – chiamano Rosencrantz e Guildenstern perché allontanino Amleto dalla reggia: “L’amicizia indaga, la regina e Polonio traggono le loro conclusioni. Amleto è triste ma gli altri non sanno per cosa sia. #HamleTw/07”. La stessa classe, poi, sceglie anche di usare l’inglese: “#HamleTw/17 Last news from Hamlet: he’s alive and he’s back”.

 

Altri due tweet associano invece al riassunto anche un giudizio che potremmo definire morale: @IVsansperatorc1 giudica in maniera pessimista il testo shakespeariano (“In questa storia tutti cercano vendetta: si odiano, si tradiscono, si ammazzano. Nessuno perdona, nessuno ama. Per questo è triste”). Mentre @annina3105 è più cinica e scanzonata – come dimostra l’hashtag – nel descrivere i battibecchi amorosi fra Amleto e Ofelia: “Lei: Avevi promesso di sposarmi. Lui: Avrei fatto quel che ho detto se non fossi venuta nel mio letto. #gliuominisonotuttiuguali”.

Per altri utenti, la lettura del testo stimola l’associazione con altri testi. A @GabboM26, Amleto che va per mare ricorda i versi che Dante fa pronunciare al suo Ulisse nel XXVI canto dell’Inferno: “Ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto. #Dante #HamleTw/17”. Mentre il Dante delle Rime petrose è il riferimento di @Sasiilbarbacane per la vendetta di Amleto: “Che bell’onor s’acquista in far vendetta. #Dante #donnapetra #HamleTw/16” cita l’ultimo verso di Così nel mio parlar voglio esser aspro. Ma Amleto richiama anche l’Odissea (“@AdrianoOrlando4 Credete partiti i nemici? O stimate alcun dono dei Danai privo d’inganni? #inganno #Odissea #HamleTw/16”) e, addirittura, Pirandello (“@Sasiilbarbacane Imparerai che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti. #pirandello #inganno #HamleTw/16). 

L’analisi del testo si può associare a un commento, come nei tweet di @erikafm282 (“#HamleTw/16 Forse @TwOphelia si è nascosta nella pazzia perché non trovava scampo dalla delusione. O forse la vera pazzia è l’amore reale”), di @annina3105 (“Amleto è prigioniero dei corsari? Li chiama ‘brava gente’ perché son meglio loro dei falsi amici che lo circondano #HamleTw/17”) e di @SabVal1 (“Che sublime narratore @TheBardTw! Ci fai sognare un’avventura tra pirati con poche pennellate da artista #HamleTw/17”). 

 

Oppure, può portare l’utente a un’interazione diretta con i personaggi, una soluzione che molte classi hanno adottato. Per esempio, @2APirandelloRC consiglia a Laerte di comportarsi diversamente (“Laerte non farti abbindolare da quello stupido di Claudio: non vendicarti ma perdona!”). @3eZumbini dialoga invece con l’alter ego di Ofelia: ricalcando l’ambiguità dei suoi sentimenti verso il padre morto e l’amato perduto, le chiedono se “ti dispiace più aver perso il padre o il probabile marito? Ancora non è ben chiaro! #HamleTw/16”; leggendo invece delle sue canzoni disperate, le propongono un po’ beffardamente se ha “mai pensato di partecipare ad Amici, sezione cantanti?! #HamleTw/16”. Invece, @SabVal1 si rivolge a @TheBardTw perché le chiarisca un elemento compositivo della tragedia: “Le ballate che @TwOphelia canta sono scritte per rivelare la storia o sono canti popolari? #HamleTw/16”. Gli studenti hanno perciò interpretato l’Ofelia e il Bardo di Twitter come persone vere, a cui rivolgersi direttamente non a voce ma tramite un tweet: se le loro domande possono sembrare sarcastiche, dimostrano tuttavia una lettura e una comprensione profonda del testo di Shakespeare. E dimostrano anche che, con questa metodologia, gli studenti fanno proprio il contenuto del testo: ne sentono vicina la lingua (“@4eJesi “Infame re, rendimi mio padre. Anche il re fa le infamate (come si dice qua a Jesi). #HamleTw/16”) e anche i personaggi, come nel caso degli studenti che hanno scritto una lettera ai personaggi (@IVsansperatorc1#HamleTw/17 Lettera a Gertrude”.

 

 

 

Infine, un’ultima categoria di tweet mescola media e arti diverse a partire dal testo di Shakespeare. Agli studenti di @Venturi2M la vicenda di Amleto richiama l’epopea di Massimo Decimo Meridio, il gladiatore dell’omonimo film di Ridley Scott, a cui si ispirano per inventare una battuta di dialogo che potrebbe essere messa in bocca ad Amleto, mosso dagli stessi sentimenti di Massimo: “#HamleTw/15 Io, figlio di in padre ucciso e di una madre disonorata, avrò la mia vendetta in questa vita o nell’altra”. 

 

 

 

In questo caso, basta l’hashtag a sottolineare la connessione tra il testo di Shakespeare e il film. Per concludere invece con due tweet che si rifanno a due famose canzoni italiane: @giuliacaminada rifà la Canzone di Marinella di Fabrizio De André dedicandola alla triste fine di Ofelia, identica a quella della protagonista della canzone (“Quella di @TwOphelia è una storia vera, che scivolò nel #fiume a primavera #HamleTw/18”), mentre @Classe_3bc dedica ad Amleto i versi della celebre Je so’ pazzo di Pino Daniele (“Je so’ pazzo, je so’ pazzo e vogl’essere chi vogl’io ascite fore d’a casa mia #PinoDaniele #HamleTw/18”). 

 

Per concludere, utilizzare tutte le risorse e le peculiarità di Twitter è ben diverso che limitarsi a riassumere grandi libri nello spazio di un tweet. Quelli di TwLetteratura, come #HamleTw, sono dei giochi che sfruttano la sintesi dei 140 caratteri e l’interazione diretta tra i partecipanti, tutti utenti di Twitter, come un incentivo a esprimere la personale recezione del testo letterario. In questo modo, innanzitutto si stimola la lettura, perché senza conoscere il contenuto è impossibile riscriverlo; inoltre, l’uso di uno strumento di solito concepito come ‘leggero’ e accessibile porta i riscrittori a sentirsi chiamati in causa in prima persona, e a essere chiari nella scrittura del loro tweet. Queste caratteristiche sono fondamentali per gli studenti, che hanno l’opportunità di riflettere su stile e sintassi del loro tweet e si sentono maggiormente liberi di esprimere quello che, in un compito in classe, non esprimerebbero. Insomma, tra twitterature e twitteratura la differenza è ben più che una semplice lettera.

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Riscrivere i libri

Walter Benjamin. La strada

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Le strade sono le abitazioni del collettivo. Il collettivo è un essere sempre inquieto, sempre in movimento, che tra i muri dei palazzi vive, sperimenta, conosce e inventa tanto quanto gli individui al riparo delle quattro mura di casa loro. Per tale collettivo le scintillanti insegne smaltate delle ditte sono un ornamento pari e anche superiore al dipinto a olio in un salotto borghese e i muri con «défense d’afficher» sono il suo scrittoio, le edicole la biblioteca, le cassette delle lettere i bronzi, le panchine i mobili della camera da letto e le terrazze dei caffè il bow-window, da cui osserva la propria casa. Là dove gli stradini appendono alla grata la giacca, c’è il vestibolo, e la porta carraia che, dalla fuga dei cortili, conduce all’aria aperta, il lungo corridoio che spaventa il borghese è l’ingresso alle camere della città. Il passageè il loro salotto. In esso più che altrove, la strada si dà a conoscere come l’intérieur ammobiliato e vissuto dalle masse.

(Da W. Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, Neri Pozza, Vicenza 2012, p. 227)

 

Questa fenomenologia della strada metropolitana è la risposta all’accanimento filologico con cui il grande romanzo borghese ha descritto l’interieur delle case dei suoi eroi protagonisti.

Qui, negli spazi pubblici della grande città - il modello è Parigi - tutto muta costantemente, tutto è in movimento, non ci sono certezze percettive, non c’è durata.

Se l’interno borghese è la traduzione visivo-simbolica del soggetto borghese con la sua ansia di certezza, durata, sicurezza, possesso, le strade della città sono invece gli spazi in cui il soggetto dismette se stesso come individuo e si appropria di un’identità collettiva a cominciare dai suoi moti percettivi che non sono più unitari, individuali e prospettici ma frantumati, collettivi e puntiformi.

La strada come interieur delle masse è l’equivalente simbolico di un tempo che ha perso l’originaria ambizione prometeica del soggetto borghese che sapeva collocarsi nel mondo, che se ne appropriava piegandolo ai suoi fini e che inventava la sua dimensione privata nella rassicurante compostezza ed eleganza del salotto della sua casa.

 

Il nuovo mondo, l’«età del capitalismo avanzato», non sa cosa farsene del soggetto cartesiano e della sua ambizione a mettere in ordine lo spazio intorno a sè, di tracciarne i confini e di distinguere rigorosamente il pubblico dal privato. La nuova età scioglie l’individuo, la sua forma individuale e la sua pretesa di irriducibilità nella consistenza fluida e amorfa della folla.

 

Il nuovo soggetto realizza i suoi desideri negli spazi pubblici, nei luoghi in cui le masse vedono esposte le merci, nella fantasmagoria - il termine è particolarmente caro a Benjamin - delle vetrine del consumo, veri e propri mondi onirici dove il tempo è sospeso e il singolo ritorna al liquido amniotico, all’indistinzione nel corpo materno, al tutto che precede l’individuazione e la scissione originaria, prima della Urtheilung di cui parla Hölderlin in un celebre frammento giovanile.

A questa età del naufragio dell’io, dove i meccanismi di costruzione identitaria sono solo caricature di un’individuazione sempre differita, mai raggiungibile quale tipo di arte può corrispondere? E soprattutto può l’opera d’arte avere i tratti distintivi che l’hanno caratterizzata a partire dal tardo medioevo, in primo luogo la centralità dell’artefice, la sua irripetibile genialità e l’aura che l’opera emana come garanzia della sua inconfondibile identità?

 

L’arte di questa metropoli che non conosce posa e le cui ritualità del desiderio e della sua soddisfazione si svolgono in pubblico tende al contrario ad essere un’ arte senza soggetto e senza aura: un aggregazione provvisoria di elementi, un artefatto che vive nel momento della sua fruizione e poi cambia disponendosi ad una futura percezione e a un esito interpretativo totalmente differente.

 

Benjamin, già negli anni che precedono il suo esilio parigino, è attraversato da due potenti modelli estetici: da un lato dall’idea surrealista del montaggio e dall’altra dalla concezione warburghiana che vede nelle opere una costruzione di formule visive in cui si condensano i sentimenti che accompagnano l’agire umano. Questi modelli - Warburg li chiama “Pathosformeln” - sono senza età, provengono dall’antichità greca e romana e ricompaiono improvvisamente ricominciando, a distanza di secoli, talvolta di millenni, a emanare la loro forza ‘radioattiva’ all’interno di universi iconici e stilistici completamente mutati.

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Immagini di pensiero

Il capitalismo ci renderà stupidi?

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I tempi di lettura si accorciano progressivamente. Le persone dedicano sempre meno tempo a leggere i libri e gli editori di saggistica negli ultimi anni si sono adeguati, riducendo via via il numero delle pagine. Ora c’è chi è arrivato più o meno alla lunghezza di un articolo accademico. È il caso dell’editore Castelvecchi, il quale, dopo aver superato alcune difficoltà economiche, si trova attualmente in una fase di rilancio e ha creato la nuova collana Irruzioni. L’ultimo volume di tale collana, tolte le pagine bianche e quelle che hanno solo dei titoli, conta 35 pagine. Il che non sarebbe in sé un problema. Il sociologo Georg Simmel con il saggio La moda e l’economista Piero Sraffa con Produzione di merci a mezzo di merci hanno dimostrato che poche decine di pagine sono sufficienti a rivoluzionare il pensiero umano. Ma i testi della collana Irruzioni di Castelvecchi non sembrano paragonabili a queste fondamentali opere. Sono piuttosto testi minori, preparati per conferenze o qualcosa di simile. Certo l’obiettivo che l’editore sembra essersi posto con questa collana è meritorio: provocare, lanciare un sasso nello stagno, stimolare la nascita di nuove idee. Per poterlo raggiungere, però, è necessario proporre delle tesi che siano al tempo stesso innovative e convincenti. Due libri usciti di recente propongono invece delle tesi non particolarmente condivisibili. 

 

Il primo è firmato dal mediologo Derrick de Kerckhove e pone sin dal titolo una domanda retorica: La rete ci renderà stupidi? De Kerckhove infatti afferma già nelle prime pagine di non essere d’accordo con il saggista statunitense Nicholas Carr, il quale aveva cercato di dimostrare nel 2011, con il saggio Internet ci rende stupidi?, che l’uso della Rete costringe il cervello umano a delle continue interruzioni dei suoi processi di elaborazione e che queste lo spingono verso la superficialità, perché gli impediscono di analizzare in maniera approfondita tutte le questioni affrontate. Per Derrick de Kerckhove, infatti, Carr commette l’errore di considerare solamente una parte dell’attività svolta dal cervello umano e cioè quella cognitiva, mentre esistono anche altre forme di contatto con l’ambiente circostante che si basano sul sentire e sull’essere. 

 

Illustrazione di Beppe Giacobbe.

 

Il fatto però che il cervello abbia altre sfere d’azione non impedisce che in una di queste, quella cognitiva, le cose vadano proprio come dice Carr. A ciò De Kerckhove risponde che a suo avviso oggi il pensiero umano non è più così importante come era in passato, perché esistono comunque delle macchine che sono in grado di sostituirlo egregiamente. Sembra voler abbracciare pertanto una prospettiva “postumana”, secondo la quale le macchine inevitabilmente prenderanno il posto degli esseri umani. Vale a dire che applica l’idea del suo maestro Marshall McLuhan secondo la quale i media sono delle vere e proprie protesi del corpo umano che consentono a questo di esternalizzare molte delle sue funzioni. Così, se si porta la memoria o altre funzioni fuori dal cervello, si creano le condizioni perché questo, liberato da pesanti fardelli, possa funzionare meglio. È tutta però da dimostrare la tesi che un cervello umano così frammentato possa operare efficacemente. 

 

Un altro recente libro della collana Irruzioni di Castelvecchi è L’idolo del capitalismo di Carlo Freccero. Questi propone la ben nota teoria sviluppata dal situazionista Guy Debord nel celebre volume La società dello spettacolo. Di tale autore d’altronde Freccero si è dichiarato da tempo seguace e diversi anni fa ha anche scritto la prefazione di una delle tante edizioni italiane de La società dello spettacolo. Qui non aggiunge molto e continua a dichiararsi fautore della visione apocalittica coltivata dal filosofo francese, che riconosce però essere figlia dell’analisi sviluppata da Karl Marx sulla natura del capitalismo. Sostiene infatti che siamo vittime inconsapevoli della diffusione tentacolare del modello dello spettacolo. Questo, come scrive, «non occupa più solo le nostre vite ma anche i nostri sogni, le nostre aspirazioni» (p. 43). 

 

È curioso però che Freccero se la prenda tanto con quello spettacolo che ha contribuito a produrre in maniera significativa negli scorsi decenni. Prima alla corte di Berlusconi, dirigendo reti come Canale 5, Italia 1 e La Cinq, e poi in Rai, alla guida di Rai 4 e attualmente come membro del Consiglio di amministrazione. Forse gli si potrebbe chiedere di cercare di impegnarsi per produrre uno spettacolo di migliore qualità. Ma probabilmente è un compito difficoltoso per chi nutre una visione quantomeno discutibile della società in cui viviamo. Freccero infatti sostiene nel libro appena pubblicato che il mondo sia troppo complesso per poterlo comprendere. Una vasta letteratura sociologia è invece lì a dimostrare proprio il contrario. 

 

Freccero inoltre pensa che non esista più nessuna differenza tra il consumo tradizionale e il consumo culturale. Tutto cioè, a suo avviso, è diventato consumo culturale. In realtà, oggi il consumo è anche molto altro. E proprio per questo è qualcosa a cui le persone non vogliono rinunciare, perché, come ha mostrato una vastissima letteratura antropologica, rappresenta uno strumento assolutamente fondamentale per la costruzione della loro identità. 

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Due nuovi libri sui media

Studio Azzurro. Immagini sensibili

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Paolo Rosa se ne è andato da quasi tre anni, e sembra ieri. Ogni volta unica, la fine del mondo, diceva il filosofo. È stato uno dei fondatori, con Fabio Cirifino e Leonardo Sangiorgi, del collettivo di ricerca Studio Azzurro, nel 1982. Questo sì che sembra lontanissimo, una vita fa. Non sono ancora 35 anni, ma se pur non sia più, secondo natura, il medio del cammino, resta un primo, fondamentale, momento di bilancio e ripensamento; ma anche, al contempo, di straordinario vigore e acquisizione di consapevolezza, del un ruolo artistico e sociale che è andato poco a poco definendosi. Pionieri lo sono stati fin da subito, studiatissimi, anche. 

 

I saggi sulla loro lunga attività e i volumi (tra cui il catalogo della mostra) si fatica a contarli, ma nulla può sostituire l'esperienza interattiva che le loro opere, per realizzarsi pienamente, esigono. L'occasione è  adesso: a Palazzo Reale di Milano si celebrano allora questi due momenti, attraverso una Retroprospettiva di Immagini Sensibili. Duplice è anche la modalità di avvicinarsi al loro lavoro. In un primo tempo, i loro ambienti invitano a immergersi completamente in essi. Lì siamo chiamati ad  abbandonarci; al buio della stanza, ai colori che attraversano gli schermi, ai rumori elettronici o alla musica che ci avvolge. Sembra di essere in una scatola magica, ma i più curiosi, come gli appassionati di tecnologia o gli sperimentatori cui piace sporcarsi le mani e comprendere fino in fondo come funziona il mondo delle cose, possono accedere al disvelamento dei dispositivi usati grazie ai pannelli che accompagnano lo spettatore-agente lungo il percorso, spiegando molti dettagli della realizzazione di ogni opera, nonché i bozzetti, un groviglio di segni e disegni che sono il seme dell'idea artistica.  Noi qui cercheremo di prendere per mano il lettore, con l'intento di mostrare il lato più poetico e suggestivo, meno tecnico o meccanico che segna questa 'autobiografia in opera'. La mostra richiede un certo impegno mentale e resistenza fisica. Lungo, purtroppo, sarà anche questo tentativo di anticiparne alcune immagini.

 

Si è usato prima il termine immersione non a caso: non tanto perché ogni ambiente richiede una comunione e un'integrazione totale del corpo con esso; pensiamo subito al videoambiente Il nuotatore (va troppo spesso a Heidelberg), allestito nel 1984 a Palazzo Fortuny di Venezia: una musica jazz introduce in un'atmosfera subacquea, verdeazzurra. Dodici monitor accostati ricreano la corsia di una piscina offerta allo sguardo in sezione laterale, che un nuotatore infaticabile percorre ad ampie bracciate, senza soluzione di continuità, da un monitor all'altro (12 sono anche le telecamere fissate a bordo piscina, sul filo d'acqua a riprendere il movimento continuo). Di tanto in tanto, un evento, uno tra un centinaio di possibili eventi, come l'affondare di un'ancora, una palla galleggiante o il tuffo di una 'sirena', irromperà in un solo monitor. L'evento che così casualmente accade rende di fatto lo spettatore testimone accidentale di qualcosa di irripetibile.  

 

Il nuotatore 

 

Le due stanze che seguono, hanno una funzione 'documentaria' e sono dedicate alle video installazioni storiche più interessanti, oltre una decina, che si possono sfogliare e riguardare a piacimento dalle postazioni dotate di cuffie, oppure seduti davanti al videoproiettore per assistere alle opere teatrali e musicali, dove naturalmente non mancano quelle presentate a Kassel per Documenta 8, nel 1987: La camera astratta, tinta e sfumata d'azzurro come un quadro di Rothko, rappresenta uno spazio intimo, atemporale e concettuale del soggetto, sopraffatto da immagini e ricordi memoriali, sensazioni amplificate, paure e ossessioni inconsce che emergono, come creature moltiplicate dal sogno. Un riaffiorare violento del corpo  in superficie dopo l'apnea – e Delfi (studio per suono, voce, video e buio). 

 

Si  giunge poi al Giardino delle cose, una videoambientazione per immagini a infrarossi creata per la XVIII Triennale di Milano, nel 1992. Dalla morbidezza e intimità del primo ambiente, entriamo in una stanza buia, luogo di contrasti: i video di un blu elettrico cobalto, offrono mani bianche che 'si prendono cura' delle cose che toccano. Come un cieco dà forma agli oggetti e li vede attraverso il tatto, anche qui gli oggetti, prima indistinti, prendono vita tra queste mani che li accarezzano. Il loro contorno si disfa una volta che l'attenzione della mano si allontana per ritirarsi nell'ombra. 

Entriamo forse così nel regno delle immagini engagées che stanno all'origine dell'attività che immagina il mondo: un potere immaginativo che si risveglia grazie all'interazione di quella mano col mondo delle cose, nella relazione della persona col mondo. Rintracciamo qui il pensiero di Bachelard per il quale, manipolando la materia, trasformeremmo anche noi stessi. E Novalis farebbe eco, ricordando il potere poietico dell'uomo: il contatto sprigiona sostanza

 

Giardino delle cose. 

 

Questa mano che agisce e trasforma è interpellata anche dai Tavoli (perché queste mani mi toccano), tra le più note videoambientazioniinterattive del gruppo, pensata per la Triennale milanese del 1995. I tavoli qui non sono sei, come da progetto originale, ma tre, di legno e disposti in una sala in penombra: su di essi sono proiettate immagini spoglie e domestiche, una donna sopìta, una candela, una tovaglia con una ciotola e del pane, delle mele: questa volta il riferimento pittorico è Cézanne, alle sue nature morte. Tutto appare calmo e silenzioso finché un colpo non si infrange sulla superficie: toccando l'immagine, essa reagisce, risponde e poco a poco, tocco dopo tocco, procede con la sua micronarrazione: la fiamma della bugie accende una corda, il fuoco divampa e bruciano fogli e libri; la donna si rigira come infastidita nel letto; la ciotola raccoglie gocce d'acqua che cadono regolarmente, probilmente da una fessura o da un rubinetto che perde; ad un tratto frutta e acqua si rovesciano, delle mani riordinano la tovaglia. L'opera che più di ogni altra – insieme alle Zattere dei sentimenti (Berlino, 2002), definite da Studio Azurro «A sentimental journey» un gesto di affetto e il suo naufragio, nell'impossibilità di compierlo – confrontano lo spettatore sul piano della corporeità versus virtualità.

 

Ritroviamo una distesa di corpi apparentemente immobili, sdraiati a terra, addormentati su un grande tappeto, indicato dagli stessi artisti come la cifra del nomadismo, luogo di incontro e raccoglimento: Coro, è un altro incredibile ambiente sensibile e reagente, allestito alla Mole Antonelliana nel 1995. Al passaggio che, inevitabilmente, calpesta donne e uomini indifesi, vestiti di bianco se non completamente nudi, a rappresentare «una nuova cosmografia di corpi inerti, metafora di una cosmogonia sottoposta ai piedi dei potenti» questi si scompongono e ricompongono in diverse pose, come in un puzzle di membra e stanco abbandono. E da questo regno tra la vita e il sonno si leva il coro di mormorii e voci che dà nome all'opera. 

 

Coro. 

 

La Pozzanghera, pensata per l'Arengario di Monza nel 2006, è espressamente dedicata ai bambini, ma il desiderio irresistibile muove tutto il corpo a saltarci dentro, come per infrangere un antico divieto. Un piccolo atto di ribellione e libertà che restituisce sulla sua superficie riverberante, suoni e colori. Un recente articolo mi ha anche ricordato che in ogni libro di Nabokov c'è una pozzanghera in cui si specchia qualcosa.  

E già si ode la musica che connota la videoinstallazione successiva: Tarocchi (2008), un esplicito hommage a  Fabrizio De André, parte della grande mostra dedicata al cantautore al Palazzo Ducale di Genova, nel 2008. A ognuno degli indimenticabili protagonisti delle sue ballate – Suzanne, Bocca di Rosa, Marinella, Nina, Angelina, Piero, Miché... il pescatore, un ottico, un chimico, una giudice e un matto... – è dedicato un trittico gigante di Tarocchi. 

 

Dalle opere più estetiche, ci avviciniamo gradualmente ai lavori più impegnati, da un punto di vista storico, politico, territoriale e sociale. Meditazioni Mediterraneo (in viaggio verso cinque paesaggi instabili) prende le mosse da una mostra «costruita attorno a grandi paesaggi 'instabili' che rappresentano in modo emblematico le tappe di un vero e proprio itinerario nei sensi e nei luoghi del Mediterraneo», che per Adonis è un divenire, una speranza, non solo una radice. Un luogo dove lo sguardo insegue la memoria, per configurare una geografia provvisoria ricchissima di popoli, razze, religioni e culture diverse, intessuta di gesti, segni, storie e miti che in comune hanno uno stesso mare verso cui volgere lo sguardo. 

 

Delle sette tappe di questo progetto (Marocco, Libia, Italia, Grecia, Francia, Siria e Spagna), l'abbondanza dei materiali raccolti in Siria permette a Studio Azzurro di realizzare una nuova videoinstallazione site-specific per questa occasione: Che memoria scricchiolante avremo, opera che indaga la profondità e i limiti della memoria, tramite un'operazione di lavorìo sul ricordo. Lì dove le immagini della storia sono ormai sedimentate e pian piano tendono a sbiadire, necessariamente assumono un'altra forma, sempre più simile ai desideri custoditi nel profondo delle anime. 

Grandi immagini di luoghi, strade, veicoli e abitazioni, di paesaggi, deserti, di occhi ieratici che prendono letterlamente vita, vengono proiettate su alcune mappe appena tratteggiate di Palmyra, Aleppo, Damascus, Homs, Raqqa e dell'isola Arwad, rendendole così imponenti scenari della Sala delle Otto Colonne, mentre musiche, suoni e rumori riempiono l'ambiente e riecheggiano in esso, per poi lasciare spazio a una voce narrante maschile che recita una lirica dolente e malinconica,  inutile dire attualissima:

 

Dietro alla finestra che si affaccia sul mondo, 

siede un uomo che cerca la propria memoria. 

 

Così si apre questa lunga poesia, Diario di un uomo dietro la finestra, di Khaled Soliman Alnassiry del 2011, palestinese nato a Damasco e rifugiato in Siria.

 

Nel piccolo Lucernario antistante la Sala delle Cariatidi, incontriamo un altro ambiente sensibile Dove va tutta 'sta gente? (2000). Figure azzurre videoproiettate corrono incontro allo spettatore con impeto e agitazione, e ripetutamente si trovano a cadere, scontrarsi, ad essere respinte da un'invisibile porta-parete, il confine tra mondo reale e virtuale, simbolo illusorio delle «solide barriere di una civiltà diversa e seducente che non prevede divisione di privilegi». La fine del percorso culmina naturalmente nella sala più suggestiva: tra gli stucchi, e gli specchi, Miracolo a Milano, è la grande videoinstallazione interattiva con specchi sensibili del 2016, il cui titolo cita apertamente l'omonimo film di De Sica-Zavattini, come anche lo ricorda nel suo declinare temi drammatici con un registro fantastico e lieve; i personaggi che abitano questa città spiccano il volo fin su nell'ovale celeste proiettato sul soffitto.

 

Miracolo a Milano.

 

Ma prima del salto, attraverso il dispositivoPortatori di storie, abbiamo la possibilità preziosa di ascoltare i loro racconti di vita quotidiana, le loro passioni, le abitudini e persino vizi e piccole confidenze. Avvicinandoci agli specchi, andiamo loro incontro senza però sapere chi incontreremo: piano piano appariranno casualmente le figure di donne e uomini, giovani e anziani, italiani e non, per raccontarci la città nascosta e i suoi margini: una città generosa, che presta cura e attenzione discreta a chi non ha né casa, né affetti, né mezzi di sostentamento. 

 

Il gioco di riflessi che ci invita ad avvicinarci e ad accogliere l'immagine della persona, che a sua volta ci viene incontro, genera un contatto emotivo, una partecipazione, una commozione (nella connotazione più etimologica della parola) che ci attraversa e trasforma. 

Si tratta di una chiamata individuale ad agire, a fare il primo passo, a 'uscire verso l'altro' nella benedizione dell'incontro, a compiere anche noi, ogni giorno, un piccolo miracolo di solidarietà. 

 

 

Molte delle opere e dei video citati, sono stati messi a disposizione (nel loro  allestimento originario) da Studio Azzurro sul loro sito o sul canale YouTube, che raccoglie una serie di playlist

 

 

STUDIO AZZURRO – immagini sensibili

Milano, PalazzoReale

fino al 4 settembre 2016.

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Palazzo Reale, Milano

Piccola storia di un teatro anticonformista

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Sottotitolo: 

Nel cuore dell’immensa Mosca, non lontano dalla stazione Kurskaja e dallo Zemljanoj Val, una delle vie più trafficate della città, si nasconde all’interno di un piccolo condominio il Teatr.doc. Una sede di questo tipo potrebbe far pensare a una piccola scena sperduta nel grigio e nello smog della città; in realtà, il Doc è stato nel presente secolo uno dei teatri più in vista a livello mediatico in tutta la Russia, con una propria estetica ben definita e una costante produzione di nuovi drammi.

 

Il Teatr.doc è infatti il principale promotore del “teatro di documentazione” russo, corrente sviluppatasi col volgere del nuovo millennio come fenomeno di importazione, dopo una serie di seminari in Russia del Royal Court Theatre britannico. I drammaturghi e registi russi furono infatti affascinati dal modo di scrivere pièces dei colleghi anglosassoni, i quali partivano da documenti reali riguardanti persone comuni. Da queste masterclass i registi Elena Gremina e Michail Ugarov trassero ispirazione per creare il Teatr.doc, che nacque nel 2002 e diede ben presto origine ad altri seminari e festival (come il Ljubimovka) che contribuirono ulteriormente a diffondere il non-fiction theatre (o verbatim theatre) in Russia. 

 

La differenza sostanziale, e il motivo per cui il teatro documentario ha avuto più successo in Russia che in altri paesi (compreso lo stesso Regno Unito), risiede nella situazione politica del Paese e nell’attenzione approfondita a gruppi o sottoculture solitamente ignorati nella tradizione teatrale nazionale. A fronte di una cultura ufficiale omologata, propagandata dallo Stato e dai media filo-governativi e fondamentalmente arenata su valori come patria, famiglia e religione, il verbatim theatre ha quindi tratto ispirazione per mostrare parti nascoste e ignorate della società. Si tratta di categorie trascurate o poco in vista, in alcuni casi anche malviste e ostracizzate, che a prima vista sembrano avere poco in comune l’una con l’altra: reclusi, soldati, senzatetto, omosessuali, utenti di forum online e così via.

 

Una tale attenzione alla realtà anche nei suoi aspetti più marginali impone un “filtro zero” anche del linguaggio. Il Teatr.doc è infatti il primo teatro russo a inserire in modo sistematico (quando ciò è necessario) il linguaggio scurrile (maternyj jazyk) all’interno di rappresentazioni teatrali. L’attenzione alla realtà ha permesso quindi un rinnovamento della lingua artistica del teatro, contribuendo a svecchiare una tradizione a lungo rimasta fossilizzata.


A permettere una maggiore libertà del Doc è anche il suo status di teatro privato: una rarità per la Russia, in cui la maggior parte dei teatri sono pubblici e sostenuti economicamente dallo Stato, alle cui direttive devono però spesso adeguarsi. I teatri privati infatti o non beneficiano affatto del budget statale, oppure ricevono dai fondi pubblici somme irrisorie per singoli progetti, che comunque non permettono loro di essere economicamente stabili. Tuttavia, grazie a questa particolarità il Teatr.doc è riuscito nel corso degli anni a portare in scena spettacoli originali all’interno del contesto russo, che scandalizzarono per i temi e il linguaggio utilizzato, come Zapoljarnaja pravda (Verità polare, 2006), su pazienti sieropositivi di una comunità siberiana di aiuto ad affetti da HIV, e Kislorod (Ossigeno, 2002), in cui sulla scena si trovavano rappresentanti della nuova gioventù russa, disagiata e dipendente da droghe, che della violenza faceva una vera e propria religione.

 

Nella quasi totalità dei successivi spettacoli, anche quando toccava temi ben noti all’opinione pubblica, il Teatr.doc ha continuato ad analizzare gli eventi tramite la prospettiva di persone comuni spesso poco visibili: due esempi lampanti sono Sentjabr’.doc (Settembre.doc, 2005) e Čas vosemnadcat’ (Un’ora e diciotto, 2010). Il primo, dedicato alla strage terroristica di Beslan del 2004 (quando, a causa dell’occupazione di una scuola dell’Ossezia del Nord da parte di separatisti ceceni persero la vita più di trecento persone), prende in esame il tragico evento attraverso le reazioni degli utenti di forum online russi. L’operazione non è esclusivamente drammaturgica, bensì più simile al lavoro di uno storico, un sociologo, uno psicanalista o un medico criminologo. Attraverso questo spettacolo-indagine viene messo a nudo il senso di identità sia russo che ceceno, in entrambi i casi spesso basato non su reali valori (dai commenti infatti ogni utente ha un’idea diversa di cosa voglia dire essere russo o ceceno), bensì sulla xenofobia che sfocia in un vero e proprio odio razziale. L’impatto dello spettacolo fu forte sia in patria che a livello internazionale: all’estero venne infatti tacciato di nazionalismo e razzismo al festival teatrale di Nancy in Francia, dove degli attivisti del luogo protestarono contro la messinscena consegnando volantini contro lo spettacolo (prima ancora che fosse rappresentato); al contrario, in Russia venne descritto come “antinazionalista” e animato da sentimenti pro-ceceni, per motivi assolutamente opposti a quelli rinfacciati all’estero. 

 

L’accento politico di Sentjabr’.doc, insieme all’analisi degli eventi attraverso la prospettiva di persone comuni e prive di visibilità, si ritrova anche in Čas vosemnadcat’, spettacolo dedicato alla morte dell’avvocato di opposizione Sergej Magnitskij, avvenuta in prigione il 16 novembre 2008. L’ora e diciotto minuti del titolo è infatti il tempo che l’avvocato trascorse in agonia prima di morire in carcere, privo di qualunque aiuto, dopo aver lanciato un allarme sul proprio stato di salute aggravato. Lo spettacolo rappresenta una sorta di processo immaginario (che mai ebbe luogo) a tutti i possibili responsabili della morte di Magnitskij: guardie del carcere, medici, infermieri, giudici, l’autista dell’ambulanza. Nessuno di essi aveva rilasciato dichiarazioni pubbliche sul decesso dell’avvocato; per questo, per costruire la loro difesa, il Teatr.doc si basò sui racconti di persone che li conoscevano, ipotizzando risposte alle domande del tribunale. A questo fanno eccezione solo le testimonianze di due persone: la madre della vittima, della quale viene riportato il j’accuse trasmesso dalla radio Echo Moskvy, e lo stesso Magnitskij, del cui diario vengono lette sulla scena alcune pagine. Per la prima volta il Doc assume, per esplicita ammissione del regista Ugarov, una posizione apertamente accusatoria da un punto di vista politico. È la recitazione a tradire il tono di opposizione della pièce: scarna, portata a un minimo di teatralità ma proprio per questo molto commossa, anche se non melodrammatica. Le caratteristiche dei personaggi sono stilizzate fino a renderli delle maschere. Il regista non condivide l’opinione che i colpevoli non siano persone singole con proprie responsabilità ma solo vittime del sistema: tutti i colpevoli della morte di Magnitskij, che come giustificazione portano quella di essere parte del sistema, sono presentati come esseri disumani e infelici, non semplicemente dei corrotti omertosi. Essi sono fantasmi di persone, di persone anche di buona educazione e cultura, ma che in definitiva persone non sono. 

 

L’avvicinamento pericoloso del Teatr.doc a temi strettamente politici non poteva che portare a conseguenze nefaste: dopo la première di Čas vosemnadcat’ i progetti promossi dal teatro smisero di ricevere ogni tipo di finanziamento pubblico. Gli eventi da quel momento hanno iniziato a succedersi in modo rapido, per quanto riguarda sia la situazione politica del Paese che le vicende dello stesso Teatr.doc: all’annuncio della terza candidatura di Putin nel 2011 seguirono numerose proteste, culminate il 6 maggio 2012 con la più grande manifestazione di opposizione politica nella storia russa a Piazza Bolotnaja (Mosca). Lo scorrere degli eventi è serrato, le proteste si susseguono una dopo l’altra, e nel febbraio 2012 le Pussy Riot si esibiscono in un’azione di protesta nella cattedrale del Cristo Salvatore, intonando una preghiera alla Madonna per liberare la Russia da Putin, per la quale vengono condannate a tre anni di reclusione.

 

 

Nello stesso mese al Teatr.doc viene presentato BerlusPutin, un altro spettacolo apertamente politico, che questa volta prende i toni della satira. Lo spettacolo è infatti un adattamento in chiave russa della commedia del 2003 di Dario Fo L’anomalo bicefalo: nell’originale di Fo, durante un incontro fra Putin e Berlusconi in Sardegna, il Presidente russo veniva assassinato da dei terroristi e il Cavaliere ferito gravemente, e curato trapiantando parti del cervello dell’amico ormai deceduto. Berlusconi si svegliava quindi immemore di se stesso, ricordando unicamente dettagli della vita di Putin. In BerlusPutin la trama viene ribaltata: durante un incontro a Soči, Berlusconi viene ucciso e il Presidente russo gravemente ferito. Il trapianto di cervello questa volta porta Putin a possedere i ricordi dell’amico Silvio: ad un certo punto, in preda a una crisi di identità, il convalescente Vladimir inizia a parlare di mafia, utilizzando anche termini del turpiloquio italiano.

 

L’unione dei due cervelli è un espediente per ridicolizzare Putin e per accentuare caratteristiche del suo modo di essere non così lontane da quelle di Berlusconi. Inoltre, l’abile gioco comico permette di accusarlo indirettamente di crimini imputati al Cavaliere, come l’aver contribuito a rendere il proprio paese uno “Stato di mafia”. La comicità è espressa anche dalle caratteristiche fisiche dei personaggi: ove nell’originale di Fo veniva ridicolizzata l’ossessione per l’altezza di Berlusconi, in BerlusPutin il Presidente russo viene mostrato alla fine della commedia con addosso una maschera rugosa dell’elfo Dobby di Harry Potter, poiché il botox si era riversato fuori attraverso delle crepe sul volto. La satira politica va quindi di pari passo con lo sberleffo giullaresco e carnevalesco, che intende deridere Putin anche per la sua ossessione per l’immagine e la giovinezza che lo ha caratterizzato negli ultimi anni. 

 

Lo spettacolo si inserisce inoltre nel più ampio contesto della politica russa degli ultimi anni, in quanto venne rappresentato anche in un campo mobile degli attivisti di opposizione, in condizioni quasi di assedio, ai Čistye Prudy di Mosca.

 

L’affiliazione del Doc alle proteste non poteva che provocare risvolti negativi per il teatro: nell’ottobre 2014 la direttrice Elena Gremina annunciò che il Teatr.doc era stato inaspettatamente privato della propria sede dal Dipartimento dei beni immobili di Mosca, che annullò senza una spiegazione precisa il contratto d’affitto in quanto “invalido”. Il fatto parve a molti sospetto, in quanto il teatro aveva sempre pagato l’affitto e ogni altra tassa, oltre che rispettato le regole di sicurezza, durante gli anni di permanenza nella vecchia sede. Tuttavia, il Doc fu molto prudente e non lanciò alcun tipo di accusa esplicita.

 

Nel gennaio 2015 il Teatr.doc trovò una nuova sistemazione nel salone Rasguljaj, dove continuò la propria attività e riprese a lanciare nuovi spettacoli, fra cui Bolotnoe delo (L’affare di piazza Bolotnaja), dedicato alle proteste di Piazza Bolotnaja e uscito esattamente tre anni dopo la famigerata manifestazione, il 6 maggio 2015. Il dramma, basato su interviste ai familiari di prigionieri politici della protesta, provocò una notevole risonanza mediatica in quanto la polizia si recò presso il teatro ad assistere alle prove dello spettacolo e alla première stessa. Bolotnoe delo, al contario di altre pièce politiche del Doc, è caratterizzata da un “programma positivo” a scapito della pars destruens: focalizzandosi sulle vite dei parenti dei carcerati, la dimensione privata è contrapposta a quella sociale, la casa e la famiglia allo Stato disumanizzato, che nello spettacolo passa sullo sfondo. Sulla scena i quattro attori interpretano i parenti dei prigionieri, recitando ognuno più parti, sia maschili che femminili. I loro ragazzi sono già da tre anni dietro alle sbarre e ormai i parenti hanno raggiunto una consuetudine di vita pur in queste circostanze difficili. La distanza temporale consente anche una distanza emotiva dei personaggi, che ora parlano della prigionia, del processo e della vita dei propri cari in modo accorato ma senza eccessiva commozione. L’esperienza della prigione diventa per i prigionieri una sorta di prova di umanità, e contribuisce a creare una “rete sottoculturale” in cui aiutarsi l’un l’altro e unirsi ancora di più di quando erano insieme in piazza a protestare. L’ingiustizia non può essere cambiata: quello che muta attraverso l’esperienza del carcere è lo sguardo sul mondo, che sviluppa un senso della comunità che non c’era nella società repressiva che li ha condannati. 

 

Alla première di Bolotnoe delo non fu la recitazione attoriale a essere in primo piano, quanto il fatto che gli attori avessero recitato davanti a spettatori fra cui erano presenti gli stessi personaggi rappresentati dalla pièce. Oltre ai parenti delle vittime, alle prove si presentò anche un intruso: un’intera pattuglia della polizia che aveva sorvegliato una prova generale dello spettacolo pochi giorni prima. 

 

La visita indesiderata non fu che l’inizio di nuovi sconvolgimenti per il Doc, la cui nuova sede “definitiva” si rivelò provvisoria: il teatro venne nuovamente sfrattato alla fine del mese di maggio 2015 e la direttrice convocata dalla procura di Mosca. Al contrario di quanto accaduto nell’ottobre 2014, i membri del Teatr.doc furono molto più espliciti nell’esprimere la propria opinione sulle cause dello sfratto: il direttore artistico Michail Ugarov affermò esplicitamente che in modo indubbio la decisione di annullare il contratto d’affitto fosse stata frutto di pressioni dall’alto; secondo Gremina a far accrescere nuovamente l’interesse nei confronti del teatro fu la messinscena di Bolotnoe delo, che istigò ancora maggiormente la procura nella propria intenione di far chiudere il teatro. Infatti, secondo Gremina, non riuscendo a eliminare il Doc privandolo dei finanziamenti pubblici, i persecutori avevano iniziato a utilizzare mezzi giuridici per mettere il teatro in difficoltà. 

 

Dal giugno 2015 il Teatr.doc si trova quindi nella nuova sede sul Malyj Kazennyj Pereulok, dove è tornato subito in funzione portando in scena una serie di nuovi spettacoli. Quasi ad alludere agli eventi recenti, una delle première del Doc nella nuova sede è stato lo spettacolo di Gremina Kratkaja istorija russkogo inakomislja (Piccola storia di un anticonformista russo). Nonostante l’eloquente titolo, che potrebbe far pensare al racconto della vita di un altro oppositore politico contemporaneo, la pièce si concentra sul passato: gli anticonformisti non sono uno ma quattro, e coprono diverse epoche della storia russa, dallo scisma del secolo XVII all’Unione Sovietica. Dall’arciprete Avvakum morto per non abiurare alla propria fede, passando per il giornalista Novikov condannato a 15 anni di prigionia per aver fatto satira sull’Imperatrice Caterina II, si arriva fino alla lettera a Stalin di Nikolaj Bucharin, il quale, assoldato in un GULag come guardia per controllare i “nemici del popolo”, si era rifiutato di assolvere al proprio ruolo per non andare contro le proprie convinzioni etiche. 

 

Il nucleo ideologico della pièceè tuttavia contenuto nel prologo, in cui un attore cerca di convincere il pubblico che i propri pantaloni bianchi siano in realtà neri. Interrogati sul colore, gli spettatori rispondono quindi che i pantaloni sono neri L’introduzione, che inizialmente pare poco chiara, viene ripresa e chiarita in una parte successiva dello spettacolo: durante l’atto dedicato ai fratelli rivoluzionari Bestužev, rinchiusi nella fortezza di San Pietro e Paolo a San Pietroburgo per attività sovversive, si mostra come i due abbiano inventato un vero e proprio alfabeto basato su colpi sul muro in rapida successione, improntato alla massima chiarezza e semplificazione per poter consentire una comunicazione veloce e senza incomprensioni. Dalla storia di questo alfabeto si sviluppa un interludio in cui gli attori battono i pugni sui muri, urlando “bianco è bianco” e “nero è nero”: l’imposizione altrui di una lingua o di un modo di pensare viene sostituita dalla chiarezza ed evidenza della propria lingua e del proprio pensiero. I prigionieri rifiutano così di conformarsi a schemi prestabiliti dall’alto, pur vivendo “al buio” in un carcere, in cui tutti i colori potrebbero confondersi fra di loro. Questo episodio agisce in modo potente sul pubblico, che interrogato nuovamente sul colore dei pantaloni, questa volta risponde “nero”. 

 

 

Attraversando le diverse epoche questa storia di anticonformisti russi arriva idealmente fino al presente del Teatr.doc: un collettivo che, rifiutando una fede (religiosa o politica) precostituita e basata sul conformismo, e pagandone con limitazioni alla propria libertà, tenta di convincere gli spettatori che le risposte alle domande sono nelle proprie convinzioni personali, basate sull’amore per la libertà e l’uguaglianza.

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Sapere, fare e saper fare: Guido Marangoni

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Tra gli antesignani del nostro design nazionale va annoverato anche il critico d'arte e giornalista Guido Marangoni (1872-1941), conservatore del Castello Sforzesco, socio onorario delle Accademie di Brera e di Venezia, sovrintendente dei musei Civici di Milano, deputato socialista alla Camera in tre legislature, dal 1909 al 1921, che nel 1928 fondò e diresse le riviste “Pagine d’Arte” e “La Casa bella”, la cui testata nel 1933 muterà in “Casabella”, per volontà di Giuseppe Pagano Pogatschnig, suo nuovo direttore.

Il Marangoni, infatti, dopo aver dato vita, nel 1919, a Milano, nella sede dell’Umanitaria, alla I Esposizione Regionale Lombarda di Arte Decorativa (allora il design si chiamava ancora così, dal termine francese décorer, traducibile con: concernente l'arredo), nel 1923 promuoverà l’istituzione delle Biennali di Arte Decorativa che hanno dato impulso a questa disciplina permettendole di svilupparsi e di arricchirsi nel confronto internazionale. Delle prime tre edizioni, tenutesi nella Villa Reale di Monza, appena ceduta dai Savoia al demanio statale, sarà anche il perspicace direttore artistico.

 

Giovanni Guerrini, Manifesti della Prima e della Seconda Biennale delle Arti Decorative di Monza, 1923, 1925. Marcello Nizzoli, manifesto della Terza Biennale delle Arti Decorative di Monza, 1927.

 


Unitamente al CAMMU, Consorzio autonomo "Comune di Milano-Comune di Monza-Società Umanitaria", l'anno precedente, insieme ad Augusto Osimo e a Eugenio Quadri, accanto alle mostre Biennali, il nostro aveva già promosso l'Università delle Arti Decorative, divenuta in seguito Istituto Superiore per le Industrie Artistiche (ISIA), una scuola-laboratorio inaugurata il 12 novembre nell'ala meridionale della villa Reale del Piermarini e aperta a studenti di provenienza europea (vi erano annessi anche un Convitto e un Pensionato).

 

Veduta aerea dell’ala sud della Villa Reale di Monza, dove era ospitata l’Università delle Arti Decorative.

 

Nel precipuo spirito dell’Umanitaria, il cui motto era: “Sapere, fare e saper fare”, la nuova scuola veniva intesa quale: 

«centro propulsore, confortatore, creatore di attività volte al lavorochiamato a dare segno di bellezza alle cose della vita, anche alle più umili (davvero un’egregia anticipazione della futura definizione di design!), e anche per quelli che finora furono e sono i più umili e che non devono essere privi della gioia della bellezza.» 

Così scriveva Augusto Osimo, Segretario Generale dell’Umanitaria, nel volantino di propaganda della nuova scuola indirizzato ad enti, a aziende e a associazioni. E concludeva, rivolgendosi agli industriali e agli amministratori pubblici: 

 

«industriali che non sanno spesso dove trovare operai o dirigenti tecnici specialisti dovrebbero capire che questa Scuola è fatta per loro e dovrebbero interessarsene al massimo grado come di una Scuola a tutti loro comune e di un comune gabinetto sperimentale. Amministratori della cosa pubblica dovrebbero saper vedere quale fonte d'incremento economico, di elevamento e di pacificazione sociale è racchiusa con queste scuole considerate nel doppio aspetto degli individui che in esse vi studiano e del miglioramento ch’esse apportano alla produzione industriale del paese».

Le menti illuminate dei fondatori dell’Università delle Arti Decorative sapevano molto bene che la possibilità di riscatto sociale per le classi meno abbienti era insita soprattutto nella loro istruzione, così come non ignoravano quanto una didattica specifica nel campo delle Arti Applicate fosse assolutamente necessaria alla formazione tanto delle maestranze addette, quanto a quella dei progettisti, che di lì a breve avrebbero assunto la denominazione ben più moderna di designers.

 

Ad insegnare all’ISIA di Monza, sotto la direzione di Guido Balsamo Stella, furono reclutati i più bei nomi della cultura artistica italiana del tempo: da Raffaele De Grada, che vi insegnava pittura, al maestro del ferro battuto Alessandro Mazzucotelli; dallo storico dell'arte Matteo Marangoni, allo scultore Arturo Martini; dal saggista Edoardo Persico, al maestro orafo Natale Vermi, ai pittori Aldo Salvadori, Pio Semeghini, Mario Vellani Marchi e Ugo Zovetti. Quest’ultimo, insegnante del corso di decorazione, si era formato presso la Kunstgewerbeschule di Vienna con Josef Hoffmann e Koloman Moser (fondatori delle Wiener Werkstätte) e, prima di giungere a Monza era stato assistente dello stesso Moser e membro del Werkbund austriaco. A lui si devono molte delle aperture internazionali di questa scuola. Quando poi, nel 1932, a Stella succedette Elio Palazzo, vi chiamò ad insegnare: Marino Marini, Marcello Nizzoli, Giuseppe Pagano Pogatschnig, Agnoldomenico Pica e Raffaello Giolli.

 

Se gli industriali italiani d’allora non avessero mancato l’appuntamento con la storia, per la levatura culturale dei suoi insegnanti e per le straordinarie doti dei suoi allievi (molti dei quali saranno protagonisti della nascita del design italiano), l’ISIA di Monza avrebbe davvero potuto diventare il Bauhaus italiano. 

 

Al Marangoni si deve anche la pubblicazione, tra il 1925 e il 1928, dell’“Enciclopedia delle Moderne Arti Decorative italiane”, un’opera in otto volumi, inizialmente edita a Milano da Ceschina e successivamente a Torino dalla Utet, concepita come un vero e proprio prontuario sui diversi tipi di produzione, dai vetri ai tessuti, dal legno al ferro battuto, dalla ceramica all’oreficeria, che per molto tempo fungerà anche da manuale della nuova disciplina sia nelle scuole d’arte applicata che nelle botteghe artigiane, non esclusa quella di mio nonno, la cui copia, gelosamente custodita da mio padre, mi è spesso occorso di sfogliare con curiosità fin da bambina.

 

La vita dell'ISIA di Monza durò purtroppo soltanto ventuno anni; la scuola venne infatti chiusa nel 1943 per mancanza di fondi. Le Biennali, invece, divenute Triennali nel 1930, avevano già lasciato il capoluogo brianteo nel 1933 per trasferirsi a Milano nel Palazzo dell’Arte, appositamente costruito da Giovanni Muzio, dove hanno continuato a scrivere pagine importanti della storia del design e dell'architettura non solamente italiane.

 

ISIA Monza, Aula di pittura murale. Foto storica © Musei Civici di Monza. 

 

Star molto discussa della I Biennale di Arte Decorativa è stato Fortunato Depero (1892-1960) che con la sua “Sala futurista” e con quella per la sezione del Trentino, riuscì a catalizzare, in positivo e in negativo, l’attenzione del pubblico e della critica. Sebbene l’avventura futurista si fosse conclusa, annientata dalla Prima guerra mondiale, alla quale i suoi membri avevano pure inneggiano, gli epigoni deperiani del Secondo Futurismo costituiscono un interessante ibrido fra l’invito alla modernità di Marinetti e gli influssi dell’Art Déco, di cui l’artista di Rovereto finì per essere un originalissimo rappresentante. Depero allestì a Monza una sorta di wunderkammer ludica, scanzonata e persino irriverente che costituisce la premessa di quella che sarà poi “La Casa del Mago” di Rovereto,  ovvero la sua casa-museo, da lui personalmente creata nel 1957, al rientro dal suo lungo soggiorno americano, e recentemente restaurata dal MART in occasione del centesimo anniversario del Futurismo.

 

Ma alla Prima Biennale era presente, se pure in sordina, anche Gio Ponti (1891-1979), astro nascente dell’architettura italiana alla sua prima uscita pubblica. Reduce dall’aver combattuto nella grande guerra, si era da poco laureato al Politecnico di Milano ed era appena stato nominato direttore artistico della Manifattura di Doccia Richard-Ginori, della quale non curava soltanto i progetti ma anche le fasi di produzione e di commercializzazione. Come i grandi maestri della classicità ai quali si ispirava aveva messo a punto anche un colore, ancora oggi denominato ‘blu Ponti’ (come non riandare con la memoria al mitico blu di Duccio?), in due diverse tonalità, più chiara e più scura, per le sue raffinatissime ceramiche che facevano bella mostra di sé alla rassegna monzese.

Se la sala futurista di Fortunato Depero era dominata da una palese ironia, quella più sobria di Gio Ponti non era scevra di un sottile divertissement: nei suoi labirinti, ad esempio, gli angeli portano una sacca da golf e sui davanzali delle finestre del vaso Prospettica compaiono, sapientemente ritmati, solidi geometrici, coppe, anfore e tutto un armamentario di chiara derivazione classica ma per nulla aulico, anzi da lui reso domestico e a momenti confidenziale. Per non dire della levità quasi fiabesca delle sue donne che galleggiano sulle nubi, o di quelle sospese su architetture classiche, o ancora delle barche che veleggiano su mari agitati da onde sinuose e avvolgenti. E poi ad animare le sue ceramiche sono animali in corsa, acrobati, clown e pierrot. In questa frase da lui scritta alla figlia Lisa è racchiusa la cifra della sua leggerezza, vera essenza della sua poetica: «Ciao, cara Lisa, gli acrobati ci insegnano che tutto è immaginabile e possibile, al di là dei limiti, ma con lietezza, forza, coraggio e giovinezza, immaginazione, bontà.» 

 

I protagonisti di queste due sale della rassegna monzese del 1923 rappresentavano di fatto due delle tre differenti anime della situazione artistica italiana d’allora (l’altra era la Metafisica, per sua stessa definizione indifferente al dibattito sulla creazione di oggetti d’uso) e finirono per ignorarsi a vicenda, così come accadrà anche di lì a due anni a Parigi, alla Exposition International des Arts Décoratifs et Industriels Modernes dove si fronteggeranno, pure lì non curandosi gli uni degli altri ma riscuotendo unanimi consensi, Balla, Depero e Prampolini con la loro sala futurista e Gio Ponti con la sua sala di ceramiche neoclassiche per Richard-Ginori, vincitrici assolute dell’ambito Grand Prix.

 

In alto: Sala Futurista e Sala del Trentino di Fortunato Depero alla I Mostra Biennale Internazionale delle Arti Decorative, 1923. In basso, ceramiche di Gio Ponti per Manifattura di Doccia Richard-Ginori: Vaso orcino Prospettica, 1923; Grande vaso Donne su nubi, 1923; Vaso Donatella su corde, 1927.

 

Depero tornerà a Monza nel 1927 in occasione della III Biennale di Arte decorativa, dove allestirà il Padiglione del Libro per gli editori Bestetti-Tumminelli e Treves, un’architettura da lui stesso definita “tipografica" la cui forma era imitativa degli oggetti che ospitava al proprio interno. Ed ecco allora grandi lettere tridimensionali sovrapporsi in forma di totem come pile di libri e altrove comporsi generando spazi, in un lettering tridimensionale evocativo dei caratteri mobili dei tipografi. Questo suo sarà l’unico approccio all’architettura, mentre Gio Ponti vi si dedicherà con sempre maggiore successo, soprattutto a partire dal 1933, quando le Biennali, divenute già Triennali, si trasferiranno a Milano: della V sarà lui l’assoluto protagonista.

 

In alto: Terza Biennale Internazionale delle Arti Decorative di Monza, 1927: Fortunato Depero, Architettura tipografica, il padiglione del Libro per la Casa Editrice Bestetti-Tuminelli-Treves; l‘artista accanto a uno dei suoi totem. In basso: due viste della maquette del padiglione di Depero alla Terza Biennale di Monza; maquette dello stesso padiglione realizzata in legno di cedro da Pierluigi Ghianda nel 1978. 

 

Ma alle Biennali di Monza non furono esposte soltanto le ceramiche di Ponti per Richard Ginori. Accanto a quelle di Guido Andlovitz per la S.C.I.  (Società Ceramiche Italiane) di Laveno, c’erano anche quelle dell’esordiente Lenci (acronimo di Ludus Est Nobis Constanter Industria). Fondata a Torino nel 1919 da Elena König e dal marito Enrico Scavini come ditta specializzata nella produzione di giocattoli in legno e divenuta poi famosa nel mondo per le bambole e per gli arazzi in panno colorato (pannolenci), dal 1927 esordirà anche nel campo della ceramica artistica. Si specializzerà nella produzione di terraglie smaltate e invetriate di ineguagliabile raffinatezza tecnica e di eccezionale qualità pittorica. Questa nuova attività aveva preso vita dal desiderio della König di tradurre in ceramica le sue famose bambole di panno.

 

Sarà così che nasceranno quelle piccole figure femminili eleganti e altamente decorative che incontreranno da subito il gusto del pubblico borghese decretando anche in questo campo il successo del brand torinese. Accanto a queste figurine, rappresentative del prototipo dell’adolescente e della donna contemporanea, sportiva e smaliziata, mutuata direttamente dall’immaginario cinematografico e pubblicitario (specialmente quelle di Sandro Vacchetti, direttore dell’azienda fino al 1934, quando, lasciatala, aprirà una propria manifattura ceramica, la EsseVi che diverrà altrettanto famosa) la Lenci annovera anche una produzione più colta, affine alle tendenze della contemporanea art déco, dell’orientalismo, delle ricerche cubiste e futuriste resa possibile dalla collaborazione con pittori, scultori e grafici quali: Mario Sturani, Giovanni e Ines Grande, Elena Scavini, Felice Tosalli, Gigi Chessa, Abele Jacopi, Nillo Beltrami, Claudia Formica, Giulio Da Milano e il già ricordato Sandro Vacchetti.

 

In alto, da sinistra: per SCI Laveno, Guido Andlovitz, Piatto del Servizio Monza 99, Le bellezze del Lago Maggiore, 1927. Per Manifattura Lenci: Abele Jacopi, Il grattacielo. Ultimo tocco; Helen König Scavini, Colpo di vento; Helen König Scavini, Al caffè. Per EsseVi: Sandro Vacchetti, Istantanea veneziana. In basso da sinistra, per Manifattura Lenci: Gigi Chessa, Torso che si pettina (versione bianca); Mario Sturani, Vaso maschera; Giovanni Grande, Antilope. 

 

"Il design prima del design. Guido Marangoni e le Biennali di Monza 1923-1927", è il titolo della mostra allestita alla Villa Reale di Monza dalla Triennale Design Museum, nell’ambito del 21st Century Design After Design, XXI Esposizione Internazionale della Triennale di Milano e aperta dal 12 giugno all’11 settembre 2016, curata da Renato Besana con l'allestimento di Lorenzo Damiani. Vi è presentata una selezione di oggetti degli Anni Venti, suddivisi secondo la partizione attuata dal Marangoni nella sua Enciclopedia delle Arti Decorative: il mobile italiano contemporaneo; le arti del fuoco: ceramica, vetri, vetrate; l’oreficeria; il ferro battuto. 

 

La possibilità di ammirarli, unitamente ai cataloghi delle tre Biennali e ad alcuni volumi storici, tra cui le annate della rivista “Le Arti Decorative”, anch’essa fondata dal Marangoni, costituisce un’ottima occasione per visitare la mostra riappropriandoci così di una bella pagina della nostra storia e rendendo al contempo omaggio a quella di un italiano progressista e anticipatore del futuro. 

 

A lui si deve pure, infatti, quand’era deputato del Regno d’Italia, durante la XXV Legislatura (1 dicembre 1919 - 7 aprile 1921) un Progetto di legge "Per lo scioglimento del matrimonio" (Atto C.471), firmato purtroppo soltanto da lui e dall’onorevole Costantino Lazzari, progetto di legge che, ovviamente, non arrivò mai all’esame della Camera e per la cui trasformazione in legge dello Stato si dovranno attendere altri 50 e più anni e, ovviamente, altri presentatori.                                         

Ma questa è un’altra storia.

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Che cosa sognano gli algoritmi

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In quanto funzionano come puri e semplici processi automatici, gli algoritmi danno spesso risultati statistici imperfetti, stupidi o scioccanti. Se, quando si digita su Google il nome di certe personalità, il motore di ricerca a volte suggerisce di aggiungerci «ebreo», è perché molti internauti lo hanno già fatto. Quando, il 1° gennaio, Facebook propone agli utenti un riassunto illustrato del loro anno, l’algoritmo seleziona le pubblicazioni che hanno suscitato il maggior numero di interazioni con gli amici, anche a costo di mettere in risalto la morte di una persona cara. Gli algoritmi seguono le loro procedure stupidamente e mancano tanto più di tatto e di senso morale in quanto, limitandosi a calcolare tracce di azioni, fanno sparire le categorie che potrebbero impedire loro di tener conto di tale o tal altro risultato. I nuovi calcolatori aspirano a essere il riflesso idiota di una regolarità statistica. 

 

Latanya Sweeney, una ricercatrice in informatica afroamericana, ha notato che, quando digitava il suo nome nel motore di ricerca di Google, vedeva comparire la pubblicità «Latanya Sweeney, arrestata?». Questa pubblicità propone un servizio di consultazione on line, instantcheckmate.com, che permette, tra altre cose, di sapere se le persone abbiano la fedina penale sporca. Ora, il nome dei suoi colleghi bianchi non veniva associato allo stesso tipo di pubblicità, ma piuttosto a proposte commerciali di vestiti da sposa o di rimpatriate con amici d’infanzia. 

Il sistema pubblicitario di Google è discriminatorio? Usa uno schedario che divide le categorie «Bianchi» e «Neri»? Grazie a un’indagine di retro-ingegneria sistematica su un gran numero di richieste, Latanya Sweeney ha mostrato che l’algoritmo non ha bisogno di avere un’intenzione discriminatoria per produrre quel genere di effetti discriminatori. Non contiene norme che gli chiedono di individuare le persone nere e le persone bianche. Si accontenta di lasciar fare alle regolarità statistiche che dicono che cognomi e nomi di persone nere sono statisticamente più spesso legati a clic verso ricerche sulle fedine penali. Lasciato a se stesso, il calcolatore si basa sui comportamenti degli altri internauti e contribuisce, «innocentemente», se così si può dire, alla riproduzione della struttura sociale, delle disparità e delle discriminazioni. 

 

Dominique Cardon.

 

L’individualizzazione dei calcoli, nei grandi data base, produce categorizzazioni senza aver l’aria di farlo. Negli Stati Uniti, il «fico score» misura, per ogni individuo, i rischi che presenta rispetto al credito al consumo. Se è vero che questo programma è pubblico, molti altri registrano e confrontano, nella più grande opacità, dei dati concernenti il profilo delle famiglie, l’indebitamento, il consumo, la situazione bancaria o giudiziale. Su tale questione, le legislazioni nazionali sono più o meno tolleranti, ma dappertutto si sviluppa il mercato dei dati tra imprese che si rivendono o si scambiano le informazioni. Tuttavia, incrociando informazioni legali sugli individui, è possibile fare predizioni su certi loro attributi, come la sessualità, la religione o le opinioni politiche, che non è consentito schedare. 

 

Non senza molte approssimazioni e molti errori, il confronto delle informazioni personali permette di indovinare nuove informazioni. L’ispezione dei dati (data mining) negli schedari delle relazioni coi clienti permette di organizzare i profili producendo discretamente categorie costruite a partire dal mero interesse del proprietario dei dati: i clienti interessanti vengono separati da quelli che non lo sono, quelli fedeli da quelli non fedeli, i «nuovi potenziali clienti» sono ambiti ecc. Queste vecchie pratiche stanno ampliandosi il perimetro attraverso l’interconnessione, effettuata dalle imprese, tra i data base dei clienti e le tracce che si possono estrapolare dai loro comportamenti sul web. 

Le tecniche di dynamic pricing propongono di differenziare le tariffe in funzione dei profili, e si sospetta che alcuni servizi penalizzino i loro clienti più fedeli, senza alternative o spinti dall’urgenza, proponendo loro prezzi più alti. Tutti quelli giudicati male nei data base, ossia quelli senza reddito, senza potenziale, indebitati o con una cronologia negativa, spariscono dal gioco delle opportunità: non accederanno a un buon tasso di credito, non beneficeranno di buoni sconto, non riceveranno le informazioni ecc. In maniera assai conservatrice, il calcolo algoritmico riproduce l’ordine sociale aggiungendo i propri verdetti alle disparità e alle discriminazioni della società: quelli giudicati male saranno serviti male e così il giudizio su di loro diventerà ancora più negativo. 

 

Procedendo automaticamente, i calcolatori non hanno più bisogno di categorie per centrare i profili. In compenso, coloro che manipolano i data base nel mondo del marketing hanno ancora bisogno di categorie per dare senso alla loro attività e resistere ai rischi che l’automatizzazione fa pesare sul loro mestiere. Disponendo di dati sempre più numerosi, i professionisti del data mining organizzano gli individui in segmenti sempre più fini senza mai informarli: «cliente non affidabile», «elevate spese mediche», «reddito in declino», «guida pericolosa», «casalingo avaro». La meticolosa precisione dei micro-segmenti favorisce la moltiplicazione di piccole nicchie sovrapposte che ritagliano la società con l’unico piano globale di agire efficacemente e «commercialmente» su ognuna di esse. 

Il servizio video di Netflix ha così creato quasi 77.000 micro-generi per classificare i gusti degli utenti in una serie di caselle dalla precisione surrealistica. «Drammi sentimentali europei degli anni Settanta con paesaggi e tramonti», «Commedie post-apocalittiche sull’amicizia», «Thriller violenti sui gatti per bambini di 8-10 anni» ecc. Le categorie oggi prodotte dai big data non hanno l’obiettivo di essere condivise dagli individui al fine di costruire categorie di identificazione che offrano alla società un quadro d’insieme. Esse ritagliano un infinito mosaico di bersagli per precisare il tiro delle campagne marketing. Non c’è bisogno che coloro che vengono identificati nella nicchia lo sappiano. 

 

Del resto, non è più necessario conoscere gli individui. L’ombra che porta la traccia dei loro comportamenti, nei loro programmi informatici, è sufficiente a nutrire i calcoli e a riconoscere i comportamenti similari. Il bersaglio del tracking non è tanto l’individuo o il singolo. Non è poi tanto necessario che coloro che identifica abbiano una psicologia, una storia, una posizione sociale, dei progetti o dei desideri. Raccolta disparata di tracce di attività sconnesse che rivelano in modo caleidoscopico delle micro-sfaccettature identitarie, l’individuo calcolato non è altro che un flusso. Esso è trasparente, e viene estrapolato dalle sue stesse tracce. 

Abituati a denunciare l’egemonia dei media tradizionali, i critici degli algoritmi, questi nuovi gatekeepers, li accusano di censurare e deformare i messaggi in nome degli interessi commerciali o dell’ideologia delle ditte americane che li concepiscono. Questa critica non è infondata, come testimonia il moralismo di Apple o di Facebook, che eliminano qualsiasi tipo di nudità dai loro servizi. Tuttavia è probabile che non afferri alla radice il cambiamento in corso nel mondo algoritmico, e che riporti, su un mondo nuovo, una vecchia accusa. 

 

Allineando i loro calcoli personalizzati sui comportamenti degli internauti, le piattaforme aggiustano i propri interessi economici in modo da soddisfare l’utente. Forse il calcolo algoritmico esercita il suo dominio proprio attraverso questo modo di confermare l’ordine sociale riportando gli individui ai loro comportamenti passati. Sostiene di offrire agli individui i mezzi per autogovernarsi; ma, riducendoli al loro mero comportamento, li destina a riprodurre automaticamente la società e se stessi. Il probabile si arroga il diritto di prelazione sul possibile. 

 

Paradossalmente, è proprio nel momento in cui gli internauti si affezionano, attraverso prefigurazioni, ambizioni e progetti, a pensarsi quali soggetti autonomi e finalmente liberi dalle ingiunzioni dei prescrittori tradizionali, che i calcoli algoritmici li riacciuffano, dal di sotto, per così dire, conformando i loro desideri alla regolarità delle loro pratiche. 

 

 

 

Dominique Cardon sarà presente sabato 3 settembre alle ore 12 nell’ambito della XIII edizione del Festival della Mente, promosso dalla Fondazione Carispezia e dal Comune di Sarzana. (www.festivaldellamente.it).

Il libroè disponibile nelle librerie a partire da oggi.

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Le nostre vite nel tempo dei big data

I repertori dei matti

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Qualche mese fa ero a Genova a fare un seminario di letteratura, e a me a Genova, non so perché, i genovesi, hanno un modo di parlare, mi sembrano tutti un po’ squinternati e poi, tra l’altro, quando vado a Genova mi vien sempre in mente un romanzo di Matteo Galliazzo che si doveva intitolare Il rutto della pianta carnivora, bellissimo titolo, secondo me, che però poi gliel’hanno cambiato è diventato Il mondo è parcheggiato in discesa, che  mi sembra un titolo bello anche quello, e è un romanzo che si svolge a Genova e si racconta che i genovesi, quando hanno aperto il MacDonald’s, il ristorante, ai ragazzi che stavano alle casse gli avevan dato le istruzioni che danno a tutti i ragazzi che stanno a tutte le casse di tutti i MacDonald’s del mondo cioè di sorridere, e i genovesi, racconta Galliazzo, questa cosa che i ragazzi che stavano alle casse del MacDonald’s sorridevano non è che gli piaceva tantissimo, ai genovesi: «Ben ma, – pensavano i genovesi, – perché sorridono, prendono per il culo?».

 

Allora sembra che dalla sede centrale del MacDonald’s, che dev’essere negli Stati Uniti vicino a Chicago, per la  prima volta nella storia del MacDonald’s abbiano dato il permesso agli impiegati del MacDonald’s di Genova di non rispettare l’istruzione di sorridere ai clienti, anzi, di seguirne una nuova fatta esclusivamente per loro, di non sorridere, ai clienti.

 

Allora forse anche per quello, quando facevo quel seminario di scrittura per cui ero andato a Genova, uno dei testi che ho usato nel seminario è stato Il repertorio dei pazzi della città di Palermo, di Roberto Alajmo, e dopo che l’ho letto ho detto ai ragazzi che c’erano lì: «Ma perché non fate il Repertorio dei pazzi della città di Genova?».

 

Dopo poi loro non l’han fatto, ma a me è rimasto in testa quel libro lì di Alajmo che è proprio un po’ un elenco di matti raccontati in piccole storie come questa:

 

Uno era il professore Ascoli, medico di fama. Quando si trovava ad affrontare un caso clinico particolarmente delicato, gli capitava di sospendere la visita, lasciare il paziente in mutande nel suo studio e andare a fare una passeggiata in bicicletta per riuscire a riflettere meglio. Poi tornava e non sbagliava mai una diagnosi.

 

Oppure questa:

 

Uno, la sera della riapertura del teatro Massimino, mise lo smoking e andò. L’Aida era trasmessa in diretta alla radio; e lui, dopo essersi sistemato nel suo palco, tirò fuori una radio e si mise l’auricolare per ascoltare via radio l’opera che aveva davanti agli occhi.

 

Oppure questa:

 

Uno abitava a San Giuseppe Jato e andava ogni giorno a Partinico per cantare Stasera mi butto alle liceali che uscivano da scuola.

 

O questa:

 

Uno era l’attore Carlo Cecchi. Quando la prova generale di Amleto al teatro Garibaldi andò secondo lui male, si rifiutò di riconoscere le facce degli amici che andavano a fargli i complimenti in camerino: «Lei chi è? Io non la conosco».

 

O questa:

 

Uno si chiamava Ettore, e stava ore e ore in gabinetto. Fino a quando la madre non gli urlava: «Ettore, scippati di’ddocu». Poi diventò grande e sua madre si stancò di gridare da dietro la porta. Ettore però non sapeva mai calcolare il tempo giusto per stare in gabinetto. Quindi dopo un poco si faceva prendere dall’ansia ed era lui a chiedere da dentro: «Mamà, mi scippo sì o no?»

 

Ph di Gabriele Basilico.

 

Delle storie così. 

 

Ecco, quella volta lì di Genova, quando ho finito che poi son tornato a Bologna, io abito a Bologna da quindici anni ma sono di Parma, e anche se Parma e Bologna sembrano molto simili sono molto diverse, secondo me, e una volta, un paio d’anni fa, quando una signora, in un liceo bolognese, mi ha presentato come uno scrittore di Bologna a me è venuto da specificare che sono di Parma e mi è venuto da dire che vivendo a Bologna essendo di Parma mi sento un po’ come il protagonista di quella canzone di Sting, An englishman in New York, e quando sono tornato a Bologna da Genova, a guardarmi intorno a Bologna mi è venuto da pensare che anche a Bologna, c’era pieno di squinternati, e mi sono chiesto «Ma io, perché non faccio il Repertorio dei matti della città di Bologna?». 

E dopo quando sono andato a Milano, da quelli di Marcos y Marcos, intanto che andavo in metropolitana mi guardavo intorno e pensavo che anche a Milano, c’era pieno di squinternati, e che si poteva fare anche il Repertorio dei matti della città di Milano e ho proposto la cosa alla Marcos y Marcos, e gli ho citato un libro che so che a loro piace molto, Le opere complete di Learco Pignagnoli, un libro di Daniele Benati, in particolare l’opera numero 13, quella che fa così: 

 

Opera numero 13. 

 

Tranne me e te, tutto il mondo è pieno di gente strana. E poi anche te sei un po’ strano. 

 

E ci è venuto in mente che ogni città potrebbe avere il suo repertorio dei matti e abbiamo trovato un altro libro, sempre a cura di Roberto Alajmo, che si chiama Repertorio dei pazzi d’Italia dove nell’introduzione Alajmo dice che «Forse ogni città dovrebbe possedere un repertorio dei pazzi, così come di ogni città esistono le guide dei ristoranti e degli alberghi». 

E allora abbiamo chiesto a Alajmo la sua benedizione, e Alajmo ci ha dato la sua benedizione, e abbiamo cominciato dei seminari ai quali hanno partecipato quelli che hanno scritto i Repertori e abbiamo fatto il Repertorio dei matti della città di Bologna, il Repertorio dei matti della città di Milano, il Repertorio dei matti della città di Torino, il Repertorio dei matti della città di Roma, il Repertorio dei matti della città di Cagliari, il Repertorio dei matti della città di Parma, il Repertorio dei matti della città di Andria e il Repertorio dei matti della città di Livorno e faremo il repertorio dei matti della città di Padova, di Reggio Emilia, di Lucera, del Canton Ticino, di Empoli e di Genova (finalmente), forse, e daranno vita, questi seminari, ognuno a un libretto, come una guida dei ristoranti o degli alberghi, che saranno però anche dei piccoli libretti di storia, una storia laterale e insignificante ma che potrebbe essere anche bella, ci sembra. E i partecipanti a questi seminari ci sembra che si debbano fare un lavoro difficile, rinunciare, nella propria scrittura, alla propria scrittura, fare un passo indietro rispetto al proprio stile e scrivere in coro, se così si può dire, raccontando, col distacco impersonale dei cronisti medievali, le storie che si raccontano in città sui matti, cioè trasformarsi in cronisti medievali ma della contemporaneità. 

Il primo repertorio che abbiamo fatto è stato quello di Bologna, e uno dei primi matti che è saltato fuori è stato questo:

 

Uno era il migliore amico di Michael Jackson. Lo aveva conosciuto quando Michael Jackson aveva dovuto rifare il bagno nella sua casa di Parigi e si era rivolto alla Manutencoop. La Manutencoop aveva mandato lui, che era il fontaniere di fiducia, e così lui era partito per Parigi con i suoi attrezzi da fontaniere e un sacchetto di tortellini. La casa di Michael Jackson era piena di cose meravigliose che Michael Jackson gli aveva fatto vedere; poi Michael Jackson gli aveva chiesto di trasformare il gabinetto in modo che venisse su dal pavimento, premendo un tasto, solo nel momento del bisogno poi, finito il bisogno, premendo un altro tasto tornasse giù e sparisse sotto le piastrelle. A un certo punto si era fatta l’ora di mangiare, e lui aveva tirato fuori i suoi tortellini da cuocere; Michael Jackson aveva il suo mangiare speciale, ma quando aveva visto i tortellini gli aveva chiesto di fare cambio e gli erano piaciuti da matti. A quel punto era nata l’amicizia e così, entrati in confidenza, avevano cominciato a chiacchierare. Poi lui si era messo a cantare e a suonare, così, tanto per passare il tempo, e Michael Jackson era rimasto così colpito che gli aveva chiesto per favore di insegnargli a cantare e a suonare, perché – aveva detto – era molto meno bravo di lui.

 

Che, per conto mio, era un matto che andava benissimo perché, oltre ad essere memorabile (io ogni tanto sogno il gabinetto di Michael Jackson, che viene su dal pavimento, premendo un tasto, solo nel momento del bisogno), era un matto di Bologna che era fatto con le parole di Bologna, come fontaniere, che è il modo bolognese di dire idraulico, o Manutencoop. Per conto mio, si potrebbero citare tutti, i matti bolognesi e anche quelli delle altre città, per questioni di spazio ne cito altri tre, questi qua: 

 

Uno aveva fatto un incidente stradale mentre svoltava a sinistra, da via Matteotti in via Tiarini. Un motorino era andato a sbattergli sulla fiancata e gli avevano dato un concorso di colpa. L’assicurazione lo aveva retrocesso dalla classe uno alla classe cinque e lui ci era rimasto così male che per qualche settimana non era uscito con l’automobile. Poi si era detto che non poteva farne a meno, ma che non avrebbe mai più svoltato a sinistra. Ogni volta che doveva andare in un posto studiava meticolosamente l’itinerario in modo che potesse raggiungere la meta solo svoltando a destra. In breve tempo capì che poteva arrivare ovunque, al prezzo di dover fare lunghi giri, a volte partendo in direzione opposta alla meta, per poi aggiustarla a destra, poi a destra, poi ancora a destra, ma poi alla fine ci arrivava lo stesso. Dopo settimane di studio giunse alla conclusione che ogni punto di Bologna era raggiungibile da destra, tranne piazza Roosevelt. 

 

C’era uno che fingeva di essere suo fratello gemello. Se per caso incontrava qualche suo conoscente per strada che lo salutava lui gli rispondeva stupito ‘mi scusi signore ma io non la conosco forse si confonde con mio fratello gemello’ e il conoscente allora prontamente si scusava imbarazzato dicendo che la somiglianza era davvero notevole.

 

Uno era un operaio che lavorava a giornata, quando lo chiamavano dal comune o da qualche azienda privata, e quando non lavorava faceva il giro delle osterie dove spendeva i pochi soldi che la moglie, donna di una bruttezza raccapricciante, gli lasciava in tasca. Un giorno era morto, nel suo letto, ma mentre i becchini stavano trascinando il feretro giù per la stretta scala a chiocciola della mansarda, uno era inciampato, lasciando cadere il sacco dall’interno del quale il morto aveva ripreso a dare inequivocabili segni di vita. Aveva vissuto poi altri tre anni, ed era morto di nuovo, stavolta in tinello mentre leggeva il giornale. Ai nuovi becchini la moglie si era allora raccomandata “fate bene attenzione giù per la scala, ché si scivola”.

 

Quando è uscito, nel maggio del 2015, Il repertorio dei matti della città di Bolognaè uscito insieme al Repertorio dei matti della città di Milano e una delle cose alle quali non avevamo pensato  e che ci hanno un po’ sorpreso è stato il fatto che a Bologna e a Milano c’era un modo abbastanza diverso, di essere matti.

 

Ph di Gabriele Basilico.

 

I matti bolognesi, a giudicare dal nostro piccolo osservatorio, facevano spettacolo della propria stravaganza, e il luogo in cui sono principalmente ambientate le avventure dei matti bolognesi è il bar, mentre il luogo principale dei matti milanesi è la metropolitana, che è anche quello  un luogo pubblico ma più solitario, per così dire, e a Milano, un po’ più che a Bologna, hanno dato materiale al nostro repertorio i litigi condominiali. 

 

Vorrei finire questo primo pezzetto con un po’ di matti milanesi e, in particolare, con uno un po’ diverso dagli altri, che sono tutti diversi tra di loro ma ce ne sono alcuni che sono più diversi. 

Quelli meno diversi sono questi:

 

Uno era un ragioniere in pensione che aveva deciso di ammazzare il cane perché non abbaiava più al postino.

 

Uno abitava a Lambrate e considerava il suo quartiere il più bello del mondo. La gelateria più buona? A Lambrate. La birra? Solo al birrificio di Lambrate. La pasticceria siciliana migliore? Quella di Lambrate. Quando gli capitava di passare delle serate in un quartiere diverso, magari in Bovisa, si lamentava dell'enorme distanza da casa. Un tempo era stato fidanzato con una ragazza che prima viveva vicino a lui e poi si era trasferita nel gallaratese ma la storia finì presto perché lui non sopportava le relazioni a distanza.

 

Un barbone senza gambe camminava sulle protesi, andava ad un angolo di via della Moscova, si toglieva le protesi e faceva l'elemosina. Un giorno, verso mezzogiorno, quando si era rimontato le protesi ed era andato al bar a mangiarsi un panino, questo barbone si è trovato davanti un tizio che diceva di avergli dato una moneta dieci minuti prima, quando lui non aveva le gambe. Come è possibile, diceva questo tizio, che lui prima non aveva le gambe, e ora al bar però le gambe ce le aveva? Si sentiva truffato, diceva il tizio, dal peggior truffatore, da uno che non aveva le gambe solo quando gli faceva comodo e doveva prender dei soldi, ma che poi, quando c'era da mangiarsi i panini, le gambe gli spuntavano fuori magicamente, e andava a spasso come tutti gli altri.

 

Uno è un cantante improvvisato che si esibisce nei vagoni della metro. Trascina con sé un vecchio amplificatore a batterie, che gli serve per collegare il microfono e per lanciare ad alto volume le basi per il karaoke. Ha un repertorio fatto interamente di canzoni italiane dimenticate da tutti, tra le quali spiccano alcune gemme del Toto Cutugno minore. Saluta sempre il pubblico con una formula obbligata: “Ciao Milano!”, e poi comincia a cantare. La sua voce non è granché, per cui cerca di ingraziarsi i passeggeri con delle mosse un po’ avventate da animale da palcoscenico. Urla, ad esempio, “eeeh... sì, sì”, tra le strofe e il ritornello, come farebbe Vasco Rossi; oppure, mentre fa una specie di acuto, s’inginocchia sul piancito, portandosi alla bocca il microfono con entrambe le mani. Una volta lo hanno visto persino improvvisare alcuni passi di lapdance mentre si reggeva agli appositi sostegni. Fa tutto questo come prendesse le distanze da se stesso, senza convinzione. Quando ha finito, prova a raccogliere qualche spicciolo in fretta e furia, come se non vedesse l’ora di scappare; ma resta sempre a mani vuote. Si rivolge allora ai passeggeri dicendo: “Fatemi almeno un applauso, me lo sono meritato”, ma siccome nessuno gli dà retta, se ne va via scuotendo la testa e ammettendo a se stesso: “No, non me lo sono meritato”.  

 

Uno sulla circolare destra aveva detto una volta rivolto ai passeggeri stranieri: "Ma tornatevene in Burundi, cosa credete che sono come voi, io qui ci sono nato, nella Grande Mela". 

 

Una era una ragazza arrivata a Milano da Ronchi dei Legionari nel 2000 per lavorare in una multinazionale con sede in centro. 

Era arrivata con una Polo Volkswagen che gli aveva comperato il padre per la laurea; non conosceva le strade di Milano, ma visto che aveva la macchina non voleva prendere i mezzi. 

Quando doveva raggiungere un posto, studiava il Tuttocittà e per arrivare arrivava. Per tornare indietro invece chiamava un tassì, gli dava l'indirizzo di casa e gli diceva: “Lei vada, io la seguo in auto”.

 

Uno non credeva mai a niente se prima non aveva controllato su Wikipedia.

 

Quello più diverso è questo qua: 

 

Uno si era innamorato di una ballerina della Scala che si chiamava Silvana F. 

L’aveva conosciuta in una casa di appuntamenti clandestina che cominciò a frequentare assiduamente chiedendo sempre di lei, che invece era sfuggente e non lo corrispondeva.

Si era proprio innamorato e non gli era capitato mai: non mangiava, non dormiva, faticava a rispettare i suoi impegni al Corriere della Sera dove lavorava come giornalista. In compenso camminava giorno e notte per le strade di Milano, nei suoi abiti eleganti e con il cappello, in Brera e per via San Marco, dove Silvana F. abitava e dove lui sperava di vederla, anche con un altro uomo.

Iniziò a dipingerla, perché lui era un pittore con l’hobby della scrittura; e dopo averla dipinta scrisse anche di lei, del suo amore, della sua ossessione e del male che ne usciva.

Quando il romanzo fu pubblicato, nel 1963, tutti lo derisero perché non si aspettavano che lui fosse capace di tanta passione e perché libri di Liala ce ne erano già a sufficienza in giro. Silvana F. non lo volle neanche dopo questo libro e gli preferì un elettricista.

Infine lui sposò un’altra, una donna di trentacinque anni più giovane che a tutti sembrò un ripiego. Almerina, che era bellissima e allegra e piena di vita, andò ad abitare con lui nell’appartamento al decimo piano della Casa della Fontana, in viale Vittorio Veneto, dove il soffitto del salotto era interamente occupato da quadri fissati con zanche.

“Così posso guardarli da sdraiato” diceva lui. Diceva anche che Milano sarebbe stata perfetta se ci fossero state le montagne, che l’unica cosa che poteva assomigliare alle sue montagne era il Duomo con le guglie e i pinnacoli.
Si ammalò pochi anni dopo le nozze. La settimana prima della sua morte, la moglie pensò di chiedere a Silvana F. di andarlo a trovare in ospedale; la accompagnò e li lascò soli.

La sera, Almerina gli chiese se si fosse innamorato nuovamente di Silvana F. in punto di morte. 

Lui le rispose: “Mi sono innamorato molto più di te in punto di vita”.

 

Il Repertorio dei matti della città di Bolognaè stato scritto da Giorgio Busi Rizzi, Alba Ciarleglio, Milvia Comastri, Cinzia Dezi, Paola Falossi, Angelo Fioritti, Irene Forti, Rossella Hakim, Chiara Lambertini, Enrico Losso, Alessandro Massacesi, Elisabetta Mongardi, Mauro Orletti, Davide Paganini, Alfonso Posillipo, Paolo Ricci, Graziano Santoro, Morena Sartori, Chiara Spaziani, Laura Ventura. Il Repertorio dei matti della città di Milanoè stato scritto da Domenico Arenella, Antonella Bavetta, Arianna Brunello, Elvis Crotti, Sissi Decorato, Valentina Doria, Francesca Giannone, Marenza Gigante, Gianni La Rocca, Grazia Lodigiani, Giulia Marani, Sara Merighi, Jacopo Narros, Anna Pavone, Tiziana Regine, Marianna Russo, Daniela Segalina, Lisa Vozza, Silvia Zamperini.

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René Magritte ha fatto spot

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È in uscita presso l’editore FrancoAngeli il volume di Emanuele Pirella La mia pubblicità, prima raccolta degli articoli scritti dal più importante pubblicitario italiano. Anticipiamo dal volume, curato da Vanni Codeluppi, un articolo su René Magritte.

 

 

 

Aggirarsi per le sale di una galleria o di un museo, tra le tavole di René Magritte, dà la sensazione di trovarsi altrove. Non tra i quadri di un’esposizione, sembra di essere, ma in una grande libreria. L’intera tavolozza dei colori di Magritte, quei malva, quei verdi acidi, quelle inarrivabili combinazioni di lilla sembrano la collezione autunno-inverno delle ultime sfilate di novità presentate dalle edizioni Adelphi. Ma, ancora più curiosamente, a guardare i dipinti, vengono subito alla mente più i nomi di tanti scrittori che non quello del pittore belga. Cosa ci fanno qui le copertine dell’Arte della fuga e dell’Isola volante di Giuseppe Pontiggia? E perché quelle illustrazioni si fanno chiamare La battaglia delle Argonne e Il vaso di Pandora? Girando lo sguardo, si percorre la storia della letteratura del Novecento. L’ultimo Calvino assorbe, annulla totalmente Il castello dei Pirenei. E così Elias Canetti, e Julio Cortazar e Fabrizia Remondino, e Manuel Puig e centinaia di romanzi e di racconti non si capisce perché siano attaccati alle pareti. La roccia scabra, gassosa, immobile nel cielo più promettente, sospesa su un mare di cui non fidarsi è il pack dell’arte combinatoria del Calvino francese, è la carrozzeria elegante di un motore altrui.

 

La produzione intera di Magritte è stata usata per incartare libri e farne un bel pacchetto da regalo. I grafici di tutto il mondo si sono sentiti autorizzati ad appropriarsi di quei quadri e farne carta da imballaggio. Addirittura un olio così bello da vedersi e che Magritte giudicava così inquietante, Il falso specchio, è stato riveduto, corretto e adottato come marchio da un network televisivo americano: la Cbs. Oggi è trasmesso e ritrasmesso senza nessuna coscienza del furto. Rubare a Magritte non fa peccato. La sua produzione è così piacevolmente ornamentale da essere un’istigazione al reato. Si ruba dove è facile rubare, e si ruba tra simili. Un ladruncolo da strada ruba nei bar; un artista del furto sottrae dove è difficile mettere le mani. C’è un’affinità, cioè, fra ladro e derubato. Appartengono allo stesso ambiente, frequentano gli stessi luoghi della fantasia. E se grafici, art director e pubblicitari hanno così spesso depredato René Magritte è perché René Magritte si avvaleva degli stessi strumenti espressivi ai quali fanno ricorso i grafici, gli art director, i pubblicitari. Provassero a mettere le mani addosso a Francis Bacon!

 

Guai, naturalmente, parlare di pubblicità a Magritte. «Qual è la cosa che odia di più?», gli chiesero in un’intervista, nel 1946 «Le arti decorative, il folklore, la voce degli speaker, l’aerodinamismo, l’odore della nafta… e la pubblicità!». Pure a Magritte capitò, per vivere, di dover immaginare campagne pubblicitarie. Per una casa di mode, per un pellicciaio, per un grande magazzino, per dei prodotti di bellezza, addirittura per l’Alfa Romeo. Finì, nel 1930, a Bruxelles, insieme al fratello, per aprire un’agenzia con il nome di Studio Dongo. E la sua produzione pubblicitaria, pubblicata o no, fu talmente copiosa da permettere, nel 1983, a Parigi, di presentare una mostra dei suoi annunci, dal titolo, cattivello e spiritoso, di Ceci n’est pas un Magritte. Ricalcato, ovviamente, da uno dei suoi più famosi e significativi lavori: Ceci n’est pas une pipe.

 

Si poneva questioni professionalmente decisive: «La tavola perfetta non ammette la contemplazione, sentimento banale e senza interesse. Deve produrre un effetto intenso in un tempo fulmineo». Colpire, attrarre l’attenzione con un’immagine spiazzante, incongrua, inattesa: è la pubblicità, sarà la sua pittura sempre. Così i bozzetti rifiutati potevano diventare quadri e i quadri diventeranno, per mano lesta di altri, bozzetti pubblicitari. Un albero apre la sua corteccia per rivelare all’interno, come dentro cofanetti, gli “exciting perfumes by Mem”. Proposta bocciata? Ecco La voce del sangue, un olio su tela di due anni più tardi, più cupo, più risentito, dove, nei cofanetti all’interno del tronco, appaiono una casetta illuminata e una palla bianca.

 

Non dipingeva quadri, ma elaborava messaggi. Studiava congegni narrativi che tenessero conto del destinatario. Magritte, dalla superficie del suo quadro, gioca con il dirimpettaio. Sembra dipingere una cosa, ma dipinge il suo contrario. Sciorina tutto il repertorio da illusionista, ricorrendo al doppio senso, al gioco di parole, alle sostituzioni, al c’è e non c’è, all’incongruità, allo scandalo visivo, allo shock della collisione dei segni. È la cassetta degli attrezzi del comunicatore, anch’egli attento a utilizzare gli strumenti della retorica. Aristotele li ha messi in bella fila nella scansia del suo Trattato. Umberto Eco ci ha fatto vedere come funzionavano in Opera aperta, nella Struttura assente, in Lector in fabula. Ecco l’amplificatio: un’enorme mela riempie una stanza intera. Ecco l’ossimoro, l’accostamento di immagini di senso opposto: una villa illuminata a notte sotto il cielo del mattino. Ecco la metonimia, lo scambio tra causa ed effetto: un enorme uovo dentro una voliera per uccelli.

 

Ecco la perifrasi: la sostituzione della punta di un paio di scarpe con quella della punta dei piedi, con tanto di dita. E l’iterazione: un grappolo di omini tutti uguali, che cadono a dirotto su una città. E la pioggia cade sulle nubi e una foglia ingrandita prende il posto di un albero. E, in dubitatio, la confessione della difficoltà nella quale si trova l’autore a trattare l’argomento: sono le tante tavole in cui interviene la parola («ciel» o «corps humain») a sostituire l’immagine o in cui significante e significato o immagine e reale divergono: Ceci n’est pas une pipe.

 

L’interlocutore dei quadri di Magritte è un uomo felice, emotivamente remunerato, preda soddisfatta della trappola comunicativa. Magritte ce l’ha fatta. Ci ha convinto che il mondo è un inganno. Certo, le ambizioni erano ben maggiori. Magritte mirava a dipingere dei quadri che potessero «rivelarci il mistero del presente e farci partecipare alla vita dello spirito». Ma più che il mistero della vita, ha illustrato i rebus del mondo, i suoi indovinelli. 

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I marziani di Orson Welles

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Esce oggi presso l’editore FrancoAngeli il volume di Orson Welles È tutto vero. Marziani, astronavi e beffe mediatiche. Pubblicato in occasione dei cent’anni dalla nascita dell’autore, contiene il testo di Invasione da Marte, la trasmissione radiofonica che è stata la più importante beffa mediatica e ha fatto credere a molti americani la sera del 30 ottobre 1938 che fosse in atto un’invasione della Terra da parte dei marziani. Pubblichiamo un’anticipazione dalla postfazione di Vanni Codeluppi, che ha curato il volume.

 

L’invasione dei marziani che è stata raccontata alla radio da Orson Welles e dai suoi attori viene generalmente considerata uno dei casi più importanti di tutta la storia dei media. Le cosiddette «beffe mediatiche» realizzate nella storia dei mezzi di comunicazione sono infatti numerose, ma probabilmente nessuna ha ottenuto un risultato paragonabile in termini di attenzione sociale a quello che è stato in grado di raggiungere il radiodramma di Welles. Anche perché questa è stata la prima e dunque, in quanto tale, anche la più inaspettata. In seguito all’ascolto della trasmissione, molte persone sono state prese dal panico e hanno fatto di tutto: sono corse a telefonare ad amici e parenti per avvisarli del grave pericolo, si sono precipitate in strada o in chiesa a pregare, hanno cercato di scappare a grande velocità con la propria automobile o si sono rifugiate nei boschi. D’altronde, all’epoca la radio, nonostante fosse nata da pochi anni, rivestiva un ruolo sociale particolarmente rilevante. Era infatti il più importante mezzo d’informazione e, come tale, negli Stati Uniti era stata anche ampiamente legittimata dalle celebri «conversazioni al caminetto» condotte dal Presidente Roosevelt. 

 

 

Certo, come ha efficacemente messo in luce la rigorosa ricerca condotta a caldo dallo psicologo Hadley Cantril, le reazioni delle persone al radiodramma di Welles non sono state univoche. Innanzitutto va considerato che coloro i quali si sono fatti prendere dal panico sono stati calcolati come un milione e duecentomila unità su un bacino complessivo di ascolto di sei milioni di persone. E, più in generale, secondo Cantril le reazioni registrate erano influenzate soprattutto dal livello culturale delle persone. Vale a dire che, a suo avviso, nel corso della ricerca si è visto che l’istruzione «era una delle più grandi misure preventive del panico» (Livolsi). Chi era maggiormente dotato cioè di strumenti culturali era in grado di prendere più efficacemente le distanze rispetto all’evento mediatico. Dunque, come ha sostenuto Mauro Wolf proprio a proposito del panico suscitato dal radiodramma di Welles, va sempre considerato che il potere dei media, «che ci appare massiccio ed uniforme, è intessuto inestricabilmente con influenze e condizioni che sono fuori dal messaggio e dal mezzo di comunicazione». Il che non significa che tale potere non esiste, ma semplicemente che esso, per potersi manifestare, ha la necessità che si presentino delle particolari condizioni, come quelle che si sono verificate nel caso del radiodramma di Welles. 

Il notevole impatto sociale ottenuto da questo caso mediatico si deve prima di tutto a una felice intuizione di Welles, il quale ha pensato che un adattamento radiofonico del romanzo La guerra dei mondi di Wells potesse ottenere successo. I sedici testi letterari che aveva messo precedentemente in scena non erano andati molto bene e Welles puntava molto su questo per risollevare gli ascolti.

 

Si spiega così perché nei giorni precedenti la messa in onda fosse particolarmente ansioso. Aveva infatti paura di dover andare incontro a un altro insuccesso. Dopo quello che è accaduto la sera del 30 ottobre 1938, ha dichiarato più volte ai giornalisti che non si aspettava questa reazione da parte del pubblico del programma. Ma si trattava probabilmente di una tattica che Welles ha consapevolmente adottato per “sgonfiare” il caso ed evitare di subire delle pesanti conseguenze di tipo legale. Lo conferma indirettamente una testimonianza dello sceneggiatore Howard Koch, il quale durante la fase di riscrittura del testo di Wells si era reso conto che questo era difficile da tradurre per l’ascolto radiofonico e ha chiesto pertanto a Welles se fosse possibile sostituirlo con un altro. Questi però gli ha fatto sapere, tramite il suo co-produttore John Houseman, che La guerra dei mondi era per lui il testo più importante dell’intera serie. 

 

Si trattava d’altronde di un testo particolarmente adatto a un illusionista come Welles. Infatti, come ha scritto il suo amico scrittore Gore Vidal, egli «era un mago nel senso più autentico del termine, affascinato da giochi di prestigio, illusioni ottiche, contraffazioni, labirinti e specchi che riflettono altri specchi. Era un maestro nel trovare nuovi modi di vedere cose che gli altri non riuscivano neppure a scorgere». Sembra che sia stato il dottor Bernstein, un amico dei genitori che è diventato il suo tutore alla loro morte, a insegnargli da bambino come diventare illusionista, svelandogli i segreti della prestidigitazione e regalandogli un teatrino di marionette col quale ha potuto esercitarsi a lungo nell’arte della messa in scena. 

 

Ma, tornando al programma basato sul romanzo La guerra dei mondi, per comprendere il notevole impatto sociale ottenuto da tale programma è necessario considerare anche l’importante scelta di Welles di adattare il testo letterario al mezzo radiofonico utilizzando il particolare linguaggio che caratterizza i notiziari giornalistici. Ha cioè pensato di inserire il testo narrativo di Wells all’interno di una copia quasi perfetta di un’edizione straordinaria di un giornale radio dell’epoca. È stata soprattutto questa scelta che ha reso possibile per la prima volta all’interno del mondo dei media che un’opera di finzione narrativa mentisse ai suoi spettatori. Welles ha mostrato dunque che con i media era possibile ingannare e perciò che questi strumenti potevano anche essere utilizzati per finalità pericolose per la società. Sino a quel momento infatti le truffe e le menzogne erano ampiamente diffuse nella società, ma non venivano associate ai media. Cioè, come ha scritto Tiziano Bonini, le persone «Non credevano che la radio potesse mentire. Fino a quella sera del 1938 il confine tra finzione e realtà era chiaro: gli ascoltatori credevano di poter riconoscere il racconto della realtà (le notizie, i giornali radio) dal racconto finzionale (il radiodramma, la soap opera). Welles mescolò i linguaggi dei due generi ed aprì la strada a un lungo e mai terminato processo di ridefinizione del confine tra finzione e realtà». In seguito, infatti, il livello di alfabetizzazione rispetto al linguaggio dei media è cresciuto e le persone hanno imparato a individuare il confine esistente tra la fiction e la realtà, ma anche il sistema dei media, da parte sua, ha fatto contemporaneamente dei notevoli passi in avanti: sono arrivati nuovi strumenti di comunicazione e le tecniche di manipolazione del reale sono diventate più sofisticate e complesse. Pertanto, ha continuato a essere difficoltoso riuscire a riconoscere il confine esistente tra la rappresentazione mediatica e la realtà.

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Biennale Teatro 2016

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Negli ultimi anni l'attenzione della Biennale di Venezia si è aperta progressivamente al tema della formazione, facendo della sezione College – in teatro e non solo – una delle linee portanti della propria attività. Alla cerimonia di conferimento dei Leoni d'Oro e d'Argento 2016 (rispettivamente a Declan Donnellan e Babilonia Teatri), il presidente Paolo Baratta ha voluto attribuire – a parole – un Leone “virtuale” a Álex Rigola, al suo settimo e ultimo anno di direzione, per il contributo determinante dato alla declinazione del tema College. 

In questi anni, infatti, il regista catalano è riuscito tramite la scelta laboratoriale e la programmazione di spettacoli di artisti internazionali a fare inaspettatamente di Venezia – e nonostante la collocazione agostana del festival – un punto di riferimento importante per il teatro italiano; un luogo di confronto, studio e incontro segnato soprattutto dall'apertura e dalla pluralità (di generazioni, geografie, culture e linguaggi, ma anche saperi e mestieri della scena). 

 

Leone d'oro, ph A. Avezzu.

 

Dal punto di vista di un osservatore continuativo e interno, come chi scrive, quella del 2016 si può considerare a tutti gli effetti un'edizione-summa di questo percorso: che ha visto avvicendarsi le polarità estreme della ricerca testuale e di quella performativo-visiva, insieme all'esplorazione di zone altre della scena contemporanea (quest'anno è stato il circo di Baro d'Evel, il teatro-cinema di Christiane Jatahy); maestri ormai consolidati e un'attenzione particolare alle generazioni più giovani (le scelte dei Leoni stanno a testimoniarlo); laboratori per autori, attori, registi e l'ormai consueto workshop di critica, che ha accompagnato tutte le edizioni con i suoi racconti e analisi. 

Ad attraversare le tre settimane di Festival Internazionale 2016, tanti temi, questioni, stili e orizzonti di ricerca, ma – a posteriori – forse tutti si possono aggregare intorno a una questione centrale, che poi sembra essere tornata di fondo anche nel teatro del nostro tempo: quella delle drammaturgie – in senso stretto e lato – dello spettatore.

 

Dalla partecipazione alla critica (Roger Bernat/Yan Duyvendak e Stefan Kaegi)

 

Partecipazione: ormai in teatro non si parla d’altro. Da qualche anno la scena europea sta vivendo una riscoperta delle dinamiche di coinvolgimento dello spettatore che hanno segnato tanto Nuovo teatro del novecento, almeno dalle soirée futuriste e dada per passare al teatro secondo il suo “valore d'uso” degli anni settanta e arrivare fino a noi. 

Ed è stato questo uno dei filoni portanti della Biennale Teatro 2016, che non a caso ha accolto fra i suoi primi spettacoli Please, continue (Hamlet) di Roger Bernat e Yan Duyvendak: la messinscena di un processo ad Amleto interpretata da professionisti legali e attori, supportata nell'esito giudiziario dalla partecipazione di una giuria composta da sei membri del pubblico. Oltre lo spettacolo – già visto in Italia qualche anno fa, ma ovviamente sempre diverso nell'esito –, restano memorabili le fitte discussioni fuori dal teatro fra gruppetti di spettatori, combattuti fra l'innocenza o la colpevolezza dell'eroe shakespeariano. 

 

Please continue Hamlet, Bernert Duyvendak, ph A. Avezzu. 

 

Please continue Hamlet, Bernert Duyvendak, ph A. Avezzu. 

 

La questione del coinvolgimento drammaturgico dello spettatore è stata naturalmente centrale anche nell'Opendoors dal laboratorio di Stefan Kaegi (leggi la recensione): un percorso in sei storie per altrettanti gruppi di spettatori armati di cuffiette e guidati dai partecipanti al laboratorio nelle splendide sale della Fenice. Ma i veri “attori” della performance si sono poi scoperti essere – appunto – gli spettatori stessi, delicatamente chiamati di volta in volta in questo story-game corale a compiere azioni, supportare la messinscena, addirittura a interpretare veri e propri personaggi intorno a sei tematiche distintive, dolenti, micidiali della città di Venezia (dal problema abitativo a quello dell'invasione turistica, dallo scandalo atroce e attuale del Mose a quelli – storici – dei roghi in Fenice).

 

Opendoors, Stefan Kaegi, ph A. Avezzu. 

Opendoors, Stefan Kaegi, ph A. Avezzu.

 

Il tutto, con un particolare riguardo per le tattiche di manipolazione mediali che subiamo ogni giorno, che lo spettatore è chiamato non solo a fruire, ma anche a incarnare per gli altri gruppi che lo osservano. Il teatro avviene continuamente tutt'intorno a noi, il teatro siamo noi stessi – sembra voler dire Kaegi attraverso il suo Opendoors. Critica, ironia, partecipazione – negli interstizi vibranti tra questi nodi si situa l'esperienza per lo spettatore proposta in questa performance: una fruizione teatrale “giocata”, impastata fra immedesimazione e straniamento, fra partecipazione e intrattenimento, dopo la quale resta il retrogusto profondo e amaro di aver fatto conoscenza di qualcosa non tramite un racconto altrui – come di solito accade – ma in qualche modo in prima persona. 

 

Dalla critica all'interpretazione (Romeo Castellucci e Angélica Liddell)

 

La questione della partecipazione dello spettatore non si pone soltanto in quei progetti che la chiamano in causa in maniera esplicita e diretta. 

Romeo Castellucci, alla Biennale con il bellissimo Ethica, nell'incontro pubblico al teatro Piccolo Arsenale ha parlato – in merito allo spettacolo – delle proprie opere come “oggetti lanciati in uno spazio proprio perché possano essere accolti da opinioni diverse”, tornando più volte sul tema dell'importanza della libertà interpretativa dello spettatore. «Il compito dell’artista» – ha constatato – «non è quello di dare risposte, ma di confezionare un enigma il più pericoloso possibile», mentre sono anni che insiste sul ruolo-chiave del lavoro del pubblico (con idee come quella della “curvatura dello sguardo” o di “epopteia”). Non a caso con gli allievi del laboratorio condotto in Biennale si è soffermato – racconta – sulla figura-cardine di Marcel Duchamp, che per primo a suo avviso ha aperto il campo alla potenzialità interpretativa dell'opera d'arte e dunque alla centralità dell'attività dello spettatore-fruitore.

 

C'è molto di questo nell'impostazione di Ethica, un intenso dialogo a tre a partire da Spinoza scritto da Claudia Castellucci per la Luce, una Telecamera e la Mente rispettivamente interpretate in uno spazio-tempo scenico vibrante e rarefatto da una donna appesa per un dito a diversi metri da terra (Silvia Costa), un cagnone nero libero di girare fra il pubblico e – per la Mente – una voce, nessuno, forse il buco nero di una sagoma umana sulla parete di fondo o forse quel muro bianco stesso? Ethica si concentra sulla impossibilità di comunicare e però anche sulla necessità di provarci (fra Luce e Telecamera, fra corpo e mente, fra persona e persona); ma è anche un lavoro di grande emotività sui sentimenti, la solitudine, la perdita (di sé, dell'altro) o almeno il suo rischio; e però inoltre una riflessione sull'unione e separazione delle cose, fatta per contrasti (luce/buio, distrazione/concentrazione, fissità/movimento, ecc.). Non è facile stabilirlo e non è semplice, al solito nei lavori del regista cesenate, collocarsi in una posizione comoda, sicura di osservazione e interpretazione: capire il “messaggio giusto”, cogliere l'idea di partenza nella sua univocità, seguire un percorso prefissato. Forse perché quel tragitto non c'è o, meglio, ce lo dobbiamo immaginare e conquistare da soli, passo dopo passo all'interno dello spettacolo, formulando ipotesi per poi vederle subito sgretolarsi o magari crescere, attribuendo significanti instabili e fragili, collegando e ricollegando continuamente i fili di una matassa che appartiene principalmente al singolo individuo che la osserva (o anche lasciarsi andare alla bellezza delle immagini e del testo, senza per forza voler incastrare tutte le tessere del mosaico performativo). 

 

Ethica, Castellucci, ph Guido Mencari.

 

Si potrebbe azzardare che molta della libertà interpretativa evocata – a parole e nei fatti – da Castellucci si possa trovare anche nelle modalità di fruizione proposte dall'Opendoors della residenza di Angélica Liddell (leggi la recensione). La breve performance – in cui l'artista è accompagnata da un attore e dieci astanti – è un primo attraversamento del Decameron, quasi un'incisione nello spazio-tempo scenico e nella scrittura boccaccesca. In scena, Liddell presenta una serie di materiali sparsi, fondati su poche immagini di fortissima potenza – quasi insostenibili fra brutalità e bellezza – e sulla centralità di una parola straziante, debordante, poetica e profonda che porta al suo centro il tema dell'invecchiamento della donna. 

In un'epoca di crisi, dove – come sembra indicare Liddell – la malattia e l'invecchiamento sono tabù, dove tutto sta cambiando e non si sa bene come, c'è da stare ben attenti perché sì dopo una devastazione totale come la peste è possibile fare spazio a qualcosa di nuovo e migliore (come suggeriva Boccaccio, come sosteneva Artaud); ma è anche questo il momento in cui – lo sentiamo tutti i giorni ciascuno per sé – basta un niente per tornare indietro al flagello dei tanti flagelli che hanno sconvolto l’umanità (e qui il pensiero va all’atroce monito di Albert Camus, che sinceramente sconvolge molto di più della discussa catasta di topi morti su cui la performer a un certo punto si getta). 

 

C’è tutta un’avanguardia (storica, prima e seconda, neo- e post-) che ha investito molto sullo spettatore, sulla sua attivazione, sul suo ruolo determinante nella messinscena, ma con un approccio di segno diverso rispetto al teatro partecipativo in senso stretto, che mira a coinvolgere anche e soprattutto il corpo del pubblico nella scrittura scenica. Ma, d’altra parte, anche Roger Bernat nell'incontro pubblico della Biennale ha parlato della “responsabilità del teatro”, del suo ruolo in epoca contemporanea per le sue potenzialità di “dispositivo critico”, che – rispetto ad altri media attuali – lascia singolarmente fra azione e reazione – appunto – un importante tempo per l’interpretazione.

 

Fra teatro e società, fra scena e realtà (Declan Donnellan, Fabrice Murgia, Christiane Jatahy)

 

Il punto, per Bernat – nello spettacolo pienamente colto, meno nell'Opendoors del suo workshop, legato a una modalità di coinvolgimento (fisica) più tradizionale – non è quello della partecipazione in senso stretto: come ha dichiarato durante il talk, il coinvolgimento è stato un obiettivo-chiave di tutto il Novecento e ora, con una diversa e ricca consapevolezza, si tratta più che altro di mirare all'aggregazione temporanea intorno a un problema condiviso, di approfittare del teatro per creare occasioni – seppure fittizie e momentanee – di dialogo e confronto, piuttosto che del desiderio utopico della trasformazione della società in modo permanente. 

 

Il tema del ruolo del teatro nella società e in particolare delle sue potenzialità come strumento di riattivazione di una modalità diversa di relazione, incontro, dialogo – soprattutto in tempi come questi di estremismi e chiusure – è stato anche per altri versi al centro di questa Biennale Teatro. A partire dall'intenso discorso pronunciato da Declan Donnellan per il Leone d'Oro a inizio festival e per chiudere l'ultimo giorno con l'incontro pubblico di Fabrice Murgia, oltre agli interventi sulla questione Brexit formulati da artisti di base in Gran Bretagna (Simon Stephens, Mark Ravenhill) e alle lucide riflessioni sul senso e ruolo del teatro proposte – a parole e in scena – da Babilonia Teatri («per me il teatro è sociale per definizione, altrimenti non è teatro», rivendica Enrico Castellani nel talk pubblico). 

Per Donnellan, nei «tempi spaventosi in cui viviamo» in Europa, fra crisi e amnesie, estremismi e nazionalismi, è importante sviluppare, più che la simpatia per gli altri, l'empatia – un atteggiamento che ha a che fare con il riconoscimento (e il rispetto) della diversità altrui, all'interno di cui il teatro, secondo l'artista, può geneticamente giocare un ruolo sostanziale. 

 

Le chagrin des ogres, Fabrice Murgia.

 

Fabrice Murgia, autore e regista poco più che trentenne, è diventato da poco direttore del teatro nazionale di Bruxelles; e il suo progetto – come ha spiegato nel talk – verte fra le altre cose sulla riconnessione fra gli artisti e gli spettatori, fra il teatro e la società. A suo avviso, in tempi come questi, il teatro deve avere un forte ruolo politico, ma non nel senso tradizionale e ideologico del termine: dal punto più vista – più semplice e forse più essenziale – di farsi luogo di incontro di opinioni differenti (degli artisti e degli spettatori) e di, non certo dare risposte, ma almeno porre domande (il che, sostiene l'artista, è già in sé molto politico in un'epoca come questa, dimostrando una posizione per certi versi simile a quella di Castellucci). Le Chagrin des ogres, il lavoro di Murgia presentato in Biennale, pur risalendo a diversi anni fa, è in effetti uno spettacolo che lavora sulle lacerazioni del contemporaneo: a partire dalle vicende di Natascha Kampusch, rapita e segregata per lungo tempo dall'età di dieci anni, e di Sebastian Bosse, adolescente autore di una strage in un liceo tedesco nel 2006. E nonostante qualche punta estrema di grottesco e che i temi di cocente attualità siano forse mutati, è una messinscena che divide – con il supporto dell'utilizzo del video live– intorno ai temi del male, al rapporto e all'identità di vittime e carnefici, alle correlate responsabilità della società. 

 

In un certo senso divide gli spettatori, anche sapendo arrivare con forza al cuore del pubblico, E se elas fossem para Moscou?, riscrittura dalle Tre sorelle di Cechov diretta fra cinema e teatro da Christiane Jatahy. Qui l'uso – complessissimo ma non invasivo – delle videocamere live acquisisce un ruolo fortemente drammaturgico: sdoppiando, svelando e intrecciando le prospettive dei diversi personaggi in scena, in un percorso a metà fra il disinnesco e la seduzione della finzione per certi versi vicino all'approccio mediale espresso da Stefan Kaegi. 

Prima si vede lo spettacolo, e poi il film girato e diretto dal vivo (o viceversa). E scuote scoprire più da vicino l'inquietudine autolesionista della piccola Irina, l'amara solitudine di Olga, la più matura e materna delle tre sorelle, o lo strazio che si cela dietro la frivolezza di Maria; insomma, scoprire in ogni caso sullo schermo nuove e diverse storie dietro quelle che si erano viste, ascoltate, seguite e interpretate poco prima durante la messinscena. Si cambia idea, posizione, prospettiva; si vede (e in realtà ci si vede) in modo diverso. 

Anche in questo caso, il pubblico entra – letteralmente – nello spettacolo, con le tre bravissime attrici che continuano a interloquire direttamente con gli spettatori come se fossero gli invitati al compleanno di

Irina. E così anche qui il teatro ci riguarda tutti, fuor di retorica, all'interno e all'esterno del palcoscenico. 

 

E se elas fossem para moscou, Christiane Jatahy. 

 

«Credo che il teatro sia molto politico» – rifletteva Donnellan nel suo incontro pubblico – «non perché debba dire chi o cosa votare, ma per la sua capacità di fare domande»; e «l'atto politico del teatro» – continuava – «consiste nel parlare a persone che hanno un punto di vista diverso dal proprio».

Il nodo, da qualsiasi punto di vista lo si voglia cogliere, sembra essere sempre lo stesso: ritrovare la dimensione del teatro che rappresenta ed è incontro fra le persone, come strumento critico e di confronto pubblico; insomma, come atto strettamente, radicalmente e autenticamente politico. Una verità antica come il teatro stesso, e che però in questi ultimi anni sembra dare nuova linfa alla sperimentazione della scena e forse anche nuovi orizzonti di senso per il ruolo del teatro all'interno della nostra società (e che nel loro piccolo, queste sette edizioni di Biennale Teatro hanno forse saputo alimentare, nel segno del pluralismo e dell'apertura). 

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Drammaturgie dello spettatore

Austerlitz

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Non si guardano neppure intorno. Non osservano. Se guardano, guardano lo schermo del loro smartphone, o della macchina fotografica, o dell'ipad. Non guardano, ma scattano foto. Il braccio metallico del “selfie stick” è quasi una protesi. I più arditi filmano tutto con una GoPro. Gironzolano e ascoltano la voce meccanica dell'audioguida, a capo chino. A volte, una guida in carne ed ossa li intrattiene. Sembra di essere tornati ai tempi delle scolaresche: c'è chi ascolta e chi svicola, oppure scherza, tormenta il vicino. Una donna con occhiali da sole dà prova di equilibrio tenendo sulla testa una bottiglia d'acqua. 

Siamo a Sachsenhausen, uno tra i più antichi campi di concentramento costruiti in Germania. Ora funge da sito commemorativo, proprio a due passi da Berlino. Costruito nel 1933 su un birrificio presso Oranienburg, modificato nel 1936 e denominato Sachsenhausen, deteneva prigionieri politici accusati o condannati per crimini contro il regime. Nel 1937 molti dei rinchiusi vennero trasferiti nel campo di Buchenwald, appena inaugurato. 

 

Sergei Loznitsa, dopo molti film, tra i quali l'ipnotico The Event – una disamina degli eventi legati al tentato putsch avvenuto in Unione Sovietica nell'agosto del 1991 – giunge qui, in questo sito commemorativo. Pianta la sua macchina da presa e in una trentina di inquadrature osserva i gesti, i comportamenti di comitive o semplici persone che sono giunte qui, per una escursione che potremmo considerare turistico-culturale. Quello che emerge è a volte impietoso. Questo è ciò che capita quando si confonde la dimensione memoriale con quella museale? In ogni caso, esiste un turismo del macabro. Una mostra delle atrocità per turismo fai da te. Ma questa non è EuroDisney, anche se un uomo inquadrato nel film mostra una bellissima t-shirt di Jurassic Park. 

 

 

Destinazione campi di concentramento? Potete lasciare il vostro giudizio su tripadvisor: un semplice ricordino della gita, uno slideshow con musica in sottofondo.

Loznitsa invece non fa nulla. Si limita a piantare il suo treppiede, prepara l'inquadratura, sceglie una focale lunga e attende che qualcosa si srotoli davanti ai suoi occhi. Sembra di essere tornati ad una dimensione primitiva del cinema. Fatta eccezione per la scelta delle ottiche, diverse inquadrature somigliano a vedute delle origini. La macchina da presa è fissa, mai un movimento. I bordi sono porosi, lo si intuisce già dalla prima inquadratura: le persone entrano ed escono dal campo. La spazio visivo è policentrico, brulicante, abitato da numerosissime persone: tocca a noi decidere cosa seguire con lo sguardo, definire la zona di attenzione. A proposito dei rapporti tra cinema delle origini e cinema scientifico, sembra che Loznitsa si comporti come uno scienziato. Spesso, l'inquadratura somiglia ad un'analisi al microscopio. Al posto delle cellule troviamo qui una massa umana in movimento. Basta saper attendere, osservare: qualcosa si forma, emerge – una specie di reazione. Così, succede che qualcuno si metta in posa sorridente davanti al Crematorio, qualcuno si fa fotografare con le mani posate sul blocco di marmo bianco che serviva da tavolo autoptico; un ragazzo, dopo aver ascoltato il racconto di come su quei pali venissero appesi ai polsi prigionieri e omosessuali, si mette in posa, e click! 

 

 

Basta attendere. C'è sempre chi sa dare il meglio di sé. Il risultato è certo: Loznitsa non muove un dito. Qualcuno sorride in camera, oppure scatta foto alla troupe. La loro presenza non è camuffata. La macchina sta lì. A volte, è il caso dell'inquadratura in cui un gruppo di persone esce da una costruzione immersa nel buio, qualcuno è colto di sorpresa, guarda e non capisce bene: ma nessuno appare infastidito. In fondo, tra il ragazzo che con il suo smartphone ruota su se stesso per scattare una foto a 360° e la macchina da presa c'è solo uno scarto qualitativo – sembrano pensare. 

 

Certo, rispetto all'approccio primitivo c'è qualcosa in più, qui. Ed è il suono. Suono? Ultrasuoni! Il lavoro del fonico deve essere stato mostruoso. Le onde sonore vengono captate e giungono a noi propagandosi in profondità e lateralmente. La frontalità dell'immagine ci esclude da ciò che stiamo vedendo, ma il suono ci avvolge. Ed è tutto un crepitare di passi, rumori sul selciato, fronde al vento, brusii, risate, click di macchine fotografiche, bip di macchine digitali, suonerie telefoniche con musica classica: il tutto modulato a diversi livelli e toni. Tanto che a volte sembra quasi far capolino un aspetto comico – un'improvvisa lama fredda. Come se Jacques Tati avesse dato qualche consiglio al regista ucraino. In una lunga inquadratura in cui gli avventori attendono di entrare in fila in una struttura penitenziaria, è tutto un cigolar di porte, quasi ritmico. E attorno è tutto un mangiar panini: un ragazzo di colore con cappellino New York Yankees, zaino e ipad riposa seduto. Due ragazzini lanciano sassi verso la troupe – ridendo. Vengono rimbrottati dalla madre. Per un istante ti viene in mente che ottant'anni fa – lì – in fila si entrava per altri motivi. 

 

Cambia l'inquadratura, ma restiamo sempre in pausa pranzo. Un ragazzo mangia un panino, infastidito da una vespa. Tenta di cacciarla gesticolando con la mano. E a me sembra che il film sia tutto lì: è il gesto di filmare e insieme catturare tutto un pullulare di tic e gesti strambi, di gente che cammina, si piega in modo strano per scattare foto, si gratta, si mette in posa, caccia vespe, rischia di cadere pur di scattare foto. Una specie di tourettismo in epoca digitale, se volete.  

Finisce che ci spostiamo verso la zona Z, quella del Crematorio e della Camera a gas, e siamo ormai alla fine del film. Notiamo giusto un momento di spaesamento, quando alcune persone filmate in campo medio osservano lo spazio davanti a loro. Una presa di coscienza, ma è solo un attimo. Entriamo con Loznitsa nel sito che doveva accogliere la Camera a gas. È l'unica volta che ci spostiamo all'interno di una costruzione, anche se qui restano solo tracce delle mura e pezzi di ferro. A Sachsenhausen i prigionieri venivano soprattutto fucilati in gruppo o impiccati. Il nome, zona Z, si deve ad un motto di spirito nazista: si entrava nel Campo di concentramento attraverso l'edificio A. La stazione Z era ovviamente l'uscita – per quelli che erano stati eliminati.

 

C'è lì una struttura infossata nel terreno, una costruzione minacciosa, a cui si accede digradando. Proprio davanti al Crematorio. Struttura concentrazionaria che avrebbe certamente attirato l'attenzione di Jacques Austerlitz, professore di Architettura. Perché è Austerlitz il titolo del film. Un omaggio e un accostamento al magnifico ultimo libro scritto da W. G. Sebald. Perché Sebald? Il film ha una sua forte connotazione visiva: gli spazi vengono filmati con precisione millimetrica (in alcuni casi l'inquadratura sembra composta in modo da rimandare ai “New Topographics” - Lewis Baltz in testa). Ma non credo sia questo il motivo dell'accostamento. Tutto questo girovagare, questo perdersi tra ultrasuoni e stramberie gestuali nasconde qualcosa in più. E la ritrovo proprio in una pagina di Sebald in cui Austerlitz si avvia in direzione di Theresienstadt, alla ricerca dei luoghi di sterminio dove hanno perso la vita i genitori:

 

«A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l'impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano solo spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d'animo, e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l'aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce.»

(W.G. Sebald, Austelitz, Adelphi, Milano, 2002, p. 1999 – Traduzione di Ada Vigliani)

 

I turisti di questo film potente, crudele, implacabile sembrano alla fine comici esseri caliginosi, creature limbali catturate in alcune condizioni luminose all'interno di un sito memoriale carico di passato. Spazi ormai vuoti, che ci riguardano. È così che i morti ci vedono?

La folla si allontana dal sito. Esce dal cancello in ferro che porta la scritta Arbeit macht Frei. L'inquadratura è frontale. Simile a quella degli operai che lasciano la fabbrica, filmata dai Lumière. Resta il tempo per un ultimo scatto davanti alla scritta. 

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