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Cose piante città e libri soprattutto

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Non sapevo che libro fosse e ancora non so che libro sia, perché l’esplorazione del mondo non ha pareti e non esiste un testo unico capace di racchiudere quel cosmo che il bambino ha davanti. Perché a quei tempi le stelle e i fossili, i girini e le montagne sono tutt’uno con la sensazione di esserci e di appartenere a qualcosa di Grande, un assoluto che intimorisce e incuriosisce insieme. È tutto un saliscendi, prima che arrivino le divisioni in materie e l’imparare si spartisca in alti e bassi. In Fuori danoi. Cose piante città (Nuova Editrice Berti, 2019), Giovanna Zoboli raccoglie i risultati di questo sapere vissuto che non ha paura di procedere per associazioni libere, connessioni spregiudicate che hanno origine nella sua esperienza di bambina a cui riesce la magia di continuare a crescere con stupita meraviglia. In compagnia di un io che si lascia spiazzare. “Conoscere è riconoscere (…) di camminare lungo una linea in equilibrio fra l’essere me e tutto il resto”.

 

La Giovanna e sua sorella, di poco più grande, sono due boy scout fantasiose e avventurose, che vivono con la Luna e il Sole, il padre e la madre, sono circondate da molti altri colossi che sono poi gli adulti, mantenendo però la loro dimensione di esseri minuscoli che possono ancora, nell’Italia degli anni sessanta del secolo scorso, condurre una vita autonoma da bambini. Anche quando iniziano a decifrare il linguaggio dei segni dei grandi.

“L’aspetto più stupefacente, fu, al tempo stesso, scoprire che quelli che mi erano sempre parsi messaggi inaccessibili, improvvisamente, grazie alla nuova pratica dell’alfabeto, manifestavano la loro voce. Non solo brillavano per magnificenza, ma parlavano”.

L’epoca era quella della lettura, l’ambiente familiare colto e anticonformista, in casa a Milano entrano libri e abbonamenti, in vacanza ci sono le edicole, i giornalini, le figurine, gli album da colorare e ritagliare, la settimana enigmistica dove ai bambini è permesso “unire i puntini”, riviste femminili, riviste sul ricamo… 

Leggere diventerà e rimarrà una “necessità psichica”, i testi importanti della sua vita l’autrice cerca di ricordarli tutti. In ordine di apparizione.

 

 

Dall’enciclopedia I Quindici. I libri del come e del perché dove tutto lo scibile umano si componeva in una sequenza imprevedibile di temi e immagini, alle fiabe che nutrono ancora oggi la sua creatività adulta. “Nel tempo mi sono fatta l’idea che esista una sorta di genio che assiste l’infanzia e le offre quello di cui necessita e di cui gli adulti non si fanno carico. Le fiabe sono dei tipici doni elargiti da questo genio”. A quelle Piccole donne che producono l’effetto di “una sostanza psicotropa” per una bambina ubbidiente che sente però di avere in comune con Jo non solo il desiderio di diventare scrittrice, ma la sua convinzione di essere un maschio: “non un maschiaccio, secondo lo stereotipo. Il mio essere maschio era un fatto interiore, qualcosa che sentivo in me, una specie di pronome che mi davo e non era femminile. Era una percezione, non un ruolo”. 

Una spedizione importante fu quella nella soffitta della casa sull’Appenino, dove passavano una parte dell’estate, e dove l’atmosferico comunicava un’allegria a Milano sconosciuta. 

“Fu stupefacente scoprire, per la bambina che ero, quante lettere e cartoline fossero state scritte da persone che non avevo mai conosciuto né di cui mai avevo sentito parlare. Cartoline che per decenni erano finite nel buio, mute, ad ascoltare in solitudine il passaggio delle stagioni, dimenticate. (…) Ma la cosa più straordinaria erano le immagini che erano state scelte da queste persone per accompagnare i loro messaggi. Vi erano nidi pieni di uova colorate; giovanotti che stavano dichiarando il loro amore a ragazze timide; coppie sotto berceau o incorniciate da decori floreali; mazzi di rose, cespi di viole o rami di bacche; bambini seduti in carriole o neonati mezzi nudi vestiti da putti; animali di ogni genere…”. La collezione di cartoline del nonno diventa una lettura estiva, uno dei tanti giochi di una dimensione infantile capace di trasformare tutto ciò che trova in una risorsa. Allenata da un padre che prepara le figlie alle presenze celesti con poesie e visite al planetario, guide alle stelle e ai pianeti, fino alle immagini dell’allunaggio dell’Apollo 11. 

 

“Per tutte queste esperienze, probabilmente, la notte mi è sempre sembrata un luogo, più che un tempo. Lo Spazio, appunto, che di giorno è precluso, Un posto che si manifesta a sipario chiuso, quando le luci si spengono e c’è silenzio. Così “Ancora oggi, per me, il giorno e la notte sono due luoghi gemelli, ma lontanissimi, inaccessibili l’uno all’altro, che si fronteggiano stupefatti”.  

E poi, e poi, ci sono i quadri da studiare e osservare, i giardini, che incantano curano contengono, amati da lettrice, prima ancora di diventare giardiniere “figura che sta al punto di intersezione fra una decisa vocazione alla contemplazione e un’energia fisica da manovale. Io non ho ancora ben capito se lo sono”.

Fuori da noiè un caleidoscopio che seduce il lettore, catturato da un testo che procede di palo in frasca. Giovanna Zoboli scrive come parlano i bambini che passano da una domanda sulla reincarnazione al gusto della merendina. È il ritmo della “poesia in prosa” di Winnicott che, in modo apparentemente molto semplice, con un andamento musicale, introduceva argomenti che poi lasciava cadere. Mentre cercava una forma capace di tenere il filo tra il gioco del bambino e la creatività adulta. 

 

A curiosare in giro per il mondo la Giovanna va sempre in compagnia, della sorella da piccola e di un complice, partner, da grande. Mentre il suo io si orienta e disorienta, si smarrisce e si ritrova in un esterno al plurale. Qualcosa evoca il sentimento oceanico. Romain Rolland introduce per primo il termine in una sua lettera a Freud, del 5 dicembre 1927, a cui rimprovera di non prendere in considerazione “il sentimento religioso spontaneo, più esattamente, la sensazione religiosa, che è differente dalle religioni propriamente dette… cioè il fatto semplice, diretto della sensazione dell’Eterno (che può non essere eterno, ma semplicemente senza confini percettibili e come oceanico)”. 

Per Rolland questo nucleo è vivo quando è viva l’esperienza dell’unità di tutte le cose, mentre Freud sosteneva che il sentimento oceanico poteva essere ricondotto alla mancanza di confini che l’Io percepisce nella fusionalità delle origini. Un’esperienza di infinito: non solo nel dissolversi dell’Io nell’esterno, ma anche nel flusso-riflusso continuo di sensi, emozioni e immaginario che trascendono il tempo. Un infinito insito nelle potenzialità, infinite appunto, di ogni cosa.

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Un nuovo alfabeto cromatico

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«I problemi filosofici sorgono infatti quando il linguaggio fa vacanza»: è una citazione da Wittgenstein che l’artista, architetto, scrittore e pittore, Lino Di Lallo riporta a pag. 172 del primo volume di Tavolozza d’autore. Il grande libro dei colori fantasiati, edito da Il Formichiere di Foligno e presentato da una bella e poetica introduzione di Carlo Ossola. La pagina è bianca, in alto vi è solo una frase, una domanda: «Questa pagina è color…??», in fondo alla pagina la citazione dalle Ricerche filosofiche.

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Il filo del presente: teatro, memoria, realtà

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Il legame tra la realtà e la memoria è forse uno dei nessi concettuali più scivolosi. Secondo la concezione ordinaria dei termini, l’una consiste nella totalità o somma di ciò che esiste, è esistito ed esisterà nell’universo, mentre l’altra denota una facoltà interiore di registrare, conservare e interpretare gli eventi che si sono verificati in passato. Ci troviamo, apparentemente, di fronte a un confronto tra la dimensione oggettiva e quella soggettiva, o meglio tra un esterno tanto enorme quanto insondabile e un interno che filtra/seleziona gli accadimenti più rilevanti dell’esperienza di un individuo o di una comunità. Il legame tra la realtà e la memoria può poi essere a sua volta paragonato a un sottile filo, dove è facile si creino aggrovigliamenti. Gli eventi reali sono la base dell’elaborazione dei nostri ricordi. Nello stesso tempo, la memoria è una facoltà che ci fa orientare nella realtà e ci influenza nelle nostre ricerche, scelte, previsioni di quanto potrebbe un domani accadere. Orientarsi nel meandro di ciò che esiste e di ciò che ricordiamo è dunque un’impresa difficile, che richiede studio e pazienza.

Le due giornate del convegno Il filo del presente. Il teatro tra memoria e realtà– che si sono tenute nel 22-23 luglio 2019, presso il Centro Teatrale Santacristina di Gubbio, a cura di Giovanni Agosti e Oliviero Ponte di Pino – hanno affrontano questo problema abissale. E lo hanno fatto cercando di costruire un dialogo tra studiosi e artisti attorno a un’ipotesi di lavoro: quella che il teatro possa essere un utile mezzo per capire meglio i rapporti tra la realtà e la memoria. Più specificamente, si è in generale partiti dalla premessa che l’arte teatrale sia capace di rappresentare il “presente” e ci si è chiesti se tale rappresentazione/presentificazione consenta di far rivivere un passato che si credeva ormai perduto, così come se permetta di influenzare o addirittura mutare il reale. Ci si è insomma chiesti, da una prospettiva militante, se il cosiddetto “qui e ora” del teatro possa essere un filo che si lega tanto alla memoria, riannodando in uno spettacolo/arazzo i frammenti o fili dei nostri disordinati ricordi, quanto alla realtà, che viene stretta in una morsa e obbligata a trasformarsi in meglio.

Trattandosi di una riflessione a più voci, dove ciascun partecipante porta con sé diverse competenze e differenti talenti, è vano attendersi dai lavori di Il filo del presente una prospettiva sistematica e unitaria. È possibile, però, isolare tre linee di ricerca coerenti, tante quante sono state le sessioni del convegno. Di seguito se ne sintetizzano i principali risultati, facendo seguire alcune circostanziate riflessioni in margine.

 

Un momento del convegno, ph. Futura Tittaferrante.


La prima sessione si intitola Il valore della memoria nello spettacolo dal vivo: gli archivi. Essa ha previsto una serie di presentazioni di nove fondi archivistici perlopiù teatrali (sei italiani, tre stranieri), da parte dei loro rappresentanti istituzionali, o da studiosi e studiose che hanno ricavato dalla consultazione di questi fondi alcuni importanti risultati. Vale ricordare, a titolo di esempio, l’Archivio Luca Ronconi presso l’Archivio di Stato di Perugia, ereditato da Roberta Carlotto, dove è stato scoperto il dattiloscritto delle interviste che Maria Grazia Gregori fece all’artista Luca Ronconi fino al 1994, poi pubblicate dal curatore Giovanni Agosti con il titolo Prove di autobiografia (leggi la recensione su doppiozero qui). Pur nei loro meriti individuali, le presentazioni dei fondi hanno messo comunemente in luce due importanti delucidazioni sulla nozione stessa di “archivio”: una metodologica e una teorica.

La nota di metodologia riguarda il carattere sempre in fieri di un fondo archivistico teatrale e la necessità di organizzarlo senza pregiudizi ideologici, in collaborazione costante con gli studiosi che lo frequentano e magari inserendolo all’interno di una biblioteca. Lungi dall’essere un luogo che funge da semplice omaggio alla persona a cui è dedicato, infatti, un archivio deve raccogliere quanto più materiale possibile senza fare selezioni “partitiche”, ossia accettando anche materiale che può risultare scomodo o non celebrativo. Da ciò segue che un fondo permette una distanza critica dalla figura a cui è dedicato e una ricostruzione storica più oggettiva del suo pensiero sul teatro. Ma un archivio non è neanche un luogo definitivo, perché si trasforma col contributo di chi lo frequenta, secondo una dinamica a chiasmo. L’inventario di un fondo aiuta lo studioso a lavorare meglio, ma lo studioso contribuisce con le sue indagini a ottimizzare l’organizzazione dell’inventario. Un archivio è dunque uno spazio dove si cerca di «governare la complessità», tramite un costante aggiornamento e una continua attività di ricerca.

L’aspetto teorico che tutti gli archivi hanno messo in comune riguarda invece proprio il rapporto della memoria con la realtà. Un fondo non è solo un serbatoio di tracce o dichiarazioni del passato, ma anche (forse soprattutto) un «teatro della memoria». Esso è uno spazio a metà tra il fisico e il metafisico, in cui i ricordi escono dalla dimensione privata per prendere corpo nel reale collettivo. Potremmo dire che l’archivio attua un processo di “realizzazione della memoria”. Il passato si fa presente con lo studio dei documenti e, attraverso indagini o pubblicazioni, viene portato sulla “scena” della realtà concreta.

 

Mario Martone, Tango glaciale reloaded.


Questo risultato solleva il problema oggetto della seconda sessione del convegno (Il valore della memoria nello spettacolo dal vivo: la riproducibilità degli spettacoli). Posto infatti che iconografie, testimonianze e fotografie o video permettono di ricostruire alla perfezione un lavoro teatrale rappresentato in passato, è possibile e auspicabile portarlo di nuovo sulla “scena” del presente? In altri termini, per riprendere la terminologia che abbiamo adottato, fino a che punto è possibile portare a compimento il processo di “realizzazione della memoria”? Hanno tentato di rispondere a questa domanda Mario Martone in merito ai riallestimenti del suo Tango glaciale del 1984 e Margherita Palli sulle repliche delle opere liriche di Ronconi. Peter Exacoustos ha persino esteso la questione al senso di allestire lavori perfettamente ideati sulla carta ma mai realizzati sulla scena in passato, quale Vigilia, sempre di Ronconi.

Andando ancora una volta al di là dei personalismi, la proposta condivisa che emerge dalle varie riflessioni è che occorre distinguere tra il riportare alla realtà presente la memoria di una forma o la memoria di un processo. Nel primo caso, si svolge forse un’attività dotata di poco senso. Il teatro è un’arte effimera e che si perde di continuo, dunque per sua natura irriproducibile. Quando una forma passata viene allora replicata e riportata al presente, ci si trova di fronte a qualcosa di paragonabile a un morto vivente: un apparato che funziona ancora nel corpo, ma che ha perso la sua anima e vivezza. C’è insomma ancora lo spettacolo esteriore, non più il teatro interiore. Se però si cerca di riprodurre uno spettacolo con lo scopo di riattivare la memoria di un processo, pertanto di far emergere dalle ceneri del passato un certo modo di fare teatro attraverso quel determinato apparato spettacolare, allora si attua un’attività che è desiderabile e stimolante. Questa realizzazione può avere vari sbocchi possibili, che vanno dalla costruzione di un nuovo lavoro che recupera le strutture e le poetiche del precedente, all’aggiunta di alcuni elementi che erano assenti dal modello che si sta replicando (una nuova visione, un altro ritmo, un diverso proposito poetico). Ciò che conta è che, con il ridare realtà alla memoria di un processo, si sta tentando di recuperare l’anima e non il corpo di uno spettacolo. Più che a un morto vivente, ci troviamo qui davanti alla nascita di un nuovo essere dalla carcassa degli esperimenti precedenti.

 

Andrew Bovell, When the Rain Stops Falling, regia di Lisa Ferlazzo Natoli.


Si può infine passare alla terza sessione del convegno, dal macro-tema Il teatro tra memoria e realtà. A parlare sono stavolta artisti tra loro molto diversi, che hanno tuttavia in comune il metodo di partire dalla realtà e dalla memoria di alcuni testimoni per arrivare a costruire un dispositivo teatrale che trasfiguri entrambi. Come rilevano Oliviero Ponte di Pino e Graziano Graziani nelle loro introduzioni all’intera sessione, l’obiettivo delle ricerche di questi artisti è in senso ampio quello di costruire un mondo, un linguaggio e un tempo «alternativi» a quelli correnti. Se dunque di realismo si deve parlare, occorre precisare che si tratta di un realismo “trasfigurante” e non “mimetico”. Il teatro non riproduce né imita il reale, bensì lo invade e cerca di modificare il suo pigro assetto corrente.

Ma come ha luogo questa invasione e trasfigurazione? I modi possono variare molto, com’è inevitabile nel mare magnum delle possibilità e dei fini del teatro. D’altro canto, si possono isolare dalle relazioni presentate una direzione politica, una sociale, una poetica e una conoscitiva di questo realismo trasfigurante.

Il teatro può anzitutto ambire a una critica del potere e della sua arma più subdola: la manipolazione delle coscienze. Mirano a questo effetto politico il drammaturgo australiano Andrew Bovell, autore del romanzo teatrale When the Rain Stops Falling che Lisa Ferlazzo Natoli ha messo in scena nel 2019, e Gérard Watkins, il cui Scene of Domestic Violenceè stato prodotto da Teatro Dioniso e PAV-Fabulamundi su progetto di Elena Serra. Tali artisti rappresentano eventi di violenza comunitaria e privata che sono o realmente accaduti, oppure mai avvenuti ma che potrebbero in qualunque momento verificarsi, senza tuttavia limitarsi a indulgere nella mimesi di uno status quo intollerabile. In modi diversi, infatti, i quattro artisti lavorano a una rappresentazione che mostra come tali avvenimenti hanno luogo perché si accettano valori, credenze, ruoli che sono imposti dall’alto e che possono essere rovesciati, nel momento stesso in cui si individuano programmi di pensiero e di azione diversi dagli attuali. Per chiarire con un esempio, Serra ha dichiarato che la sua riproduzione della violenza che gli uomini praticano contro le donne in Scene of Domestic Violence mira, tra le varie cose, a invitare le donne violentate a non vedersi più come vittime. Il “vittimismo” alimenta, infatti, la logica di potere che ha reso possibile l’atto violento. Una vittima esiste finché essa riconosce al violentatore che questi ha avuto e può avere ancora un’influenza su di lei. Il teatro chiede così alla donna di inventarsi un ruolo diverso, che scardini questa logica auto-distruttiva e apra a reazioni innovative contro la violenza maschile.

Di carattere sociale è invece il realismo trasfigurante di compagnie come il Teatro Periferico, diretta da Paola Manfredi e Dario Villa. Questi artisti ricostruiscono la memoria di un luogo abbandonato al degrado, come ad esempio l’ex-manicomio di Mombello, per farlo vivere in una realtà più bella di quella passata. Essi mettono in scena il racconto della storia degli ex-internati per restituire loro umanità e dare a questi spazi una funzione positiva. I luoghi abbandonati ritornano infatti ad essere adibiti con finalità socialmente utili e consentono agli stessi attori coinvolti dalla compagnia, perlopiù non-professionisti, di trasformare le loro vite, acquisendo con l’esperienza estetica delle competenze che prima non avevano.

 

Kepler-452, Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso, regia di Nicola Borghesi, ph. Luca Del Pia.


La direzione poetica che può assumere il realismo trasfigurante è presentata, invece, come l’abbattimento della realtà ordinaria e la scoperta di alcuni «mondi virtuali» alternativi. Il reale non ha un’unica faccia: come una cipolla, esso è composto da strati sovrapposti, che si rivelano all’individuo quanto più questi cerca di andare oltre i confini del piano in cui si trova. Qui meritano una menzione gli interventi di Nicola Borghesi e Daria Deflorian, che suppongono che sia necessario per l’artista “inabissarsi” dentro la memoria personale, magari a partire da un dettaglio auto-biografico o sociale anche minimo, per andare oltre la dimensione individuale e determinare un «accadimento». Questo accadere può assumere varie forme. Nel caso di Borghesi, un accadimento può ad esempio consistere nella scoperta che tra il personaggio dell’aristocratica Ljuba di Il giardino dei ciliegi e una donna sfrattata dalla sua casa popolare non esiste differenza, poiché entrambe vivono la condizione di esuli da un Paradiso perduto. Si scopre così che i confini tra la realtà della vita e la realtà della poesia sono molto labili, o anche che la memoria della bellezza dispersa di cui parlava Čechov è la medesima per tutti, a prescindere dalla propria estrazione sociale. Per Deflorian, invece, l’accadimento può consistere nel far deflagrare la memoria biografica da cui si parte attraverso la costruzione sulla scena di un’immagine «fuori controllo»: una che oscilla in modo impercettibile tra il reale e la finzione, tra il sé autentico e quello esibito nei rapporti quotidiani. Questo “accadere” ha a sua volta l’effetto di togliere la maschera che si indossa nella società “spettacolarizzata” in cui viviamo e di far desiderare di uscire dai confini del proprio ruolo, ossia a vivere in maniera piena e non frammentaria. There is a world, elsewhere, diceva Coriolano nell’omonima opera di Shakespeare. Non attaccarsi più alla propria realtà e memoria significa quindi spingersi verso i mondi vasti e inesplorati che ancora ci aspettano.

 

Infine, il realismo trasfigurante assume una dimensione storica laddove il teatro tenta di invadere anche la realtà e la memoria extra-individuale: la storia, appunto. Entro tale prospettiva, possono essere riportate le idee di Fausto Cabra, che all’interno del convegno ha raccontato il suo lavoro di messa in scena del romanzo La Storia di Elsa Morante, e l’intervento finale di Goffredo Fofi, che ha descritto con impietosa lucidità lo scenario in cui ci troviamo, dove si coglie a tutti i livelli (incluso quello culturale) l’incapacità di opporre un’azione rivoluzionaria incisiva da parte dei singoli. Ora, la messa in scena della realtà e della memoria storica attraverso il teatro aprirebbe uno spiraglio per individuare, nella bulimia dei discorsi, delle narrazioni e delle finte rivoluzioni, quali siano le cause davvero fondanti della nostra identità e le domande fondamentali per attuare un movimento di riscossa collettiva (“Chi siamo?”, “Da dove veniamo?”, “Quali sono le aree e le modalità di intervento per uscire dalla miseria attuale?”). Il macro-cosmo della storia non schiaccia così il micro-cosmo degli individui. Esso può anzi fungere da punto di partenza per vivere quanto meglio possibile nel piccolo mondo quotidiano.

La sopramenzionata asistematicità delle prospettive emerse dal convegno va in conclusione vista come un valore e un contenitore di complesse prospettive sul teatro. L’auspicio ulteriore è che Il filo del presente divenga il punto di partenza per approfondire in modo più analitico questi temi, che a loro volta aprono altre piste di ricerca feconde e promettenti.

 

L’ultima fotografia è un collage di immagini sugli spazi e il lavoro del Centro Santacristina, fondato da Luca Ronconi.

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Il Bauhaus: una scuola

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Per il centenario della fondazione del Bauhaus, tra gli altri libri, ne è uscito uno che è soprattutto un libro di memorie. E, come nella maggior parte dei libri di memorie, vi si narra di una battaglia, sebbene si tratti di una battaglia piuttosto singolare, perché combattuta da una scuola in nome dell’utopia estetica e sociale di voler armonizzare l’arte con l’industria per migliorare la vita umana. Una battaglia tesa anche a demolire le barriere fra le singole arti, nella convinzione che esse hanno tutte radici comuni. Condotta in territorio tedesco, tra Weimar, Dessau e Berlino, nei primi decenni del novecento, la sua azione rivoluzionaria e le innovazioni da essa generate hanno però travalicato i confini nazionali per “invadere" (leggi: permeare, educare, convertire, arricchire) il mondo intero con un impatto ancora oggi in crescita esponenziale. Una battaglia tesa a conciliare gli aspetti visivi della bellezza – che sono universali e senza tempo – con la razionalità e a privilegiare il rapporto tra la forma e la funzione degli oggetti che vi venivano progettati, eliminando decori e frivolezze. Perché essa, come indica il suo nome, è stata la scuola del progettare e del costruire la cui eredità non consiste nel cristallizzare e nel riprodurre per imitazione un particolare stile, quanto, piuttosto, nel perpetuare l’interesse per la questione visiva, esaltandone la centralità, ricercata, colta e studiata in ogni aspetto della vita.

 

Questo è un libro di memorie, perché chi lo ha scritto, oltre ad essere uno tra i maggiori studiosi del Bauhaus, è stato intimo amico di due docenti di quella scuola, Josef e Anni Albers, della cui fondazione, a Bethany, nel Connecticut, è direttore da più di trent'anni e dalla cui viva voce, soprattutto da quella di Anni, ha raccolto e trascritto le storie che ci narra nel libro.

“Le descrizioni di Anni a proposito delle persone che contavano al Bauhaus – e gli aneddoti che raccontò con il gusto dei romanzieri per i dettagli più importanti – mi mostrarono la vita a Weimar e a Dessau come se l'avessi vissuta" scrive Nicholas Fox Weber in: Bauhaus. Vita e arte di sei maestri del Modernismo (Il Saggiatore; pp. 643; € 42,00).

A queste si aggiungono le memorie degli altri maestri, quelle degli studenti e quelle dei sostenitori.

 


In alto: Herbert Bayer (a quella data ancora studente e poi, dal 1925, giovane maestro) e László Moholy-Nagy, copertina del catalogo della mostra del Bauhaus, Weimar, 1923. È il primo libro pubblicato dal Bauhaus. Tipografia di László Moholy-Nagy; design di Herbert Bayer. Testi di Gropius, Klee, Kandinsky, Moholy-Nagy, Schlemmer e Grunow); contro copertina del medesimo catalogo; Kurt Schmidt, locandina per la mostra del Bauhaus a Weimar, 1923. Sotto: Joost Schmidt, Manifesto per la mostra del Bauhaus, 1923; Herbert Bayer, biglietto d'invito alla Mostra del Bauhaus, Weimar, 1923; Herbert Bayer, logo del Bauhaus di Weimar. La mostra del Bauhaus del 1923, a cui Gropius aveva assegnato il tema “Arte e tecnica, una nuova unità” è stato uno degli eventi culturali più importanti degli anni venti. Fu visitata da quindicimila persone, un record se si pensa alle difficoltà di trasporto per arrivare a Weimar e agli scarsi mezzi di comunicazione pubblicitaria.


Al di là dei sei Bauhausler (Walter Gropius, Wassili Kandinskij, Paul Klee, Mies van der Rohe, Josef e Anni Albers) di cui l’autore del libro ha scelto di raccontarci la vita e l'arte, la notizia più sensazionale la riporta nelle ultime pagine e riguarda la fine del Bauhaus. Come è noto, la scuola cessò le proprie attività a Dessau a fine settembre 1932. Si trasferì a Berlino, ma, l'11 maggio 1933, fu definitivamente chiusa dalla Gestapo.

Ma si è veramente trattato di una chiusura senza appello e priva di rivincite?

Fino ad ora si sapeva di sì.

E invece parrebbe di no. Almeno a detta di Mies van der Rohe, che lo ha rivelato nel 1948 nel corso di una lezione che il libro di Fox Weber ripropone integralmente.

Sebbene non fosse un colloquio istituzionale, venne registrata e trascritta e il testo oggi si conserva al MoMA nell’archivio intitolato al maestro.

In questa lezione, Mies svelò il segreto di un'avvenuta levata di testa dei maestri del Bauhaus, almeno di quelli che ancora si trovavano in Germania, la sua per prima, in un moto d’orgoglio, piccolo, sì, ma carico di dignità, contro la bieca (violenta, proterva, ottusa, desolata e desolante) sopraffazione.

 

Mies narra che quando la città di Dessau decise di chiudere il Bauhaus, il borgomastro gli suggerì di portarsi via i macchinari e i telai. Allora Mies prese in affitto una vecchia fabbrica a Berlino, pagando di tasca propria. Era un edificio nero e sporco, ma docenti e studenti lavorando insieme, nel più puro spirito del Bauhaus, lo resero lindo e piacevole. Pare fosse così periferico che si doveva prendere il tram e poi fare molta strada a piedi.

«Una mattina sono quasi morto. – racconta Mies – La nostra meravigliosa fabbrica era circondata dalla Gestapo: uniformi nere e baionette. […]

Corsi a raggiungerli. Una sentinella mi intimò: “Altolà”.

E io gli risposi.: “Che cosa? Questa è la mia fabbrica. L'ho affittata, ho il diritto di entrare.” […] Andai a parlare con l’ufficiale. […] Parlammo e lui mi disse: “Stiamo soltanto esaminando i documenti sulla fondazione del Bauhaus.”

Dissi: “Entri!” Chiamai tutti e dissi: “Aprite tutto per l’ispezione. Aprite tutto.”

Ero certo che non ci fosse nulla che potesse essere mal interpretato.

L’indagine durò per ore ed ore. […]

Infine dissero: “ Chiudete tutto e dimenticatevene.” »

Mies si mise allora in contatto con Alfred Rosenberg, il filosofo del Partito nazista, che era a capo del Movimento chiamato Bund Deutsche Kultur, ma poiché questi era molto impegnato, gli disse che avrebbe potuto riceverlo solo alle 11 di quella stessa sera. Mies accettò e si recò all’appuntamento, accompagnato da alcuni amici, tra cui Lilly Reich, che volevano assicurarsi che non gli accadesse nulla. Mentre i suoi attendevano al tavolino di un bar di fronte all’ufficio di Rosenberg, Mies entrò da solo e gli raccontò dell’ispezione della Gestapo e della chiusura del Bauhaus. Sebbene Rosenberg fosse laureato in architettura, si trovava però sul fronte politico e culturale opposto, rispetto a quello dei Bauhausler e gli rispose: «È solo un esercito contro un altro, su una campo soltanto spirituale.»

 

I due parlarono ancora a lungo, ma era evidente che le loro posizioni erano agli antipodi. Alla fine Rosenberg congedò Mies con un generico: “Vedrò cosa posso fare per lei.”

Mies narra di essersi recato per tre mesi, ogni due giorni, al quartier generale della Gestapo: quella era la sua scuola, non ci avrebbe rinunciato tanto facilmente. Finalmente, un giorno riuscì ad entrare nell'ufficio del comandante infilandosi in una porta che aveva trovato aperta. Si sorprese nel constatare quanto questi fosse giovane. La discussione con lui non andò meglio di quella con Rosenberg, se non per il fatto che fu addotto un capro espiatorio: Kandinskij. Pareva che il nemico fosse lui, per il solo fatto di avere origini russe, era sospettato di bolscevismo. Al colmo dell’indignazione, Mies garantì per il collega e il militare promise che avrebbe parlato del Bauhaus con Göring.

Alla fine la Gestapo gli recapitò una lettera, in cui gli comunicava che avrebbe potuto riaprire il Bauhaus. Convocati allora tutti i docenti e ordinato dello champagne, la lesse loro.

«Sono andato lì ogni due giorni per tre mesi solo per ottenere questa lettera – soggiunse, alla fine. – Ero ansioso di riceverla. Volevo avere il permesso di andare avanti. Vi faccio una proposta e spero sarete d’accordo con me. Gli risponderò scrivendo: “Grazie mille per il permesso di riaprire la scuola, Ma gli insegnanti hanno deciso di chiuderla!”

Avevo lavorato sodo per assaporare quel momento. Ed era il motivo per cui avevo ordinato lo champagne. Tutti erano d’accordo e ne furono felici. Poi ci siamo fermati. Questa è la vera fine del Bauhaus. Nessuno lo sa. Ma noi lo sappiamo. Albers lo sa. Lui era lì. Tutte le altre chiacchiere sono una solenne assurdità. Loro non lo sanno. Io lo so.»

 

In alto: Weimar, l’edificio progettato da Henry van de Velde per la Scuola granducale d’Arte Applicata della Sassonia che dal 1919 ospitò il Bauhaus. Sotto: Dessau, gli edifici del Bauhaus progettati da Walter Gropius, l’insieme dell’esterno e uno scorcio degli interni in cui si vedono le poltrone Wassili di Marcel Breuer.


Il libro di Fox Weber inizia con un bellissimo racconto di Anni Albers, il cui nome da nubile era Annelise Else Frieda Fleischmann, figlia di un ricco costruttore di mobili, mentre sua madre apparteneva alla nobile famiglia degli Ullstein che possedevano la casa editrice di giornali e riviste più grande del mondo. L’artista ormai settantaquattrenne ricorda un giorno del dicembre 1929, quando, ancora studentessa del Bauhaus di Dessau, sebbene già sposata con Josef, insieme ad altre tre colleghe, aveva organizzato una spettacolare e inusuale consegna di un regalo di compleanno al loro insegnante, Paul Klee, in occasione del suo cinquantesimo genetliaco.

 

Il regalo consisteva in alcuni prodotti del Bauhaus: una stampa di Lyonel Feininger, una lampada di Marianne Brandt e alcuni manufatti del laboratorio di falegnameria, ma ad essere speciali erano il packaging e il metodo di consegna. I doni per il maestro, che le allieve adoravano al limite della venerazione, erano infatti stati inseriti all'interno di un grande pupazzo a forma di angelo, al quale Anni Albers aveva poi creato i capelli con dei trucioli di ottone per simularne i boccoli dorati. Noleggiato, quindi, un piccolo aereo nel vicino eliporto Junkers, le intrepide fanciulle erano salite tutte a bordo insieme al pilota e, sorvolata la casa, una bifamiliare nel nuovo parco-bosco di Dessau progettata da Walter Gropius con la collaborazione di Marcel Breuer, che Klee e consorte condividevano con i coniugi Kandinskij, avevano lanciato nel vuoto l’angelo volante. Purtroppo il paracadute si era aperto in ritardo e così l’angelo era rovinato al suolo, quasi schiantandosi, tuttavia Klee aveva talmente gradito il regalo e apprezzato il suo arrivo dal cielo, da averlo addirittura immortalato in una tela in cui sono raffigurati una cornucopia piena di doni, poggiata a terra e un angelo un po’ acciaccato sulla sinistra, del quale spiccano in modo evidentissimo i boccoli dorati.

 

Paul Klee, Regali per j, 1929, il dipinto celebra un’insolita consegna di regali avvenuta al Bauhaus di Dessau in occasione del cinquantesimo compleanno dell’artista.


Fox Weber utilizza il racconto di questo episodio quasi fosse una parabola, non soltanto per restituirci l’atmosfera idilliaca che esisteva al Bauhaus tra insegnanti e allievi (peraltro ‘sancita' da Gropius nei “Principi del Bauhaus", che prevedevano di “incoraggiare relazioni amichevoli tra maestri e studenti fuori dall’ambito lavorativo”), ma anche per parlarci di uno dei temi centrali di quella scuola: il processo della visione.

Infatti Anni Albers, che volava per la prima volta, ebbe in quell’occasione, come lei stessa ha dichiarato, l’improvvisa consapevolezza che esistevano altre dimensioni visive, così come era possibile una differente percezione del tempo. Questa scoperta pare abbia cambiato per sempre il suo modo di rendere lo spazio nei lavori che eseguiva al telaio e nelle sue guaches astratte.

Fox Weber ci confessa che quanto più ascoltava i racconti di Anni, tanto più comprendeva, e noi con lui, “che i grandi maestri del Bauhaus erano vissuti con quella stessa creatività e il medesimo stile che si ritrovano nelle loro opere.”

Il libro dedica un capitolo a ciascuno dei sei maestri di cui ha scelto di narrare le vicende e lo fa in modo molto documentato, attingendo le notizie dalle carte conservate negli archivi sia tedeschi che americani, dalle biografie dei singoli (comprese quelle dei fan, tra cui si annovera Igor Stravinskj, sostenitore del Bauhaus di Weimar, dove, durante la mostra/festa del 1923, venne eseguita, per la seconda volta in pubblico, la sua opera Histoire du Soldat, tra le ovazioni e le acclamazioni di docenti e studenti), dagli appunti dei maestri, dai saggi dedicati all’argomento (dalle note traspare la consultazione di una ricchissima bibliografia), senza escludere tutte le pubblicazioni del Bauhaus, ma soprattutto dalla viva voce degli Albers. Sono proprio i loro racconti le parti più “intriganti", le più coinvolgenti del libro, nonché quelle maggiormente rivelatrici dello spirito del Bauhaus e dell’anima dei Bauhausler.

 

A proposito della vita in quella scuola, è stato recentemente tradotto il romanzo di Theresia Enzensberger, La ragazza del Bauhaus, (Guanda, € 18,00) che la racconta dalla parte degli studenti, anzi dalla parte di una studentessa. La protagonista, Luise Schilling, lotta per la propria emancipazione dagli stereotipi del suo tempo, compresi quelli, interni allo stesso Bauhaus, per il resto così all’avanguardia, che negavano a una donna l’accesso all’architettura, professione a cui lei ambisce, considerata invece di esclusivo appannaggio maschile. Nella narrazione di una quotidianità eccezionale, il romanzo mette a nudo entusiasmi e contraddizioni, creatività e rivalità della scuola d'arte più straordinaria del novecento.

 

Sopra: La ragazza del Bauhaus, copertina del romanzo; le ragazze del Bauhaus, fotografate da Lux Feininger sulla scala della scuola di Dessau, intorno al 1927; Oskar Schlemmer, Le scale del Bauhaus, olio su tela. Sotto: Anni Albers nel laboratorio di tessitura di Weimar; Josef e Anni ai tempi del Bauhaus; Anni in America intorno agli anni cinquanta.


Da una storia romanzata, ad una vera, infatti, così narra Anni Albers del proprio arrivo al Bauhaus, dove era stata ammessa come allieva al Vorkurs di Itten:

«Arrivai al Bauhaus ‘nel suo periodo dei santi’. Molti intorno a me, che ero una nuova arrivata, smarrita, disorientata, vestivano – cosa alquanto bizzarra – di bianco. Non era un bianco professionale o estivo, era un bianco da vestale. Ben lontani dall’essere belli, quei vestiti larghi e quegli abiti da uomo flosci avevano piuttosto un tocco casalingo e familiare. Si trattava chiaramente di un luogo dove si procedeva a tentoni, si farfugliava e si sperimentava, tentando la sorte.

Fuori c'era il mondo da cui provenivo, un groviglio senza speranza composto da energie prive di direzione e obiettivi diversi. Anche all’interno del Bauhaus, che esisteva da circa due anni, c'era confusione. Sembrava che gli sforzi […] si concentrassero su di uno scopo che non riuscivo a vedere e che temevo potesse restare per sempre nascosto dentro di me. Poi Gropius parlò. Diede il benvenuto a tutti noi studenti. Parlò delle idee che avevano portato alla nascita del Bauhaus e del lavoro che c'era ancora da fare.» Ed Anni ne rimase affascinata a tal punto che, da studentessa, divenne poi insegnante e quindi direttrice del laboratorio di tessitura.

 

Così come per gli studenti, anche da parte dei maestri, accanto all’entusiasmo di poter insegnare cose nuove e straordinarie, c’era la consapevolezza che vi fosse in atto un vero e proprio scambio di conoscenze con i propri alunni. Will Grohmann, che di Klee e di Kandinskij è stato amico e biografo, nel suo Wassily Kandinskij.La vita e l’opera (Il Saggiatore, 1958), scrive in proposito: “a Kandinskij capitava la stessa cosa di Klee, il quale disse una volta che in fondo avrebbe dovuto pagare le tasse scolastiche per tutto ciò che aveva imparato dai propri allievi.”

Secondo il parere del fondatore del Bauhaus, era però Josef Albers l’insegnante migliore della scuola, senza nulla togliere alla straordinarietà degli altri:

«A Dessau Albers aveva una qualità molto rara: insegnava trattando ogni studente in modo diverso. […] Era davvero il miglior insegnante che si potesse immaginare, perché conduceva a sé gli studenti. […] Al Bauhaus riconoscevamo il fatto che ogni studente fosse completamente diverso dall’altro, perciò l’obiettivo dell’intero sistema era, per quanto possibile, di insegnare in modo personalizzato: tirando fuori dal singolo individuo qualunque cosa di cui la natura lo avesse dotato.

Abbiamo sviluppato effettivamente una componente piuttosto profonda di ogni cosa – un dipinto, un edificio, una sedia o qualsiasi altro oggetto dovessimo studiare attraverso l’utilizzo che ne fa l’essere umano. Non questa o quell’altra idea estetica. Questo è il vero funzionalismo.»

Tra l’altro, Josef Albers al Bauhaus è stato in carica come insegnante più a lungo di tutti gli altri, vi ha infatti insegnato per trent’anni (prima al Vorkurs di Weimar con la cattedra di Principi di tecnica artigianale, divenuta poi Principi di design a Dessau), disegnando, realizzando vetrate e lampadari, tavoli e sedie, ideando nuovi alfabeti, progettando edifici e utilizzando la macchina fotografica in modi inaspettati, ma soprattutto studiando a fondo il tema del colore, valutando e teorizzando “l'azione dei colori oltre a percepirne la relazione cromatica” (questi studi sono stati pubblicati ne: Interazione del colore. Esercizi per imparare a vedere, Il Saggiatore, 2003).

Fedele ai principi del Bauhaus, soltanto una volta che i suoi studenti erano in grado di padroneggiare la tecnica Albers consentiva loro di esercitare la propria inventiva, ma prima di tutto essi dovevano imparare a “saper fare”.

A proposito del proprio metodo di insegnamento, uguale al Bauhaus come al Black Mountain College, nel North Carolina e poi al Dipartimento di Design della Yale University, a New Haven, nel Connecticut, dove Josef Albers, dopo la sua fuga dalla Germania nazista, avvenuta nel novembre 1933, ha insegnato (quest’ultimo lo ha anche diretto negli anni cinquanta), così ha dichiarato lui stesso in un’intervista rilasciata nel 1968 alla BBC:

«Klee, Kandinskij, Schlemmer erano dei maestri. […] Non gliene importava niente dei vecchi insegnanti. Non guardavano al passato, né leggevano dai libri prima di entrare in classe. Si erano evoluti e quindi potevano far evolvere gli altri. […] Io non ho mai insegnato arte, credo. Ho insegnato filosofia. Non ho mai insegnato pittura. Ho insegnato a guardare.»

 

In alto: Josef Albers al Workurs del Bauhaus di Weimer con un allievo; alcuni lavori dei suoi studenti risalenti al 1928, sul tema della traslazione della forma dal piano allo spazio. Sotto: due momenti delle lezioni di Albers al Dipartimento di Design della Yale University, da lui diretto negli anni cinquanta, dopo la sua fuga dalla Germania nazista.

 

Ma al Bauhaus, non sono state tutte rose e fiori. La scuola, infatti, sempre alla ricerca di fondi e di sponsor, accanto alle frequenti difficoltà economiche, ha avuto parecchi nemici, soprattutto nel mondo dei burocrati della politica, che, ogni volta, ne hanno ingiunta la chiusura.

Per fortuna, essa ha avuto anche illustri sostenitori, annoverati fra i personaggi più rilevanti nel mondo della cultura: da Stravinskij, di cui si è detto, a Ferruccio Busoni, ad Arnold Schönberg (amicissimo di Kandinskij); da Albert Einstein, a Konrad Adenauer; da Marc Chagall, a Oskar Kokoschka; da Peter Beherens, a Hendrik Berlage, a Le Corbusier; a Siegfried Giedion che, nel 1923, sul quotidiano zurighese Das Werk, scrisse un articolo di sostegno al Bauhaus:

«Il Bauhaus di Weimar […] si assicura il rispetto […] persegue con insolita energia la ricerca di nuovi principi che dovranno essere scoperti se l’impulso creativo dell’umanità vorrà mai vedersi riconciliato con i metodi produttivi dell’industria. […]

Il Bauhaus sta portando avanti la sua ricerca con lo scarso sostegno […] di una Germania impoverita, intralciato dalla facile derisione e dagli attacchi malevoli dei reazionari, nonché dei dissidi personali interni al gruppo. […] Gropius ha rianimato l’arte e demolito le barriere tra le singole arti, oltre ad aver riconosciuto e posto in risalto la radice comune di tutte le arti.»

A questo, che fu il primo articolo ad apparire al di fuori dei confini della Germania, ne sarebbero seguiti molti altri e la fama del Bauhaus si sarebbe diffusa nel mondo, senza che il Terzo Reich potesse impedirlo, perché quando le idee sono buone, continuano a circolare, contro ogni sopraffazione, al di là del tempo e dello spazio.

Credo che il mondo migliore per celebrare il centenario del Bauhaus e la sua eredità culturale sia espresso in un breve pensiero di Josef Albers, che il libro di Fox Weber cita:

“Distribuire i beni materiali significa condividerli; distribuire i beni spirituali significa moltiplicarli.”

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Siri Hustvedt. Ricordi del futuro

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Nel 1978, la ventitreenne Siri Hustvedt lascia il Minnesota per trasferirsi a New York. Ha vinto una borsa di studio per studiare Letterature Comparate alla Columbia, l’anno successivo, ma prima di iniziare il dottorato vuole mettersi alla prova come scrittrice e provare a scrivere un romanzo. Prende in affitto un appartamento in periferia e inizia a percorrere la città con un misto di paura, eccitazione e sprezzo del pericolo; patisce la solitudine, all’inizio, e deve stare attenta a non spendere troppo. La New York del ’78 è come Parigi o Londra per un qualsiasi eroe ottocentesco; percorrere in metro le viscere della città scansando le offerte di piaceri sessuali a buon mercato e i potenziali pericoli significa per Minnesota, come iniziano a chiamarla, decidere di esplorarne le potenzialità creative (“Abito nella possibilità”, scrive d’altronde uno dei suoi poeti preferiti, Emily Dickinson, e nel recente Città sola, Olivia Laing racconta con dovizia di particolari come quella New York, nonostante le sue ombre, potesse essere davvero una manna per gli artisti).

 

In Ricordi del futuro, l’ultimo libro di Hustvedt pubblicato da Einaudi con la traduzione di Laura Noulian (pp. 360, € 21), si sovrappongono però due prospettive temporali; nell’altra siamo nel 2016, anno in cui la scrittrice ritrova casualmente un manoscritto che credeva di aver perso. Si tratta della storia che stava scrivendo nell’inverno del ’78 a proposito di due adolescenti che giocano a fare i detective; nel corso delle settimane Minnesota aveva perso interesse nei loro confronti e iniziato a origliare i deliri della vicina Lucy, che biascicava parole a proposito di una figlia caduta dalla finestra, o spinta da qualcuno, non lo sapremo mai. Lucy è in evidente stato di sofferenza psichica, e con l’aiuto dello stetoscopio del padre Minnesota cerca di decifrare i rumori confusi che provengono dall’appartamento, ed è così che si apre il terzo filo nella narrazione, quello che riguarda proprio Lucy. Quando finalmente Minnesota entra in contatto con lei, non solo si apre un’altra storia, in base a uno degli assunti centrali del libro, ovvero che ogni storia diventa sempre un’altra storia, ma esplora, grazie ai personaggi che le gravitano intorno, nuove possibilità di conoscenza e di percezione di sé che hanno a che fare con la misoginia e la violenza maschile, anche. 

 

Hustvedt scrive in piena era Trump, e questo strano libro di fili che si intrecciano e prospettive temporali che si mescolano si trasforma presto da Bildungsroman della giovane e provinciale scrittrice che scopre la metropoli a riflessione sempre più accorata sulla condiscendenza (non solo maschile) verso le ambizioni e i traguardi delle donne. C’è il #metoo, in trasparenza, e ci sono perfino delle streghe newyorchesi con tanto di legamenti di bambolotti e divagazioni sulla potenza della placenta, accolte dalla Nostra con il giusto disincanto ma anche con quella intima partecipazione che è sempre il segnale della presenza di una storia che ci riguarda. 

 

 

Tutto inizia con il ricordo del padre che si indispettiva quando l’atteggiamento nei suoi confronti era meno che adorante, e continua con Chris Kraus che commenta sarcastica gli allievi del brillante marito (vedere il recentemente tradotto I love Dick, per capire), con Paul De Man in un’aula universitaria che dice cose non memorabili ma in virtù del suo prestigio accademico riceve comunque l’ammirazione incondizionata dei presenti, e finisce con Trump e l’“età dell’odio” in cui ci tocca vivere. In un’intervista al “Guardian” in occasione dell’uscita di un volume di suoi saggi, A Woman Looking at Men Looking at Women: Essays on Art, Sex and The Mind, nel 2016, Hustvedt commentava così l’avvento di Trump: “È stato eletto perché il suo sfruttamento della grande tecnica della menzogna ha funzionato, e perché la misoginia è viva e vegeta sia tra gli uomini che tra le donne. È stato eletto perché, come ha dimostrato uno studio di Yale, di fronte a un’identica descrizione di un politico ambizioso, sia gli uomini che le donne rispondono al candidato femminile con sensazioni di “oltraggio morale”, ma non provano le stesse sensazioni verso un candidato maschio che aspira al potere”. 

 

Nel suo romanzo forse più ambizioso, Il mondo sfolgorante, Hustvedt affrontava il problema di come il talento femminile possa essere misconosciuto dal mondo dell’arte; in Ricordi del futuro, a fare da talismano dell’ambizione della scrittrice da giovane c’è la baronessa Elsa von Freytag-Loringhoven, scrittrice e rutilante artista dada solo di recente riscoperta dalla critica, parte della quale la ritiene l’autrice della Fontana di Duchamps, con cui ebbe una breve relazione e di cui lasciò l’eloquente ritratto: un tripudio di penne di pavone dentro un bicchiere di vetro. Qui, l’ossessione di Hustvedt per Elsa von Freytag-Loringhoven la trasforma in un talismano reale, non solo simbolico: il coltello che le viene regalato da un’amica dopo un’aggressione sessuale viene ribattezzato “la baronessa”, e si tramuta in un oggetto magico che permette di esprimere la rabbia prima inespressa.

 

In un saggio successivo contenuto in Vivere pensare guardare, Hustvedt scrive: “Quando terminai il mio terzo romanzo e mandai ai miei il manoscritto, mio padre stava già male ma viveva ancora a casa. Quel libro era il primo in cui narravo con voce maschile. Un pomeriggio squillò il telefono e, con mia grande sorpresa, era mio padre. […] Senza nessun preavviso, si lanciò in una lunga disquisizione sul libro, lodandomi per i miei sforzi letterari, e io mi misi a piangere. Lui parlava e io singhiozzavo. Lui continuava a parlare e io singhiozzavo ancora di più. Anni di lacrime. Non avrei mai predetto una reazione così violenta. Ma quindi, dopotutto, sapeva. Sapeva quanto desideravo la sua approvazione, il suo consenso, la sua stima, e sapeva anche che, diversamente da quanto avevo sempre creduto, non mi era dovuta: questo avviò un riavvicinamento. Quell’evento ci cambiò, entrambi. Perlomeno parte della distanza che c’era tra noi scomparve, e nei mesi prima della sua morte, seduti l’uno accanto all’altro, parlavamo da amici, da forti pari, da persone reali, non ideali, che si erano ritrovate”.

 

Nella Donna che trema, pubblicato sempre da Einaudi nel 2010, le indagini di Hustvedt tra neuroscienze, filosofia e psichiatria andarono a toccare la sorgente della rabbia e del dolore che affiorano, sempre con estremo controllo, nei suoi libri spesso a metà tra saggistica e fiction. Dopo la morte del padre, a una commemorazione in suo onore, Hustvedt si ritrova a tremare violentemente. Non si tratta di un episodio isolato, perciò cerca di capire di cosa si tratti: un attacco epilettico? Isteria? E cos’è veramente l’isteria? E quando io tremo, chi trema veramente? Io? Ma io non sono il me tremante, e di sicuro non voglio esserlo. La donna che trema non ha risposte definitive sull’origine del suo disturbo, ma Hustvedt non ha l’aria di una che si fa intimidire facilmente, né dai lutti, né da Trump e meno che mai dalla morte. In un’altra recente intervista, ha stilato una specie di elenco delle cose che ha intenzione di scrivere prima di morire: “un altro romanzo, un libro filosofico, e molti, molti saggi da inserire in un’altra raccolta”. Secondo me può fare anche di meglio.

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Una storia che ci riguarda
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Cose afgane

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Disegnare, rispetto al fotografare, forse è un modo per fermare di più. Figure a colori è un tentativo di mettere insieme delle immagini di oggi con quello che mi porto dietro. Una specie di dossier.

 

Mesi fa è apparsa una fotografia sui giornali: appena vinto le elezioni comunali a Ferrara col loro candidato, sostenitori della Lega hanno messo la bandiera del partito sullo scalone del municipio, dove era appeso lo striscione di Amnesty International Verità per Giulio Regeni, coprendolo in parte; l’immagine appariva come una specie di censura, un effetto simile alle soprastampe dei francobolli del passato, dove un ente occupante si appropriava dell’immagine timbrandovi sopra una propria. Il giorno dopo l’ho disegnata su un cartoncino nero con delle matite colorate e un titolo: Chi di spada perisce, di spada perisce. Non ho mai reagito con un’opera a un evento in modo così immediato. 

L’impulso che mi ha spinto a pensare un disegno è il desiderio di fermare quell’immagine complessa in un’opera, perché è un’immagine composta che unisce loghi, simboli e significati in modo inedito e molto simile al mio modo di operare con collage, accostamenti e assemblaggi. 

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Fgure a colori
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Somiglianze. Una via per la convivenza

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La sua battaglia contro l’identità Francesco Remotti l’aveva iniziata nel 1996 con un titolo quanto mai significativo, appunto: Contro l’identità (Laterza), dove metteva in luce l’artificiosità delle costruzioni identitarie, per poi proseguire con la denuncia de L’ossessione identitaria (Laterza) in cui ampliava il discorso e metteva in guardia dalle pratiche, spesso manichee, fondate su questo principio. Tutti e due questi lavori erano fondati più su analisi tese a denunciarne i rischi; con quest’ultima fatica, dal titolo Somiglianze. Una via per la convivenza, Remotti compie un importante passo avanti, scavando fino alle radici del nostro essere. Ed è proprio da questa operazione di scavo, che l’autore ci conduce con un lungo e documentato percorso nei meandri dei bisogni su cui si fondano le identità, mali forse necessari per riuscire a pensarci come gruppo coerente, ma che molto spesso da entità fluide e soggette a cambiamento, si trasformano in fortezze quasi sempre finalizzate a tenere fuori gli altri, a escluderli. Molto spesso, infatti, molte delle identità proposte come “naturali” sono più il prodotto di una avversione comune verso gli altri, che di un reale legame all’interno del gruppo. Un caso a noi vicino, per esempio, come lo slogan “Prima gli italiani”, che si fonda su una presunta spiccata identità italiana, esprime solo la volontà di escludere chi italiano non è, ma non produce nessun rafforzamento delle relazioni interne.

Una chiusura progressiva verso un’identità essenziale, reificata, inamovibile finisce per provocare un forte impoverimento culturale e soprattutto una sempre più ridotta capacità di convivere. Ed è proprio da questa parola “convivenza”, che Remotti parte per lanciare la sua proposta: se l’identità si fonda essenzialmente sulle differenze, perché non provare, invece, a pensare in termini di “somiglianze”? Se riflettiamo, infatti, in natura non esiste identità, nel senso che non esistono due cose identiche, semmai sono simili.

 

L’antropologia ha sempre dedicato particolare attenzione alla nozione di persona e di come essa possa cambiare nelle diverse società umane. In fondo ogni cultura rappresenta se stessa e i suoi componenti nel modo che le è più consono e Remotti mette in luce come la società occidentale abbia dato vita nel tempo (e non da oggi) a una concezione individuale della persona, considerando ogni umano un’entità a sé, atomica, unica e indivisibile. Attingendo dal repertorio etnografico però, scopriamo che non per tutti è così: altre società hanno pensato all’uomo come creatura “composta” da parti diverse. 

Qui Remotti afferra la barra del timone e inizia a sconfinare nei mari della scienza e in particolare della biologia, scoprendo con piacere che le sue intuizioni in campo antropologico sono confermate dalla ricerca scientifica. La biologia, infatti, ha approfondito le relazioni tra l’individuo e il suo ambiente, mettendo in luce come i confini tra i vari organismi siano alquanto porosi e pertanto esista uno scambio costante tra “noi” e ciò che starebbe al di fuori, ma che in realtà sta anche dentro di noi. Scopriamo così che conviviamo con oltre duemila batteri e altri organismi di vario tipo. La pelle, ultimo confine tra noi e il mondo, non è un muro invalicabile. Come forse non lo è nessun altro muro. 

 

 

«Nessun uomo è un’isola» ci ammoniva John Donne e infatti, alla luce di queste riflessioni, dovremmo pensarlo più come un arcipelago. Quell’arcipelago che per Edouard Glissant: «È un grande circolo, che si oppone alla pretesa linearità delle passate forme di conoscenza. Il Mediterraneo è un mare che tende a concentrare. Le forze al suo interno tendono allo stesso ideale, all'esaltazione dell'Uno. Non è un caso se le tre maggiori religioni monoteistiche, cristianesimo, ebraismo e islam, sono nate proprio nell'ambito mediterraneo. Al contrario l’arcipelago è un mondo che divide, il regno della diversità. L'arcipelago disgrega, non concentra». 

Le barriere della diversità sono, secondo Glissant, una delle tante eredità della cultura occidentale e della sua tendenza all'unitarismo a cui contrappone l’indefinitezza come matrice originaria. 

Non più individuo quindi, ma dividuo, divisibile e soggetto a mutazione. Di qui si parte per un nuovo attacco all’identità. Nessuno di noi, infatti, è identico al se stesso di dieci, venti o trent’anni fa. Certo siamo simili a ciò che eravamo, non uguali. “Simili”, ecco la parola chiave, che spiega la coerenza di ogni persona, senza cadere nella trappola identitaria. Ci sono elementi di continuità ed elementi di discontinuità in ciascuno di noi e tra di loro c’è, a tenerli insieme, quella “somiglianza di famiglia” cara a Wittgenstein. Non siamo fatti di identità, ma di somiglianze e somiglianza significa anche di differenza, si porta dietro questo carico, che troppo spesso tendiamo a cancellare. 

 

Non solo, ma se la biologia ci ha dimostrato che in fondo, senza saperlo, conviviamo con migliaia di altre forme di vita, significa che non siamo solo dividui, ma condividui. Questo termine sottolinea l’esigenza della continuità non nell’identità, ma in qualcosa che in qualche modo sta insieme. Ecco la proposta di Remotti per una nuova convivenza, ancora più importante in tempi come i nostri, in cui questa capacità viene sempre meno. Accade perché noi umani, a differenza degli organismi che ospitiamo (o sono loro a ospitarci e a consentirci di vivere?), siamo vittime delle rappresentazioni che noi stessi abbiamo costruito. Impigliati nella ragnatela di simboli che noi stessi abbiamo costruito, come dice Max Weber, finiamo per non vedere ciò che Walt Withman aveva forse intuito quando scriveva: «Sono grande, contengo moltitudini».

Viene da pensare che forse eravamo più saggi quando, per indicare gli altri, usavamo un’espressione purtroppo uscita dal lessico contemporaneo: “i nostri simili”.

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Francesco Remotti
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Letteratura sotto spirito

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Tutte le volte che devo dare un volto a un artista alcolista, per motivi che non so, mi torna in mente una foto che ritrae il grande Chet Baker seduto con la tromba in mano e il capo lievemente reclino sul petto di Diane Vavre che lo abbraccia. Baker ebbe a che fare con l’eroina, che gli rovinò la vita (non l’arte), ma per me l’espressività di quella foto rappresenta in assoluto e con intensità straordinaria l’acutezza della malinconia di chi è costretto a dividere la sua arte con la sua disperazione. Quando alcol o droga incrociano la vita creativa di un artista è come se anche il demone debba in qualche modo collaborare con lui, a prezzo di inesorabili e spossanti prove di forza per ottenere che l’uno sia incentivo dell’altro senza oltrepassare la soglia del fallimento, dell’opera e dell’artista. 

 

Capire l’alcol, di questo forse si tratta. È un tema ricorrente (per un quadro antropologico generale che faccia da sfondo può essere utile Storie di ubriachezza), periodicamente qualcuno ci riprova ad affrontarlo, ma alla fine tutti devono desistere e ammettere che le “ragioni” dell’alcol al più si possono intuire. Come dice quello sconclusionato burlone triste e fanatico scrittore di lettere di Herzog, protagonista dell’omonimo romanzo di Saul Bellow: “Esamina bene ciò che è comprensibile e concluderai che soltanto l’incomprensibile ti fornisce qualche luce.” Questa riflessione fumosa credo possa funzionare bene per seguire le peregrinazioni di Olivia Laing alla ricerca di “qualche luce” che spieghi l’angosciosa vita di alcuni grandi scrittori americani del ‘900 imprigionati nella dipendenza alcolica. Viaggio a Echo Spring. Storie di scrittori e alcolismoè un percorso nei diversi gradi di complessità dell’alcolismo che per l’autrice è anche un fare i conti con la personale esperienza vissuta in famiglia. Il suo viaggio non è quello del titolo, Echo Spring (la sorgente dell’eco) è infatti il nomignolo con cui l’ubriacone Brick designa l’armadietto dove sta il suo bourbon preferito in La gatta sul tetto che scotta di Tennesse Williams, uno dei sei protagonisti del libro insieme a John Berryman, Raymond Carver, John Cheever, Francis Scott Fitzgerald e Ernest Hemingway.

 

Si tratta piuttosto di un itinerario nei luoghi dove la scrittrice inglese fruga tra le testimonianze di vita dirette e indirette, le atmosfere, gli odori, alla ricerca di una qualche ragione recondita del perché Williams, Carver, ecc. hanno “dovuto” fare ricorso all’alcol per resistere al mondo. Rimane poco chiaro il perché proprio questi siano scelti come gli autori più rappresentativi in un elenco ben più nutrito – per rimanere nel solo contesto americano – di profili letterari e culturali anche più consistenti, si pensi a William Faulkner, a Truman Capote, Jack London o Hart Crane che compaiono appena qua e là solo a fare da sfondo. È invece esplicita la ragione del tutto autobiografica per cui le scrittrici non ci sono: “le loro storie – dice Laing – mi toccavano troppo da vicino”, alludendo alla vicenda della madre che aveva un rapporto con una donna alcolista.

 

Viaggio a Echo Springè una navigazione molto emotiva verso un “cuore di tenebra” nel quale le spiegazioni scientifiche dell’alcolismo si annodano alle dissennate ragioni del bisogno che anche gli uomini complessi come i grandi scrittori hanno di ubriacarsi, senza mai separare, scrive l’autrice, “il dramma neurale dell’alcolismo dal mondo, il mondo veloce e sudicio in cui esso va in scena.” E c’è come un grande messaggio che tutti gli autori considerati sembrano mandare a coloro che vorrebbero capirli e salvarli: “Tu non devi mai, mai!, chiedermi di non bere!”, ed è quello che dice aggressivamente Ben (Nicolas Cage) a Sera (Elisabeth Shue) in Via da Las Vegas, storia di dolore e alcol raccontata benissimo al cinema nel 1995 da Mike Figgis e tratta dal romanzo di John O’Brien. 

 

 

Laing per cominciare visita a New York gli Alcolisti Anonimi (A.A.), perché da loro pressoché tutti gli alcolisti prima o poi arrivano dichiarando l’incapacità di affrontare da soli quello che il personaggio di Hannah in La notte dell’iguana (sempre di Williams) chiama “il diavolo triste”. Prendendosi per mano con gli altri recita la Preghiera della serenità con la quale si aprono le sedute e si chiedono a Dio “la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscerne la differenza”. Esperienze che riportano a galla i ricordi del passato dell’autrice, delle sue amare frequentazioni forzate con l’alcolismo. Un sali-scendi continuo tra consapevolezza scientifica e realtà fattuale. È un buon esercizio, ancorché metodologicamente un po’ sconnesso, di avvicinamento alle esistenze degli scrittori: una narrazione (forse volutamente) a volte anche sfocata e strabica, offuscata, di vite esaltanti e umilianti, fatte di gesti magnifici e di viltà miserabili.

Si scoprono i tratti comuni dei vari autori, madri oppressive e padri remissivi, disprezzo di sé, sessualità non definite e conflittuali, vite di promiscuità, morti premature quando non per suicidio (Berryman e Hemingway) per i postumi di una vita frenetica, solo due (Carver e Cheever) riescono a smettere con l’alcol. Situazioni insopportabili, come il disturbo permanente della “circuiteria del sonno”, cioè l’insonnia, che fa scrivere nella notte a Fitzgerald : “Vedo il vero orrore crescere sui tetti e nei clacson stridenti dei taxi dei nottambuli e nella stridula monodia dell’arrivo dei festaioli lungo la strada. Orrore e spreco – Spreco e orrore – ciò che avrei potuto essere e fare ma che è stato perso, speso, sparito, dissipato, divenuto irrecuperabile. […] Nessuna scelta, nessuna strada, nessuna speranza – solo l’infinito ripetersi del sordido e del semitragico” (p.81).

 

Il vero motivo che spinge Olivia Laing nella sua ricerca è soprattutto capire come questa “miscela di spiriti” si ripercuota sulla letteratura. “Bere intensifica le sensazioni – scrive Williams –. Quando bevo, le mie emozioni si intensificano e io lo riverso nel racconto. Poi diventa difficile equilibrare ragione ed emozione. I racconti che ho scritto da sobrio sono stupidi […]” (p.90). E John Cheever dice che “Lo scrittore coltiva, espande, solleva e gonfia la propria immaginazione […]. Mentre gonfia la sua immaginazione, gonfia la sua tendenza all’ansia, e inevitabilmente diventa vittima di fobie annichilenti che si possono alleviare con dosi letali di eroina o di alcool” (p.152). Il libro è ricolmo di queste riflessioni che sbattono contro l’insormontabile dell’invenzione artistico-letteraria, e raccontano la macabra altalena degli autori tra creatività e autodistruzione, tra momenti di elevazione e odio di sé.

L’alcol non è una questione letteraria, ma è molto interessante entrare nel privato più recondito di personalità così straordinarie. Lo scrittore che dipende dalla droga “è nient’altro che un tossicodipendente” dice Stephen King, autore anch’egli alle prese con alcol e droga, e tuttavia il demone alcolico sembra talvolta intervenire in senso generativo nel determinare il fatto letterario. Il problema forse rimane quello indicato a suo tempo da Ernst Jünger, altro tossico-alcolista: “Nell’ebbrezza […] porzioni di tempo vengono anticipate, amministrate in modo diverso, prese in prestito; e questo prestito va restituito” (in Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza, Guanda 2006).

 

Sono sei storie strazianti che a volte si incontrano sulla stessa strada, Fitzgerald e Hemingway, Cheever e Carver sono amici non solo di sbronza. Tennessee Williams compare come una sorta di creatura sacrificale, completamente dilaniato dall’instabilità psicologica e un’omosessualità disordinata che l’alcol esalta fino a finirlo; i contorcimenti coscienziali di Berryman gli impedirono, tra altro, di liberarsi del suicidio del padre (“Mio padre ha spento tutto quando avevo dodici anni / ha spento la candela più luminosa della mia speranza” ); il dolore di Hemingway per la perdita di un padre fragile e autentico che ha deciso di uccidersi non si placherà mai. Sei alchimie del “triangolo amoroso tra esperienze infantili, alcol e scrittura”, come scrive la Laing, verso le quali ha un approccio che sembra addirittura tenero, accondiscendente; i comportamenti, anche i più rivoltanti (l’abitudine alle bugie, alla negazione), sono accolti quasi con affetto, mai biasimati. C’è uno sforzo sincero, ancorché instabile, di prendere il punto di vista dell’alcolista, di guardare insieme a lui da dietro la sua barriera nervosa, di percepire le cose con lui. Di capire non l’alcol, ma gli uomini dalla personalità straordinariamente ricca e tuttavia segnata da una faglia interiore devastante. Contro l’ubriachezza, che “è la guida per una morte oscena” come ha scritto Raymond Carver, uno dei pochi che ne sono usciti. 

 

Olivia Laing, Viaggio a Echo Spring. Storie di scrittori e alcolismo, traduzione di Francesca Mastruzzo e Alessio Pugliese, il Saggiatore 2019, pp. 319, Euro 24,00.

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Quando uno disegna una pecora

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Scrivere del Piccolo Principe

Scrivere a proposito del Piccolo Principeè impresa complessa. Incluso fra i libri più venduti della storia (200 milioni di copie fra cartaceo, DVD, CD, 400 milioni di lettori stimati), pubblicato in più di 300 di lingue, diventato una serie tv in 80 episodi venduta in 50 paesi, sostenuto da un merchandising che spazia dalle tazze agli ombrelli, dalle agende ai posacenere, dai peluche alla biancheria, dagli orologi alle lampade alle immancabili magliette – in Francia gli è stato dedicato un parco a tema, in Corea un villaggio, in Giappone un museo, e a Parigi c’è Le Petit Prince Store, a cui fa capo lo store online ufficiale che vende plotoni di pecore, rose, aeroplanini e volpi – nel tempo da libro si è trasformato in caso editoriale e quindi in fenomeno culturale, come confermano la banconota da 50 franchi con cui nel 1997 la Francia ha omaggiato libro e autore, e le numerose serie di francobolli dedicate dalla Repubblica Francese allo scrittore e al libro. 

 

 

 

 

 

Dal primo gennaio 2015, inoltre, in tutto il mondo (eccetto che in Francia dove i diritti sussisteranno fino al 2032), essendo trascorsi 70 anni dalla morte dell’autore, Il Piccolo Principeè diventato di dominio pubblico: scadenza che ha coinciso con una proliferazione incontrollata di edizioni, molte delle quali proposte con illustrazioni diverse da quelle originali. Una vera e propria orgia iconografica che da una parte propone il testo originale separato dal proprio impianto visivo, dall’altra utilizza il personaggio e la trama per ogni genere di operazione editoriale (manuali, parodie, riscritture, serie narrative o a fumetti, animazioni e persino libri personalizzati dove il nome del bambino che riceve il libro entra nel racconto diventandone protagonista).

 



 



 


 

 

Vale la pena notare che se il successo planetario ha reso questo libro (di cui l’autore risulta ai più sconosciuto) immortale, dall’altra lo ha destrutturato, smontato pezzo a pezzo allo scopo di usarlo con gli obiettivi più diversi, con ciò allontanandolo non solo dalle intenzioni dell’autore (che, consapevole del rischio, invitò fin da subito pubblico e critica a “non prenderlo sottogamba”), ma anche dalla forma originale che per quanto, a uno sguardo superficiale, possa apparire semplice, quasi elementare, non lo è affatto. Esemplare a questo proposito è il paragrafo che al libro dedica il bel catalogo Babar, Harry Potter & Cie Livres d’enfants d’hier e d’aujourd’hui, edito dalla Bibliotèque National de France nel 2008 ad accompagnamento di un’ottima mostra sul libro per l’infanzia tenutasi alla BnF. 

 

Saint-Exupéry pubblicando questo breve testo poco prima della propria scomparsa ha giocato un tiro mancino a tutti gli appassionati di categorie. Libro rivolto ai bambini, come indica la dedica; libro dal successo costante e internazionale […] caso eccezionale di libro universale che ha toccato tutte le culture, e di cui tutti, bambini e adulti, generazioni diverse, persone di ogni età si sono voluti appropriare. […] narrazione che funziona come racconto del meraviglioso ma anche come racconto filosofico dell’epoca dei Lumi. Ci si trova un’educazione sentimentale per bambini, un trattato di amicizia, una parabola sulla morte, una teoria della responsabilità, ma soprattutto quello che i lettori accettano di vedervi entrandovi in risonanza dal profondo del cuore […] Abitato dalla nostalgia e dal sentimento dell’infanzia, il Piccolo Principe ancora resiste alle teorie che lo vorrebbero chiudere nel genere autobiografico o filosofico.

E a questo vorrei aggiungere: libro ibrido che si regge su una architettura straordinariamente efficace di parole e immagini, impeccabile agli occhi di chi si occupa di libri illustrati, alla quale sicuramente si deve parte del clamoroso successo. Un aspetto, questo, che, tuttavia, misteriosamente rimane ai margini del discorso e della critica che si sono occupati dell’opera di Saint-Exupéry (su Saint-Exupéry disegnatore Gallimard ha pubblicato nel 2006 un volume).

Il Piccolo Principe nacque a New York nel 1942 dove dal 1940 Saint-Exupéry risiedeva, dopo aver lasciato la Francia occupata dai nazisti e dopo aver combattuto in aviazione quella che riteneva una guerra farsa. Fu Elizabeth Reynal, moglie di uno degli editori americani di Saint-Exupéry, Reynal & Hitchcock, a suggerire allo scrittore di scrivere una storia su un petit bonhomme che compariva un po’ dappertutto fra le sue carte, nonché ai bordi del manoscritto di Pilota di guerra, che nel 1942 era stato pubblicato in America con grande successo dai suoi editori (fu definito da Atlantic Monthly, insieme ai discorsi di Churchill “la migliore risposta che le democrazie abbiano sinora saputo dare a Mein Kampf”). Si trattava, in effetti, di una figurina misteriosa che da decenni compariva al margine delle lettere di Saint-Exupéry, dei suoi manoscritti e taccuini d’appunti: un omino impegnato in curiose attività, una delle tante creature con cui fin da ragazzo Antoine decorava e animava le proprie pagine, e che mostrava fra l’altro la sicura e originale attitudine al disegno del suo autore. Ma, in questo particolare caso, si trattava anche di una sorta di alter ego: un doppio infantile che poeticamente e ironicamente commentava i fatti che accadevano al suo creatore. 

 



 

 

 

 

Fu dunque da questa figurina, da questo scarabocchio “autobiografico”, nato ben prima del personaggio che in seguito sarebbe diventato, che nacque il libro a cui Saint-Exupéry deve la propria fama globale. L’intuizione di Elizabeth Reynal oltre che da fiuto editoriale venne probabilmente del recente successo ottenuto dalla casa editrice con alcuni libri di P.L. Travers, autrice di Mary Poppins, a cui gli editori volevano dare seguito, cercando altri titoli nel campo della letteratura per ragazzi. Saint-Exupéry, come racconta la bella biografia di Stacy Schiff, «iniziò la stesura del libro con una scatola di acquerelli per bambini acquistata in un emporio della Eight Avenue.[…] Scrisse con penne e matite diverse, e revisionò e scartò e prese appunti a margine; Galantière (editor e traduttore di Saint-Exupéry per Reynal & Hitchcock, ndr) in seguito disse che lo scrittore aveva cestinato cento pagine per ogni cartella inviata all’editore, e che era più esigente che mai nei confronti di questo breve testo.» 

 

 

 

 

 

 


 

Se la storia del Piccolo Principe «emerse già compiuta», più difficoltà il suo autore ebbe con le illustrazioni che furono fatte e rifatte infinite volte, come testimoniò chi lavorò con lui e le persone a lui vicine. Gli schizzi preparatori, come mostra il fondo di disegni originali acquistato nel 1968 dalla Morgan Library, mostrano che Saint-Exupéry esplorò diversi stili e direzioni, e che al momento di decidere le tavole definitive del libro, da illustrazioni più ‘compiute’ convenzionali e rifinite tornò a un segno che si avvicinava a quello degli scarabocchi che Antoine, come ricorda Leon Werth a cui il libro è dedicato (A Leon Werth, quando era un bambino), da sempre lasciava dappertutto, compresi tovaglie, tovaglioli, menù, carte intestate di alberghi e persino incisi su tavoli. 

 


 


 

 

 

 

 

 

 

 

Saint-Exupéry non teneva in gran conto il proprio talento artistico che liquidava con affermazioni come: «Peccato, io non so disegnare», «I miei disegni sono pessimi». Tuttavia nel corso della vita si cimentò con passione nel disegno, con tecniche diverse: penna e inchiostro, matita Conté, mina di piombo, pastelli, matite colorate, gouache, lavis e acquerelli. Fra i suoi disegni si trovano taccuini con ritratti di compagni di volo e di guerra, ritratti e figure femminili, una raffinata decorazione per un quaderno di poesia, caricature, personaggi immaginari, disegni tecnici. Il fatto che la maggior parte di essi non siamo firmati lascia supporre la noncuranza con cui li trattava e lo scarso valore che vi attribuiva (a un amico consigliò di venderne uno a caro prezzo e di scialacquare quello che avrebbe guadagnato in una colossale bevuta). 

 

 


 


 

 

 

 

 

 

 

 

Saint-Exupéry può entrare a buon diritto nel novero degli scrittori che praticarono il disegno con maestria, da Blake a Lewis Carroll (che tuttavia affidò le illustrazioni per Alice in Wonderland a sir John Tenniel, perché a quell’epoca lo scrittore disegnatore era considerato un trasgressore), a Ruskin, Cocteau, Michaux, Artaud, Montale, Tolkien, Buzzati. Forse è a quest’ultimo, e alla sua Famosa invasione degli orsi in Sicilia, che il lavoro di Saint-Exupéry per Il Piccolo Principe può essere avvicinato, non solo per l’ironica e onirica ispirazione, ma per aver utilizzato le immagini come parte integrante di una creazione letteraria, o meglio di una narrazione in cui l’immagine ha un valore portante nella costruzione della storia. Anche l’ispirazione del romanzo per ragazzi di Buzzati, infatti, nasce da una matrice visiva: la sua prima versione, realizzata per il diletto delle nipoti Lalla e Pupa, fu realizzata nel 1940 ispirata in parte ai pannelli dei cantastorie popolari che accompagnavano le narrazioni orali, illustrando via via la trama delle vicende. Nella seconda versione, del 1945, la storia risistemata e ridisegnata sulla base dei primi otto quadri, apparve su Il Corriere dei Piccoli, e rimase incompiuta; infine, fu completata e pubblicata da Rizzoli sempre nel 1945. 

 

 

Sia in quest’opera, sia nei Miracoli di Val Morel, – anche questi nati da una ispirazione visiva, gli ex voto–, l’immagine ha un ruolo fondamentale: è a essa che l’autore attribuisce la verità più profonda e autentica della narrazione, dove il testo invece procede invece per approssimazioni, dubbi, incertezze, continuamente esitando per l’indeterminatezza dei fatti e l’impossibilità delle parole a fissarli. Analizzando entrambi i libri emerge che le immagini, e le parole in esse inscritte, appartengono a un tempo precedente a quello del racconto che vi scorre accanto. Le frasi che compaiono dentro le immagini e le immagini stesse, sono arcaiche, desuete, e pur nella loro evidente ingenuità e imperfezione appartengono a un tempo favoloso, mitico, primitivo, in cui cose e parole coincidono. Il racconto verbale, invece, o meglio la cronaca dei fatti, appare successiva, più moderna, quasi disincantata, pervasa da inquietudine e sfiducia, gravida di dubbio, lontano dalla integrità e fiducia originarie. A proposito del proprio lavoro di artista, Buzzati nel 1967 scrisse: «Il fatto è questo: io mi trovo vittima di un crudele equivoco. Sono un pittore il quale, per hobby, durante un periodo alquanto prolungato, ha fatto anche lo scrittore e il giornalista. Il mondo invece crede che sia viceversa e le mie pitture quindi non le "può" prendere sul serio. La pittura per me non è un hobby, ma il mestiere; hobby per me è scrivere. Ma dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie.» 

 

 

 

Come Saint-Exupéry, qui anche Buzzati adombra la possibilità che il pubblico prenda sottogamba, reputandoli puerili, poco seri, i propri racconti per immagini. Ma la cosa più interessante è che nel romanzo di Saint-Exupéry accade qualcosa di molto simile a ciò vediamo nelle due narrazioni citate di Buzzati: a una diffidenza verso le parole è opposta la verità dell’immagine.

In un articolo del 1942, quando Saint-Exupéry si trovava a New York, espose a un giornalista la propria idea di scrittura. Scrivere, disse, richiede una precisione pari a quella necessaria per pilotare un aereo. La lingua infatti «è una macchina sofisticata, scientifica, in cui una parola di troppo o un errore – come un granello di sabbia o una manovra sbagliata – può provocare un disastro.» È un’affermazione interessante soprattutto letta accanto alla dichiarazione della volpe nel Piccolo Principe: «Le parole sono fonte di malintesi», dove la natura quasi scientifica del linguaggio è sconfessata da una sorta di suo difetto strutturale, di peccato originale, che coincide con una separazione delle parole dall’intima verità delle cose. La frase riportata fa parte di uno dei dialoghi più famosi del romanzo, quello fra il protagonista e la volpe che, con tono oracolare, pronuncia una delle frasi più celebri del romanzo: «Non si vede che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi». Una ‘verità’ annunciata, fra le righe, fin dall’inizio del libro, nel primo e nel secondo capitolo in cui l’aviatore-narratore, prima, e il Piccolo Principe, poi, mostrano attraverso un gioco di immagini la discrepanza fra adulti e bambini nella facoltà di vedere le cose e la lontananza pressoché inconciliabile dei loro universi (infatti il Piccolo Principe è un alieno, viene da un asteroide).

Indagando la relazione fra parole e immagini nei primi due capitoli emerge in modo esemplare da una parte la funzione che attribuisce loro lo scrittore, dall’altra il ruolo che hanno le une e le altre nella costruzione della storia e nella ricerca della verità delle cose, e infine che significato attribuisca Saint-Exupéry alla visione e all’atto del vedere.

Se Il Piccolo Principe nasce da un disegno, o meglio dal più infantile dei segni, cioè da uno scarabocchio, comincia anche con un disegno: una dichiarazione di poetica inequivocabile. L’immagine che apre il libro è un serpente che sta per mangiare una mangusta. Segue la sua descrizione per voce del narratore – un pilota che, proprio come Saint-Exupéry, nel 1935, in Libia, si trova precipitato nel mezzo del deserto a causa di un incidente di volo. Dalla sua voce veniamo a sapere che il disegno è la riproduzione di una figura che il narratore racconta di avere visto a sei anni in un libro: Storie vissute della natura. Quello che vediamo è la copia realizzata dal narratore a beneficio del lettore. 

 

 

Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foreste primordiali, intitolato «Storie vissute della natura», vidi un magnifico disegno. Rappresentava un serpente boa nell'atto di inghiottire un animale. Eccovi la copia del disegno. C'era scritto: «I boa ingoiano la loro preda tutta intera, senza masticarla. Dopo di che non riescono più a muoversi e dormono durante i sei mesi che la digestione richiede». Meditai a lungo sulle avventure della giungla. E a mia volta riuscii a tracciare il mio primo disegno. Il mio disegno numero uno era così: 

 

Dopo aver a lungo meditato sulle avventure della giungla, scrive il narratore, il seienne produce un secondo disegno.

 

Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava. Ma mi risposero: «Spaventare? Perché mai, uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?» Il mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante. Affinché vedessero chiaramente che cos'era, disegnai l'interno del boa. Bisogna sempre spiegargliele le cose, ai grandi. Il mio disegno numero due si presenta va così:

 

 

Questa volta mi risposero di lasciare da parte i boa, sia di fuori che di dentro, e di applicarmi invece alla geografia, alla storia, all'aritmetica e alla grammatica. Fu così che a sei anni io rinunziai a quella che avrebbe potuto essere la mia gloriosa carriera di pittore. Il fallimento del mio disegno numero uno e del mio disegno numero due mi aveva disanimato. I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta. Allora scelsi un'altra professione e imparai a pilotare gli aeroplani. Ho volato un po’ sopra tutto il mondo: e veramente la geografia mi è stata molto utile. A colpo d'occhio posso distinguere la Cina dall'Arizona, e se uno si perde nella notte, questa sapienza è di grande aiuto. Ho incontrato molte persone importanti nella mia vita, ho vissuto a lungo in mezzo ai grandi. Li ho conosciuti intimamente, li ho osservati proprio da vicino. Ma l'opinione che avevo di loro non è molto migliorata. Quando ne incontravo uno che mi sembrava di mente aperta, tentavo l'esperimento del mio disegno numero uno, che ho sempre conservato. Cercavo di capire così se era veramente una persona comprensiva. Ma, chiunque fosse, uomo o donna, mi rispondeva: «È un cappello». E allora non parlavo di boa, di foreste primitive, di stelle. Mi abbassavo al suo livello. Gli parlavo di bridge, di golf, di politica, di cravatte. E lui era tutto soddisfatto di avere incontrato un uomo tanto sensibile.

 

In questo primo capitolo è fissata la caratteristica fondamentale del rapporto fra testo e illustrazioni: le immagini che appaiono non sono illustrazioni esterne al piano della storia, ma interne; non solo sono state realizzate dall’autore del testo, Saint-Exupéry, ma da chi narra in prima persona la storia e ne è al contempo protagonista, il pilota caduto nel deserto. Ovvero fanno parte anch’esse della finzione narrativa, sono intradiegetiche. Non sono illustrazioni poste accanto al testo con mera funzione illustrativa, ma sono state disegnate nel corso della storia da uno dei personaggi e della storia dirigono la trama.

Il secondo capitolo, riconferma questa dinamica e, oltre a introdurre il personaggio principale, ripropone attraverso alcuni disegni il tema dello scarto fra la capacità di vedere degli adulti e quella dei bambini.

 

Così ho trascorso la mia vita solo, senza nessuno cui poter parlare, fino a sei anni fa quando ebbi un incidente col mio aeroplano, nel deserto del Sahara. Qualche cosa si era rotta nel motore, e siccome non avevo con me né un meccanico né dei passeggeri, mi accinsi da solo a cercare di riparare il guasto. Era una questione di vita o di morte, perché avevo acqua da bere soltanto per una settimana. La prima notte, dormii sulla sabbia, a mille miglia da qualsiasi abitazione umana. Ero più isolato che un marinaio abbandonato in mezzo all'oceano, su una zattera, dopo un naufragio. Potete immaginare il mio stupore di essere svegliato all'alba da una strana vocetta: «Mi disegni, per favore, una pecora?» 

«Cosa?» 

«Disegnami una pecora». 

Balzai in piedi come fossi stato colpito da un fulmine. Mi strofinai gli occhi più volte guardandomi attentamente intorno. E vidi una straordinaria personcina che mi stava esaminando con grande serietà. Qui potete vedere il miglior ritratto che riuscii a fare di lui, più tardi. Ma il mio disegno è molto meno affascinante del modello. 

 

 

La colpa non è mia, però. Con lo scoraggiamento che hanno dato i grandi, quando avevo sei anni, alla mia carriera di pittore, non ho mai imparato a disegnare altro che serpenti boa dal di fuori o serpenti boa dal di dentro. 

Ora guardavo fisso l'improvvisa apparizione con gli occhi fuori dall'orbita per lo stupore. Dovete pensare che mi trovavo a mille miglia da una qualsiasi regione abitata, eppure il mio ometto non sembrava smarrito in mezzo alle sabbie, né tramortito per la fatica, o per la fame, o per la sete, o per la paura. Niente di lui mi dava l'impressione di un bambino sperduto nel deserto, a mille miglia da qualsiasi abitazione umana. Quando finalmente potei parlare gli domandai: «Ma che cosa fai qui?» 

Come tutta risposta, egli ripeté lentamente come si trattasse di cosa di molta importanza: 

«Per piacere, disegnami una pecora...»
Quando un mistero è così sovraccarico, non si osa disubbidire. 

Per assurdo che mi sembrasse, a mille miglia da ogni abitazione umana, e in pericolo di morte, tirai fuori dalla tasca un foglietto di carta e la penna stilografica. Ma poi ricordai che i miei studi si erano concentrati sulla geografia, sulla storia, sull'aritmetica e sulla grammatica e gli dissi, un po' di malumore, che non sapevo disegnare. Mi rispose: 

«Non importa. Disegnami una pecora...» 

Non avevo mai disegnato una pecora e allora feci per lui uno di quei due disegni che avevo fatto molte volte: quello del boa dal di fuori; e fui sorpreso di sentirmi rispondere: 

«No, no, no! Non voglio l'elefante dentro al boa. Il boa è molto pericoloso e l'elefante molto ingombrante. Dove vivo io tutto è molto piccolo. Ho bisogno di una pecora: disegnami una pecora». 

Feci il disegno. 

 

 

Lo guardò attentamente, e poi disse: «No! Questa pecora è malaticcia. Fammene un'altra». Feci un altro disegno. 

Il mio amico mi sorrise gentilmente, con indulgenza. 

«Lo puoi vedere da te», disse, «che questa non è una pecora. È un ariete. Ha le corna». 

Rifeci il disegno una terza volta, ma fu rifiutato come i tre precedenti. 

 

 

«Questa è troppo vecchia. Voglio una pecora che possa vivere a lungo». Questa volta la mia pazienza era esaurita, avevo fretta di rimettere a posto il mio motore. Buttai giù un quarto disegno. E tirai fuori questa spiegazione: 

«Questa è soltanto la sua cassetta. La pecora che volevi sta dentro». 

Fui molto sorpreso di vedere il viso del mio piccolo giudice illuminarsi: «Questo è proprio quello che volevo. Pensi che questa pecora dovrà avere una gran quantità d'erba?» 

«Perché?»
«Perché dove vivo io, tutto è molto piccolo...» 

«Ci sarà certamente abbastanza erba per lei, è molto piccola la pecora che ti ho data». Si chinò sul disegno: 

«Non così piccola che — oh, guarda! — si è messa a dormire...» 

E fu così che feci la conoscenza del piccolo principe. 

 

Qui bisogna notare diverse cose. Primo, è attraverso un ritratto disegnato e non scritto che il narratore descrive il Piccolo Principe; secondo, il Piccolo Principe è la prima persona incontrata dal pilota che riesce a interpretare il disegno dell’elefante dentro il boa; terzo, l’aviatore arriva a soddisfare la richiesta del bambino di disegnare una pecora per stadi progressivi e, si direbbe, casualmente, solo quando ripete lo schema del disegno del boa: qualcosa che ne contiene un’altra, invisibile. Quarto, nonostante il narratore abbia affermato che la propria carriera artistica è stata interrotta dal giudizio negativo degli adulti, il lettore si rende conto che non è esattamente così. Lo dimostra che in tasca l’aviatore ha, pronti all’uso, fogli e matite e che preferisce disegnare che descrivere a parole; quinto, dopo aver sottoposto il Piccolo Principe al test del boa, il narratore è a sua volta sottoposto al test della pecora. Ovvero è attraverso uno scambio di disegni che i due personaggi arrivano a un reciproco riconoscimento. E tale riconoscimento, coincide la scoperta dell’essenza dell’altro, della sua integrità. Una integrità che corrisponde alla capacità di vedere quello che non si coglie attraverso uno sguardo letterale e superficiale sulla realtà circostante. 

Nel IV capitolo la presenza del disegno come chiave di volta per una comprensione profonda della verità/essenza delle cose si riafferma. Qui il pilota viene messo a parte dal Piccolo Principe del maggior pericolo che corre il pianeta da cui proviene, l’asteroide B 612: la minaccia dei baobab (ragione per cui, fra l’altro, si è resa necessaria la presenza della pecora). 

 

C'erano dei terribili semi sul pianeta del piccolo principe: erano i semi dei baobab. Il suolo ne era infestato. Ora, un baobab, se si arriva troppo tardi, non si riesce più a sbarazzarsene. Ingombra tutto il pianeta. Lo trapassa con le sue radici. E se il pianeta è troppo piccolo e i baobab troppo numerosi, lo fanno scoppiare. 

«È una questione di disciplina», mi diceva più tardi il piccolo principe. «Quando si ha finito di lavarsi al mattino, bisogna fare con cura la pulizia del pianeta. Bisogna costringersi regolarmente a strappare i baobab appena li si distingue dai rosai ai quali assomigliano molto quando sono piccoli. È un lavoro molto noioso, ma facile». 

E un giorno mi consigliò di fare un bel disegno per far entrare bene questa idea nella testa dei bambini del mio paese. 

«Se un giorno viaggeranno», mi diceva, «questo consiglio gli potrà servire. Qualche volta è senza inconvenienti rimettere a più tardi il proprio lavoro. Ma se si tratta dei baobab è sempre unacatastrofe. Ho conosciuto un pianeta abitato da un pigro. Aveva trascurato tre arbusti...» 

E sull'indicazione del piccolo principe ho disegnato quel pianeta. Non mi piace prendere il tono del moralista. Ma il pericolo dei baobab è così poco conosciuto, e i rischi che correrebbe chi si smarrisse su un asteroide, così gravi, che una volta tanto ho fatto eccezione. 

E dico: «Bambini! Fate attenzione ai baobab!» 

E per avvertire i miei amici di un pericolo che hanno sempre sfiorato, come me stesso, senza conoscerlo, ho tanto lavorato a questo disegno. La lezione che davo, giustificava la fatica. Voi mi domanderete forse: Perché non ci sono in questo libro altri disegni altrettanto grandiosi come quello dei baobab? La risposta è molto semplice: Ho cercato di farne uno, ma non ci sono riuscito. Quando ho disegnato i baobab ero animato dal sentimento dell'urgenza.

 

 

Il modo più efficace indicato dal Piccolo Principe al pilota per far entrare nella testa dei bambini la minaccia dei baobab (ovvero di un potere straripante, oppressivo e mortifero: qui Saint-Exupéry allude alla minaccia del nazismo) è, ancora una volta, un disegno. E si noti come il pilota faccia riferimento ancora una volta alla propria imperizia e alla fatica di realizzare il disegno che, dichiara, gli ha richiesto molto impegno. La fatica a cui fa riferimento il narratore interno, coincide con quella realmente fatta da Saint-Exupéry nel mettere a punto il disegno di cui, come racconta la sua biografia, era, infatti, fierissimo (come era nelle sue abitudini, ossessionò tutti i suoi interlocutori fino allo sfinimento una volta che lo ebbe terminato poiché come sempre l’orgoglio che provava doveva immediatamente essere sostenuto dal riconoscimento e dall’entusiasmo altrui; Saint-Exupéry era solito, fin dalla più tenera età, svegliare nel cuore della notte amici e parenti per leggere o mostrare loro scritti e disegni; qualcuno disse che conquistare la sua amicizia significava rinunciare a notti tranquille). 

Parentesi biografiche a parte, qui è notevole il riproporsi a proposito delle immagini, del connubio imperfezione/verità. Nel Piccolo Principeè fissata una coincidenza fra immagine ed età infantile, linguaggio ed età adulta. Se l’infanzia è imperfetta e si esprime attraverso immagini (imperfette), è tuttavia autentica e integra, come autentiche e veritiere sono le immagini; la padronanza del linguaggio adulto, la perfezione della parola corrispondono invece a una sostanziale inautenticità se non falsità. Nel disegno del baobab si riconosce, da una parte sia la mano ingenua, quasi infantile dell’autore, sia la vena umoristica dello sguardo che caratterizza lo stile del primo disegno del libro, quello del serpente arrotolato intorno alla mangusta; dall’altra la forza iconica dell’immagine, potente, di grande impatto simbolico, quasi da emblema, stemma araldico, che il pilota spiega con il riferimento al sentimento di urgenza da cui è stato mosso nel realizzare l’immagine.

Da questo momento, fino al capitolo XXV, nel testo del Piccolo Principe non si trovano più riferimenti espliciti alle immagini e al lavoro di disegno del pilota/narratore. Eppure a corredo della narrazione sono presenti numerose illustrazioni: oltre a tutte le immagini relative agli abitanti dei pianeti a cui fa visita il Piccolo Principe – il Re, il Vanitoso, l’Ubriaco, l’Uomo d’affari, il Lampionaio, il Geografo – quelle che ritraggono il Piccolo Principe nei momenti salienti della storia.

 





 


Ci si chiede quindi che natura abbiamo queste immagini: se siano illustrazioni ‘convenzionali’, cioè opera di un illustratore, ovvero l’autore Saint-Exupéry, che si limita al ruolo canonico di commentare visivamente e fedelmente ciò che il testo racconta. Nel capitolo XXV, tuttavia, un rapido, e apparentemente poco significativo, passaggio nello scambio di battute fra il Piccolo Principe e il pilota, fa capire che non è così.

 

«Devi mantenere la tua promessa», mi disse dolcemente il piccolo principe, che di nuovo si era seduto vicino a me. 

«Quale promessa?» 

«Sai... una museruola per la mia pecora... sono responsabile di quel fiore!» 

Tirai fuori dalla tasca i miei schizzi. Il piccolo principe li vide e disse ridendo: 

«I tuoi baobab assomigliano un po' a dei cavoli...» 

«Oh!» 

Io, che ero così fiero dei baobab! «La tua volpe... le sue orecchie... assomigliano un po' a delle corna... e sono troppo lunghe!» E rise ancora. 

«Sei ingiusto, ometto, non sapevo disegnare altro che boa dal di dentro e dal di fuori». 

«Oh, andrà bene», disse, «i bambini capiscono». 

Disegnai dunque una museruola. E avevo il cuore stretto consegnandogliela: 

«Hai dei progetti che ignoro...» 

Ma non mi rispose. Mi disse: 

«Sai, la mia caduta sulla Terra... sarà domani l'anniversario...» 

 

Grazie a questo scambio di battute, in particolare al riferimento al disegno della volpe e delle sue orecchie troppo lunghe, il lettore viene informato che tutte le immagini apparse nel libro dopo quella del baobab sono state realizzate dal pilota. Non si tratta di semplici illustrazioni, quindi, ma di disegni nati in presa diretta, sia sulla base dei racconti del Piccolo Principe (i personaggi dei pianeti, la volpe) sia delle situazioni vissute in prima persona dal pilota (i ritratti fatti al Piccolo Principe). 

 

 

 

Il riferimento alla volpe (dalle orecchie troppo lunghe) e, nello stesso tempo, ai bambini (che capiscono) è cruciale in questo passaggio: è la volpe infatti che pronuncia la frase chiave che esplicita il tema fondamentale del libro: “L’essenziale è invisibile agli occhi”. Di questa verità sono depositari i bambini, gli unici in grado di attribuire il vero significato ai disegni del pilota, portatori di autenticità e verità, nonostante la loro dichiarata, sottolineata inesattezza, approssimazione e imperfezione. In questo passo, dunque, le immagini sono dichiarate esplicitamente come affidabili, vere, addirittura messaggere dell’invisibile, rispetto alla poca credibilità delle parole (impossibile non pensare alla frase di Paul Klee: “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”). Lo scarso contenuto di verità di queste ultime è il tema centrale, invece, di tutti i resoconti degli incontri del Piccolo Principe con gli abitanti dei pianeti a cui è approdato. A questo proposito esemplare è il dialogo con il Re:

 

 

Il primo asteroide era abitato da un re. Il re, vestito di porpora e d'ermellino, sedeva su un trono molto semplice e nello stesso tempo maestoso. 

«Ah! ecco un suddito», esclamò il re appena vide il piccolo principe. 

E il piccolo principe si domandò:
«Come può riconoscermi se non mi ha mai visto?» 

Non sapeva che per i re il mondo è molto semplificato. Tutti gli uomini sono dei sudditi. 

«Avvicinati che ti veda meglio», gli disse il re che era molto fiero di essere finalmente re per qualcuno. 

Il piccolo principe cercò con gli occhi dove potersi sedere, ma il pianeta era tutto occupato dal magnifico manto di ermellino. Dovette rimanere in piedi, ma era tanto stanco che sbadigliò. 

«È contro all'etichetta sbadigliare alla presenza di un re», gli disse il monarca, «te lo proibisco». 

«Non posso farne a meno», rispose tutto confuso il piccolo principe. «Ho fatto un lungo viaggio e non ho dormito...» 

«Allora», gli disse il re, «ti ordino di sbadigliare. Sono anni che non vedo qualcuno che sbadiglia, e gli sbadigli sono una curiosità per me. Avanti! Sbadiglia ancora. È un ordine». 

«Mi avete intimidito... non posso più», disse il piccolo principe arrossendo. 

«Hum! hum!» rispose il re. «Allora io... io ti ordino di sbadigliare un po' e un po'...» 

 

Il dialogo prosegue su questo registro fino a che, il Piccolo Principe, esasperato dalla logica autoreferenziale e manipolatoria del linguaggio del proprio interlocutore, decide di andarsene:

 

«Non ho più niente da fare qui», disse al re. «Me ne vado». 

«Non partire», rispose il re che era tanto fiero di avere un suddito, «non partire, ti farò ministro!» 

«Ministro di che?»

«Di... della giustizia!»

«Ma se non c'è nessuno da giudicare?» 

«Non si sa mai», gli disse il re. «Non ho ancora fatto il giro del mio regno. Sono molto vecchio, non c'è posto per una carrozza e mi stanco a camminare». 

«Oh! ma ho già visto io», disse il piccolo principe sporgendosi per dare ancora un'occhiata sull'altra parte del pianeta. «Neppure laggiù c'è qualcuno». 

«Giudicherai te stesso», gli rispose il re. «È la cosa più difficile. È molto più difficile giudicare se stessi che gli altri. Se riesci a giudicarti bene è segno che sei veramente un saggio». 

«Io», disse il piccolo principe, «io posso giudicarmi ovunque. Non ho bisogno di abitare qui». 

(Si noti qui che se l’affermazione È molto più difficile giudicare se stessi che gli altri sembra saggia e un’incontrovertibile verità, la risposta del Piccolo Principe ne mette in luce la falsità indicandone lo scopo nascosto: tenere l’ospite sull’asteroide contro la sua volontà)

«Hem! hem!» disse il re. «Credo che da qualche parte sul mio pianeta ci sia un vecchio topo. Lo sento durante la notte. Potrai giudicare questo vecchio topo. Lo condannerai a morte di tanto in tanto. Così la sua vita dipenderà dalla tua giustizia. Ma lo grazierai ogni volta per economizzarlo. Non ce n'è che uno». 

«Non mi piace condannare a morte», rispose il piccolo principe, «preferisco andarmene». 

«No», disse il re. 

Ma il piccolo principe che aveva finiti i suoi preparativi di partenza, non voleva dare un dolore al vecchio monarca: 

«Se Vostra Maestà desidera essere ubbidito puntualmente, può darmi un ordine ragionevole. Potrebbe ordinarmi, per esempio, di partire prima che sia passato un minuto. Mi pare che le condizioni siano favorevoli...» 

E siccome il re non rispondeva, il piccolo principe esitò un momento e poi con un sospiro se ne partì. 

«Ti nomino mio ambasciatore», si affrettò a gridargli appresso il re. 

Aveva un'aria di grande autorità. 

Sono ben strani i grandi, si disse il piccolo principe durante il viaggio. 

 

In tutti i dialoghi che il pilota e il Piccolo Principe hanno con esponenti del mondo adulto emerge con evidenza che la comunicazione è fallimentare: gli adulti appaiono dominati dalle proprie ossessioni e disposti a guardare le cose esclusivamente attraverso di esse, deformando costantemente la realtà, in una condizione di completa cecità. Cecità che coincide con un’incapacità radicale di vedere, e, nello specifico della storia, di leggere le immagini a loro sottoposte come una sorta di test (oggi si direbbe che questi sono adulti aniconici). Il linguaggio è al servizio di questa falsificazione, deputato non allo scambio e alla conoscenza, ma ad alterare la realtà per darne una rappresentazione falsata, coincidente con l’idea che si ha di essa. Ovvero gli adulti parlano come Humpty Dumpty, pretendendosi padroni assoluti dei significati: “Quando uso una parola questa significa esattamente quello che decido io… né più né meno”, (come spiega Maria Bettetini in Breve storia della bugia): un modo che, a ben vedere, è tipico dei ‘grandi’ nei confronti dei bambini. Il motto di questi personaggi potrebbe essere l’affermazione di Hobbes: “Il linguaggio non rende l’uomo migliore, ma più potente” (“privando l’altro di conoscenze a cui avrebbe interesse o diritto”, sempre citando da Bettetini).

 

Durante l’esilio americano, nel 1943, a proposito delle proprie fatiche letterarie, Saint-Exupéry confessò alla giornalista Yvonne Michel: «Le parole sono solo rumori che escono dalle labbra. Bisogna giudicare le persone per ciò che sono, per ciò che fanno»: affermazione paradossale per uno scrittore.

Il riferimento diretto ai disegni e al loro contenuto di verità torna prepotentemente in conclusione del libro, nel capitolo XXVII e nell’epilogo che fanno seguito alla morte del Piccolo Principe morsicato da un serpente.

 

Ed ora, certo, sono già passati sei anni. Non ho ancora mai raccontata questa storia. Gli amici che mi hanno rivisto erano molto contenti di rivedermi vivo. Ero triste, ma dicevo: «È la stanchezza...» Ora mi sono un po' consolato. Cioè... non del tutto. Ma so che è ritornato nel suo pianeta, perché al levar del giorno, non ho ritrovato il suo corpo. Non era un corpo molto pesante... E mi piace la notte ascoltare le stelle. Sono come cinquecento milioni di sonagli... 

Ma ecco che accade una cosa straordinaria. 

Alla museruola disegnata per il piccolo principe, ho dimenticato di aggiungere la correggia di cuoio! Non avrà mai potuto mettere la museruola alla pecora. Allora mi domando: 

«Che cosa sarà successo sul suo pianeta? Forse la pecora ha mangiato il fiore...» 

Tal altra mi dico: «Certamente no! Il piccolo principe mette il suo fiore tutte le notti sotto la sua campana di vetro, e sorveglia bene la sua pecora...» Allora sono felice. E tutte le stelle ridono dolcemente. 

Tal altra ancora mi dico: «Una volta o l'altra si distrae e questo basta! Ha dimenticato una sera la campana di vetro, oppure la pecora è uscita senza far rumore durante la notte...» Allora i sonagli si cambiano tutti in lacrime! 

È tutto un grande mistero! 

Per voi che pure volete bene al piccolo principe, come per me, tutto cambia nell'universo se in qualche luogo, non si sa dove, una pecora che non conosciamo ha, sì o no, mangiato una rosa. 

Guardate il cielo e domandatevi: la pecora ha mangiato o non ha mangiato il fiore? E vedrete che tutto cambia... 

Ma i grandi non capiranno mai che questo abbia tanta importanza. 

 

Il non aver disegnato, nella storia, la correggia alla museruola della pecora (disegno che, infatti, nel libro, coerentemente, non compare) determina una svolta imprevista nella storia: la pecora mangerà la rosa? il Piccolo Principe riuscirà a evitarlo? Impossibile dirlo. Anche in questo caso è un disegno a determinare l’andamento della trama. A causa della sua assenza, l’incertezza relativa a quello che accadrà sul pianeta B 612 e ai suoi abitanti, fa sì che la fine della storia rimanga aperta. O, meglio, che oltre ogni ipotesi possibile regni “un grande mistero”, quel mistero così importante che è al fondo di tutte le cose, e che “i grandi”, esemplificati dagli abitanti solipsistici incontrati dal protagonista nel suo viaggio, eliminano dalle proprie vite rinunciando alla vista. Mistero che nello specifico del racconto coincide in primo luogo con la venuta del Piccolo Principe e soprattutto con la sua scomparsa. Val la pena di notare, a questo proposito, che quando Orson Welles, grande ammiratore del libro, contattò Walt Disney per il progetto di un film tratto dal volume, si trovò davanti a un rifiuto. La decisione è del tutto coerente: il soggetto è poco disneyano, dal momento che infrange un tabù supremo della cinematografia per l’infanzia, quello della morte del protagonista, mistero considerato improponibile in un libro destinato all’infanzia. Non per niente da che il libro è stato pubblicato, la discussione sul fatto che sia o non sia davvero per bambini non si è mai placata. 

Con coerenza, nell’epilogo, Il Piccolo Principe si chiude, così come si era aperto, con una immagine e la sua descrizione da parte del pilota.

 

 

Questo è per me il più bello e il più triste paesaggio del mondo. È lo stesso paesaggio della pagina precedente, ma l'ho disegnato un'altra volta perché voi lo vediate bene. È qui che il piccolo principe è apparso sulla Terra e poi è sparito. 

Guardate attentamente questo paesaggio per essere sicuri di riconoscerlo se un giorno farete un viaggio in Africa, nel deserto. E se vi capita di passare di là, vi supplico, non vi affrettate, fermatevi un momento sotto le stelle! E se allora un bambino vi viene incontro, se ride, se ha i capelli d'oro, se non risponde quando lo si interroga, voi indovinerete certo chi è. Ebbene, siate gentili! Non lasciatemi così triste: scrivetemi subito che è ritornato... 

 

In questo brano finale, il disegno è ridotto alle linee essenziali. È identico al precedente, salvo che il Piccolo Principe non vi compare. Questa volta il pilota non si scusa della propria scarsa attitudine artistica, ma fa appello fiduciosamente ai lettori e alla loro capacità di vedere, di leggere le immagini, ovvero di riconoscere l’essenza dietro l’apparenza, nel significato indicato dalla volpe. Sa che se guarderanno attentamente il disegno, sapranno riconoscere il luogo in cui il protagonista, forse, potrebbe ricomparire. Se gli adulti non sanno vedere la verità, la sua evidenza e insieme il suo mistero, come l’immagine ridotta ai minimi termini rivela, i bambini, a cui in questo finale il pilota si rivolge direttamente, saranno all’altezza del compito e potranno scrivere al pilota.

Lo stile semplice, imperfetto, diretto, poetico e insieme umoristico, scelto da Saint-Exupéry per le illustrazioni del Piccolo Principe qui dichiara la propria più profonda ragione d’essere: è il codice attraverso cui il pilota narratore e l’autore comunicano con i lettori che, dichiaratamente, sono, fin dalla dedica a Leon Werth, i bambini. Sono i disegni con cui il pilota ha raccontato la storia, il banco di prova dello scarto incolmabile fra età infantile e adulta, tema che corre in tutta l’opera e la vita di Saint-Exupéry. Se i lettori adulti li considerano poco più che (adorabili e commerciabili) scarabocchi, i bambini sanno leggere in quelle linee il senso più autentico della storia. Che questo equivoco si sia puntualmente verificato lo dimostra quel che è accaduto alle immagini del libro: da una parte diventate icone assolute, decontestualizzate, dell’identità del libro, oggetto di un merchandising sfrenato; dall’altra ritenute nelle diverse edizioni, sostituibili, rimpiazzate da illustrazioni di altri autori, che vagamente riprendono i caratteri delle originali. Una considerazione schizofrenica, si direbbe, che banalizza la funzione dell’immagine e la sottile, geniale dinamica che questa invece instaura con il testo e che rappresenta uno degli aspetti più riusciti del libro e sicuramente è alla base del suo straordinario successo.

Le immagini sono la parte più autenticamente infantile del libro e, perciò, quella che, secondo la testimonianza degli editori sopra riportata, fu più a cuore all’autore. E per una ragione molto precisa: Saint-Exupéry guardò sempre all’infanzia come a un’età fondante. In una lettera da Buenos Aires, del 1930, alla madre, all’età di trent’anni, confessò la nostalgia incolmabile che provava verso di essa: «Questo mondo di memorie infantili mi sembrerà sempre disperatamente più reale dell’altro […] Non sono sicuro di avere vissuto dopo l’infanzia.» 

I sortilegi delle proprie esperienze infantili e dei luoghi che ne ospitarono le leggende si riaffacciarono vividamente alla mente adulta di Saint-Exupéry proprio nella solitudine di Cap Juby, nel 1928, durante la prima epica esperienza di pilota presso la Compagnie Générale Aéropostale. Lì, a contatto con gli astratti paesaggi del deserto, con i singolari abitanti, uomini e animali, che lo popolavano, le memorie zampillarono come da una sotterranea vena d’acqua, animando fatti, incontri, atmosfere. In Terra degli uomini, l’omaggio reso al territorio nascosto dell’infanzia, come luogo fondante della personalità, scrigno di ogni futura ricchezza, è appassionato: «Di fronte a questo deserto trasfigurato mi tornano in mente i giochi della mia infanzia, il parco cupo e dorato che noi avevamo popolato di dèi, il regno sconfinato che ricavavamo da quel chilometro quadrato mai interamente conosciuto, mai interamente esplorato. Noi componevamo una civiltà chiusa, in cui i passi avevano un sapore e le cose un significato che a ogni altra civiltà erano negati. Allorché, diventati uomini, viviamo sotto l’imperio di altre norme, che cosa ne rimane del parco pieno d’ombra dell’infanzia, magico, gelido, rovente, di cui adesso, se mai vi si torna, costeggiamo con una specie di disperazione, dall’esterno, il muricciolo di pietre grigie, stupefatti di trovare racchiusa in così angusto recinto una provincia che avevamo trasformato in un infinito, e consapevoli del fatto che in quell’infinito non rientreremo mai, perché nel gioco, e non nel parco, bisognerebbe rientrare.» 

 

 

Fu ancora nella solitudine di Cap Jubi che Saint-Exupéry tornò all’antica passione infantile per gli animali condividendo lo spazio della baracca in cui viveva, oltre che con quattro meccanici addetti alla manutenzione degli aerei, con una quantità stupefacente di animali: un uistitì, una iena, un cane, un gatto e, successivamente, una volpe del deserto, un camaleonte e alcune gazzelle di passaggio. Agli animali, Saint-Exupéry si era dedicato con amore durante l’infanzia nella mitica proprietà di Saint-Maurice-de-Rémens, dove era nato. Insieme ai suoi quattro fratelli provò ad allevare qualsiasi cosa si muovesse: topolini, rondini, grilli, persino lumache, che cercavano di allenare in vista di improbabili campionati di corsa. Paula, l’amata governante austriaca, ricorda che Antoine le domandava spesso di raccontargli cosa facesse quando era un elefante, una scimmia o un leone. «Ascoltava attentamente i racconti della mia vita di bestia selvaggia» dichiarò. Fu a Cap Juby, in compagnia di tale zoo singolare e della propria ritrovata infanzia, che il pilota cominciò a riflettere su uno dei temi cardine del Piccolo Principe, espresso in uno dei dialoghi fra il protagonista e la volpe: 

 

«Che cosa vuol dire "addomesticare"?» […]

«È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire "creare dei legami"...» 

 

Se ne trova traccia in una lettera scritta alla madre, nel 1927: «Sto addomesticando un camaleonte. Il mio ruolo qui consiste nell’addomesticare. Mi piace, è una bella parola. E il mio camaleonte assomiglia a un animale antidiluviano. Somiglia a un diplodoco. Ha gesti di straordinaria lentezza, precauzioni quasi umane e sprofonda in meditazioni interminabili. Resta immobile per ore. Lo si direbbe uscito dalla notte dei tempi. La sera, entrambi sogniamo.»

In un'altra landa desertica, la Patagonia, descritta ancora in Terra degli uomini, si incontrano le due parenti più prossime del Piccolo Principe: due bambine conosciute in una vecchia casa argentina, selvatiche allevatrici di manguste, api, iguane, scimmie, in un giardino dalla vegetazione impenetrabile. Due piccole sovrane, capaci di cenare compostamente sedute accanto a un nido di vipere nascosto sotto l’antico impiantito della sala da pranzo. 

E parenti stretti del bambino venuto dallo spazio, sono, ancora, i cinque fratelli Saint-Exupéry come crebbero a Saint-Maurice-de-Rémens. Oltre che nella composizione di liriche e pièce, il loro tempo era occupato da selvagge battute alla ricerca di tesori. Il parco e le soffitte del castello occultavano angoli remoti, misteriosi e poco frequentati, che le occupazioni degli adulti ignoravano, e che, di conseguenza, si offrivano loro come territori ideali in cui ambientare le favolose avventure che accompagnano la scoperta di sé. Indisturbati, regnavano sui segreti della casa e del giardino: del resto erano gli unici a tributarvi la venerazione e le attenzioni dovute, dato che gli altri abitanti di Saint-Maurice, com’è tipico degli adulti, badavano a faccende del tutto inessenziali (esattamente come gli Olimpii descritti da Kenneth Grahame in L'età d’oro). Fra Marie-Madeleine, Simone e Gabrielle, le tre sorelle, ricorda lo scrittore in un celebre passo di Terra degli uomini, vi era l’usanza di sottoporre gli ospiti del castello a un severissimo esame preliminare. La prova, di preferenza, avveniva a tavola, quando gli ignari commensali erano più esposti all’osservazione da parte dei giudici e più spontanei nell’ossequio alle ipocrite costumanze del mondo adulto. Il voto assegnato misurava la possibilità dello straniero di accedere agli invisibili reami dell’infanzia. Pochissimi raggiungevano la sufficienza. 

 

 

 

Il Piccolo Principe fu scritto e disegnato in uno dei periodi peggiori della tormentata esistenza di Saint-Exupéry. In esilio in America, dopo l’occupazione della Francia, con problemi di salute dovuti ai diversi incidenti aerei subìti, con rapporti complicati con la comunità francese spaccata in due dalle polemiche fra gaullisti e sostenitori del governo di Vichy, Saint-Exupéry desiderava solo poter tornare in aviazione a combattere per la liberazione della Francia. Ai numerosi problemi del periodo americano, si aggiunsero le difficoltà di comunicazione dovute alla tenace resistenza opposta dallo scrittore all’apprendimento della lingua inglese (Adèle Breaux, l’eroica insegnante che cercò di fargliela amare, entrò nel suo cuore per aver pronunciato, a scopo didattico, la frase “All children do not love their parent”). Pamela Travers che fu tra gli ammiratori del libro osservò che si trattava della testimonianza di una disperata solitudine: il racconto dell’infanzia perduta. E tuttavia a queste sofferenze proprio la composizione del Piccolo Principe dovette essere una sorta di medicina, se bisogna stare alla testimonianza di Silvia Hamilton, compagna di Saint-Exupéry nel periodo newyorkese, preoccupata che Antoine non prendesse abbastanza sul serio il lavoro, dato che mentre scriveva e disegnava lo sentiva continuamente ridere.

Nel Piccolo Principe tornano, condensati e distillati, tutti i temi che fanno parte dell’opera dello scrittore – l’amicizia, l’abnegazione, la responsabilità, la dimensione interiore, l’apertura al mistero, il coraggio – e in esso si ritrovano quelli che sono i difetti riconosciuti della sua scrittura, come l’eccessivo lirismo, la vocazione filosofica, la sentenziosità, qui tuttavia mitigati ed equilibrati da una vena di spiazzante umorismo, caso del tutto unico fra i romanzi dello scrittore. 

Quello che ne fa un racconto unico, e a quanto pare, fino a oggi, nonostante i ripetuti tentativi, inimitabile, è la lenta stratificazione di memorie e di segni da cui è nato. Memorie autobiografiche legate a un’infanzia che fu straordinaria e che fu alla base della scelta di Saint-Exupéry di diventare pilota (come dichiara, infatti, il narratore nel primo capitolo del libro, a proposito della propria vocazione a guardare la terra dall’alto, “a colpo d’occhio”, pratica che suona come esercizio, disciplina costante di visione). Segni e scarabocchi che accompagnarono la scrittura dai tempi della giovinezza, e che fiorivano sulle carte come controcanto inesauribile alla pretesa seriosità della vita adulta che Saint-Exupéry si trovava ad affrontare, da incorreggibile ribelle quale fu fin da bambino.

Scrive Saint-Exupéry nel libro: «La prova che il piccolo principe è esistito, sta nel fatto che era bellissimo, che rideva e che voleva una pecora. Quando uno vuole una pecora è la prova che esiste».  E quando uno disegna una pecora?

Che questo libro sia nato dall’acquisto di una scatola di acquerelli per bambini, appare più che un aneddoto, un coerente, onesto, serio punto di avvio. Come ha scritto Daniele Del Giudice, nel suo romanzo sul volo Staccando l’ombra da terra: «L’infanzia è anche una certa quota, una questione di dimensioni che non si avranno mai più, un punto di vista ad esaurimento, di cui, una volta perduto, si perde perfino la memoria.» 

Si tratta dunque di ritrovarla con i mezzi più poveri, e per questo più difficili, a disposizione.

 

Torna Scarabocchi. Il mio primo festival per il suo secondo anno. Di nuovo a Novara, presso l’Arengario. Torna con un tema che attraversa laboratori per i bambini e per gli adulti, le lezioni e le letture, e altro ancora: gli animali. Lorenzo Mattotti con gli animali di Pinocchio, Giovanna Durì con le macchie e gli sgorbi dentro cui vedere animali strani o consueti, Giovanna Zoboli con la pecora da disegnare de Il piccolo Principe di Saint-Exupery, e poi Ilaria Urbinati anche lei con animali, e quindi Ermanno Cavazzoni che ci parla degli scarabocchi di Franz Kafka, lo scrittore i cui racconti sono pieni di molti animali. Vi aspettiamo a Novara dal 20 al 22 settembre!

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Novara 20-22 settembre 2019
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Tomaso Montanari: arte e politica culturale

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Daniela Brogi: Qualche mese fa sono usciti per Einaudi due tuoi libri: Velázquez e il ritratto barocco, e L’ora d’arte, un volume in cui sono raccolti cento testi preparati per la rubrica che curi sul “Venerdì”. Vorrei ragionare con te di arte, politica culturale e valori civili proprio risfogliando questo secondo lavoro. Che tanto per cominciare ha un titolo che si presta a varie letture, perché “l’ora d’arte” è l’ora di storia dell’arte che via via si tenta di eliminare dai programmi scolastici; ma è pure, come tu stesso hai spiegato, l’ora della settimana che scegli di dedicare a un dialogo con i lettori di un settimanale, parlando di arte, magari anche attraverso questioni politiche, e viceversa. In questo senso, l’ora d’arte diventa anche “l’ora d’aria”, lo spazio di libertà dentro un sistema politico sempre più ostile al confronto. La parola “aria”, dunque, e in quarta istanza, non precisa solo uno spazio temporale, ma, attraverso l’assonanza con “arte” compone uno scambio simbolico. L’arte, proprio come l’aria, entra nella vita di tutti, riguarda la collettività.  

 

 

Tomaso Montanari: Ora d’arte/ora d’aria è un gioco di parole che ho sempre avuto in mente e che avrebbe potuto essere anche un titolo della rubrica del Venerdì, ma rischiava di essere poco chiaro (o troppo…). 

È un titolo che effettivamente lega tre cose: la scuola (per cui ho appena scritto un manuale, con Salvatore Settis), la scuola come luogo di liberazione e non di conformismo, in cui si apprende il desiderio di cambiare il mondo e non il ruolo conformista e sottomesso di parte passiva. Poi c’è l’arte come liberazione politica. Una delle cose che più mi manda in bestia è il ritornello che talvolta mi sento dire: «torna a occuparti di storia dell’arte – perché parli di Zeffirelli, di Fallaci, o di politica o di … torna a occuparti di arte». Ma io non saprei trovare la differenza. E mi chiedo: cosa abbiamo combinato, nel senso comune, per pensare che si possa fare, insegnare, studiare, scrivere in maniera neutra, come se studiare non avesse a che fare con lo schierarsi o prenderne parte? L’ora d’arte, allora, vuole riaffermare l’idea, il bisogno, l’etica di uno spazio in cui la libertà non è “intrattenimento”, per usare una parola/esperienza chiave: quell’autoimbambolamento indotto che continuamente ci distoglie, sottrae attenzione. In più, e in terzo luogo, “l’ora d’arte”, come dicevi, unisce l’aria all’arte, per intendere un bisogno d’arte non a pagamento, non misurabile come biglietto all’ingresso, e anche come arte in cui ci si riprenda il desiderio di guardare le opere o i testi direttamente. Certo può esserci il rischio di un facile populismo (per usare una parola abusata) cognitivo, ma d’altra parte c’è una tensione irrisolta con la storia e la filologia, come discipline che riaprono alla comprensione, ma non bastano. C’è bisogno di un accesso ai saperi umanistici che si dica e dica perché leggiamo i testi. E d’altronde per mantenere vivi i rapporti con gli antichi maestri bisogna forzarli, come diceva Francis Haskell, mio maestro, studioso di storia dell’arte che per molti anni ha insegnato a Oxford e che ha scritto cose rigorose, appartenendo a una tradizione tipicamente anglosassone che si è sempre posta il problema del rapporto con il pubblico. 

 

 

Questo è un passaggio che mi pare molto importante fissare, perché il problema del rapporto con il pubblico pone, orienta e contiene anche il progetto dell’arte come esperienza di bellezza ma pure di civiltà, di identità civile. Tant’è vero che una delle prima schede di L’ora d’arte è dedicata al Pantheon. 

 

È in fondo l’oggetto del mio brano scelto per la prima prova dell’Esame di Stato 2019, dove parlavo del Pantheon proprio nella parte finale. Attraverso l’arte non si viene in contatto solo con la bellezza, categoria molto discutibile - quando si parla di bellezza, di amore, di bacioni, c’è quasi sempre una fregatura sotto. Una categoria importante da recuperare è proprio quella della storia come la intendeva Marc Bloch, vale a dire come «scienza degli uomini nel tempo», che non possa prescindere dallo svolgimento nel tempo e dalla successione dei fatti. Le cose più importanti da questo punto di vista – ci sto lavorando – sono quelle dette da Carlo Levi, per il quale l’Italia è un paese in cui sono compresenti più tempi. Questa continuità è qualcosa che si esperisce continuamente, e non riguarda solo il passato, ma anche il futuro; e questa presa di responsabilità di un mondo che guarda avanti smonta l’idea della storia come identità chiusa, per usare una parola (identità) diventata impresentabile, non solo in Italia. Il Pantheon è, per esempio, la porta materiale per un passato meticcio, mescolato, in senso tanto geografico quanto storico. Pensa solo ai corpi mescolati, alle lapidi, alle storie di corpi che vengono da tutte le epoche, le culture, le fedi. Da tutto il mondo: e si incontrano lì, per sempre. Il fuori è dentro: la conoscenza del passato vero ti dice questo. 

 

 

A parte poche eccezioni, i cento testi raccolti in L’ora d’arte compongono anche una specie di “Viaggio in Italia”, fatto di occasioni per andare a vedere le opere nei luoghi per i quali sono nate. Questa è un’altra speciale risorsa – non abbastanza valorizzata – della cultura artistica italiana. 

 

La prima volta che ho pensato meglio a questo aspetto è stata quando venne in Normale Carlo Dionisotti, che aveva uno straordinario potere di conquistare l’attenzione dei ragazzi (quale ero allora) interpellandoli direttamente, e così ci ricordava la differenza tra Tiraboschi e Lanzi, tra la storia della letteratura e quella dell’arte e sfotteva noi aspiranti storici dell’arte dicendo: non penserete mica di fare tutto qua, tra quattro mura e alcune migliaia di libri. La storia dell’arte è andare in giro. Tra l’altro, quando ho provato a parlare di questo spesso ho parlato di Luigi Veronelli e Carlo Petrini, perché Slow Food, per esempio, è stata un’esperienza importante proprio per dire: non basta mangiare, bisogna andare per le vigne, cogliere il rapporto con il paesaggio. «Camminare le campagne».

 

 

Nella passione per l’arte anche come occasione di “andare in giro” riconosco anche il modello metodologico e narrativo di Roberto Longhi. 

 

Io ancora oggi credo che Longhi, morto nel 1970, sia importantissimo. Quando mi sono formato, Longhi non era molto studiato – almeno da certe parti. Studiare alla Sapienza, per esempio, significava non sapere chi fosse Longhi. Ma a Pisa sia Paola Barocchi che Enrico Castelnuovo erano allievi di Longhi, e tra l’altro in maniera diversa dall’ortodossia fiorentina. Sì, capisco anche il tuo riconoscere Longhi, che sceglie come modello narrativo il romanzo storico di Manzoni, cercando di ritessere il tempo perduto delle opere d’arte con una pluralità di fonti che non sono solo figurative, ma arrivano da tutto. Purché non si divaghi, e il testo pittorico rimanga al centro. Questa è l’idea per me della storia dell’arte come disciplina moderna, anche se poco praticata sia in Italia che all’estero – dove Longhi è pressoché sconosciuto, perché (quasi) intraducibile.

 

 

Mi colpisce molto, perché mi pare una circostanza significativa, il fatto che il Barocco sia stato e continui a essere, non solo negli ultimi cento anni, un’esperienza significativa di cui tornare a parlare e che si torna a guardare ogni volta che si sente la necessità “contemporanea” di interrogarsi sul dissenso. Apparentemente potrebbe sembrare una contraddizione, visto che, a livello di senso comune, il Barocco è stato spesso ingabbiato nell’etichetta del conformismo cortigiano. D’altra parte l’arte barocca è quella che smentisce l’idea della verità delle cose e del linguaggio come condizione assoluta. Sei d’accordo? E tu perché hai lavorato così tanto sul Barocco?

 

Non so se riesco, qui, a spiegare tutta la complessità della risposta che potrei/ dovrei dare. Lo studio del Barocco per me è stato istintivo. Appena entrato in Normale chiesi di studiare Caravaggio e Paola Barocchi con la sua saggezza mi rispose di sì, ma incoraggiandomi a studiare la fortuna delle fonti caravaggesche nel Novecento. Io credo che conti molto nella mia scelta la mia radice cristiana e cattolica. Nel discorso pubblico passo per comunista, ma nella mia famiglia, nelle mie convinzioni, sono cristiano, cattolico praticante, e sento di ispirarmi ai modelli di Milani, Turoldo, Balducci, eccetera. Sto parlando di autori che hanno maturato un’idea di dissenso cattolico dentro la Chiesa. E questa è un’idea che ti riporta all’idea di accettare le regole di un gioco giocandolo in un altro modo. Non è l’uscita, l’apostasia, ma resistere dentro la chiesa in maniera alternativo. Come Galileo, che rimane cristiano fino in fondo. E anche come Caravaggio, a modo suo, trovandosi a lottare contro il potere. Perché il punto non è la Chiesa, ma il potere. Tutta la figura di Caravaggio è una sorta di discorso critico sul potere. Adesso che ti rispondo mi rendo conto che se dovessi spiegare Caravaggio a un marziano usando una sola frase direi proprio questo: è l’autore che ha sviluppato il più radicale discorso tra corpo e potere. Bisogna aspettare Foucault per trovare un autore altrettanto radicale. Il Seicento è stato questo. Ma è anche discorso su un paradigma culturale che si rigetta dall’interno. 

 

Caravaggio, Resurrezione di Lazzaro, Museo Regionale di Messina.


Mi viene in mente, tra le “voci” dell’Ora d’arte, quella dedicata a La Resurrezione di Lazzaro, conservata al Museo Regionale di Messina, in cui parli, per l’appunto, di un Caravaggio “ostinatamente umano”. 

 

Forse nessuno come Caravaggio ha rappresentato la dignità e le ragioni degli sconfitti, degli ultimi, di quelli che hanno lottato e perduto, in una loro piena e totale umanità. E qui si intreccia anche la grande questione di Caravaggio religioso o no. Io direi che mai come nei quadri di Caravaggio si avverte la necessità disperata di una speranza: proprio perché lui non ce l’ha. Come in Alessandro Manzoni, effettivamente: che però forse ne aveva.

 

 

I testi raccolti nel tuo libro sono cento pezzi “coraggiosamente” facili – uso il termine “coraggio” per riferirmi a un progetto, che condivido pienamente, di impegnarsi completamente, e anche con il cuore, per portare contenuti di qualità a un destinatario anche non specialistico. D’altra parte, il rischio con cui fare i conti è quello dell’approssimazione. Quale può essere allora l’equilibrio tra divulgazione seria e “intrattenimento” (perdonami: uso il termine per provocazione) quando ci si rivolge a un uditorio così allargato come quello che hai saputo raggiungere coi tuoi libri come con le tue belle trasmissioni televisive?

 

La parola chiave è responsabilità, intesa anche in senso letterale. Rispondere dei talenti che uno ha ricevuto e metterli a disposizione della comunità è, in questo caso, la funzione dell’insegnante e pure del genitore. È difficile, ma vale la pena. Quando mi trovo a parlare nelle scuole medie incontro il pubblico più implacabile. Se fai funambolismo sei beccato subito. Quello che si prova a fare in aula, come in famiglia, è un discorso responsabile, onesto, dando ogni volta testi fondamentali di conoscenza – è quello che faccio nei pezzi raccolti in L’ora d’arte, dove scrivo poco più di una cartella, partendo dalla proposta dei dati di fatto: la data dell’opera, la sua collocazione, eccetera. E la voce delle fonti: si tratta della vecchia verità del passato, come la chiamava Previtali, che serve a dare al discorso una profondità storica, per cui non guadiamo solo attraverso i nostri occhi, ma attraverso quelli delle generazioni che ci hanno preceduto. E poi si tratta di favorire anche una lettura che possa aderire ai tempi umani, dando tutti gli strumenti di cui si ha bisogno, ma anche un esempio personale di come io ho usato quegli strumenti. Con l’invito a non dimenticare mai che senza un movente personale, senza un vero amore per gli uomini, tutta la filologia del mondo non giova a nulla. 

 

 

Stiamo preparando questa conversazione per una rivista on line. Anche questa forma di discorso e di comunicazione, mi pare, è coerente con il progetto di fare assieme cultura e politica culturale. Tu scrivi moltissimo anche “in rete”. 

 

Le radici culturali sono quelle. Senza montarsi la testa, il modello è San Paolo: tutto a tutti. Chi fa il nostro mestiere ha dentro qualche particella di attitudine socratica. Parlare nella piazza, nelle botteghe, come faceva Socrate, o parlare nella rete sono la stessa cosa. Non è una scelta e nemmeno un merito: è un modo di essere. Ovviamente i generi sono diversi, ma non è diversa l’attitudine, che è quella di provare a parlare a tutti, anche con l’onestà di non cambiare i contenuti. Mi torna in mente una celebre risposta di Michelangelo, che va a venticinque anni a Carrara a scegliere i marmi per Giulio II; gli chiedono di scrivere in latino e lui dice che non poteva soffrire che in Italia si scrivesse non come si parla per trattare di cose pubbliche. Quell’idea per cui la lingua della politica non deve essere diversa dalla lingua quotidiana è il nostro primo dovere.

 

 

Dopo Caravaggio, Velázquez, Vermeer, vorrei presto vedere un tuo lavoro su Manet. Cosa stai preparando?

 

Sì, c’è un filo rosso che unisce questi autori a Manet, a cui vorrei arrivare. Intanto sto preparando però un progetto su Tiepolo, che è un’altra cosa, perché è il tentativo di interrogare una vita e un’opera apparentemente senza desideri, di sperimentarsi su un autore apparentemente più refrattario. 

 

 

La costellazione formata da questi autori – non abbiamo ancora nominato Bernini – sembra tracciare anche la ricerca di un dialogo con dei miti della pittura. 

 

È vero. Dentro questa costellazione vive l’esigenza di ribadire l’importanza del giudizio di qualità, che è una necessità costante. Esattamente come noi leggiamo tutti i giorni il giornale, leggiamo le scritte sui muri, qualunque cosa, e questo atto è legato alla nostra capacità di leggere Dante, Ariosto. Ecco: questo atto vale anche per la storia dell’arte, nel senso che siamo in un colloquio continuo con un canone che non è solo un corpus di testi, ma un insieme di storie di esseri umani. Questa è l’essenza del lavoro umanistico.

 

 

Voglio farti un’altra domanda, a struttura aperta, stavolta anche da tua collega all’Università per Stranieri di Siena. Nel passo usato per le tracce della prima prova dell’Esame di Stato e tratto dal tuo libro Istruzioni per l'uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà (minimum fax, 2014) si legge: «Nel patrimonio artistico italiano è condensata e concretamente tangibile la biografia spirituale di una nazione: è come se le vite, le aspirazioni e le storie collettive e individuali di chi ci ha preceduto su queste terre fossero almeno in parte racchiuse negli oggetti che conserviamo gelosamente. il patrimonio artistico e il paesaggio sono il luogo dell’incontro più concreto e vitale con le generazioni dei nostri avi». Ora, l’esperienza di didattica della lingua e cultura italiana che noi esperiamo nella nostra sede universitaria, come in qualsiasi altra sede universitaria internazionale, o come già nella gran parte delle classi elementari italiane, è un’esperienza dentro una classe multietnica, vale a dire composta da soggetti che non appartengono, in realtà, alla generazione dei nostri avi. Come ti pare importante ripensare allora il nostro patrimonio culturale in questa situazione?  

 

Questo è un punto fondamentale. Sul web si trova una mia conferenza su identità/cultura/nazione fatta al Macro (Museo d’Arte Contemporanea di Roma): ho scelto apposta il tema oggi più scabroso. In realtà, infatti, l’Italia ha una posizione speciale, che ci mette in una condizione di vantaggio. Il documento più antico d’Europa su carta si conserva a Palermo: è una lettera in arabo, scritta da una regina normanna. La nostra storia, da sempre, è una storia meticcia, fatta di incontri, di mescolanza. Pensa al (brutto, ma così caro) stemma della repubblica italiana, con la ruota dentata, le foglie d’ulivo, e poi la stella, perché i greci chiamavano l’Italia la terra della stella. È importante ripensarci: il nostro stemma repubblicano ha un’idea di Italia come paese visto da fuori. Visto da chi venne ad abitarla: i greci d’Occidente, la Magna Grecia. L’unico articolo dei principi fondamentali della Costituzione, il 9, che usi la parola ‘nazione’ è quello che parla di cultura di paesaggio e patrimonio artistico. Il concetto di nazione ha a che fare con il territorio, con la cultura: e dunque con l’apertura, per definizione. In tutte le nostre chiese troviamo storie che parlano di persone che vengono da tutto il mondo. Noi apparteniamo, non da oggi ma da sempre, a una storia multiculturale. 

 

Chiesa di San Tommaso in Formis, Roma.

 

Come mostra bene anche il mosaico sulla facciata di San Tommaso in Formis, a Roma, di cui parli ne L’ora d’arte: un mosaico in cui Gesù tiene per mano, con lo stesso amore e con la stessa cura, un bianco e un nero.

 

È un classico esempio in cui si tratta di ricostruire la cultura storica. Uno spazio pubblico su una facciata di una chiesa, in un luogo trafficatissimo dove ora passa la metro C. Un’opera realizzata da maestranze siciliane o bizantine, con un’arte che comunque viene da lontano; quella del mosaico, e un’iconografia che ha a fare con il sogno di un religioso francese che arriva in Italia e si occupa della liberazione degli schiavi, scambiandoli uno contro uno. È un modo implicito di riconoscere lo stesso valore a bianchi e neri. Tutto questo, oggi, è negato, ma noi sappiamo che questa dimensione esiste. La storia è sempre una storia di conflitto. L’interpretazione del mosaico è legittimata proprio dall’unico articolo della costituzione che parla di patrimonio culturale. La nostra repubblica, il nostro stare insieme non è neutrale: per esempio perché è, per sempre, antifascista. La cultura, il patrimonio culturale e materiale non è mai neutrale: ha un segno, ed è questo segno che deve trasparire dal discorso pubblico di chi è pubblico ufficiale insegnando in una scuola o in un’università della repubblica. Il progetto della costituzione non è contendibile: ed è riassumibile in questo programma, «dare ad ogni uomo la dignità di uomo». Sono parole di Piero Calamandrei: è quello che dobbiamo fare ogni minuto della nostra vita.

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Paul Auster, Una vita in parole

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James Joyce negli anni Venti è a Parigi, ad una festa, una donna gli si avvicina e gli chiede se può stringere la mano a chi ha scritto l’Ulisse. Joyce, prima di offrire la mano destra, la alza, la scruta e dice: «Signora, mi permetta di ricordarle che questa mano ha fatto anche molte altre cose». L’aneddoto termina qui. Il siparietto cala. Tutto è lasciato alla fantasia della donna. Il punto, però, è un altro; il punto è che qui, il doppio senso spiana la strada a se stesso, e nonostante le mani di tutti, ogni giorno, compiano gesti come aprire e chiudere una porta, piegare asciugamani, estrarre soldi dal portafoglio e scostare le coperte del letto, si è portati a pensare ad altro. Joyce, scrive Paul Auster riportando questo aneddoto in Diario d’inverno (p.132), probabilmente, voleva che la donna pensasse «al gesto di pulirsi il culo, di mettersi le dita nel naso, di masturbarsi a letto di notte, di ficcare le dita nella fica di Nora». L’amabile Nora Barnacle, aggiungiamo noi.

 

La meccanica razionale, newtoniana, di tutta la letteratura di Paul Auster si consuma nella brace di questo aneddoto: l’analisi sul gesto della mano, la frase rifinita ad hoc del protagonista, il suo significato diretto e le sliding doors aperte, spalancate, sui significanti possibili.

Per Einaudi è apparso da poco Una vita in parole. Dialogo con I. B. Siegumfeldt (Einaudi, trad. di Cristiana Mennella), nel quale si ripercorre, a colpi rovesci d’interviste, romanzo dopo romanzo, il magnus opus di Auster. La sensazione che si ha è che lo scrittore americano, nato a Newark (sì, come Philip Roth, ma 14 anni dopo), nelle interviste, lungo il corso degli anni, abbia sempre conservato una voce molto personale, raccolta, intima. La voce consumata dal fumo (è da qualche anno, però, che fuma solo sigarette elettroniche) è la voce di un uomo che non fa altro che titubare, nicchiare, prima di capirsi completamente, prima di donarsi in pasto a un concetto saldo, fermo, a un’idea che molte volte rimpasta, rimpolpetta e ripropone, con parole migliori, sempre migliori, inanellate anni dopo. Il muro portante dell’edificio austeriano è l’idea che gli scrittori con la S maiuscola siano capaci di giocarsi la vita nello spazio stretto di un fazzoletto.

 

Non andiamo lontano, prendere una manciata di titoli aiuta subito alla comprensione: la prima raccolta si intitola Captives, ossia Prigionieri, poi, in ordine, Città di vetro, Fantasmi, La stanza chiusa, Uomo nel buio, L’invenzione della solitudine, Diario d’inverno, Notizie dall’interno. Uno scrittore che fa cappotto alla sua ossessione e la trasforma in ritmo, in musica per le orecchie degli altri. A un tratto I. B. Siegumfeldt domanda a Paul Auster: «Si è mai chiesto perché ha bisogno di un tetto sopra la testa, di quattro mura, per contenere qualcosa?», e l’autore risponde: «Sì, credo di sì. È come se la stanza fosse un corpo, e il corpo dentro la stanza fosse il cervello. Uno strano tipo di duplicazione». In Diario d’inverno Auster, dopo aver passato in rassegna tutte le ventuno case in cui ha vissuto, spia se stesso, e si descrive nell’atto della scrittura; confessa che per lui camminare all’interno di una stanza, mentre scrive, è necessario: «un piede avanti, poi l’altro piede, il doppio battito di tamburo del tuo cuore» (p.179). Il ritmo binario del cuore, tutùn-tutùn, tutùn-tutùn, fa m’ama e non m’ama con la sarabanda di parole che seguono, e ribollono, e scalpitano per salire a galla, in testa, come gnocchi pronti sulla bocca. «Chissà quante paia di sandali ha consumato Dante mentre scriveva la Divina Commedia» si domanda Mandel’štam in Conversazione su Dante.

 

 

A prescindere dal fatto che siano romanzi autobiografici o meno, Auster tiene da sempre fede ad un mot(t)o perpetuo, riassumibile in questo assioma: «Il mondo è nella mia testa. Il mio corpo è nel mondo». Diciamo pure che lo scrittore americano si coccola in una visione tutta romantico-escatologica dell’essere scrittori. La storia (che una manfrina, in fondo in fondo, non lo è affatto) dell’essere prescelti: «L’unica cosa che ha un po’ di senso per me», scrive, «è che per scrivere bisogna dare tutto quello che abbiamo. È uno sforzo totale, e bisogna esporsi completamente, bisogna dare in continuazione. E sforzarsi al massimo ogni giorno. Credo che pochissimi lavori al mondo chiedano così tanto. Le altre professioni possono essere svolte anche in automatico. Possiamo basarci sulle abitudini, essere pigri, avere dei giorni in cui non occorre sforzarsi al massimo, che uno sia un avvocato, un medico, uno spazzino o un idraulico. Così, quando mi alzo dalla scrivania, alla fine di una giornata di lavoro, posso almeno dire: «Ho dato il massimo. Sono sfinito e ho fatto del mio meglio». Curiosamente, vivere a questo grado di intensità fa sentire umani molto più di tanti altri lavori». 

 

Auster è ossessionato dai processi e i meccanismi della scrittura, da quello che chiama «il versante artificiale della letteratura»: costruire una casa e lasciare i tubi e i fili elettrici a vista. «Il racconto continuo, ininterrotto, su chi siamo», è una cosa che inizia verso i cinque o sei anni, cioè il «momento in cui pensiamo una cosa e, simultaneamente, siamo capaci di dire a noi stessi che stiamo pensando quella cosa». L’aneddoto iniziale, quello su Joyce, nasceva dal fatto che lo scrittore osservava la propria mano destra nell’atto di reggere la penna stilografica. Farsi mosca, annusarsi, costellarsi di perché mai, «è così che fiorisce l’immaginazione, soprattutto in condizioni tanto spartane: tavolo, sedia, pagina, penna, e un uomo, o una donna, che siede a quel tavolo». Da qui, quella specie di continua e molesta laringoscopia che Auster mette in atto su se stesso dopo la morte del padre. L’invenzione della solitudine, ad esempio, ha la medesima sorgente: «Mentre scrivevo il libro, mi pareva ancora di vedere mio padre, e l’atto della scrittura sembrava alleviare il trauma e il dolore per la sua morte. Eppure, quando ho finito il libro, è stato come se non lo avessi mai scritto. Tutto era come prima. Scrivere non è una terapia». Lo stesso meccanismo avviene quando la mosca diventa un drone e perlustra nel passato, come succede in tutti i libri autobiografici (Esperimento di verità, Diario d’inverno e Notizie dall’interno) e in particolare in Sbarcare il lunario, libro con un incipit irredento, che rimane stampato a fuoco sul cavallo-lettore, più o meno come l’explicit di Il grande Gatsby; sentite che tempo andante, che movimento peu à peu: «A cavallo dei trent’anni, vissi un periodo in cui tutto quello che toccavo si trasformava in fallimento. Il mio matrimonio si concluse con un divorzio, il mio lavoro di scrittore andò a picco, e mi ritrovai assillato dai problemi finanziari. Non sto parlando di penurie occasionali, o di periodiche tirate di cinghia, ma di una mancanza di denaro continua, oppressiva, soffocante, che mi avvelenava lo spirito generando una condizione di panico senza fine» (p.3). 

 

I libri-intervista sono sempre molto particolari, specie quando giochicchiano sul filo di lana merino della sincerità, quando dicono tutto senza dir troppo sull’autore, quando installano uno specchio distorto davanti a chi parla. Così, butto titoli come se buttassi dadi, i primi che mi vengono in mente, molto piacevoli, apparsi in questi anni, sono Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle su Bukowski, Per favore, mi lasci nell’ombra su Carlo Emilio Gadda, o Tondelli, il mestiere di scrittore. Una vita in parole su Auster racconta quello che abbiamo sempre saputo su Paul Auster, ma meglio, ordinando le idiosincrasie e gli aspetti del lavoro di uno scrittore, in cassetti specifici, con etichette nuove, bianche, pulite. E se c’è una cosa, in particolare, che filtra sempre, da ogni vis-à-vis con l’autore, è che la letteratura è un impegno, un’obbligazione, un onere, è un campo da gioco sul quale, come diceva Roberto Bolaño in Tra parentesi, «si perde sempre, ma la differenza, l’enorme differenza, sta tra il perdere in piedi, con gli occhi aperti, e il perdere inginocchiati, in un angolo, a pregare san Giuda Taddeo e a battere i denti».

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I “pirati” di Lentiscosa

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Nel Cilento meridionale, all'estremo limite della Campania, tra l'Alpe del monte Bulgheria e il Tirreno, è qui che si trova Lentiscosa, frazione di Camerota a circa 300 metri d'altitudine sul livello del mare. Ed è qui, nel Parco nazionale del Cilento, in un podere avito, a Santa Maria del Piano, che Nino Belluccio, insieme ad altri produttori, semina e raccoglie il maracuoccio. Sembra quasi di vederlo, Gaetano, con la sua fronte alta, le spalle inarcate e il sorriso delicato, fatto di linee che suggeriscono mestizia. In autunno prepara il terreno alla semina, e mesi dopo raccoglie i baccelli da cui germogliano i caratteristici semi irregolari, ognuno diverso dall'altro, ognuno colorato e squadrato. Certo, non è così semplice raccoglierne i frutti, perché pare che il maracuoccio cresca meglio se sotto lo strato di terra si trova della pietra calcarea e sopra l'aria asciutta della collina, quindi occorrono alture un po' distanti dal mare, proprio come il paese di Lentiscosa, che prende il nome dal lentisco.

 

Nino, poi, il maracuoccio lo custodisce gelosamente, la sua produzione è limitata e la farina ricavata da questa leguminosa autoctona vicina alla famiglia della cicerchia, macinata a pietra, gli serve per il ristorante che gestisce giù alla marina di Camerota. Quanto alla preparazione: dopo aver aggiunto della farina di grano saragolla, fatto cuocere il tutto lentamente in acqua bollente e sale, e rimestato fino a fine cottura, sarà pronta la maracucciata. Una polenta a cui basta aggiungere dei tozzi di pane rosolati in olio extravergine di oliva e cipolla, questa è la maracucciata. Un cibo povero, nutriente, tramandato e ripreso dalla Comunità dei produttori del Maracuoccio di Lentiscosa e da tempo, nel solco tracciato da Carlin Petrini, presidio Slow food. Una ricetta che ricorda quanto dura e al contempo ingegnosa fosse l'alimentazione delle classi subalterne del Mediterraneo, abituate al pane nero, fatto di crusche e scarti, alla raccolta di erbe; a cui, al contrario di quanto ci portano a credere le vulgate del momento, erano preclusi alimenti oggi ritenuti fondamentali per la cosiddetta dieta mediterranea come la farina bianca e lo stesso olio extravergine d'oliva, prodotti un tempo destinati, come pure la carne, al commercio, al consumo delle classi agiate, e alle festività.

 

 

La storia di Nino la devo a Giovanni, guida e amico camerotano da decenni. Non è strano che Nino e Giovanni siano a loro volta amici e abbiano dei tratti comuni. Alla fine, insieme a tanti mestieri praticati, sono pur sempre un contadino e un pescatore. E quindi abituati a un buon grado di solitudine e silenzio. Abituati a rimestare i pensieri, a misurare i gesti, prima di incamminarsi o fare parola con qualcuno.

Giovanni, senza aver letto Pirenne, dice che Lentiscosa è figlia dei pirati, che il nucleo deve la sua esistenza alla fuga dal mare e dalle coste, quando gli ottomani dominavano il Tirreno, e furono attirati in questi profondi fondali dalla sicurezza del porto naturale degli Infreschi.

Conduce lentamente il suo racconto, Giovanni, che si intreccia a queste montagne appenniniche finite nel mare. Da sessant'anni tutti lo conoscono con un nome non suo. Se il destino ancora in fasce gli ha tolto il padre, i parenti decisero di levargli anche il nome d'anagrafe, scelto proprio dal papà pochi mesi innanzi. Dunque lo ribattezzarono Domenico, come il genitore appena trapassato e il santo patrono di Marina. È così che dalla vita egli non solo non ha avuto un padre, ma non ha potuto ricevere nemmeno il nome che questi gli aveva lasciato.

 

Giovanni instancabile, magro, ossuto e nero di sole, senza scuola, né licenze o diplomi, ma pescatore, muratore, bagnino, guida, contadino; insomma costantemente in fuga e affaccendato in qualcosa; che tutti chiamano Cuccio, diminutivo di Domenico e che, tra un lavoro e l'altro, sa usare la lingua per difendersi e, se necessario, affermarsi. Una lingua acuta, veloce, con cui mostra tutta la sua intelligenza e a volte dirupa, si blocca o incespica, anche se meno di un tempo. E che rimane, a dispetto degli anni, burbero e gentile compagno, declinando in questo suo modo paradossale,  ironico e generoso, l'esistenza e con essa l'amicizia. È lui ad annuire insieme a Nino, a rammentare che la storia degli esseri umani è storia di semi, senza cui, dice, non ci saremmo nemmeno noi. Tutti dobbiamo in qualche modo, proprio come semi, adattarci a ciò che ci circonda.

Così il seme del maracuoccio attecchisce e cresce poco sopra la roccia e con la sua tenacia riporta a quella di Nino e Giovanni, ognuno diverso, ognuno colorato e squadrato a suo modo. Forse a Camerota o a Lentiscosa, ben difesi dai monti cilentani, qualcuno può ancora voltare le spalle al mondo, rivolgersi al mare o alle colline, come hanno fatto loro.  

 

Tuttavia, visto da Lentiscosa, Camerota, Licusati, l'Italia è un Paese lontano, quasi come voltasse le spalle ai suoi limiti estremi, alle sue pendici, al Mediterraneo.

A ben guardare la stessa Campania sembra condensare e riprodurre in scala, con i suoi vuoti e pieni, gli squilibri territoriali e i difetti della Penisola. Al vuoto del Cilento, del Sannio e dell'Irpinia, oppone le valli massicciamente urbanizzate che da Battipaglia e Salerno portano a Napoli e Caserta, una conurbazione in cui vivono circa quattro dei cinque milioni di abitanti campani.

Resta da capire come avrebbero potuto questi luoghi di migranti, gemmazioni, sdoppiamenti, fatti di tante isole e montagne, vissuti in una continua emorragia di giovani, per giunta laureati e diplomati, diventare d'un colpo quello che si desiderava in un altrove di nome Roma, Milano, Bruxelles, o chissà chi altro. A ognuno, vien fatto di pensare, il suo mascherato nomos della terra.

Alla fine, lo sappiamo, i limiti, le pendici, hanno preso a cercare da sé altri luoghi e nuovi nomi: il Venezuela, il Belgio, l'America.

“Un alito”, scrisse Scotellaro a tal proposito in La mia bella patria, “può trapiantare il mio seme lontano”, soprattutto quando la patria non è altro che un esile filo d'erba.

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Fernand Deligny, I ragazzi hanno orecchie

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Gioele Dix chiuderà il nostro Scarabocchi. Il mio primo festivale sarà con noi domenica 22 settembre alle 18.30 in Sala Arengo.

 

La parte più originale e sorprendente di I ragazzi hanno orecchie è nelle ultime venti pagine. Conviene spalancare il libro per godersele a pieno. Su ciascuna delle pagine di destra, su fondo grigio scuro, ci sono dei disegni infantili, poco più che scarabocchi, rudimentali tratti bianchi di forme varie. A fronte, sono stampati i testi che li commentano, brevi componimenti a cavallo fra poesia e filastrocca, venati di sottile ironia. L’educatore Fernand Deligny li ha inventati ispirandosi ai segni lasciati sulla lavagna dai suoi ragazzi. In uno, per esempio, compaiono tre righe verticali tagliate da brevi lineette orizzontali: con un pizzico di fantasia diventano lische di pesce che vanno a passeggio per la città fra lo stupore generale. In un altro, c’è un cerchietto dentro un rettangolo: basta un attimo ed ecco che si trasforma nel buco per il calamaio di un banco, è di uno scolaro che non ha imparato a scrivere, ma sa come salpare verso l’Oceano Atlantico. Il mio preferito è fatto soltanto da due curve sinuose, come minuscole esse, quasi invisibili per quanto il gessetto è passato leggero. Ne nasce una storia stupefacente.

 

Due fessure in un muro

quelle che si chiamano lucertole

quando il sole scalda le pietre

ne escono i lucertoli

che guizzano ovunque.

Le lucertole rimangono lì

molto tranquille

ma a riguardarle col tempo

si vede si muovono

si muovono e non si muovono

come l’acqua

se ne vanno e rimangono lì.

La sera i lucertoli ritornano e rientrano

nelle lucertole

è casa loro.

 

La mia copia di I ragazzi hanno orecchie rischia di essere una rarità, il libro non viene ristampato da anni, e anche la casa editrice non esiste più. Per fortuna l’incanto resta, immutato. Identico a quello che dovette provare François Truffaut quando ascoltò Deligny parlargli di un bambino fuggito dal suo istituto solo per correre verso il mare, che non aveva mai visto. E quell’immagine diventò poi il finale del suo film più celebre, I 400 colpi.

Questo piccolo libretto di fiabe e racconti dalla copertina arcobaleno lo comprai appena venne pubblicato in Italia. Avevo sentito parlare del suo autore, molto conosciuto negli ambienti della didattica infantile, e non solo in Francia. Io all’epoca mi ero iscritto a Psicologia, cominciavo a fare teatro per i bambini e mi pareva di intendermene un po’. Fernand Deligny era un educatore assolutamente fuori dagli schemi, un cane sciolto, nemico giurato di dogmi e metodi scientifici, un vero anticonformista della pedagogia. Aveva fondato a Graniers, nella campagna francese, una specie di comunità nella quale accoglieva giovani e giovanissimi considerati troppo “difficili”, e per questo rifiutati non solo da altre strutture scolastiche e sanitarie, ma spesso anche dalle proprie famiglie. 

Nell’introduzione di I ragazzi hanno orecchie, ci sono brani di una sua lunga intervista nella quale Deligny racconta le vicende di alcuni suoi ospiti (nessuno veniva considerato neppure lontanamente un ricoverato). 

 

“Janmari capitò qui per caso. I professori avevano deciso che era ineducabile, si batteva la testa contro i muri, non si scostava davanti alle macchine, non camminava ma correva tutto il giorno sulla punta dei piedi, era affascinato dall’acqua che scorre. Il 14 luglio 1967 abbiamo imbarcato Janmari. Si trattava di tramare un ambiente che gli consentisse di esistere… Sono passati undici anni, ora ne ha ventitré, anche se gliene daresti molti meno. Vive qui, calmo, felice a quel che sembra. A volte entra in casa, verifica se gli interruttori funzionano, squadra la stanza con uno sguardo senza vita, si scalda un caffè che lappa con evidente piacere. Sta ore in piedi con le mani incrociate dietro la schiena, vuoto, assente, si bilancia su una gamba e sull’altra, in un movimento interminabile. Ecco uno che è riuscito a evitare l’ospedale psichiatrico, che non sarà rinchiuso. Era irrecuperabile, invivibile. Allora lo abbiamo fatto deragliare, uscire dalle rotaie che lo condannavano a vivere tutta una vita confinato in un’istituzione. Un deragliatore, ecco quello che sono, è già qualcosa…”

 

 

Deragliatore: come per rispondere a chi avrebbe voluto in qualche modo catalogarlo, si inventò una geniale autodefinizione. E il deragliamento come inconsueta proposta di terapia, come anomala contromisura al disagio, rispecchia  in pieno il clima culturale nel quale si era tutti immersi. Erano gli anni della ribellione, del rifiuto degli stereotipi sulla devianza, erano gli anni di Basaglia, ci si chiedeva insistentemente: chi è veramente matto e chi è veramente normale? Rimpiango quell’atmosfera feconda, battagliera, problematica. E non perché allora avevo vent’anni. È che oggi lo spirito del tempo è debole, infiacchito, ottuso, rimescolato. E oltretutto io non ho più neanche vent’anni. 

Spinto dalla passione civile, oltreché da una grande sensibilità letteraria e artistica, Fernand Deligny si specializzò – se così si può dire – in ragazzi autisti, quelli che oggi vengono definiti meno brevemente autistici (non ho mai capito perché da un certo momento in poi il loro nome abbia subito questa seppur minima mutazione, forse per non confonderli con i conducenti degli autobus?). La parola nascosta, rifiutata, negata diventò il fronte dove provare a combattere la faticosa, a volte disperante battaglia per strappare i ragazzi che non parlavano a un’esistenza di isolamento ed esclusione. 

 

“Prima di tutto bisogna diffidare delle parole. Autista per esempio è un assurdo. Vuol dire ripiegato su di sé, ma è proprio perché non hanno sé che sono autisti! È difficile dire che questi ragazzi sono centrati in qualcosa che non esiste. Sono refrattari al linguaggio, nel senso che gli rimbalza addosso: le parole non possono dire più niente. All’inizio, quando gli parlavamo, era come a un muro, allora abbiamo smesso. Qualcuno dice: bisogna amarli. Io dico: bisogna rispettarli. Altri pensano che bisogna insegnargli cose, gesti, parole. I ragazzi psicotici per esempio si possono addomesticare come le foche, qualche piccolo risultato si ottiene. Imparano a tenere in mano la forchetta e gli si dà un premio. Il colmo dell’insopportabile.”

 

Non era possibile restare indifferenti a un tipo del genere, alla coerenza e dedizione con le quali metteva in pratica le proprie visioni. I ragazzi hanno orecchieè un libro che nasce proprio da quelle esperienze e contiene – oltre ai brevi frammenti illustrati sul fondo – una decina di storie inventate per i ragazzi e con i ragazzi, componendo, scomponendo, assemblando spunti e intuizioni nati dall’interazione con loro. C’è molta farina del sacco di Deligny, c’è la sua immaginazione, il suo sarcasmo, la sua natura ribelle. Ma fra le pagine, sotto traccia, pare intuirsi il mondo sommerso dei suoi giovani complici, i loro pensieri muti, le loro fantasie inespresse. 

I protagonisti delle storie sono prevalentemente oggetti, la panchina di legno, i due sanpietrini, lo sgabello zoppo, la tazza bianca. E l’ambiente campagnolo circostante è ben rappresentato: la lanterna lo spaventapasseri, il gallo di chiesa (quello in ferro battuto che sta sul cocuzzolo del campanile a segnalare da che parte tira il vento). I personaggi si presentano, prendono vita e la storia si accende.

 

Il gallo di chiesa è stato posato lassù come lo erano i re sui loro troni. Si è messo in testa che tutto gli ubbidisce: il vento, gli orologi, le buone vecchiette, chi va e chi viene, gli avvenimenti e le abitudini.

Lo spaventapasseri sotto i modi un po’ loschi  e il gesticolare aggressivo dissimula male l’angustia di essere meno che niente.

 

Anni dopo aver letto queste deliziose fiabe, mi è nata una figlia, che oggi è adulta e madre a sua volta. E allora ho ripreso I ragazzi hanno orecchie per trarre ispirazione e lavorare sulla narrazione. Perché nessuna teoria pedagogica potrà mai mettere in dubbio l’importanza di raccontare a un bimbo la favola della buona notte.  Forte di tutti i miei studi e approfondimenti universitari, da Bettelheim a Ferenczi, da Piaget a Janusz Korczac, mi sono preparato per cominciare a raccontare una bella storia di fantasia. Senza dimenticare la splendida lezione di Deligny.

 

“Quando ti ascoltano, sai cosa si aspettano da te? Che la tua voce, il tuo racconto, preceda la loro impazienza.”

 

 

Ma poi ho capito che si erano dimenticati tutti di insegnarmi una cosa fondamentale: i bambini sono conservatori. Sì, è vero, sono anche impazienti, ma sono soprattutto conservatori, vogliono sentire  sempre la stessa storia. Mai modificare un particolare o scordarsi un dettaglio. Anche perché hanno una memoria di ferro e sono polemici. Ricordo mia figlia che mi sgridava. “No papi non la sai!” “Ma come non la so? L’ho inventata io!”. Già, perché io non avevo scelto una storia già pronta, una di quelle della tradizione fatte bene tipo Biancaneve, Pollicino, no. Me l’ero inventata: la principessa Camillona. Lo consideravo il mio cavallo di battaglia, anche se poi è diventato un incubo, ripetutosi per notti e notti. La principessa Camillona. Come scavarsi la fossa da soli. Ricordo ancora l’incipit, non era niente male. “Camillona era una principessa che aveva tanti castelli in aria, ma preferiva abitare nell’unico sul mare, dove era in affitto. In ogni stanza del castello c’era un orologio che segnava un’ora diversa, ma lei sapeva sempre qual era l’ora giusta (chissà perché) e c’erano trenta ascensori verdi che salivano e non scendevano mai…” Ma qui arrivavano le prime difficoltà. “Perché salivano e non scendevano mai, papi?”. Ma come? Secondo Deligny questo non avrebbe dovuto succedere, secondo Deligny la bimba avrebbe dovuto accettare l’irrazionale senza battere ciglio. Vatti a fidare dei francesi. E allora come spiegare il perché di questi  ascensori che salivano e non scendevano mai? Ma ecco l’idea. “Per scendere bisognava pagare un euro e nessuno c’aveva la moneta”.

 

Uno sguardo perplesso di lei, approfittavo dell’indecisione  e via, passavo avanti. “La principessa Camillona decise di fare una grande festa e arrivarono tutti i suoi amici animali. Arrivò per primo il suo migliore amico, il toro. “No papi non era il toro, era il bue”. Ma come diavolo faceva a sapere la differenza fra un bue e un toro? “Vedi amore la differenza fra il bue e il toro è che al bue hanno tagliato…” Sguardo smarrito. Non la sapeva, la differenza. Meglio così. Perché – e in questo Deligny aveva ragione da vendere – i  bambini sono affascinati dalle parole in sé, non dal loro significato. Bue è diverso da toro perché suona in modo diverso e fa più ridere. Tutto qua.  Nasceva però un nuovo problema: come fare la voce del bue? Provavo a farla in falsetto. Ma lei: “Perché il bue parla così, con la vocina, papà?” “Perché al bue, che prima era un toro, gli hanno tagliato…” “Non mi piace questa voce, papà…” “E va bene, allora il bue te lo faccio con la voce bassa, baritonale…” e pazienza per la realtà delle cose. E mentre mi inventavo le parole cortesi che il toro/bue rivolgeva alla sua amica principessa Camillona, mi accorgevo che lei roteava gli occhi e stava per crollare. Allora, felice, mi sollevavo dalla sedia pianissimo, schermavo la luce, cercavo di non fare rumore muovendomi sul parquet maledettamente scricchiolante, socchiudevo la porta che cigolava pure lei, maledetta… “Devi finirmi la storia, papi…” Una pugnalata all’improvviso. Toccava tornare sui propri passi e cercare di convincerla a dormire, ma non c’era niente da fare.

 

“La festa della principessa volge al termine, lei per prima dice agli amici che è tardi, che domani ha tante cose da fare. Vi saluto cari amici animali e…” Finalmente andata! A quel punto, avresti potuto fare qualsiasi cosa, produrre qualunque genere di rumore, suonare la tromba, la batteria, accendere sedici televisori a tutto volume, tanto non si sarebbe più svegliata fino al mattino seguente. E allora ti veniva la tentazione di avvicinarti a lei e gridarle proprio vicino all’orecchio: “Guarda che non era un bue, era un toro!”. Giusto per precisare.

Sarò sempre grato a Fernand Deligny per avermi illuminato con la sua saggezza. Un vero educatore, inflessibile e tenero. Poco accondiscendente e votato alla causa. E anche sanamente simpatico. Così spiegò una volta il titolo del suo libro:

“Perché i ragazzi hanno orecchie? Perché se non le avessero, gli adulti  non potrebbero riversarvi dentro tutte le loro stupidaggini”.

 

Torna Scarabocchi. Il mio primo festival per il suo secondo anno. Di nuovo a Novara, presso l’Arengario. Torna con un tema che attraversa laboratori per i bambini e per gli adulti, le lezioni e le letture, e altro ancora: gli animali. Lorenzo Mattotti con gli animali di Pinocchio, Giovanna Durì con le macchie e gli sgorbi dentro cui vedere animali strani o consueti, Giovanna Zoboli con la pecora da disegnare de Il piccolo Principe di Saint-Exupery, e poi Ilaria Urbinati anche lei con animali, e quindi Ermanno Cavazzoni che ci parla degli scarabocchi di Franz Kafka, lo scrittore i cui racconti sono pieni di molti animali. Vi aspettiamo a Novara dal 20 al 22 settembre!

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Tarantino e la strategia dell’anti-spoiler

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Attenzione: questo articolo contiene spoiler (ma non è importante). 

 

C'era una volta... a Hollywoodè preceduto dalla sua stessa fama: il nono film di Quentin Tarantino, su Hollywood. Basterebbero già questi due elementi per sapere che ci troviamo di fronte a una situazione autoreferenziale, prima ancora che metacinematografica: Tarantino fa un film su sé stesso. Ciò crea la dovuta attesa – o, come si direbbe ora, un hype.  

 

Poi però l'affare si complica. Durante la conferenza stampa del film al festival di Cannes, lo stesso regista prega i giornalisti di non svelare il finale del film. La richiesta, oltre ad amplificare genericamente l'attesa della sua uscita (e forse spingere qualcuno, in virtù dello stesso divieto, a cercar di capire cosa c'è sotto), concentra sul suo misterioso contenuto ogni genere di riflettore. Come se non bastasse, dalla dichiarazione di Tarantino prende avvio una serie di rimbalzi web a partire dall'incidente diplomatico causato da Wikipedia che, a detta di alcuni critici su Twitter, se da un lato rispetta le volontà del regista, dall'altro viola uno dei principi del suo stesso statuto (affermare il falso): nella sinossi non viene riportata la fine del film, ma al suo posto ne viene inserita un'altra, inventata.   

Ora, posto che il colpo di scena è espediente narrativo comune e l'obbligo di preservare il suo potere esplosivo ipoteticamente valido per ogni tipo di film, che cos'ha questo di particolare? Ma soprattutto, di quale trama stiamo parlando? E cosa voleva dire esattamente Tarantino? Il gioco è doppio, se non triplo. 

 

https://www.youtube.com/watch?v=TLmHNBmzz84

 

Andando a fondo alla questione di link in link sulla stampa internazionale, viene fuori che il film è ambientato alla fine degli anni Sessanta a Hollywood e potrebbe trattare della strage di Cielo Drive ad opera dei seguaci di Charles Manson, e che dunque il colpo di scena finale su cui è richiesto di tacere possa riguardare Sharon Tate, a cui il film decide di cambiare le sorti: invece di rimanerne vittima, si salva. Ma siamo sicuri che il film parlerà di Sharon Tate? A quel punto, il detective/spettatore potenziale intenzionato a capirci qualcosa di più, decide di guardare il trailer, che, come scopriremo, si rivelerà sorprendentemente veritiero e finanche profetico (“In questa città tutto può cambiare all’improvviso”). 

 

 

Il trailer lascia entrare Sharon Tate (Margot Robbie) solo in un secondo momento, dandole subito il ruolo marginale di colei che va a vivere accanto al protagonista (Rick Dalton-DiCaprio), e che al limite non paga al botteghino per vedere un film di cui ella stessa è protagonista. Del tutto specularmente ai vari discorsi che si spendono in rete, il trailer si mantiene sul vago, preparandoci piuttosto a un affresco sulla vita hollywoodiana su cui si staglia indiscutibilmente come protagonista la coppia DiCaprio-Pitt (rispettivamente un attore e il suo stuntman), che, come tutti gli affreschi, non sembra avere una vera e propria trama, se non a mo' di mera scusa per la narrazione (Ave, Cesare!, dei fratelli Coen, presentava la stessa impalcatura narrativa e forse non è un caso che parlasse anch'esso di Hollywood). Anzi, se proprio dovessimo dire che cosa ci aspettiamo di vedere nel film, stando al trailer, diremmo: l'aria che tira a Hollywood, gli alti e bassi della fortuna attoriale, nello specifico legata al mercato dei western. Da lì sembrava ovvio insomma che il film non intendesse andare nella direzione “Sharon Tate”. E così sarà. Ma se il film non ha mai voluto parlare dei giorni della morte di Sharon Tate, cosa ne è del discorso “Sharon Tate”, e del segreto sul suo finale? È vero, non ha mai inteso parlare di quello, ma lo ha fatto ampiamente credere, prendendone a prestito solo la parte precedente, e cioè l'ipotetica tensione, ricostruita artificialmente al cinema, che ha pervaso inconsapevolmente quegli stessi giorni. 

 

Dal momento che il registro è ambiguo (mezzo ispirato alla realtà, mezzo no), distinguere il vero dal falso è compito arduo, e tuttavia l'auto-spoiler che il dato storico per sua natura inevitabilmente contiene ha fatto la sua parte... se solo non fosse stato contraddetto. Se per età, curiosità scatenata dal divieto espresso in conferenza stampa, cinefilia, o anche solo fanatismo nei riguardi di Charles Manson, si è a conoscenza del fatto che Sharon Tate è stata quella giovane e promettente attrice, nonché bella e infinitamente dolce moglie di Roman Polanski, che fu trucidata, incinta, nella sua villa di Hollywood durante un party, una calda sera d'agosto del 1969, quello che ci si aspetta al termine del film è esattamente questo, anche restando all'oscuro di trame e polemiche dell'online. Soprattutto quando siamo in presenza di quello che è a tutti gli effetti un apparente countdown inverso nei sottotitoli, a scandire il procedere temporale dei fatti. 

 

 

Ed eccoci: a conferma di ogni sospetto, a film avviato, vediamo comparire Sharon Tate e Roman Polanski che arrivano in cabriolet nella loro villa di Cielo Drive, sotto gli occhi increduli del vicino di casa Rick Dalton. A condire il tutto, l'andamento scanzonato di una Los Angeles molto prossima Messico, quel ritmo sonnolento, da serie tv che avrà il tempo che desidera per sviluppare la vicenda, che se può funzionare nella realtà diventa sospetto nel film; un'atmosfera rilassata ma tesa a interrompere la quale, bene che vada, presto o tardi scoppierà una bomba, di quelle che non ti scordi; insomma, una calma piatta come se dovesse succedere qualcosa da un momento all'altro. O anche niente. Il tempo semplicemente trascorre, come potrebbe farlo l'estate: fa caldo, c'è il sole, Cliff Booth (Pitt) aggiusta un'antenna sul tetto, mentre strappa una lattina di birra. Un clima di festa: quale occasione migliore per lasciare che lo sguardo dello spettatore si posi sul primo piano candido, raggiante, ignaro di una virginale Sharon Tate, con quegli occhioni blu, la minigonna bianca, gli occhiali da sole e le labbra innocentemente turgide di giovinezza, su cui leggere il destino della morte: povera ragazza, non sa ancora quale tragica fine la attende! Di nuovo quelle date precise che compaiono sotto, che confermano ancora una volta una dead line alla quale si deve giungere, sensazione amplificata quando si sa per certo che un eccidio è alle porte. Ne sei sicuro, e poi invece quando meno te lo aspetti scoppi in una grande risata liberatoria. 

 

 

Il fatto è che non solo Sharon Tate non muore, quanto che il cuore del film risiedeva da un'altra parte e più nello specifico a lato: letteralmente dai vicini di casa, Rick e Cliff, quella sera completamente ubriachi. È lì che scoppia la bomba; sono loro che si fanno carico, non solo del vero nucleo narrativo del film, quanto anche dei potenziali assassini della Tate, finendo per giunta per farli fuori, in un divertentissimo duello finale, cane compreso. Regola numero due: se in un film vedi un pitbull, sai che prima o poi quel pitbull finirà per azzannare. A rimetterci la pelle è un gruppetto sprovveduto e impaurito di hippie, precedentemente incontrato da Pitt: “Io ti conosco... tu sei...”, “Io sono il diavolo e sarò il tuo giustiziere.”. “No”, gli dice Cliff, “No, era un nome un po' più idiota di così, tipo Tex”, e fa cenno al suo cagnone di attaccare. Questo, né più e né meno, vuol dire che ciò su cui si è puntata tutta l'attenzione svanisce nel nulla, ma non prima di essere stato, come spesso accade, nondimeno la motivazione su cui si è retta tutta la narrazione. Lo slittamento è pari a un'inversione figura e sfondo: Sharon Tate lascia il posto a Hollywood, nella personificazione della coppia DiCaprio-Pitt, scivolando verso il background. 

 

Stando a quanto detto, il film avrebbe anche potuto essere ambientato, ad esempio, nei giorni nostri? Dipende. Viene il sospetto che il fatto di cronaca nera legata al feroce assassinio di Sharon Tate ad opera di Charles Manson, venga usato proprio come esca di coinvolgimento per lo spettatore, per avere una motivazione facile su cui creare la tensione (la morte che incombe sulla narrazione), finendo per diventare il tassello chiave per un'indimenticata prova di virtuosismo. Alcuni hanno visto proprio nella scelta del finale diverso l'esigenza di andare verso un happy ending, favola fin dal titolo. In realtà il film sembrerebbe tutt'altro che un if movie: If once upon a time in Hollywood, come sarebbero andare le cose se...? Prima del gioco del “se fosse” è senz'altro un: guarda come sono bravo a costruire la tensione protraendola fino al climax per poi lasciare che lo spettatore si distenda in una grassa risata catartica (l'effetto comico scaturisce non tanto dalla scena che realmente vediamo, quanto dall'apprezzamento dello scarto rispetto a quello che si si sarebbe aspettato: al suo posto una soluzione pacchiana, e completamente ridicola). 

 

 

Cosa sarebbe cambiato allora a conoscere o meno il finale del film? Che, ad esempio, conoscendolo (come nel caso di chi scrive) ci si è potuti concentrare ancora meglio e in tempo reale, sulla maestria della costruzione della tensione, ancora più efficace in vista della beffa finale. Più che riuscita. Si diceva, Tarantino fa un film su sé stesso. E sicuramente la vocazione è rispettata nel momento in cui ci accorgiamo che l'obiettivo del film è un puro risucchiare lo spettatore dentro le maglie della costruzione narrativa, fare un film a sua immagine e somiglianza svelando gusti e disgusti su cinema e altro (il western all'italiana, la cultura hippie, la stima nei confronti di Polanski). Dire che c'è di diverso che Sharon Tate non muore è certamente riduttivo, almeno quanto intendere il finale alternativo come una messa in salvo dell'attrice in omaggio a Polanski non sia quasi macabro, patetico e finanche doloroso per i restanti in vita.  Anzi, è stato forse, secondo quest'analisi, pure un po' opportunistico. Ma a fin di bene. A conti fatti, nonostante Tarantino abbia voluto beffarsi del meccanismo cinematografico dello spoiler con quello che è a tutti gli effetti un l'anti-colpo di scena, che Sharon Tate non muoia è del tutto irrilevante; così come saperlo o meno. L'importante è che Rick Dalton si riprenda dalla sua crisi passeggera, perché è un personaggio a cui vogliamo bene. Così come – o forse di più – al suo amico Cliff, perché è più povero, ha sviluppato delle tecniche di sopravvivenza migliori, è più coraggioso, più ribelle, e anche – le donne a cui Brad Pitt non è mai piaciuto, quelle un po' particolari, le più snob, le più scettiche di tutte, dovranno ricredersi – più bello. La coppia è riuscita, e anche il film: questo è ciò che rimane.

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Gli scarabocchi di Leonardo

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Uno dei significati che solitamente viene attribuito al termine scarabocchio è quello di disegno non riuscito o eseguito male, in modo maldestro, “scarabocchiato” appunto; composto da un groviglio di linee inutili e sbagliate, tali da rendere incomprensibile ciò che raffigurano. Queste definizioni ci portano a supporre che a scarabocchiare siano generalmente, se non esclusivamente, soggetti che non sanno disegnare o che non praticano il disegno come una attività professionale. Connessa a questo ordine di considerazioni è anche la convinzione che, di converso, i pittori, gli scultori, gli architetti, i grafici, gli illustratori e tutti i disegnatori di professione non dovrebbero essere adusi alla pratica intenzionale dello scarabocchio.

 

Leonardo Da Vinci, Madonna con bambino e Giovanni, 1778.


È del tutto evidente, invece, la fallacia di questa convinzione: lo scarabocchio rappresenta un genere di disegno autonomo, universalmente esercitato da qualsiasi soggetto, indipendentemente dalle capacità disegnative e dall’età. Le funzioni che svolge possono essere molteplici, tra le quali quella di rivelare le condizioni mentali del soggetto nel momento in cui lo pratica, il suo livello di attenzione o di distrazione, lo stato di stress o di noia che sta vivendo. Il modo in cui viene eseguito, il ritmo, la velocità e l’andamento dei tratti possono essere letti come indicatori di uno stato di disagio, di estraniazione e possono perfino rivelarsi come il sintomo di un incipiente malessere o patologia. La lettura più diffusa è quella di segnalare lo stato psichico ed emotivo dei soggetti propensi alla digressione, alla divagazione o all’erranza. Alcuni studiosi di impronta psicoanalitica ritengono che possa rivelare l’esistenza di ben altri tratti psichici anche più profondi. Tuttavia i riferimenti non sarebbero completi se non includessimo anche le funzioni eminentemente progettuali. Ebbene sì, anche lo scarabocchio, o più precisamente la necessità di disegnare con la stessa disinvoltura e naturalezza è una componente essenziale dell’iter progettuale di ogni attività ideativa. Anche uno dei più eccelsi disegnatori che la storia dell’arte ricordi, il genio toscano Leonardo da Vinci, scarabocchiava e, a seconda dei contesti, considerava questa pratica grafica una necessità e un divertimento ad un tempo. 

 

Leonardo Da Vinci, Studio per bambino con agnello, 1503.


Fu proprio la spontanea manifestazione del suo talento grafico a indicare al notaio ser Piero da Vinci che, diversamente dalle proprie aspettative, l’educazione del figlio doveva seguire una strada diversa da quella del padre. I disegni eseguiti naturalmente dall’adolescente Leonardo, senza aver richiesto un preliminare apprendimento, possedevano già delle evidenti qualità, certificate anche da Andrea Verrocchio, al quale ser Piero li aveva portati in visione. All’età di circa tredici anni Leonardo entrò a far parte di una delle botteghe più vitali di Firenze, dove si professava una formazione globale sostenuta da interessi teorici e pratici la cui universalità ne costituiva il tratto distintivo rispetto a tutte le altre botteghe del tempo.

Nessuno prima e dopo di lui ha praticato l’arte del disegno nella sua più estesa e articolata declinazione: dallo scarabocchio al rebus, dallo schizzo immediato del primo pensiero ai diagrammi euristici, dalla raffinata ostensione del rendering alla perfezione dei modelli geometrici, dal disegno “scoppiato” a quello in “trasparenza”, alle figurazioni profetiche… Leonardo ha esplorato tutte le possibili forme di codificazione grafica, introducendo per primo quelle che nei secoli successivi formeranno il repertorio di competenze specifiche di tutti i settori professionali della comunicazione visiva odierna, compresa quella digitale.

 

Leonardo Da Vinci, Codice atlantico.

 

Nelle mani di Leonardo il disegno raggiunse livelli di eccellenza invidiati da molti pittori coevi e tali da spingere folle di estimatori a mettersi in coda per poterli ammirare dal vivo. Tuttavia, più di qualsiasi altro pittore, è stato proprio Leonardo a disseminare nella gran parte dei circa seimila fogli dei suoi manoscritti, e in particolare nel Codice Atlantico, un numero indefinito di piccoli e guizzanti appunti, brevi accenni, fulminanti quanto incomplete annotazioni tracciate con istintiva urgenza e velocità, il cui scopo immediato era quello di fermare nella mente e sul foglio delle effimere intuizioni. Disgrossare le forme in modo veloce e sommario, senza aver cura della precisione e della completezza, è una necessità ideativa essenziale per chi deve cogliere con immediatezza un gesto, un’espressione, un movimento, per i quali occorre che la mano esegua il disegno con la massima velocità che gli è consentita senza aspettare che l’occhio la corregga o ne precisi meglio la forma. Molti eventi accadono a una velocità superiore a quella che il nostro sistema visivo richiede per fissarne con precisione i contorni. In ragione di questa necessità Leonardo intima al pittore di comporre le storie evitando di “membrificare con terminati lineamenti”, senza cioè avere cura di delineare in modo preciso e finito i contorni delle figure.

 

Leonardo Da Vinci, Studio per la vergine Sant'Anna e Gesù bambino.


Così come molti pittori tendono a fare e si ostinano a pretendere che “ogni minimo segno di carbone sia valido.” Leonardo ricorda al pittore che è molto più importante rendere visibili i moti dell’animo che agitano dall’interno quei corpi e che per poterli cogliere con prontezza di mano occorre comporre “grossamente le membra delle figure.” Senza questa attitudine grafica, definita da Leonardo “componimento inculto”, tanto il pittore quanto ogni altro tipo di disegnatore si priverebbero della possibilità di fissare anche la prima idea di una composizione, con la stessa istantaneità con cui si forma nella loro mente e si troverebbero a rinunciare anche al genere di disegno in assoluto più espressivo e più personale. 

La necessità di verificare diverse soluzioni, di grandezza, di numero, di posizione e di forma di alcune parti o componenti di una composizione, sovrapponendole nello stesso disegno una sopra l’altra in trasparenza, oppure quella di rivedere, ritornare su di una decisione mutandone delle parti, che nella trattatistica vengono definiti “pentimenti”, danno luogo ad un tipo di disegno in buona parte scarabocchiato e confuso, che invera, però, una inattesa forza espressiva, così spiccata da invogliare i pittori a non rimuovere o nascondere le correzioni, lasciando i propri disegni fluttuare tra queste sorprendenti indecisioni, come nel caso della serie dei disegni a penna in cui Leonardo raffigura diverse soluzioni relative alla posizione della testa della Madonna del gatto.

 

Leonardo Da Vinci, Schizzo per la madonna del gatto, 1478/81.


Talvolta la mano del disegnatore per riuscire a cogliere con tempismo la velocità dei movimenti di un corpo, il suo rapido cambiamento di posizione nello spazio, è costretta a fissare con istantaneità una serie di viste successive e simultanee, tracciando un groviglio di linee che conferiscono alla forma un evidente dinamismo e tensione emotiva; come nel caso del disegno che raffigura Gesù bambino e l’agnello

Scarabocchiare è una pratica che produce un’intrinseca gratificazione alla mano, più che all’occhio, del soggetto, perché la sua origine risiede in parte nell’iterazione dei gesti e per un’altra parte dalla liberazione di pulsioni inconsce represse. Sotto questo aspetto il disegno scarabocchiato lo si può considerare anche una sorta di ludo grafico, assimilabile al ludo geometrico e ai rebus; tipologie grafiche frequentemente praticate da Leonardo, come, diffusamente, i suoi manoscritti documentano. Agli occhi inesperti e superficiali questi disegni possono anche apparire come degli scarabocchi, in verità si tratta dello stadio germinale del disegno, quello più prossimo alla genesi del pensiero e della ideazione, la cui originaria e naturale purezza del gesto assegna ad ogni rivolo di inchiostro il destino di far germogliare forme non ancora formate. La bellezza e l’importanza di questi “scarabocchi” o embrioni grafici risiede proprio nel fatto che il loro significato non è riducibile, alla seppure fondamentale funzione ideativa e progettuale, né è riconducibile alle loro qualità formali, in quanto spesso il loro modo di venire alla luce riflette indirettamente un fioco lucore nei reconditi angoli degli inaccessibili abissi della personalità del disegnatore. Ma questa trattazione aprirebbe un nuovo capitolo.

 

Torna Scarabocchi. Il mio primo festival per il suo secondo anno. Di nuovo a Novara, presso l’Arengario. Torna con un tema che attraversa laboratori per i bambini e per gli adulti, le lezioni e le letture, e altro ancora: gli animali. Lorenzo Mattotti con gli animali di Pinocchio, Giovanna Durì con le macchie e gli sgorbi dentro cui vedere animali strani o consueti, Giovanna Zoboli con la pecora da disegnare de Il piccolo Principe di Saint-Exupery, e poi Ilaria Urbinati anche lei con animali, e quindi Ermanno Cavazzoni che ci parla degli scarabocchi di Franz Kafka, lo scrittore i cui racconti sono pieni di molti animali. Vi aspettiamo a Novara dal 20 al 22 settembre!

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Esistiamo veramente? Cartolina da Crisalide

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Progettare un festival è oggi compito oltremodo complesso. Differenti per vocazioni e necessità legate ai luoghi e alle comunità, ai festival di teatro vorremmo chiedere di ripensare costantemente alla loro funzione, per non disperdersi nella marea di offerte culturali, svaghi e intrattenimenti vari. Ci pare vadano sostenute le rassegne “politeiste”, quando provano a convocare le diverse fedi delle arti sceniche attuali anche a livello di linguaggio, e che nei casi più felici scommettono sul prolifico attrito fra proposte diverse; possono essere molto stimolanti i percorsi di stampo “curatoriale”, che orientano il programma attorno a un tema mostrando omologie e dialoghi nel frammentato campo delle arti sceniche; c’è poi il rischio che queste e altre istanze si “normalizzino” trasformando il festival in un contenitore dove ognuno può trovare qualcosa di suo gusto, con l’eventualità che il teatro divenga il diletto di una classe precario-intellettuale intenta a costruirsi un palinsesto.

 

Non si tratta qui né di additare né di mostrare “come si fa” avendo ricette pronte, solo di segnalare una deriva che ci pare inscritta nella forma stessa del festival, almeno in questo periodo storico. Si tratta dunque di osservare da vicino il “discorso” che si può leggere attraversando una programmazione nel suo complesso, e di rimarcarne l’importanza per il presente e il futuro del teatro, al netto di carenze strutturali come l’assenza di un’educazione teatrale per tutti o la scarsità di fondi di chi opera più ai margini dei circuiti istituzionali, tenendo conto anche del ruolo suppletivo di alcune rassegne rispetto a funzioni trascurate dal sistema teatrale.

Fra festival-contenitori, arditi festival-politeisti e festival tematici Crisalide di Forlì, diretto e organizzato da Masque Teatro, occupa uno spazio tutto suo. Lo si potrebbe definire un festival di formazione, per la tensione che ha avuto a porsi come spazio di incontro e crescita per una intera generazione di gruppi teatrali, quelli nati in Emilia-Romagna e non solo dagli anni ‘90 in poi (spesso si ricorda, e a ragione, l’ospitalità del grande regista belga Thierry Salmon, che risiedette in Romagna quattro giorni per tenere un seminario nel 1997). È certamente un festival interdisciplinare nel senso pieno, dato che da qualche tempo incrocia la ricerca nelle performing arts con la filosofia, invitando giovani studiosi a tenere brevi conferenze durante le serate (da qualche anno è anche nata una vera e propria scuola di filosofia, Praxis, diretta da Rocco Ronchi e con quasi un centinaio di iscritti ogni estate). Forse, per usare un concetto caro al direttore Lorenzo Bazzocchi, si tratta più poeticamente di un “festival-magma”, con al centro un concetto filosofico che non arriva a essere un tema; quest’anno Nachleben, le sopravvivenze, ciò che riemerge dai nostri passati attraverso le forme, ispirato dagli studi di Aby Warburg. 

 

Daniele Albanese in Von.


Crisalide scommette sull’accostamento di brevi performance artistiche, dialoghi pubblici, conferenze e concerti tutti presentati insieme consecutivamente in serate-flusso. Si crea un magma, dunque, una sorta di discorso costituito da differenti proposizioni con l’intuizione di una reciproca affinità. Si entra a Crisalide e accade di sentirsi parte di questo magma, che si sia artisti, critici o semplici spettatori, o almeno si viene invitati a ragionare sulle ipotetiche somiglianze fra i diversi atti artistici o di pensiero. Si entra a Crisalide e ci si sente legittimati più che altrove a domandarsi se nei teatri si possano individuare discorsi collettivi, se sia lecito individuare un paesaggio o, per usare le parole della conferenza tenuta da Sara Baranzoni, che riprendeva il pensiero non-eurocentrico di Edouard Glissant, se sia possibile intravedere un arcipelago. Esiste un discorso che le arti performative possono rivolgere all’esterno, e in forma collettiva? Siamo al Teatro Félix Guattari, spazio storico di Masque trasformato da Filanda in teatro e ora riconosciuto come residenza artistica dalla Regione Emilia-Romagna; il pavimento di piastrelline rosso brune e le pareti di intonaco nero cinereo s’irradiano di luce solare grazie al portone di ingresso aperto, quando le due domeniche mattina gli artisti e gli ospiti si sono ritrovati a dialogare collettivamente partendo da un invito a cura dello storico Raimondo Guarino. La sollecitazione partiva dalla ricerca di un linguaggio pienamente “del teatro” e prossimo all’esperienza, rivendicandone quindi una originarietà che spesso si dimentica in favore di derive socio-antropologiche e filosofiche. 

Per descrivere il “discorso” osserviamo velocemente le opere in programma nei due sabati in cui siamo stati presenti, come in una cartolina delle arte performative dalla Romagna. Ci sembra di avere incontrato due macro-proposizioni. Da un lato quella di chi, prendendo di petto le falsificazioni della società dello spettacolo, con le sue opere sembra riflettere sulla sua stessa identità di artista, e per esteso su di noi tutti che viviamo nel teatro e nelle arti della scena. Per manifestarsi nel mondo attuale pare necessaria una preventiva opera metalinguistica, in una versione però non pedantemente e analiticamente narcisistico-concettuale ma virata sul filo di una sagace sfoliazione dei propri strati di pensiero, fino alla soglia di un ambiguo e accattivante venir meno (quasi un carsico riemergere del pensiero di Carmelo Bene?). 

 

Barletti-Waas in Natura morta con attori.


Il duo italo-tedesco Barletti-Waas, con Natura morta con attori, calpesta esattamente questo bilico, il loro è un dialogare attorno alle maschere sociali e teatrali, un rimbalzo di scambi verbali, aggiustando di quando in quando le posture frontali e un po’ sfrontate, una vita quotidiana come rappresentazione dove emerge un lacerto narrativo nella storia di una coppia che si incontra a Venezia ai margini di una manifestazione studentesca nel ‘68 (il testo è di Fabrizio Sinisi e forse l’inserto politico-sociale meriterebbe più respiro). Pietro Babina siede a un tavolino che funge da postazione vocale, camicia rossa, cravatta e cintura dello stesso tono. In Gaming interpreta un suo testo ospitato nella “Rivista” diretta con Flavio De Marco, un bel progetto editoriale autoprodotto tematico. Come nella tradizione distopica fantascientifica, nel racconto è al potere una superdittatura che diffonde un gioco di realtà virtuale dove i partecipanti devono superare una serie di prove. Siamo tutti artisti e ci sono diversi livelli da superare: dalla concezione dell’opera alla promozione fino alla distribuzione. La voce di Babina s’impasta con un effetto sonoro in sinergia con le musiche elettroniche che la punteggiano, la ritmica sale e tocca climax che ricordano la retorica di chi legge un manifesto o un documento ufficiale. La forma può ricordare un radiodramma dal vivo, mentre il game raccontato rimanda sia ai prodotti finzionali sia alla strettissima attualità: c’è una persona che deve immergersi in un gioco che gradualmente soppianterà il reale, ma a tratti pare di ascoltare una paradossale autofiction; vengono in mente Matrix, Second Life, Avatar, ExistenZ, Avalon, ma forse prima di tutto capiamo che quel personaggio è anche un artista nel groviglio del mercato, insomma è lo stesso Pietro Babina, ritratto “gamificato” in locandina. Il lavoro che però più di tutti incarna questa tensione è Cosmesi fa un live, oggetto performativo non identificato firmato da Eva Geatti, Nicola Toffolini e Marcello Batelli. È un concerto con basi registrate compendiato da riff di chitarra elettrica, colpi di batteria e canzoni cantate da Geatti e Toffolini; è una performance dove vengono spostati e riallineati sul palco cartonati di cantanti popstar, da Freddy Mercury a Nick Cave alla Queen che i Sex Pistols volevano fosse salvata da Dio. È un atto di mimesi artistica dove due teatranti fanno un live senza una preparazione tecnica musicale, ma in fondo è il “come se” alla base di ogni patto rappresentativo, però depotenziato e sovvertito perché i due mostrano sia il “se” che il “come”, in quel tagliente terreno fra il non prendersi troppo sul serio e il non credere più in nulla, come la loro icastica hit che sembra parlare del pubblico in un club ma anche della condizione dell’artista e di chi si occupa di arte («pay to get in / pray to get out»). 

 

https://www.youtube.com/watch?v=3LjAsjUOPuw

 

Cosmesi fa un live, dopo aver fatto un disco (ma anche un buco a Drodesera), insinua un intelligentissimo dubbio su ciò che siamo venuti a vedere, sulle nostre aspettative, sulla consistenza e sulle pretese dell’arte.

Sull’altro versante ci sono proposte apparentemente assertive, spettacoli che non sfaldano la rappresentazione con presenze all’intersezione fra finzione scenica e vita quotidiana. Non casualmente il corpo diviene membrana o dispositivo (riprendendo un dibattito terminologico guidato in uno dei dialoghi mattutini dal filosofo Paolo Vignola) dove s’imprime questa tensione, come accade nel bellissimo Von di Daniele Albanese, un solo che inizia con il danzatore e coreografo che arabesca una sequenza di nodosità fluenti con torso e braccia, un ricamo nello scena vuota che però si conchiude in un’immagine di gabbia e cattività, il suo corpo trema di spasmi accompagnato da suoni elettrici; o come nell’altro solo di danza, Waste Movements, di e con Paola Bianchi, un corpo che indossa un vestito di un materiale in simil plastica da sacco nero dell’immondizia e che si tende, avanza verso il pubblico e infine retrocede per dare rilievo a dettagli quali una piega sulla pelle di una mano, l’esilità dei due fianchi cinti dalle mani e mostrati di schiena, il tremore di un muscolo nell’atto della contrazione.

 

Ateliersi in Soli, ph. Luca Del Pia.


Sul versante più teatrale, e forse all’intersezione fra le due tensioni che qui proponiamo, citiamo lo studio per Jump! di Opera Bianco, informato da una lunga ricerca attorno al clown e in debutto a fine stagione, così come in una versione ridotta si è visto Soli di Ateliersi, nel quale l’ispirazione pirandelliana si mescola a un affascinante meccanismo di ascolto, registrazione e scrittura “dal vero” operato dai due artefici Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi. Al centro c’è la storia vera di una coppia di giovani che vive per strada ai margini di un sociale che li allontana, raccontati al microfono dagli attori in dialogo e seduti a un tavolo. Noi che osserviamo veniamo così invitati a immaginare persone e personaggi grazie alle maglie di un dialogare scenico serrato, e a chiederci della loro distanza dal reale e dalla finzione. Si chiude, il festival, che ha proposto anche laboratori pratici di formazione, con il corpo allampanato di Ivan Fantini, scrittore seduto su una sedia al centro del palco, abiti scuri che catturano la luce nello spazio buio, bocca sul microfono, voce e ritmo irosi, corpo “basculante” avanti e indietro per tratteggiare i contorni di un personaggio di un suo racconto, una donna additata come prostituta.

Esistiamo veramente? Sembra essere la domanda che queste proposte performative lanciano a un mondo esterno farcito di falsificazioni, senza farsi lo sconto di rivolgerla al proprio operare quotidiano e internamente nelle opere. Una questione dolorosa e necessaria, su un margine instabile e pieno di insidie, come abbiamo visto, fra densità ed evaporazione, fra assertività e autoanalisi, fra urgenza nell’osservazione del reale e ironico commento dell’esperienza che tutti i giorni viviamo. 

L’ultima fotografia, di Giulia Ferrando, ritrae una scena di Waste Movements di e con Paola Bianchi

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Paesaggi fragili

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Olivo Barbieri –Site-specific Shanghai.


1. Come nell’Eden, dove era stato piantato un giardino, il tutto durò poche ore, sembra sei ore, prima che l’uomo e la donna presenti, smettendo la passività della contemplazione, violassero l’esistente e la sua regolazione, così al momento di accorgerci del paesaggio ci siamo accorti della sua fragilità, della sua precarietà, della sua dissoluzione.

Allorquando un luogo giunga a mostrare la sua propria struttura senza spazi e margini di vuoto e di interpretazione, presentando come un tutto pieno il suo esterno e il suo interno, noi diciamo che quel luogo è saturo, ovvero dà di sé un’espressione satura, propone e offre un paesaggio saturo. Quel luogo, quell’oggetto, quell’artefatto, come accade per il Centre Pompidou di Parigi, per mostrarsi in immagine e azione, in percezione e movimento, per offrirsi, può solo ricorrere, e di fatto ricorre, ad un’affordance satura. La sua struttura, il suo interno nudo e crudo, letteralmente sviscerano se stessi per generare un significato, e ci riescono solo in quanto il processo di sense-making aderisce, coincidendo, alla cosa stessa che si è denudata per esprimersi. Nessuno svelamento è necessario, né margini di interpretazione. Il senso inevitabile che si genera ritorna sulla cosa stessa e su se stesso. Non è che il luogo non dica niente, è che satura il dicibile con la sua struttura, riempita di sé, piena di sé, al punto di anticipare l’evocabile. Se Walter Benjamin può dire, in Ombre corte, che “la conoscenza deve contenere al suo interno un qualche elemento di contraddizione, proprio come nell’antichità i disegni degli arazzi e i fregi deviavano un po’ in qualche punto dal loro corso regolare. In altre parole ciò che è decisivo non è il passaggio da una conoscenza all’altra, ma la breccia che si apre in ognuna di queste contraddizioni”; se Benjamin può dire questo, il paesaggio saturo è quel paesaggio ineffabile la cui affordance non è che non apre alcuna breccia, ma apre quella breccia che per aprirla ha, spesso, tutta la sollecitazione spendibile contenuta già nella sua struttura e nel suo interno nudo e crudo.

 

Se il luogo diventa paesaggio nel muoverci e agire noi in esso, cioè mediante la nostra “perce-azione”, allora sarà una fessura, una finestra di comprensibilità necessaria a rendere possibile l’emergere del paesaggio. Non costituisce impedimento che la fessura sia angusta, né di fatto è impedibile che ciò accada, che cioè l’emergenza si dia; quell’emergenza si dà in quanto è il sense-making a regolare il rapporto  osservatore-osservato. Neppure la ripetizione né è impedimento, in quanto nessuna ripetizione è mai uguale a se stessa. È che il significato, nel darsi del luogo e dell’oggetto, ha, alla lettera, già avuto luogo.

Se vi è una differenza tra il provare emozioni vere e provare emozioni solo con l’immaginazione, la saturazione del paesaggio esistenziale e sociale contemporaneo è qualcosa di simile a questa seconda situazione. 

È forse la finzione della ripetizione la cifra più corrispondente al rapporto tra noi e il paesaggio, oggi.

Nessuno, forse, come Olivo Barbieri, sorvolando di fatto il pianeta intero e fotografandolo, ci sta fornendo una rappresentazione delle trasformazioni dei paesaggi della nostra vita e della loro saturazione.

Ne è prova il suo ultimo volume, Site specific, una formula associata al suo nome e al suo lavoro da molti anni, in cui l’arte fotografica raggiunge una complessità tra le più alte a cui l’autore ci ha abituati, e allo stesso tempo si esprime con la discrezione e il pudore che da sempre sono la cifra di Olivo Barbieri. 

 

 

Non ci sono concessioni interpretative nel suo lavoro. Il mondo è presentato nella sua essenza assoluta, come a Napoli si dice “assoluta” dell’acqua o di un alimento quando si bevono e si mangiano senza alcuna aggiunta o trattamento. Noi umani siamo in tal modo inchiodati ai risultati della nostra pervasiva antropizzazione, senza margini di interpretazioni, appunto. Una modernità al massimo grado, o surmodernità, direbbe Marc Augé, si presenta a noi e ci propone il conto della nostra presenza tutt’altro che discreta e delicata sul pianeta Terra. Al netto di ogni sbavatura di maniera, Olivo Barbieri, riprende i paesaggi del mondo, urbani e non, sempre e comunque nelle loro antropizzazioni senza scampo, dove ogni luogo è segnato, trasformato, modellato e spesso in modo irreversibile, dalla presenza umana.

Documentare con immagini i paesaggi della nostra vita non è per niente facile, se non ponendo particolare attenzione alle ibridazioni che produciamo abitando gli spazi. Così come le lingue e le scienze sembrano trovare le condizioni della propria evoluzione soprattutto al punto di ibridazione di codici, come è stato ampiamente documentato [ad esempio nell’ormai classico P. Brooks, Trame, Einaudi, Torino], allo stesso modo e con processi analoghi andiamo occupando gli spazi. Simone Casalini ha dato un contributo di particolare originalità riconoscendo che gli spazi ibridi non solo vengono da lontano e sono un connotato distintivo dell’Europa, ma ciò fa sì che l’Europa sia un bricolage di innumerevoli paesaggi. Tutto il mondo Mediterraneo è lo spazio della differenza in cui le storie, i mutamenti politici e sociali si gonfiano come vele al vento, suscitando continuamente urti e aggiustamenti, negoziazioni e rotture. Nelle culture della vita quotidiana, ad esempio, l’ibridazione è la regola: si pensi al pane e ai modi di farlo, alle sovrapposizioni delle forme e degli ingredienti, degli impasti e delle cotture. Oggi quegli spazi ibridi assumono caratteristiche peculiari di mescolanze che riguardano la ricerca delle forme di governo e le modalità di gestione dei conflitti. Dalla transizione democratica radicale della Tunisia alla casbah di Mazara del Vallo, dalla frontiera mutevole del Brennero al caos-mondo dei carruggi genovesi, passando per il cimitero di Mentone – luogo dell’eterotopia foucaultiana – che riaffaccia alla storia l’esperienza dei tirailleurs sénégalais, Casalini esplora questi spazi in un testo che combina saggistica, reportage e letteratura, seguendo la scia luminosa delle teorie postcoloniali. È proprio quest’ultimo un paradigma di particolare utilità per cercare di comprendere la dimensione cangiante e ibrida dei paesaggi contemporanei, ma anche i processi di saturazione.

 

 

I risvolti dell’ibridazione sono variegati e anche contraddittori. Casalini descrivendone alcuni casi mette in evidenza le problematicità e la precarietà di quelle forme di vita, ma allo stesso tempo la loro generatività. Si tratta di esperienze allo statu nascenti, caratterizzate dalla incertezza evolutiva e dalla non facile definizione delle caratteristiche. Una metafora che alla fine mostra una particolare efficacia per studiare le dinamiche degli spazi di vita e dei paesaggi contemporanei. Dalla lettura dei casi analizzati da Casalini emerge un ospite sistematico della creazione degli spazi ibridi, il tempo. Non è tanto la complessità della composizione dei fattori dello spazio a incidere nel dar conto del processo di ibridazione, quanto la fluidità e friabilità del tempo vissuto e vivibile in quegli spazi, un tempo fugace e per molti aspetti inafferrabile. Viene in mente il tempo medio di permanenza su ogni contenuto di Facebook, che è stimato in meno di tre secondi (1,7 su app e 2,5 secondi su desktop, in base a dati ufficiali di un paio di anni fa). Così come appare difficile strappare un interesse ad approfondire un tema che avrebbe bisogno di più di qualche secondo di spiegazione, allo stesso modo sembra difficile sperimentare una forma di presenza in qualche modo basata su principi di appartenenza negli spazi ibridi. Eppure in quei crogiuoli si esprimono comportamenti e azioni situate che denotano partecipazione in base a inediti criteri e investimenti che attendono riconoscimento e considerazione. Sembra che simulare e fingere appartenenza provvisoria sia non solo un ossimoro ma un modo inedito di esserci.

Una delle modalità più attendibili di considerare il paesaggio nella nostra esperienza è la finzione, appunto, intesa come l’esito del processo di traduzione che operiamo con la nostra azione e percezione nello spazio di un luogo. In quel mentre emerge un significato, al punto di incontro tra mondo interno e mondo esterno. Accade, in questo nostro tempo, che si ha l’impressione che la finzione che operiamo non sia in rapporto con la realtà. Quel rapporto lo manchiamo, e per molti versi è divenuto difficile e spesso impossibile. Ogni realtà spaziale, infatti, come ogni artefatto, giungono a noi in una ripetizione. Più e più volte narrati e rappresentati, in più e più modi, quando ci si presentano innanzi, sono reiteratamente ripetuti, sovraccarichi di tutte le finzioni con cui sono stati rivestiti e, quindi, saturi.

Le emozioni che suscitano derivano dall’immaginario e sono canonizzate in una stereotipia infrangibile.

Quella finzione necessitata dalla ripetizione è alla base del paesaggio saturo della nostra esperienza: è essa a costituire l’esperienza di paesaggi saturi che viviamo spesso senza accorgercene, in quanto unica esperienza possibile, oggi.

 

Non per nulla si chiamano “guide” le descrizioni a milioni di ogni luogo, descrizioni ripetute che compongono un fitto e impenetrabile mosaico di finzioni pronte all’uso. 

E ciò non basterebbe a creare saturazione se non ci fossero, allo stesso tempo, altrettante “guide”, descrizioni spesso prescrittive e terapeutiche, delle emozioni stesse e degli stili comportamentali per viverle nei paesaggi saturi della nostra vita.

In quei paesaggi saturi della nostra vita ognuno è uno e molti e, in fondo, nemmeno sa chi è. È, per molti aspetti, tutti quelli le cui finzioni è riuscito a cogliere, a leggere, a raggiungere, ma sa che sono solo una minima parte di quelle esistenti e possibili. Gioca, in fondo, a far finta di credere quale gli corrisponde di più. Ogni tanto, vivendo e percorrendo gli spazi o rapportandosi a un artefatto o a un oggetto, può sentire perfino la vertigine della dimensione e sensazione fantastica del sentimento diretto, di una fruizione non ripetuta, che riporterà immediatamente a qualcuna di quelle ripetute che affollano la sua mente e la sua esperienza, come condizione ineluttabile di riconoscimento e di equilibrio necessario; come antidoto alla solitudine insopportabile che una finzione originale inevitabilmente provoca in un paesaggio anche contingentemente fatto di una semiosi satura. In quella situazione il paesaggio si dissolve in simulacri stereotipati che si impongono come necessari, producendo e riproducendo finzioni ripetute. Può certo accadere, ogni tanto, che il luogo, lo spazio, l’artefatto, rinviino la tenera ma anche amara sensazione, che ognuno è se stesso in quel luogo, che la finzione emergente sia unica ed esclusiva, ma quasi subito sentirà che è anche tutti gli altri, tutti i membri di quella interminabile carovana che popola gli spazi e ancora più e ancora oltre li satura di storie di voci anonime che confermano l’esistenza di racconti che si introducono nelle vite e proseguono per la loro strada, confondendosi con esse, in una semiosi che vive della propria progressiva saturazione.

 

Potrebbe esserci forse uno sguardo obliquo, quello che ci vorrebbe, per interrompere almeno per un momento l’inclusione che un paesaggio saturo produce. In questo sta forse il principale merito del lavoro di Tullio Pericoli, in particolare negli ultimi esiti, come emerge dalla recente mostra presso la Galleria Ceribelli di Bergamo, dal titolo Che cos’è il paesaggio? La mostra ha combinato le poetiche di cinque artisti con stili diversi, ma tutti confluenti intorno al tema del paesaggio: Luke Elwes, Monica Ferrando, Alex Lowery, Lino Mannocci e Tullio Pericoli.

Ad impreziosire le già importanti opere, il catalogo è introdotto da uno scritto breve e molto intenso di Giorgio Agamben che si avvale della categoria di inappropriabile per definire il paesaggio: “Si può, anzi, definire paesaggio il mondo nell’istante in cui ci appare come perfettamente e assolutamente inappropriabile”. Secondo Agamben il paesaggio “continua a fuggire, non fa che trasgredire e confondere il sacro e il profano, il quotidiano e l’inaudito, il mitico e il reale”. 

 

Da una diversa forma di inclusione è emersa, del resto, la possibilità stessa di concepire il paesaggio, di dargli un nome, di iniziare a dipingerlo e a narrarlo. L’appartenenza, fino a quel punto, prima dell’avvento del comportamento simbolico, era tacita. Gli alberi erano alberi, l’acqua era acqua, la terra era terra, il fuoco era fuoco. Temuti e riveriti, socializzati per esorcizzare le minacce, gli elementi dominavano e la dipendenza da essi generava un’appartenenza tacita e includente. Quando una certa distanza prese forma, per malinconia o senso di perdita, il contorno delle cose andò oltre la propria coincidenza con le cose stesse ed emersero il significato, l’estetica, la narrazione. Apparve il paesaggio.

Quel che cogliamo, in fondo, è l’attimo che intercorre tra l’emergere della sua forma, nell’affordance di ogni spazio, e la dissolvenza nella sua saturazione, a causa delle violazioni e della consuetudine abitudinaria con cui continuiamo a saturare ogni angolo di spazio possibile. Fino a saturare lo stesso senso del possibile, in un’estetica triste che si avvita su se stessa, saturando le discontinuità percettive e attive.

 

2. Emerge un paesaggio in ogni luogo dove la storia naturale incrocia la presenza umana. Paesaggio non è, quindi, solo contemplazione di un angolo di mondo, né tantomeno un’esperienza riducibile al primato della visione. Concerne direttamente l’attività, l’abitare e la presenza di una specie simbolica, quella umana, che nei luoghi dello spazio si muove e agisce, dando ad essi forma e significato. La presenza, l’azione e il movimento umani creano i paesaggi della nostra vita. Lo fanno con processi di enactment, emanando letteralmente il paesaggio. In particolare nel tempo attuale, quel processo di enazione si presenta con due caratteri, tra gli altri, che ridefiniscono cosa il paesaggio sia: la pervasività e la saturazione. Non vi è un metro quadrato si spazio terrestre che non sia tradotto, sia in termini di forma che di significato, dal movimento e dall’azione dell’uomo. Il regno dell’azione umana, il pianeta Terra, tende a coincidere oggi col paradiso. L’ampio giardino recintato da cui il paradiso trae l’etimologia (pairi, intorno; daeza, muro; un calco dall’avestico), ha oggi il perimetro del pianeta. Non solo: ogni luogo del pianeta ha una codificazione satura, in termini di significato. La vertigine del presente è perciò una sindrome da horror pleni, invece che da horror vacui, come è stato a lungo per la storia della specie umana, allorquando l’ignoto e il mistero avvolgevano i luoghi sconosciuti e l’ansia della loro scoperta. In quel tempo possono forse essere recuperate le basi per elaborare la saturazione attuale, demografica, economica e culturale allo stesso tempo. Se il tempo della storia, il tempo in cui viviamo nei paesaggi saturi della nostra vita, non è l’unico tempo del mondo; esiste un’altra dimensione temporale, quella geologica e biologica, che può consentire un ricongiungimento, una nuova alleanza con la natura di cui siamo parte. Una diversa conoscenza e appartenenza alle cose del mondo richiede l’elaborazione della ferita narcisistica della presunzione di superiorità da parte della specie umana. I linguaggi e i vissuti del paesaggio in cui viviamo possono desaturarsi se prestiamo impegno e attenzione a quel che ci precede, che sul pianeta su cui viviamo viene prima di noi ed è condizione della nostra presenza e della nostra esistenza. I luoghi che traduciamo e viviamo come paesaggi conservano in sé una memoria di ciò che precede il presente ma è tuttora condizione della loro e della nostra esistenza. La memoria storica è congiunta con la memoria del tempo biologico e geologico profondo in una complessa tessitura, che con la saturazione tendiamo a rimuovere, abitando un immaginario che aliena il simbolico. Le impronte umane si possono alleare con il sistema vivente se si mette in atto un arretramento, una presa di distanza che consenta di vedere e riconoscere la struttura di legame tra la nostra presenza e il sistema vivente di cui siamo parte. La saturazione tende ad attaccare proprio quella possibilità di presa di distanza, e qui sta forse la principale contraddizione. Un elemento analizzatore è il linguaggio, saturo a sua volta di parole come ripresa e crescita, fino alla più drammatica contraddizione della nostra epoca, quella di stati nazionali in competizione e talora in guerra reciproca, per riversare sempre più merci in un mercato a sua volta saturo, creando continui bisogni indotti, mentre siamo tutti parte di un pianeta che vive una profonda crisi ambientale, climatica e di risorse. Le discipline economiche che dominano l’intero spettro culturale del nostro tempo, orientando e difendendo i grandi interessi, si fondano su una finzione epistemologica: l’inesistenza della natura. Come se produzione e consumo non fossero consumo di natura, che non è inerte materia prima, ma mondo vivente, equilibri fragili e complessi, biodiversità, risorse, clima. L’estensione del concetto e del significato di paesaggio è generata e resa necessaria dalla saturazione, non solo perché i paesaggi della nostra vita sono saturati dalla presenza umana, ma anche perché tutto diventa paesaggio nel momento in cui impatta direttamente con la vivibilità della specie umana e delle altre specie. 

Interrogarsi sui confini del paesaggio, oggi, vuol dire, tra l’altro, considerare come la tecnologia ha inciso e incide sul nostro movimento e sulla nostra percezione. Dall’affordance degli spazi e dei luoghi esercitata su movimento e percezione dipende strettamente l’emergere del paesaggio nella nostra esperienza. La cornice entro cui il paesaggio si definisce ed emerge è cambiata, sia per l’accessibilità delle immagini a portata di tutti, che per la saturazione, dal “tutto pieno” di noi e dei nostri oggetti, alla ridondanza di immagini e significati. Il pianeta “finito”, così come rappresentato nelle immagini fotografiche di “blue marble”, registrano il pianeta al di fuori dell’atmosfera e proiettano il punto di vista oltre quella finestra che per secoli è stata la cornice “naturale” del paesaggio, spingendo a sovrapporre i limiti del visibile (e del paesaggio) con i limiti dell’immagine. Il nostro immaginario è popolato e condizionato da contorni che i lens-based media hanno tracciato intorno al paesaggio, inquadrandolo e generando dei filtri che guidano la visione secondo percorsi prestabiliti. La mappa non è il territorio, lo sappiamo, e l’immagine non è l’ambiente, aggiungiamo. E tuttavia, in questa scena satura, risulta sempre più difficile giungere per conto proprio, per così dire, al territorio e all’ambiente e tradurli in modo almeno in parte originale in paesaggio. L’inappropriabilità del paesaggio sta, forse, nella sua saturazione.

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Nino Migliori. Oltre le strutture del reale

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In Venezia (1958), un manifesto pubblicitario mostra in primo piano una giovane donna in abito da sposa, posta accanto alla scatola del detersivo Persil, che “lava presto, bene e tutto”, per un bucato lampo. E nello schema concettuale della fotografia, questa immagine nell’immagine è messa in dialogo e in rapporto semantico con il reale bucato, steso tra due case sul canale, visibile in secondo piano. In Gente dell’Emilia (1955), quattro bambini stanno “sentendo” messa in modo distratto. Dietro di loro, sul lato sinistro, un’apertura rettangolare lascia vedere invece un gruppo di pie donne nel matroneo, ispirate dal rituale cattolico, completamente rapite dalla discesa dello spirito santo in quel luogo sacro. Anche qui la finestra apre al rapporto tra superficie del reale e rimando a significati altri suggeriti dall’immagine dentro un’altra possibilità interpretativa dell’immagine. Ciò che si muove al di là delle vetrine, all’interno dei bar, e in primo piano, nei due scatti delle serie Gente del Nord (1950) e Gente dell’Emilia (1959), rappresenta la coesistenza di più livelli e piani nella stessa ripresa fotografica, con diversi silenzi, attese, aspettative, luci, ombre, sguardi, con un interessante travaso di collegamenti tra i vari registri.

Dentro lo scatto dove bambini saltano da un muretto, in Gente dell’Emilia (1957), cosa vibra e che armonici rifrangono, soprattutto nell’ombra intera di un corpo, in sospensione sul muro, proiezione di un balzo? Nella fotografia nessun bambino ha ancora toccato terra.

 

Nino MIgliori, Il tuffatore, 1951.


Tutti stanno volando in quell’istante, nella loro gioia infantile. In quello stato di sospensione e nelle ombre sul muro qualcosa rimane in attesa di essere compreso, a un livello più profondo, al di là della sua prima apparenza di matrice neorealista. Nel libro Nino Migliori. Forme del vero, Corrado Benigni si addentra in un viaggio coraggioso, anticonformista, per condurre il lettore/fruitore di immagini oltre il diaframma della prima lettura di queste fotografie. Benigni condensa tutta la poetica di Nino Migliori (Bologna 1926) nell’atto del fotografare per abitare il tempo, come in una estesa e diffusa esplorazione del visibile, dove “le istantanee non hanno nulla di istantaneo” dentro il flusso sempre anacronistico della ricerca artistica, perché il senso sta in perenne sospensione “tra il vero e l’immaginario, tra il certo e il possibile”. Viene indagata la profondità di campo di ciò che sta in superficie, nel suo aldilà evocativo; si cerca di oltrepassare le fitte maglie della mera realtà, per fare affiorare l’ulteriore possibilità della percezione, ipotizzando anche qui il superamento della sola visione retinica, per dilatare lo sguardo dentro la dimensione del non ancora visto e/o dell’invisibile.

 

Nino MIgliori, Venezia, 1958.


Questa indagine ricorda la tecnica del passo indietro per spiccare un balzo più lungo in avanti. In vari periodi storici è stato in qualche caso tentato – soprattutto da artisti geniali e incompresi nel tempo in cui sono vissuti, poi rivalutati però nei secoli successivi –, sfidando ogni sorta di movimento avanguardista e di critica, per cercare di spingere un po’ più in là la ricerca del vero e dell’inedita lettura. Nella sua lunga e feconda carriera, Migliori è stato un pioniere degli sconfinamenti, autore metamorfico, singolare e inclassificabile, e ha tentato continuamente nuove strade e soluzioni formali. Ha sperimentato molteplici possibilità espressive: immagini sociali di matrice neorealista dell’immediato dopoguerra – antropologiche e identitarie allo stesso tempo, testimonianze visive di un’Italia ormai scomparsa –, fotografie di graffiti murali, pirogrammi, ossidazioni, cellogrammi, clichés-verres, idrogrammi, sovrapposizioni, istogrammi di Photoshop, riuso di fotografie scartate o abbandonate dalla gente, e altro ancora. Nel suo rapporto espressivo polisenso con la fotografia – ovvero in rapporto parallelo col reale tra neorealismo, informale e concettuale – Migliori ha espresso con varie declinazioni la sua indagine del confine tra il caso e la gestione consapevole del casuale: “Un giorno stampavo i miei bambini, le mie vecchie col fazzoletto, e il giorno dopo mescolavo acidi e carte e inventavo le ossidazioni, i pirogrammi, i cliché-verre. Poi magari uscivo e tornavo a fare i reportage. Potevano sembrare due atteggiamenti antitetici e invece erano paralleli”. Quindi le sperimentazioni non furono posteriori ai reportage socio-antropologici fra la Gente dell'Emilia o la Gente del Sud, ma in contemporanea e a volte anche precedenti. Molte sue opere sono nate da sperimentazioni “off camera” su linguaggio e materiali, direttamente con sviluppo, fissaggio, fogli di carta sensibile. Ha ideato immagini direttamente con la luce, senza necessariamente passare attraverso lo scatto fotografico.

 

Nino MIgliori, dalla serie Gente dell'Emilia, 1955.


Dal 1948 a oggi ha anche documentato le scritte sparse sulle pareti delle città, intendendo i muri come un mezzo di comunicazione, dal periodo in cui non c’era la televisione fino all’era di internet e dei telefoni cellulari. È sempre stato affascinato da come viene usato il muro per esprimere stati d’animo, convinzioni e slogan politici, tifo e affezioni sportive, questioni amorose, il vario repertorio delle tracce segniche, fonti di racconto nelle stratificazioni di carta dei manifesti strappati. Nell’arte combinatoria dei muri coglie gli effetti cromatici, gli incontri casuali tra immagini dei manifesti sovrapposti e strappati, i rapporti semantici tra le parole, le forme e i colori, la sedimentazione dei tempi, degli eventi atmosferici e quelli della storia. 

Nella mostra Forme del vero, in corso nel Complesso monumentale di Astino fino alla fine di settembre, curatore e artista hanno selezionato fotografie del periodo neorealista (1951-1963) e quelle delle serie Manifesti strappati (1950-1973) e Muri (1950-1973). Il giorno dell’inaugurazione abbiamo incontrato Nino Migliori per porgli alcune domande, anche a proposito dei suoi lavori che hanno anticipato questioni e modalità indagate in anni più recenti dalle nuove generazioni di artisti in Italia.

 

 

Nino MIgliori, dalla serie Gente dell'Emilia, 1959.


Quali sono le contraddizioni legate al concetto di fotografia, inteso come una forma espressiva che si può definire “ambigua” e “bugiarda”?

Quando la fotografia nacque (quest’anno si celebra il 180esimo compleanno) venne ritenuta fedele rappresentazione del reale e si pensava che lo strumento stesso ne sottolineasse l’oggettiva meccanicità. Pensa che, pochi anni dopo la sua invenzione, un medium – che era stato accusato di circonvenzione di incapace da parte dei parenti di una donna, alla quale faceva credere che durante le sedute spiritiche si palesava il fantasma di un caro defunto – fu assolto, perché a testimonianza della veridicità di ciò che sosteneva accadesse portò come prova fotografie che ritraevano “spiriti”. Che meravigliose bugie e possibilità di intervento ben prima di Photoshop! Comunque, la fotografia è sempre un’interpretazione dell’autore. In questo senso è bugiarda. Di conseguenza è ambigua, perché senza dubbio presenta una porzione della realtà, ma solo quella che il fotografo ha scelto di inquadrare, escludendo tutto il resto. Di seguito un esempio che spesso mi piace fare. Siamo negli anni Settanta, mi trovavo alla finestra di un palazzo sopra il Pavaglione ed ero testimone della scena seguente: c’era stata una manifestazione di studenti sul sagrato di San Petronio e la polizia li stava inseguendo, disperdendoli verso via Rizzoli. Nel frattempo, un gruppo di spazzini, giunto prontamente, puliva la piazza piena di volantini e carta, perché il vescovo stava uscendo dalla cattedrale per la benedizione della Madonna di San Luca. Avevo una widelux e l’ottica rotante mi permise di fare una fotografia a 180 gradi, che riprendeva l’intera scena. Se avessi tagliato il negativo in 3 parti ognuno avrebbe raccontato la verità, la sua verità di quello che era accaduto in piazza: studenti che hanno dimostrato e bivaccato, città che viene pulita in modo efficace e pronto, polizia che attacca studenti, vescovo che benedice la città. Pensa quanti messaggi diversi, eppure “veri”, secondo la visione che ipotetici fotografi avrebbero potuto dare. Nel 1978, ben prima dell’avvento del digitale, ho realizzato Segnificazione, un lavoro che dimostra come si possa manipolare la realtà, avvalendosi di due elementi tra i tanti che contribuiscono a costituire il linguaggio della fotografia. Utilizzai, in un certo senso analizzai, l’ingrandimento e il contrasto, elaborazioni comuni da camera oscura, che tutti i fotografi hanno usato senza porsi il problema, che rappresentano un intervento di interpretazione.

 

Nino MIgliori, da Gente del nord anni '50.


Dalla posizione autorevole della tua lunga esperienza sul campo, e visto che hai sperimentato numerose declinazioni legate alla fotografia, ci potresti parlare dello pseudo dilemma che da una parte individua il fotografo e dall’altra l’artista che utilizza il medium della fotografia? Quale è il confine tra le due possibilità, ovvero, dove finisce una e inizia l'altra? È la qualità dell’idea che sta a monte dell’immagine o lo spessore a livello concettuale di chi utilizza il medium della fotografia a determinare la differenza, o c’è dell’altro?

Hai ragione, è uno pseudo dilemma, che ha preso piede quando la fotografia è entrata prepotentemente nel mercato, per cui bisognava vestire con un’aura di artisticità un linguaggio che dipendeva da un mezzo meccanico e che era alla portata di tutti, condizioni che probabilmente venivano ritenute di inferiorità rispetto alle altre forme espressive. Sembra che ci si vergogni o sia sminuente dire: sono un fotografo. Forse c’è un “complesso da inconscio tecnologico”. In realtà quello che conta è l’idea. Se il progetto è valido credo che poco importi quale linguaggio si sia scelto di utilizzare. Per esempio, a nessuno è mai venuto in mente di kdire scultore-artista o artista-scultore, per cui se vuoi sapere la differenza dovresti chiederlo a chi pratica questi binomi. Posso anche aggiungere che ritengo che l’artisticità possano attribuirla solo gli altri e poi è la storia che fa da setaccio.

 

Nino MIgliori, dalla serie Gente dell'Emilia, 1957.


In alcune interviste ho letto che ipotizzi la possibilità futura di trasmettere il pensiero dell’immagine direttamente dal cervello, con i neuroni, attraverso due sensori applicati alle tempie. Come vedi l’utilizzo poetico e artistico di queste immagini, pensate e successivamente trasmesse? Mi spiego meglio: la storia della fotografia testimonia che lo strumento stesso utilizzato dall’autore ha influenzato la tipologia dell’immagine (il tipo di macchina fotografica, la pellicola, lo sviluppo in camera oscura, la postproduzione, i tempi, le misure, etc.). Come immagini queste “fotografie” ideate nella mente senza l’ausilio di una strumentazione o di una macchina fotografica?

Sì, ad Atlanta, anni fa hanno scoperto che attraverso dei sensori il cervello è in grado di trasmettere il bianco e il nero. Se è vero, e provato scientificamente, allora sarà altrettanto possibile trasmettere immagini, fotografie. Quando evolveranno ulteriormente gli studi neurologici e la tecnologia informatica, inizierà una nuova fase dell’arte visiva. Fin dall’inizio della mia ricerca ho praticato la fotografia off-camera, cioè senza macchina, utilizzando tutti gli altri elementi del linguaggio fotografico: carta sensibile, ingranditore, sviluppo, fissaggio, luce, calore, tempo. Si tratta di alcune tecniche che fanno parte della storia della fotografia e della grafica, come fotogrammi, cliché-verres e altre inventate da me, come ossidazioni, pirogrammi, idrogrammi. Sono sperimentazioni che possono dare esiti informali, ma in ogni modo sono rappresentazioni della realtà, tangibilità di un gesto, indici. Esattamente come avverrà e di che tipologia sarà la trasmissione dell’immagine lo potranno dire gli esperti, gli ingegneri, gli informatici, ma si stanno facendo studi in questo campo e credo si arriverà alla possibilità di inviare e poter concretizzare un pensiero, interpretare quello che è stato visto, tradurre una emozione, una riflessione, un concetto. La fotografia ha solo 180 anni e pensa come dal dagherrotipo è cambiata in un tempo così breve. 

 

Nino MIgliori, dalla serie Gente dell'Emilia, 1957.


Quali sono state, mentre sperimentavi nuove possibilità, le rivelazioni legate all’errore? Dall’errore sono nate interessanti intuizioni nella tua ricerca?

Certamente l’errore costituisce uno stimolo e apre nuove possibilità. Quando nelle indicazioni di un prodotto viene precisato cosa non fare per evitare sbagli, il divieto rappresenta una spinta alla trasgressione e accende la curiosità di sapere cosa può succedere. Quando fu immessa sul mercato la Polaroid 600 si diceva che non bisognava toccare la superficie finché l’immagine non si fosse sviluppata per evitare che si segnasse; io la incisi volutamente e mi resi conto che potevano esserci delle possibilità espressive e così continuai la sperimentazione giungendo a controllare quello che veniva considerato errore. Così iniziai il ciclo delle polapressures, dalle quali sono successivamente derivate tutte le ulteriori ricerche dai polaori, dalle sinopie alle trasfigurazioni.

 

Alcune tue intuizioni sono state “profetiche”, hanno anticipato questioni che sarebbero diventate attuali molti anni dopo, nella ricerca dell’arte contemporanea. Ci puoi parlare di Checked one year under control?

Una bella faccia in realtà può essere una maschera che nasconde altro. Era da tempo che mi frullava l’idea che certi nostri comportamenti legati a una “facilitazione” di azioni, per esempio pagare con le varie carte, accedere all’autostrada con il Telepass, avere il telefono sempre a disposizione, scrivere mail e navigare in internet, solo per farti alcuni esempi, potevano essere controllati da un ipotetico Grande Fratello orwelliano. A un certo punto, come associazione di idee, mi venne in mente Photobiographemi, un mio lavoro del 1985 derivato da un aneddoto della vita di Buffalmacco raccontata dal Vasari, composto da lucigrammi off-camera, che rappresentavano il percorso biologico di certi insetti. Così decisi che per un intero anno, il 2002, avrei scattato una fotografia nel luogo in cui mi fossi trovato ogni volta che la mia azione era ipoteticamente tracciabile. Era in un certo senso la rappresentazione del mio percorso biologico di un intero anno sottoposto a un possibile controllo. Ne risultò una installazione composta da circa 1200 fotografie. E pensa che allora i cellulari non erano macchine fotografiche e in tasca portavo una piccola Olympus a uovo.

 

Nino MIgliori, dalla serie Gente dell'Emilia, 1957.


Mi sembra molto interessante anche l’installazione Scattate e abbandonate, costituita da migliaia di fotografie scartate, non più ritirate nei laboratori a cui erano stati consegnati i rullini per essere sviluppati e stampati. Scegliere di non andare a ritirarle dallo stampatore corrisponde al desiderio di cancellare il ricordo, di rimuovere qualcosa dalla memoria? Ci parleresti dell’aspetto concettuale legato prima al gesto di rifiutare e rigettare fotografie e poi invece al tuo recupero con l’intenzione di dar loro una nuova collocazione e vita? 

Frequentavo lo Studio Villani, una importante realtà fotografica che iniziò l’attività nei primi anni del Novecento a Bologna, dove convergevano una buona parte dei rullini provenienti dai vari negozi di ottica della città e della provincia. Quando vidi che uno scatolone pieno di fotografie stava per essere mandato al macero, mi stupii, chiesi la ragione e saputala immediatamente mi offrii di ritirarle io. Così dalla fine degli anni Settanta per qualche anno mi furono consegnate centinaia e centinaia di immagini rifiutate. Le ragioni che avevano spinto le persone a ripudiarle, a rinnegare la storia che rappresentavano, penso siano state le più varie, e qui ci si addentrerebbe in un campo che non mi appartiene, perché la cosa più semplice, ma evidentemente non ovvia, sarebbe stata ritirarle per distruggerle. Da subito pensai di esporle, ridare vita come dici tu a momenti che invece erano stati destinati all’oblio; mettere in mostra un ricordo rimosso, una delle funzioni che la fotografia rappresenta, ma non c’era nessun interesse da parte di musei, istituzioni, gallerie, l’operazione non era considerata di valore. Per cui ho conservato per quasi 40 anni quei sacchetti colmi di racconti, di sentimenti, e nonostante traslochi, dispersioni, vicissitudini di archivio non mi hanno mai voluto lasciare. Continuavo a parlarne, ma solo nel 2012, in occasione di una mia mostra personale a Forma, a Milano, feci la prima installazione, una stanza ricoperta di foto applicate su strisce di Domopack, tra le quali si poteva camminare e vedere. La seconda installazione la feci nel 2013 a Palazzo Pepoli, Museo della Storia di Bologna; in questo caso progettai una grande struttura a forma di rullino, che, ricoperta di fotografie, entrava ufficialmente attraverso una porta in un museo: le immagini rifiutate avevano la dignità di essere esposte in una sede prestigiosa. 

 

Nino MIgliori, da Gente del sud, 1956.


Come ti immagini il tuffo nel mare del futuro?

Se si pensa che sono passati solo poco più di cento anni dall’arrivo della luce elettrica nelle case e adesso un blackout bloccherebbe la maggior parte delle attività, diventa difficile immaginare il futuro. Anzi, ti dico che, se avessi a disposizione un viaggio andata/ritorno nel tempo, andrei certamente nel futuro, non tanto in là, un centinaio d’anni, ma sono certo che vedrei un mondo rivoluzionato dai giovani, che avranno saputo invertire la barra e impedito la distruzione del pianeta, aiutandosi coralmente, superando le barriere di etnia, censo e lingua. Come può l’uomo rinunciare a essere tale?


Paolo Conte, in una sua canzone, dice: “il maestro è nell’anima, e dentro all’anima per sempre resterà”. Quali sono i maestri che sono ancora attivi nella tua anima e ti aiutano ad avere buone idee originali?

Grazie per il complimento. Spesso dico che la cultura di una persona, cioè la lente interpretativa della realtà, è tutto ciò che rimane dopo aver dimenticato tutto, per cui ognuno di noi è tutto quello che ha provato, visto, letto, ascoltato e metabolizzato. Ma certamente tutti abbiamo dei modelli ai quali ci ispiriamo, per me sono Lucrezio, Leonardo, Duchamp. In poche parole, Lucrezio per la sua visione della vita, l’amore per la natura e i suoi cicli, Leonardo per la curiosità, la continua sperimentazione che spinge a cercare strade nuove e non sentirsi mai arrivati, Duchamp per la provocazione intesa non a stupire o a creare scandalo, ma come riflessione e superamento dei luoghi comuni, a non accettare la sicurezza del conformismo.

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Il progresso chi lo fa, chi lo paga

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Dapprincipio, stufo di bacche, radici e carogne, l’uomo si inoltrò nei boschi per veder di acciuffare polli e tacchini, per parte loro ancora selvatici: e così l’uomo cacciatore fu. Tornato in caverna, li cucinava al girarrosto perché il fuoco era già stato addomesticato, da un milione di anni, se non prima, da qualche uomo-scimmiotto, chiamato ominide per eufemismo. Si sa dai tempi dell’antica Grecia che la colpa di quei succulenti arrosti era da addebitare a un complotto della ong “Prometeus”, molto invisa all’Olimpo, di propensione vegana a giudicare dal raffinato e tradizionale menù di nettare e ambrosia.


Centotrentacinquemila anni fa, se non prima, all’uomo cacciatore, tormentato anche dai lupi che lo seguivano e cercavano sempre di scappare con le prede che aveva catturato, venne in mente di addomesticarli, e i lupi si trasformarono in “I migliori amici dell’uomo”. Quelle bestiole sono oggi: cani poliziotto, cani da valanga, cani da spiaggia, cani per ciechi, cani di compagnia, cani da stelle, come la povera Laika, ancora in orbita a gloria eterna dell’URSS…


È da un bel po’ che va avanti questa storia della domesticazione delle cose, dei vegetali e degli animali: le pietre son diventate prima schiaccianoci, poi pugnali, le frane dighe degli antichi Imperi idraulici e poi trincee, il grano non può campare se non lo aiuta la fatica dell’uomo, e nemmeno l’uomo se gli manca il grano da mangiare. Infatti la domesticazione è reciproca, seppur con varianti: al cinquanta per cento per ciascuna specie (uomo e cereali), si contrappone la vittoria, quasi al cento per cento, del gatto che è rimasto pressappoco com’era, ma ha addomesticato lui, noi, propalando fandonie come lo sterminio dei topi nelle Piramidi.


E si va avanti con la trasformazione progressiva della natura fino ad arrivare agli ultimi anni del XVIII secolo, quando agli inglesi gli saltò in mente di addomesticare il vapore, e fu l’avvento dell’era industriale: lotte di classe, mefistofeliche locomotive del Carducci, speranza che la classe dirigente del futuro sarebbe stata il proletariato, foreste di ciminiere fumanti nelle pianure… Amazon era in agguato, gli addetti avrebbero confezionato a macchina pacchetti di roba che nemmeno sapevano cosa fosse per spedirli a miliardi di sconosciuti: sapevano tutto i computer. Il computer era stato inventato da un inglese negli anni Quaranta del XX secolo allo scopo di spiare meglio il III Reich.


Si sarà già compreso che in questo comizio si chiama domesticazione anche quella che oggi va sotto il nome di tecnologia, ingiustamente sempre più diffamata come frutto del capitalismo. In questa arringa si è avuta l’accortezza di anticipare quanto possibile le trasformazioni dell’uomo nei confronti della natura e evidenziarne la reciprocità della natura sull’uomo. Se l’uomo ha trasformato il lupo in cagnolino, qualche cosa di misterioso si è riverberato sull’uomo: homo homini lupus?


Nella seconda metà del XX secolo sono stati addomesticati gli elettroni, particelle che invece di girare attorno ai nuclei degli atomi come facevano sempre prima dell’avvento dell’elettricità, si sono adattate a far di conto per noi: 10000110010000011100…


Con gli elettroni ce la siamo cavata alla grande, molto male invece per ora ci è andata con i nuclei atomici, dai quali sono scaturite tragedie come Hiroshima, Nagasaki e le sgangherate centrali di Chernobyl e Fukushima. Del resto non sapremo mai quanti sono morti per cercare invano di addomesticare le tigri, che possono essere, al massimo, individualmente, pericolosamente e per breve tempo ammaestrate. A pensarci bene, anche il fuoco, quando torna selvatico, se ne sbatte dei pompieri con i loro idranti.
Non è affatto vero che siamo in pericolo solo da adesso: lo siamo stati fin dal principio per la nostra propensione al rischio, e adesso ce la passiamo proprio brutta, quasi come all’inizio della funesta età del Ferro. Abbiamo trasformato il mondo un po’ in bene e un po’ in male, ma sempre in modo irreversibile: all’epoca di Shakespeare la foresta di Birnan non assediava più Macbeth e se n’era andata per sempre, mentre la “selva selvaggia e aspra e forte” di Dante costituiva oramai una mera metafora del Peccato Mortale…
Le foreste sono diventate tetti a capriate, navi, carri, mobili, legname da ardere e, nell’Australia di oggi, nessuno vi crede se affermate che in Europa non ci sono più foreste primigenie, ma solo boschi coltivati.
Il progresso chi lo fa lo paga, prima qua e poi là.


Nel XIX secolo vivono in Inghilterra due importanti coetanei: Charles Dickens e Charles Darwin. Dickens narra le spaventevoli condizioni della classe operaia e dei poveri, e l’orrore della mefitica industrializzazione che allora inquinava in una misura tale che noi ora nemmeno ce la possiamo sognare. La metropolitana di Londra andava a carbone e a carbone il grande scrittore pensava sarebbe rimasta. Invece divenne elettrica, elegante e luccicante, pronta per i micidiali attentati dell’ultimo quarto del XX secolo.
Charles Darwin inizia la sua grande avventura scientifica con una crociera intorno al mondo e descrive le differenze delle innumerevoli specie, le loro parentele, i loro passati in: L’origine delle specie per selezione naturale. Questo capolavoro è ancor vivo oggi dopo che la scoperta del DNA ha affratellato tutti gli esseri sul Pianeta: dal microbo al dinosauro, dalla sequoia ad Albert Einstein.


“…per selezione naturale” significa che non esiste alcun agente che possa operare miglioramenti finalizzati: ogni specie, se non è adatta all’ambiente, si estingue e viene sostituita da altre. Darwin stesso precisa che lui considera non essere utili alla scienza gli allevamenti di vegetali e animali. In natura nessuno perfeziona nulla, ed è per questo che Darwin, pur non professando l’ateismo, di ateismo viene accusato. Darwin, Lamarck, Spencer, Malthus… tutti inglesi, grandi ricercatori su strade dissimili e diverse discipline. Tutti innocenti di quel che sarebbe poi accaduto anche in loro nome, ma tutti coevi della deflagrazione della rivoluzione borghese, di quella industriale e del colonialismo.
L’umanità è una flotta che viaggia di conserva verso l’orizzonte con le bandierine agitate dai segnalatori per scambiarsi informazioni da un veliero all’altro: se c’è tempesta, è tempesta per tutti, se c’è bonaccia, è bonaccia per tutti…


Questa metafora non chiarisce del tutto la complessità dei fenomeni umani. Forse può servire l’avventura di uno psichiatra francese che si recò a Parigi, “la capitale del XIX secolo”, allo scopo di meglio investigare sulle malattie mentali. Seduto in un bistrò sul marciapiede, osservava la folla di milioni di persone che percorrevano davanti a lui i nuovi boulevard. Dopo giorni e giorni di inesausta attenzione, individuò una malattia neurologica rara che in suo nome si chiama “Sindrome di Tourette”: il malato che non sa di esserlo è scosso da continui tic che si originano nel suo cervello e che malauguratamente, con pericolo per lui, gli fanno inconsapevolmente imitare quelli che guarda e che spesso possono sentirsi beffati. E senza Tourette, ma anche senza i bistrò e le loro vetrine, senza i boulevard, senza la nuova folla che prima non esisteva, la malattia non sarebbe mai stata scoperta.


Adesso la metafora della flotta comincia a funzionare, nevvero?
I progressi nella psichiatria e nelle neuroscienze del XX e XXI secolo sono davvero impressionanti, tuttavia siamo ancora lontani dalla cura delle malattie psichiatriche individuali e, per quanto riguarda le malattie psichiatriche collettive mi sembra che si preferisca, per adesso, parlarne assai poco. È stata applicata solo una scoperta: la cura di emergenza della “maniglia antipanico”; si possono azzardare solo alcune previsioni di eventuali sperate maniglie di sicurezza del futuro.


Per intanto è successo il peggio: molte teorie umane hanno finito per dimenticare la selezione naturale o esserne addirittura terrorizzate. Cosicché l’aumento esponenziale del razzismo ( forse dovuto, oltre che al colonialismo, a qualche sindrome derivata da fattori psichici infettivi provenienti dalla millenaria pratica degli allevamenti) ha prodotto la catastrofe del XX secolo. Bisognava dunque optare, non per le classi sociali in lotta, non per le Nazioni né per i vecchi Imperi, ma nel nome di una nuova diabolica uguaglianza, per la razza migliore: non quella realmente esistente, ma quella sperata, bionda, longilinea e con gli occhi blu, e estinguere dall’allevamento le razze e gli individui inquinanti: ebrei, rom, handicappati fisici e mentali. In Se questo è un uomo Primo Levi definisce Auschwitz un immenso esperimento sociale: nell’immediato dopoguerra i morti accatastati ignudi non erano più gli appestati delle antiche epidemie, ma questa volta le vittime dell’esperimento nazional-socialista condotto dagli appestati paranoici dal fanatismo indotto da loro stessi.


Quando le epidemie di peste si portavano via intere popolazioni, non se ne conoscevano le cause, gli agenti, come adesso non si conoscono quelli delle epidemie psichiche.
Esistono dunque epidemie di paranoia che, come le antiche epidemie microbiche, dilagano sulle popolazioni? È un discorso forse avventuroso, ma dopo gli indubbi ma non esaustivi risultati di storici, filosofi, sociologi nel giustificare gli attacchi paranoici collettivi della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, che cominciarono nel 1914 con le revolverate di Gavrilo Princip e cessarono d’incanto nel 1945 con il suicidio di Adolph Hitler, si deve ancora cercar di capire che cosa è frullato nei cervelli dell’umanità, che cosa c’è nella parentesi tra il Ballo Excelsior e il Piano Marshall.
Si potrà dimostrare perché la guerra del Vietnam durò così tanto tempo e finì per condurre a una lieta convivenza, con scambio di turisti, fra USA e Vietnam dopo milioni e milioni di morti? C’è qualcuno in grado di dimostrare come mai i musulmani i se copi fra lori (in triestino), come fecero a loro tempo gli europei nella guerra di religione dei 30 anni (milioni di morti) in nome della Trinità, dell’autorità del Vescovo di Roma, dell’assoluzione a pagamento dalle pene del Purgatorio dei defunti?


Mi auguro che scienziati e filosofi si impegnino a cercare l’eventuale agente non microbico delle epidemie psichiche collettive: nella grammatica generativa trasformazionale (forse), nelle ancestrali domesticazioni e ammaestramenti (forse), nell’effetto che fa ai bagnanti d’agosto la vista di una cinquantina di migranti neri esausti che sbarcano sulla spiaggia di Finale Ligure (forse). Servirà anche qualche entomologo per capire bene per quali motivi le formiche si facciano guerra da milioni di anni fra un nido e l’altro della stessa specie. E infine si dovranno studiare le cause dei suicidi collettivi.

Questo articolo è la libera trascrizione di gran parte del mio discorso riassuntivo pronunciato al Municipio di Cuneo a conclusione della “XII International Conference on Italian Jewish Literature – Letteratura ebraica in Piemonte da Guido Artom ad Aldo Zargani, Cuneo, 26-28 giugno 2019.

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Valeria Luiselli, Archivio dei bambini perduti

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“La storia che voglio raccontare è quella dei bambini che sono scomparsi, le cui voci non possono essere più udite perché sono andate perdute, forse per sempre. Forse, come mio marito, vado anch’io a caccia di echi e fantasmi. Soltanto che i miei non si trovano nei libri di storia e nemmeno nei cimiteri. Dove sono i bambini perduti? E dove sono le due bambine di Manuela? Non ne ho idea, ma so una cosa: se voglio trovare qualcosa, qualcuno, se voglio raccontare la loro storia devo cominciare a cercare altrove.”

Archivio è una parola stupenda, me ne piace il suono, mi piacciono le altre parole a cui rimanda: arco, architettura, architrave. Un altro modo di definire archivio è con l’uso del termine scriniàrio (scriniarius, scrinium e quindi scrigno). L’archivio è dunque anche uno scrigno, che aggiunge all’importanza della conservazione anche qualcosa di protettivo, di affettivo. La fascinazione per gli archivi mi accompagna da sempre, mi piace l’idea di un posto in cui si possano trovare le cose – tutte le cose, anche quelle inventate o soltanto immaginate; mi piace che ci sia qualcuno che abbia la cura e la necessaria pazienza di occuparsene. Gli archivi sottoterra, la polvere, la ricerca, la consultazione, il prendere da uno scaffale e poi riporre. Gli archivi sono storia, gli archivi fanno memoria. Pensiamo agli archivi e guardiamo al passato, invece le scatole, le parole, i suoni che verranno a salvarci saranno conservati negli archivi del futuro. Valeria Luiselli, con Archivio dei bambini perduti (La nuova frontiera, 2019 – trad. di Tommaso Pincio), raccoglie tracce, semina presente, costituisce la memoria che verrà, lo fa mediante i suoni del mondo, il lessico di una famiglia in viaggio attraverso gli Stati Uniti, lo fa nominando le cose daccapo.

 

L’esigenza di nominare le cose mi ha ricordato Jeffrey Lockhart, il protagonista di Zero K di Don DeLillo (Einaudi 2016, trad. di Federica Aceto). Lockart, più volte in quel romanzo manifesta la necessità di nominare le cose, perché se non lo fa non le riconosce, perché potrebbero sparire da un momento all’altro. DeLillo costruiva con quel testo una casa del linguaggio, Luiselli con il suo archivio costruisce un viaggio nel (del) linguaggio, arricchendo le parole, vecchie o nuove che siano, dei suoni che fanno, dei suoni che le circondano. La lingua, quindi, la capacità che hanno i quattro protagonisti del libro – mamma, papà, figlio, figlia – di comunicare tra di loro, di passarsi le storie e di inventarne di nuove, è la base su cui nasce la ricerca dei bambini perduti, l’archivio all’aria aperta, sotto il cielo, fatto di echi, riverberi, forse destinato a salvarci. L’archivio di Valeria Luiselli si assume l’onere di salvare i bambini perduti.

“Le conversazioni in una famiglia, diventano archeologia linguistica. Costruiscono il mondo che condividiamo, lo stratificano in un palinsesto, dando senso al presente e al futuro. La domanda è: in futuro, scavando nel nostro archivio privato, riascoltando il nastro della nostra famiglia, quelle conversazioni equivarranno a una storia? A un paesaggio sonoro? O saranno soltanto macerie di suoni, rumori e detriti?”

 

I protagonisti di questo romanzo sono quattro, una famiglia. I due adulti si sono conosciuti e poi innamorati grazie al lavoro che hanno dovuto fare insieme, raccogliere, documentare, i suoni e le voci – i dialetti e le lingue – parlate a New York, di quartiere in quartiere, per alcuni anni. Nei parchi, davanti alle scuole, nelle metropolitane, nei bar, davanti ai tribunali. Lui è il padre del bambino, lei è la madre della bambina, sono i genitori di entrambi. Dopo anni di felicità decidono di partire verso il sud degli Stati Uniti, in Arizona. L’uomo vuole lavorare sugli Apache, catturare i suoni dei luoghi in cui l’ultimo gruppo di quegli indiani si arrese. La donna vuole andare nei territori in cui l’emergenza migratoria – i flussi di bambini che arrivano dal Messico, scappando da un destino orribile verso un futuro impervio, incerto – si mostra. Sono piccoli e attraversano da soli il confine, trasportati spesso da quei furfanti che vengono chiamati coyote facendosi pagare a caro prezzo, e abbandonati in piena notte nel deserto. Questo è il punto di partenza del romanzo.

"Quei bambini erano venuti negli Stati Uniti per cercare protezione, cercare madri, padri o altri parenti migrati in precedenza che potessero accoglierli. Non cercavano il Sogno Americano, come si dice di solito. Quei bambini cercavano solo una via d'uscita dal loro incubo quotidiano."

 

 

Questo però non è un romanzo classico, è diverso e straordinario per molti motivi. Intanto bisogna parlare delle stratificazioni narrative che la storia porta con sé. Ci sono due narratori. Nella prima parte del libro narra la madre, nella seconda il figlio; per essere precisi i narratori sono potenzialmente tre, perché quando parla il figlio, quando racconta a sua sorella minore (lui ha 10 anni, la bambina 5) ha due voci diverse, una è quella del fratello, la seconda è quella che inserisce all’interno del racconto la vicenda dei bambini perduti, reinventata come i ragazzini sanno fare, partendo da un piccolo libro rosso che la madre ha portato con sé e da quello che ha detto loro.

La lingua e l’immaginario di Luiselli cambiano in base al narratore, una è quella della madre quando dice per sé e quando riporta le parole del marito e dei figli; un’altra è quella del bambino, tutto è uguale e tutto è diverso. Nel lungo viaggio il tempo si sospende tra due mondi, quello degli adulti e quello dei bambini, c’è un passato da cui si viene, ma dentro quella macchina dal bagagliaio capiente si scrive un futuro.

 

“Immagino che un archivio ti metta a disposizione una sorta di vallata in cui i tuoi pensieri possono rimbalzare e tornare da te, trasformati. Sussurri intuizioni e pensieri al vuoto, nella speranza di udire qualcosa in risposta. E a volte, soltanto a volte, un’eco ritorna, in effetti, un riverbero vero e proprio, qualcosa che rimbalza con chiarezza quando hai finalmente azzeccato il tono giusto e trovato la giusta superficie.”

Il paesaggio cambia via via che si macinano i chilometri, ci sono gli audiolibri, il più volte ascoltato (e non causalmente) Il signore delle mosche, ci sono le canzoni, tra queste Space Oddity di Bowie, un vero e proprio codice di comunicazione tra i due bambini, ci sono i notiziari che parlano dei piccoli deportati, un aereo che parte da Roswell in New Mexico per riportarli indietro in uno dei capitoli più toccanti del romanzo. In un incontro pubblico tenutosi a Venezia, alla Libreria MarcoPolo, parlando di quel capitolo, Luiselli ha detto che gli stranieri negli Usa vengono chiamati Aliens e se ricordiamo la storia degli ufo legata a Roswell capiamo la scelta di far decollare l’aereo da lì. Il paesaggio risente di ciò che avviene nell’auto, delle voci degli indiani riportate indietro dal padre, dei numeri di telefono cuciti nel colletto interno degli abiti dei bambini che provano a passare il confine, come le due bambine di Manuela (donna che la narratrice ha conosciuto a New York, per registrarne il dialetto) che si trovano perdute e sperdute in un centro vicino alla frontiera o chissà dove.

 

"Questo paese, ha detto papà, è tutto un cimitero, ma solo poche persone hanno una vera tomba, perché la vita di gran parte della gente non conta nulla. La maggior parte delle esistenze viene cancellata, va perduta in quel vortice di spazzatura che chiamiamo storia, ha detto."

Nel baule ci sono sette scatole, quattro dell’uomo, una della donna, due per i bambini. Quelle dei bambini sono vuote. Nelle scatole degli adulti ci sono mappe, libri (veri o inventati, uno composto da sedici elegie dei bambini perduti è uno dei nodi cruciali del romanzo).

È un libro pieno di suoni, cito ciò che ha affermato Luiselli: “È come se occupassimo uno spazio privo di gravità, di gravità morale e sociale. L’audio è il mezzo più contemporaneo, perché devi prestare attenzione, non puoi inghiottirlo, devi ascoltare dall’inizio alla fine". Archivio dei bambini perduti lo leggiamo ma lo ascoltiamo, facciamo caso alla musica di un paese attraversato, al rimbalzo di una voce in un canyon, immaginiamo il rumore di piccoli passi sulla terra, sentiamo il vibrare di quell’aereo che decolla, la melodia furiosa dei pensieri degli Apache. Che rumore fa un bambino che scompare? Qual è il suono di un bambino perduto? Che note si susseguono quando due che si sono molto amati si stanno lasciando?

 

Valeria Luiselli è una giovane scrittrice che ha molto da dire e lo dice benissimo. È nata in Messico, vive a New York, è anche italiana. Questo tempo di migrazioni è il suo tempo. I bambini si spostano, sono destinati a spostarsi, si sposteranno, ci sposteremo, saper raccontare in un’opera di fiction ciò che avviene, ciò che sta avvenendo significa intravedere la strada che verrà. Anche questo è il compito della letteratura. Luiselli lo affronta sia con i romanzi che con i saggi; tra questi mi piace ricordare il più recente, lo splendido Dimmi come va a finire (La nuova frontiera, 2017) perché è collegato direttamente ad Archivio dei bambini perduti. Scrivere quel saggio ha liberato lo spazio in cui il suo talento di ha potuto costruire il romanzo.

Archivio dei bambini perdutiè il libro della perdita, del lasciarsi le cose alle spalle, è il vuoto (come quello delle due scatole dei bambini) da riempire. Il futuro viene dopo che tutti si sono persi: i bambini che valicano il confine, il fratellino e la sorellina che decidono di andare a cercarli, la mamma e il padre che a ogni chilometro lasciano qualcosa e si perdono. È un libro che arricchisce e commuove. Ci troviamo davanti a una delle opere più interessanti pubblicate quest’anno. Diamo il nome giusto alle cose, andiamo a cercare e troveremo. I bambini perduti ci riguardano, non occuparcene ci farà smarrire e non ci sarà un numero di telefono cucito addosso a salvarci.

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