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Elogio della linea di contorno

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La mano del bambino stringe in pugno una cordicella tesa e lunga, alla cui estremità è legato un aquilone che volteggia nell’aria tersa di un pomeriggio di aprile. Sospinto dalle folate del venticello primaverile il drago di carta si dimena, affidando la sua portanza alle sperimentate piegature che consentono alla sagoma di carta di combinare la massima leggerezza con la massima resistenza. Proprio quando sembra precipiti, ecco che all’improvviso s’impenna e ricomincia a tirare la mano del bimbo che, riprendendo a inseguirlo, molla all’occorrenza la presa del filo evitandone lo schianto a terra. Il filo attraversa lo sfondo di cielo azzurro su cui fluttuano vaporose nubi, tagliando in diagonale i filamenti di cirri che trafiggono i cumuli sospesi sopra l’acuta asprezza della vetta di una montagna, la cui maestosa e immobile possanza trova motivo di esaltazione nel confronto con la sua tremula immagine riflessa dallo specchio d’acqua antistante, in cui un fluido e sfilacciato contorno ne azzarda la triangolarità della sua forma. 

 

Per quanto il bimbo corresse veloce su quel prato, e nonostante il rischio molto alto di vedersi affondare la scarpa in qualche zolla di terra ancora madida di rugiada consigliasse di porre più attenzione a dove poggiare i piedi, questi, uno dopo l’altro, ritrovavano puntualmente ciascuno la propria ombra che, scivolando su quanto gli si parava davanti, continuava a tallonarli in perfetto sincronismo.

 

La macchia verde della maglietta come per magia scompariva del tutto ogni qual volta si trovava a passare davanti alle chiome di fitte schiere d’alberi fronzuti, la cui compattezza lasciava intravedere appena i rami che le sostenevano, lasciando alla fitomorfica immaginazione dei sorveglianti dedurre se la diramazione delle nervature di ciascuna foglia replicasse la geometria dell’intera ramificazione della chioma. Nonostante l’apparente complessità di eventi e di cose che la descrizione appena letta potrebbe far pensare, la scena nella sua interezza potrebbe essere quella raffigurata dal disegno di un bambino, o di un disegnatore adulto, che abbiano voluto raffigurare in un modo alquanto canonico il ritorno della primavera. Di per sé la scena non sembra presentare nulla di particolarmente curioso o di significativo e quindi non rapisce più di tanto il nostro sguardo. Per quali motivi, dunque, un’immagine stereotipo suscita comunque il nostro interesse al punto da meritare la nostra prolusione?

La banalità e la semplicità della scena non devono sviare la nostra attenzione dalla complessità cognitiva, percettiva e grafica dei problemi che la sua riproduzione grafica tramite disegno lineare di solo contorno, comunque cela.

 

Se consideriamo con maggiore attenzione il nostro disegno, ci accorgiamo che esso contiene un campionario di discontinuità fenomeniche che, nonostante segnalino ineludibili differenze di proprietà ottiche, materiche, di forma, di colore, di superficie, di densità, di dimensione, di resistenza, di compattezza, … sono disegnate tutte con un unico tratto di matita o di penna, un tipo di linea uniforme e monotona, sempre uguale a se stessa, che corre come un filo nero lungo i bordi delle cose, circoscrivendone il contorno, insensibile al fatto che ognuna di essa possieda una propria natura fisica. 

In natura non ci sono linee, né tanto meno, corrono fili neri ai margini delle cose. Tuttavia, la percezione visiva individua nel confine spaziale il motivo essenziale della forma. La discriminazione della forma delle cose deriva principalmente dalla variazione, o dalla discontinuità, della luminosità nei punti che delimitano la figura della proiezione ottica di un dato oggetto. Ma essendo il limite della cosa unico e inseparabile da essa e le sfumature dei margini tanto indefinite quanto infinite (quindi entrambi irrappresentabili), siamo costretti a tentare di afferrare questo limite conferendogli un ineffabile profilo unilaterale. Si impone una linea, dunque, pur non possedendo un’esistenza fattuale, ma unicamente effettuale.

 

La linea, correndo sulla superficie ne incrina sì l’isotropia, ma ne inaugura una nuova profondità che la vivifica e la rende ancora più luminosa di quanto fosse prima: la trasforma da superficie opaca a sfondo di diafana bianchezza. Quando si traccia una linea su di un foglio, ciò che viene inciso non è il supporto materico della carta, quanto il bianco dello sfondo, che notoriamente oppone più una resistenza psichica che fisica. 

 

Il contorno è l’elemento minimo della visibilità che rende visibile pur essendo in sé stesso invisibile, una traccia di inchiostro opaco che non esiste ma che ci fa vedere la forma rappresentata delle cose reali e immaginarie, e che, nel farlo, svanisce dalla nostra visione lasciando il posto alla forma che delimita.

 

Occorre spiegare perché cose molto diverse possano essere disegnate tutte con la medesima linea e anche perché lo stesso tipo di linea possa condensare una così ampia densità informativa, riguardante “livelli di realtà” del tutto distinti, che chiamano in causa differenti attività cognitive, percettive, immaginative e logiche. Non è la linea nera ad appartenere alle cose, ma la forma dello spazio da essa racchiuso, a configurarsi con un aspetto riconoscibile. 

 

La linea di contorno è un segno che rimanda a un vasto orizzonte referenziale. La constatazione che i differenti ordini di oggetti presenti nella nostra semplice scena siano tutti riproducibili con un’unica linea, mentre nella nostra esperienza percettiva chiamano in causa diverse modalità sensoriali, dimostra quanto sia astratto e convenzionale il segno lineare che ne riproduce visivamente la forma. Al fine di rendere ancora più chiaro questo punto proviamo a distinguere in categorie logiche e percettive le linee che delimitano la forma degli oggetti riprodotti nella scena primaverile descritta sopra e che afferiscono a diversi ordini di realtà fisica e fenomenologica. Prospettiamo, quindi, sia pure in modo incompleto, una prima schematica sintassi delle linee, quale abbrivio di una più completa formalizzazione delle discontinuità grafico-visive.

 

A - Lacordicella, i fili d’erba, i rami, le nervature delle foglie, le pieghe dell’aquilone, l’impronta impressa dalla scarpa nella zolla, costituiscono solo alcuni esemplari di discontinuità tattilo-visive tra le quali si possono includere: tutti i tipi di discontinuità sulle superfici determinati dalla alternanza di minimi rilievi e/o concavità (scanalature, rigature, nervature, crepe, incisioni, incastri, contiguità), le estremità delle forme piane (foglie, lame, vetri, lamiere), le discontinuità della curvatura di superfici piane e tridimensionali (bordi di un bicchiere, di una lampadina, ecc.), le discontinuità di inclinazione o di direzione delle superfici piane e tridimensionali che formano angoli diedri (tutti i tipi di spigoli concavi e convessi). Sul piano della rappresentazione grafica queste linee costituiscono una specifica categoria, quella delle linee-oggetto, ovvero delle linee che si vedono e si toccano.

 

B - La forma della montagna unitamente alla sua immagine riflessa nell’acqua, la forma delle nuvole, dell’ombra proiettata dal corpo del bimbo, della chioma degli alberi, costituiscono invece una serie di discontinuità ottiche; un repertorio molto vasto di discontinuità comprendenti oltre alle discontinuità di forma delle grandi masse volumetriche viste in lontananza (profili di montagne, linee di orizzonti), anche tutti i fenomeni dovuti alle discontinuità di illuminazione, di riflettenza, di pigmentazione (livrea degli animali, colori dei tessuti). La traduzione grafica di queste discontinuità costituisce la categoria delle linee che si vedono ma non si toccano. Esse, cioè, presentano una realtà fisica esclusivamente ottica e sono pertanto esperibili soltanto con la visione.

 

C - La direzione delle folate del venticello, le correnti d’aria, la forza di gravità, la traiettoria del volo dell’aquilone, l’irradiamento delle forze di crescita nelle piante e nelle foglie, la direzione dei raggi di luce, sono tutti esempi riconducibili alle discontinuità virtuali o potenziali, tra le quali si possono aggiungere anche le traiettorie, le rotte, le linee delle correnti marine, tutti i vettori di direzioni, le linee dello sguardo, le linee di sviluppo, le direzioni di tutti i tipi di movimenti la cui velocità si pone al di sotto o al di sopra delle soglie assolute della percezione visiva (troppo lenti o troppo veloci per essere percepiti). Siamo cioè in presenza di una categoria di linee che non si vedono e non si toccano, ma che esistono e si “avvertono” in virtù di qualche deduzione intermodale.

 

 

D - Il completamento della forma dei rami che affiorano parzialmente tra le fronde, il completamento del corpo del bimbo, quando la maglietta verde si confonde con le chiome degli alberi, costituiscono una casistica molto particolare, comprendente anche le occlusioni parziali, le contiguità “visive” tra forme poste in luoghi e distanze differenti nello spazio. Sono definibili come discontinuità amodali, relative a tutti quei fenomeni in cui il contorno apparente delle forme è incompleto, perché occluso, oppure perché alcune parti non inviano alcuno stimolo ottico-fisico. Nonostante questa amodalità fenomenica l’occhio riesce comunque a percepire la forma nella sua interezza, aggiungendoci le parti mancanti, in virtù dei principi gestaltici della bontà e della chiusura, ma anche ricorrendo all’esperienza del soggetto percipiente.

 

E - Relativamente alle dinamiche e agli eventi raffigurati nella scena si potrebbe dedurre una vasta quantità di dati, con un diverso grado di attendibilità, inerenti alle misurazioni della pressione atmosferica, della velocità del vento, della posizione del sole e della relativa distanza della terra, della velocità di corsa del bambino, della temperatura atmosferica e di quella corporea del bambino, al calcolo delle probabilità che l’aquilone percorra una data distanza e rimanga in volo in un dato lasso di tempo, ecc. Tutti questi dati possono essere tradotti in grafici, diagrammi, istogrammi; possono, cioè, essere rappresentati mediante delle linee la cui funzione è quella di visualizzare delle discontinuità logiche.

 

F - L’eventuale inferenza sull’albero genealogico del bambino, sull’influsso delle costellazioniastrologiche alla sua nascita, darebbero luogo a delle rappresentazioni grafiche che si possono genericamente catalogare sotto l’etichetta di proiezioni, o disegni dell’immaginario composti da linee che non esistono realmente ma che visualizzano delle pure proiezioni immaginarie, ovvero delle discontinuità eidetiche.

 

La nostra scena potrebbe essere l’immagine finale di una sequenza di altri disegni che illustrano una guida, un manuale, inserito all’interno della confezione che conteneva l’aquilone. Potrebbe trattarsi dell’ultimo di una sequenza di disegni destinata a trasmettere delle informazioni relative al montaggio dell’aquilone. Un genere, quindi, di disegno predisposto a visualizzare le istruzioni per l’uso, le informazioni relative alla lunghezza della corda, alla tensione a cui bisogna tenerla, al modo in cui la si deve legare, ecc. Un genere di disegno estremamente chiaro, essenziale nei segni, elementare nella sequenza delle fasi, di facile e immediata leggibilità, che presenta in breve i tratti e le forme di codificazione tipiche dei cartoon, dei disegni animati alla Walt Disney. 

Questo tipo di disegno, per garantire l’immediato riconoscimento di quanto riproduce, deve necessariamente presentare i caratteri schematici di uno stereotipo visivo, strutturato su quegli invarianti visivi selezionati a trasmettere un significato univoco nel minor tempo possibile. L’economia visiva che struttura l’immagine canonica di un oggetto impone al disegno un’essenzialità dei tratti necessari a visualizzare l’immagine mnemonica che si forma nella mente di ognuno di noi, dopo aver osservato per un congruo numero di volte la stessa cosa. È stato provato sperimentalmente che i tempi impiegati dall’occhio per riconoscere un oggetto raffigurato con la sola linea di contorno risultano molto più brevi rispetto a qualunque altro sistema di rappresentazione grafica, pittorica e fotografica del medesimo oggetto.

 

Questo perché le linee di contorno estremamente esemplificate richiedono un numero di fissazioni oculari inferiore a quello richiesto dalle altre immagini. L’esperimento dimostra inoltre che, in una rappresentazione visiva, quanto più è alto il livello di economia dei suoi tratti, tanto più soddisfacente e immediato sarà anche il riconoscimento dell’oggetto riprodotto. 

Supponiamo di trovare la nostra scena primaverile riprodotta da un disegno al tratto impresso su di un cartello segnaletico, destinato a indicare l’inizio dell’area di suolo pubblico preposta ai giochi dei bambini, situata all’interno di un parco cittadino. Ci troveremmo, quindi, davanti a un disegno che presenta le caratteristiche dei pittogrammi, quelle cioè dei disegni ottenuti per forte contrasto di chiarezza tra lo sfondo, quasi sempre bianco, e le figure colorate di nero a tinta piatta e uniforme. La ricerca del contorno miglioreè l’aspetto più rilevante nella codificazione dei pittogrammi segnaletici dato che la loro funzione è proprio quella di trasmettere informazioni univoche. 

 

Tuttavia, quanto, della forma di un oggetto che muta ad ogni minima variazione del suo orientamento spaziale, sia da considerare superfluo o insignificante, privo comunque di informazioni rilevanti e necessarie al suo riconoscimento e quanto, invece, sia da ritenere assolutamente essenziale e necessario, al punto che una eventuale carenza nel contorno ne comprometterebbe il riconoscimento visivo, non è come sembra un problema di semplice soluzione. L’occhio sa che ogni punto di vista offre informazioni uniche, relative a quel particolare orientamento della forma, che appaiono visibili solamente da quel punto di vista. Sa altrettanto che nessun orientamento può mostrare tutto ciò di cui si compone un dato oggetto; né quanto di quell’oggetto caratterizza la sua morfologia. Queste condizioni spingono l’occhio a fare delle selezioni, a operare delle connessioni virtuali, dei richiami visivi, tra quanto appare visibile in un dato orientamento e quanto rimane inapparente, invisibile sotto quel medesimo orientamento. L’occhio per riconoscere la forma di un oggetto deve sapere mettere in continuità piani, spigoli, contorni, superfici apparenti con quelle inapparenti o invisibili dai singoli punti di vista. L’occhio, cioè, per poter riconoscere la forma di un oggetto deve completare sempre quanto appare visibile con quanto rimane invisibile, deve operare una continuità spaziale e morfologica tra il visto e il non visto: senza questa integrazione ogni forma risulterebbe parziale, incompleta e quindi irriconoscibile. Anche la forma della cosa più nota, se osservata con un particolare orientamento può presentarsi con uno scorcio prospettico così inconsueto da rivelare un contorno del tutto insolito, da non consentirne il riconoscimento. 

Ma come si fa a vedere una forma staccata dalla cosa in cui appare, dalla qualità tattile della superficie e dalla materia?

 

Innanzitutto, dirà Valéry, il vedere per disegnare presuppone un superamento del modo abituale di vedere, vuol dire esercitare quell’intelligenza dell’occhio che fa del vedere una sorta di costruzione del visibile, dalla quale l’assuefazione ci dispensa, ma che rappresenta l’unica strada che ci permette di cogliere e distinguere ogni elemento come una presenza singolare. Sostanzialmente il disegno potrebbe essere ridotto a un unico elemento strutturale: la linea di contorno. Questa linea è già essenzialmente disegno; è il disegno allo stato puro. Essa condensa simbolicamente una polisemia di concetti come confine, orlo, bordo, profilo, margine, limite... la cui portata teorica travalica lo specifico e si estende in molti altri ambiti disciplinari, quali la matematica, la geometria, la biologia, la geografia e la filosofia. Nel linguaggio grafico, però, l’accezione geometrica della linea unidimensionale è soltanto una delle possibili codificazioni grafiche, giacché nel disegno artistico la linea di contorno, per sottile che sia, è sempre considerata una componente dotata di “forma”, di “colore”, di “valore luminoso” e persino “tissurale”. Il disegnatore conosce bene tutte le proprietà materiche dello strumento e le modalità tecniche adeguate a sfruttarne le potenzialità espressive. Ciascuna linea, tracciata sopra un foglio di carta, corrisponde a una precisa quantità di una particolare materia (un pigmento dotato di consistenza fisica), per cui occupa uno spazio e possiede anch’essa una forma di proprio conto. 

 

II contorno rivela il dialogo intimo e serrato che la linea intrattiene con la forma, nella loro reciproca corrispondenza: come la linea si piega alla plasticità della forma, così quest’ultima offre il fianco a carezzevoli lineamenti. Tra l’una e l’altra esiste un indissolubile legame, una connivente interazione di infinite sfumature espressive. A tale scopo è molto facile verificare quanti slittamenti di senso avvengano assegnando contorni diversi alla stessa forma. Quanto più prende consistenza e peso espressivo l’una, tanto più si astrae e si eclissa l’altra: l’incontro ideale si ha quando “nel canto della linea si rivela la verità della forma” (Wolfflin H.). 

 

Quando disegniamo il contorno di una cosa, ne tracciamo l’unico possibile o uno dei tanti? Le cose non hanno un solo contorno, ma infiniti contorni, tanti quanti sono i punti di vista dai quali possiamo vederle, anche se, di tutti quelli possibili, alcuni mostrano maggiori informazioni visive circa la forma globale, mentre altri ne mostrano pochissime, ed altri ancora mostrano con un profilo persino deformato o del tutto irriconoscibile. 

 

Nell’ambito del disegno artistico la linea di contorno non può essere considerata solamente sotto l’aspetto puramente concettuale o geometrico, ma si impone necessariamente una attenta e sensibile considerazione delle sue potenzialità espressive, in rapporto alle qualità plastiche della forma che racchiude. Ogni disegnatore sa che la resa ottica della dimensione, della materia, della superficie, della forma, della distanza da cui guardiamo la cosa che si vuole disegnare, dipende dalla sensibilità con cui trattiamo graficamente i suoi lineamenti. Per un pittore non è possibile astrarre la linea dalla forma che essa delimita; tutto deve interagire e integrarsi nel rispetto di particolari esigenze espressive e di precisi scopi comunicativi. Di fatto andrebbe considerato che ogni cosa ha un suo contorno

Quali e quante relazioni intrattiene la linea di contorno con la forma che delimita?

Si possono enucleare quattro fondamentali tipi di relazioni che il contorno intrattiene con la forma:

  • 1) un solo contorno per tutte le cose: carattere cognitivo-simbolico; la linea svolge una funzione convenzionale, simbolica e cognitiva; la relazione “uno per tutte” le conferisce un carattere di universalità linguistica, di segno assoluto; 
  • 2) tutti i contorni di una sola cosa: carattere fenomenico-informativo; “tutti” sta per gli “infiniti” contorni che formerebbero la visibilità totale di una cosa, ciascuno dei quali è direttamente riferibile a un determinato punto di vista, che a causa della propria “unilateralità” può fornire soltanto parziali livelli informativi; 
  • 3) differenti contorni per una sola cosa: carattere estetico-comunicativo; la “varietà” degli aspetti di forma, colore, materia, numero... che concorrono nel tracciamento del contorno entrano in relazione con la forma della cosa disegnata, aggiungendovi inesauribili possibilità di connotazioni estetiche; 
  • 4) ogni cosa con il suo contorno: carattere empatico-espressivo; lo stato di singolarità (ogni) della cosa implica il riconoscimento della sua identità, che rivendica il diritto ad avere una corrispondenza “empatica” con il “timbro” lineare del contorno che la delimita. 

L’esercizio del disegno esplica una forza formante basata sulla capacità di concentrazione dello sguardo, che lavorando tra il conoscere e il costruire, tra il rilevare e il formare, è costretto a discriminare quel che per troppa evidenza è diventato invisibile. Per questa sua peculiare modalità, il disegno si manifesta come una delle più alte forme di intelligenza, in quanto consente di rendere il massimo delle nostre intenzioni e delle nostre impressioni con il minimo dei mezzi a disposizione; in questo senso la sua natura si colloca a metà tra il fisico e lo spirituale. 

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Novara, dal 21 al 23 settembre
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Attore/Performer: apologhi sulla pazienza

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Oggetti. Cose senza pace. Esseri umani come cose. Segni imperscrutabili dell’agire, del fare, dell’impegnarsi a distogliersi. Come un destino, un meccanismo, che possiamo continuare a chiamare reificazione, anche se splende dell’illusione dell’individualità, della cifra singolare, personale. Della scelta.

La Biennale Teatro di Antonio Latella nella seconda settimana in cui l’abbiamo visitata, a fine luglio, è determinata a esplorare i confini, ormai estremamente labili, tra attore-interprete da una parte e performer dall’altra, intendendo per performer un soggetto che porta in scena un’esperienza, una visione, un’individualità non riducibile alle gabbie di un personaggio. Dopo le due produzioni inaugurali, Orestea di Anagoor e Spettri del giovane Leonardi Lidi (vedi le cronache qui), con un posto d’onore alle invenzioni dei Leoni d’oro Antonio Rezza e Flavia Mastrella, vero uragano che sconvolge le leggi date della scena, la Biennale si concentra a mostrare e a paragonare. Secondo la posizione scelta dal direttore artistico fin dalla prima edizione, sono messe a confronto esperienze europee degli anni recenti, proponendo nomi in Italia sconosciuti o poco approfonditi. 

 

È ridotto l’investimento sulla produzione (e su questo bisognerà magari riflettere) per un festival disteso, che mira, intorno al tema dato, a riepilogare, a far conoscere, a offrire materiali. Sono presentati spettacoli rivolti principalmente al pubblico elettivo di questa rassegna, ormai individuabile nel gran numero di giovani attori e attrici, appassionati di teatro, che frequentano i college, laboratori intensivi tenuti da maestri che da anni lavorano sui confini tra attore e performer. I laboratori, quest’anno, si sono concentrati a indagare, con visioni diverse, su un unico soggetto, che ha fatto da filo conduttore alla dimostrazione finale, Il bacio

Agli spettacoli si è visto poco pubblico “normale”, ammesso che esista oggi qualcosa del genere; c’era piuttosto addetti ai lavori, giornalisti e organizzatori, e soprattutto tanti giovani del college, che potranno echeggiare i temi trattati nei loro luoghi di lavoro. È una scelta di separazione, sottolineata anche dal luogo dove si svolgono gli spettacoli, il magnifico Arsenale veneziano, in fondo alla città, oltre i percorsi turistici, nella zona espositiva delle Biennali artistiche. La separazione oggi, però, sembra strada per una possibile, difficile rifondazione: concentrazione su settori specifici di spettatori impegnati, che possano trarre nutrimento da esperienze e opere che pongono questioni spesso ardue.

  

Kronoteatro, Educazione sentimentale, ph. Gabriele Lupo.


Nei giorni di fine luglio (non ho assistito al finale del festival) si è visto il franco-tedesco Clément Layes, impegnato in vari corpi a corpo con le cose, gli oggetti, o con le tracce di un passaggio umano. Il performer italiano Giuseppe Stellato ha interpretato l’ossessione delle cose e i deserti nascosti dietro una lavatrice o una macchinetta che distribuisce generi di conforto. L’olandese Davy Pieters ha dato corpo a iterative intrusioni dell’incubo nel reale quotidiano. Gisèle Vienne, il nome più conosciuto, ha portato le sue macchine della crudeltà con marionette o con figure umane trasformate in fantocci. È stata dedicata una piccola personale gli italiani Kronoteatro, con tre spettacoli, Cannibali, Educazione sentimentale, Cicatrici

Io ho visto i primi due, e la scelta di questa compagnia, dal lavoro poco noto fuori dai loro territori in Liguria (Albenga), mi sembra dettata dal chiaro segno politico e esistenziale che attraversa lavori che con drammaturgie dirette, molto, perfino in alcuni casi troppo semplici, quasi da “teatro ragazzi”, provano a narrare lo smarrimento dei rapporti. In Cannibali un adulto e un giovane si confrontano e si scontrano in diverse posizioni (padre-figlio, maestro-allievo eccetera), fino a un rovesciamento finale, prevedibile ma incisivo, dei rapporti di forza con l’invecchiamento della figura adulta e dominante. In Educazione sentimentale invece si narra un altro tipo di cannibalismo: quello dell’uomo sulla donna, con tanto di rivalità maschile che alla fine si traduce in solidarietà per spolpare l’oggetto (niente di più che un oggetto) del desiderio. Sono macchine semplici, questi spettacoli, che fanno sospendere il giudizio tra il già visto, il troppo facile, e la capacità comunque di dire, in modo metaforico ma diretto, qualcosa che ci impregna e ci devasta.

 

Clément Layes, Thing that surround us, ph. Doro Tuch. 


Le invenzioni di Clément Layes mettono l’essere umano di fronte al meccanismo. Thing that surround usè il titolo del primo spettacolo, visibile anche in forma di performance. Si tratta di cerchi di sabbia, più o meno colorata, tracciati sul palco, disfatti continuamente dall’intrusione di un altro performer. È uno schema elementare, ma pieno di suggestioni visive perché il disfare è creare nuovi motivi, geometrici, cerchi, quadrati, poligoni, strade, autostrade di polvere, dissolvendo ghirigori. A furia di disegnare e modificare, irrompono altri oggetti, fino a che il palco non sembra un deserto di discarica urbana, pieno delle mille cose che ci circondano, che ci dominano. Le cose non hanno pace, diceva un testo tropicalista di Gilberto Gil e Caetano Veloso: hanno peso, consistenza, impenetrabilità, trasparenza… E quel motivetto ci rimbalza in mente di fronte a questo panorama che si forma, si dissolve, si riempie, si sporca, avvolge, contorna, fino al buio finale. 

 

Clément Layes, Title, ph. Robin Kirchner.

 

Layes stesso in Title combatte a tenere in equilibrio vari oggetti, con un fare da clown senza trucco e belletto, un Buster Keaton pronto a sorprenderci con posizioni impossibili del corpo e delle cose, indaffarato a trovare un equilibrio, una configurazione del corpo, del sé, tra gli scarti di una quotidianità ingombrante. Tutto raggiunge la purezza nella performance in cui tre figure si alternano a tracciare segni di sabbia, a risolverli in altre figure, a dissolverli, con un impegno assoluto, una concentrazione tanto più profonda quanto più labili sono le tracce che va a incidere o a dissolvere, in una metafora lacerante dell’agire umano, in una prospettiva sottilmente nichilista e visivamente incantatoria, grazie anche alla musica, costante, incisiva, dialogante.

 

Dany Pieters, The Unpleasant surprise, ph. Sanne Peper.


Di Dany Pieters ho visto solo The Unpleasant surprise, un giovane che guarda la televisione, forse telegiornali, probabilmente stragi, e sente il suo corpo, o parti di esso, irrigidirsi, modificarsi, ribellarsi, finché dalle finestre, dalle porte di una stanza angusta irrompono altre figure, come proiettate dagli orrori di cui si immagina trattino i servizi televisivi, a strapparlo alla contemplazione smarrita del sé. La struttura si ripete con variazioni per più di un’ora, fino a un’esplosione finale della stanza, in una poetica dell’accumulo che richiede allo spettatore pazienza, ascolto, abbandono, rinuncia anche alla voglia di essere stupito da una trama. L’eccezione, lo stato di allerta permanente, sta nel trascorrere quotidiano delle ore, sembra raccontarci questo pezzo di teatro.

 

Ho intitolato questo articolo alla pazienza: dello spettatore, che deve rinunciare ai ritmi incalzanti imposti oggi spesso imposti dalla narrazione, dalla fiction, dal cinema: che deve riscoprire in sé il lento patire, l’essere modificato da qualcosa che avviene intorno e del quale, molte volte, non ci rendiamo forse neppure conto. Che si insinua, giorno per giorno, in noi come gocce di veleno, fino a mitridatizzarci, a renderci immuni dall’orrore. Pazienza, allora vuol dire – con minuzia, con quella scarnificante chirurgica anatomia – andare a scoperchiare, a tagliare, ad aprire le carni del dolore del mondo. Anche del più invisibile.

 

Gisèle Vienne, Jerk, ph. Alain Monot.


Gisele Vienne in Jerk crea un meccanismo narrativo illusionistico, seduttivo. Si narra di un gruppo di sciagurati compari dediti alla pedofilia e all’assassinio con violazione e occultamento di cadaveri. Un narratore, neutro, il bravissimo Jonathan Capdevielle, introduce situazioni e personaggi trasformandosi in essi, chiamando lo spettatore a percorrere momenti della storia, e anche sintetizzando alcuni momenti attraverso la lettura di un testo. Finalmente agisce i fatti dando voce ad alcuni pupazzi che nascondono l’orrore sotto la grazia bamboccesca di pupazzi di peluche. I piani si incrociano e si moltiplicano fino allo scioglimento della vicenda, alla diserzione di uno dei complici, il più fragile forse del gruppo, con varie scene in cui i pupazzi, le voci, diventano fantasmi di un mondo che per affermarsi, per affermare il proprio nulla, infierisce sugli altri esseri umani trattandoli come oggetti.

In Crowd, folla, gli oggetti sono uomini e donne come marionette, in un movimento slow motion che simula una festa, un concerto, e le dinamiche tra gli individui, attrazione, repulsione, lotta, esclusione, fino allo scontro generale, all’orgia, alla fuga. Tutto in un movimento, tenuto benissimo dai meravigliosi performer, al rallentatore, che esalta i dettagli, i rapporti, che di volta in volta confonde nel gruppo e incornicia. Somiglia a Multitud di Tamara Cubas visto a Santarcangelo: molto più efficace, ritmicamente perfetto, inquietante, con il suo girare a vuoto, in cerca di una soluzione continuamente possibile, prevedibile, sempre rimandata da un rimescolare le carte di un gruppo che riproduce i movimenti anonimi, pieni di pazienza, cioè di repressa sofferenza, della folla che ogni giorno, in diverse combinazioni, tutti siamo.

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Scene d’estate: Biennale Teatro 2
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Il Rinascimento di Gaudenzio Ferrari

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Nonostante sia pressochè sconosciuto al grande pubblico, e a volte, persino agli esperti d'arte, Gaudenzio Ferrari (1475/80 - 1546) appartiene di diritto al gotha dei maestri del nostro Cinquecento, insieme a Leonardo, a Michelangelo, a Raffaello e a Tiziano. Fu attivo in terra lombarda ed in quella che, ora piemontese, un tempo faceva ancora parte del Ducato di Milano. Ma è stata proprio la Regione Piemonte, sostenuta da altri sponsor, a finanziare la recente mostra dal titolo eloquente: Il Rinascimento di Gaudenzio Ferrari

Curata da Giovanni Agosti e da Jacopo Stoppa, con la supervisione di Gianni Romano, il massimo esperto vivente dell'artista di Valduggia, la rassegna era scandita in tre atti, corrispondenti alle stagioni della vita creativa di Gaudenzio, e si articolava su tre sedi: 1) Varallo. La meglio gioventù. 2) Vercelli. Quella che chiamano maturità. 3) Novara. Rimettersi in gioco. 

Accanto alle opere inamovibili, perché contenute nelle chiese sotto forma di affreschi, o di monumentali pale d'altare e nelle cappelle del Sacro Monte, quali sculture e pitture murali, sempre visitabili in situ, vi erano esposte centoventi opere, sia di Gaudenzio, che dei suoi seguaci e dei suoi contemporanei, molte provenienti dai musei di tutto il mondo. 

Questa mostra è stata la prima dedicata all'artista valsesiano, dopo quella dei cartoni cinquecenteschi dell’Accademia Albertina di Torino del 1982, a cura di Gianni Romano, ma soprattutto dopo quella memorabile del 1956, tenutasi a Vercelli, al Museo Borgogna. Mi riferisco alla mostra gaudenziana per antonomasia, quella curata da Anna Maria Brizio e da un esordiente Giovanni Testori, allora trentenne, allievo di Roberto Longhi, il vero “padre critico” di Gaudenzio Ferrari, colui che attribuzionisticamente e “liricamente" lo ha riscattato dal lunghissimo oblio in cui era caduta la sua figura, fino a quel momento nota solamente negli ambienti del collezionismo colto. 

Nella coraggiosa disfida temporale con quella mitica mostra, questa di Agosti, rinunciando ad ogni lirismo, è stata soprattutto connotata da un rigoroso taglio scientifico, concettuale, mirante a restituire a Gaudenzio Ferrari il posto di primo piano che gli spetta nelle pagine della Storia dell'Arte. Ma ha mirato anche a fargli riacquistare quella popolarità che egli ebbe ai tempi suoi fra le genti comuni, quel ruolo di pittore colto, insomma, che seppe farsi mediatore del linguaggio alto con gli umili e coi semplici rendendo visibili, grazie alla sua grande abilità di artista-artigiano, contenuti religiosi e filosofici complessi, o, più semplicemente, impiegandola per trasmettere emozioni che pervengono inalterate persino a noi.

«Lo scopo del progetto è fare capire al maggior numero di persone la grandezza di Gaudenzio Ferrari», hanno dichiarato i curatori. E a questo lavoro di diffusione della lezione gaudenziana contribuisce il ponderoso catalogo che ha accompagnato la mostra, concepito come un vero e proprio regesto, composto da più di 300 voci con schedatura approfondita delle opere, che gli autori invitano a reputare uno work in progress al quale si augurano possano presto aggiungersi nuovi contributi per il prosiego degli studi gaudenziani, tutt'ora ricchi di incognite.

 

Terminata la mostra, chi volesse comunque andare ad ammirare dal vero le opere di questo eccelso artista, potrà continuare a farlo seguendo un itinerario che tocca proprio i luoghi in cui egli ha lavorato lasciandovi traccia del suo magistrale talento, affrontando ancora una volta un percorso che da Varallo condurrà a Vercelli, quindi a Novara e a Cannobio e poi a Torino, per proseguire, volendo, verso la Lombardia, in direzione di Saronno (dove egli “ha dato forma all'aria" dentro cui galleggiano i suoi magnifici angeli musicanti) e poi ancora verso Arona, Busto Arsizio, Como, Bergamo, Morbegno, Traona, ma soprattutto a Milano.

 

Chi è Gaudenzio Ferrari

 

«Pittore, plasticatore, architetto, ottico, filosofo naturale e poeta, sonator di lira e di liuto», lo definì, nel suo trattato L’idea del tempio della pittura (1590), il pittore storiografo milanese Giovanni Paolo Lomazzo, il suo primo biografo, che fu a sua volta allievo di Giovan Battista della Cerva, uno dei più fidi collaboratori di Gaudenzio e che si può quindi dire lo abbia conosciuto direttamente.

 

Nato a Valduggia, della sua formazione si hanno scarse notizie. Crebbe culturalmente a Milano dove ebbe modo di apprendere la lezione di Leonardo e quelle del Bramante e di Bartolomeo Suardi, detto il Bramantino, di cui sono permeati i suoi lavori. Ma risentì indubbiamente anche del luminismo di Vincenzo Foppa e dell'influenza di Bernardo Zenale e pure di quelle del Perugino e di Filippo Lippi. O, almeno questo ci svelano le sue opere. Il Lomazzo lo vuole allievo di Stefano Scotto, attivo alla Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano. Fece con buona probabilità un viaggio a Roma e nel centro italia (o forse due). Fonti tarde, prive di verifica, hanno messo in circolo la leggenda che il nostro sia stato presente addirittura come aiuto di Raffaello alle Logge Vaticane. Ma una cosa è certa ed è che egli ha saputo fondere in modo personalissimo e magistrale l'umanesimo centro italico con il naturalismo e al luminismo lombardi. 

 

Spazialismo gaudenziano

 

Al contempo nella costruzione degli spazi Gaudenzio unì magistralmente l’impiego della prospettiva - con il suo sfondamento verso l’al di qua e l'aldilà della superficie dipinta - alla sovrapposizione in verticale dei piani che era stata propria della stagione del gotico internazionale, dando vita ad una spazialità affatto particolare e sua precipua, di intenso pathos che potremmo definire rivoluzionaria, se non addirittura moderna. 

 

Drammaturgia gaudenziana

 

L’artista esordì come scultore, proprio al Sacro Monte di Varallo per dedicarsi in seguito esclusivamente alla pittura, nella quale divenne un maestro eccelso, dotato di una prorompente vis narrativa che seppe dispiegare con una mise en scène di empatica teatralità.

Prima di Giovanni Testori, che ne è stato il moderno aedo, fu il Lomazzo a cogliere appieno la grandezza di Gaudenzio, se persino nelle sue Rime (1587), oltre che nel già menzionato trattato, ne descrisse la poetica e il “mirabile pennello”, lodandone soprattutto la capacità di rappresentare con grazia (quella calma che sarà poi elogiata anche dal Testori) gli stati d'animo dei suoi personaggi e il loro agire sulla scena dipinta.

«Alla mente di Gaudenzio s’afferra; / Si la mostra pingendo in gratia estrema; / O che lieto gioisca, O egro gema; / S’alcun s’adira o se crudel si sferra; / Se grave siede, o se pensoso egli erra; / Ha di rapresentar singolar dono; / E questi e quanti sono moti et affetti; / Oltre il bel panneggiar, celesti e humani; / Di lavorar di terra ha certo tono; / Il qual s’inalza al Ciel fra gli altri eletti; / O felici eccellenti mente e mani.»

E ancora nel trattato: 

«perché ivi si vede come si possano rappresentare vivamente gli affetti, vedendosi nelle faccie e negli angioli che piangono il dolore e la passione e nei fanciulli ridenti la festa e il giubili, che la natura più vivamente non gli dimostra. E si vede anco l’eccellenza della architettura attica e la varietà sfoggiata dei fogliami e de fregi delle colonne, nella quale egli è stato unico al mondo». 

Ma spetta a Giovanni Testori l’averne colto l’anima teatrale in quello che, riferito al Sacro Monte, con una definizione divenuta antonomastica egli disse essere un “Gran teatro montano”.

 

Cromatismo gaudenziano 

 

A proposito della straordinaria palette di colori di Gaudenzio Ferrari, così ancora il Lomazzo:

«Gaudenzio ha servito all’ornamenti, e come in tutte le cose universalmente sia stato ornatissimo coloritore, tutto ciò per special dono della natura è stato meraviglioso nel esprimere tutte le sorti di panni con grazia, così di velluto, di ormesino (pregevole tessuto di seta leggero, dal nome della città persiana di Ormuz - ndr) e d’altri drappi di seta come di tela e di lana, con tanto disegno e furia, che niun altro è per poter mai agguagliarlo. E nei diversi cangianti, ne i panni reali e spezialmente nelle falde ed invogli, ha imitato così felicemente il naturale et il vero, sfoggiando e capricciando in mille modi, che chi non vede, difficilmente è per crederlo […] ha di più […] avuto grandissima grazia nel far i cavalli, i cameli e gli altri animali, talmente che pare che fosse nato propriamente a questo e nei capelli è stato leggiadrissimo.»

 

Itinerari gaudenziani. Prima tappa: Varallo

 

Nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, sul tramezzo che separa l'aula dei fedeli dal presbiterio, Gaudenzio, allora trentenne, ha affrescato quello che è universalmente ritenuto un suo capolavoro. Terminando nel 1513, si tratta di un grandioso ciclo di affreschi, con 21 quadri (distribuiti su una superficie di 80 metri quadrati) che raccontano la Vita e passione di Cristo, dall'Annunciazione alla Resurrezione.

Quella di dipingere con scene del Nuovo Testamento una parete alle spalle del predicatore era un costume proprio dei Francescani Osservanti, piuttosto diffuso tra Lombardia e Piemonte, che permetteva all'officiante, durante le omelie, di illustrare vidivamente ai fedeli i passi del Vangelo, così come avveniva nelle Biblia Pauperum medievali.

Fino al 16 settembre sarà ancora possibile ammirare la parete dipinta ad altezza di sguardo dal ponteggio in quota, a sei metri da terra, appositamente costruito in occasione della mostra.

 

 

Gaudenzio Ferrari, Storie della vita di Gesù, 1513. Varallo, Chiesa di Santa Maria delle Grazie. Sotto: dettagli della Crocifissione.


Da lì, a piedi o in funivia, si può poi salire super parietem, a visitare le cappelle del Sacro Monte. In proprosito si legga qui.

Quelle a cui lavorò Gaudenzio sono nove, con affreschi e sculture, ripulite o restaurate in occasione della mostra, fra cui la straordinaria Crocifissione

Il Gran teatro montano di Gaudenzio e degli altri artisti (tra cui Antonio D’Enrico, detto Tanzio da Varallo e Francesco Mazzucchelli, detto il Morazzone) è visitabile tutto l’anno.

Già nell’ottocento, Samuel Butler, (una lapide apposta nel loggiato del Palazzo di Pilato al Sacro Monte ne ricorda l'appassionato soggiorno a Varallo, sul cui Sacro Monte, del 1888, scrisse anche il volume Ex voto), aveva sottolineato l’efficace intento didattico delle cappelle:

«Lo scopo è quello di mettere nel modo più vivace la scena sotto gli occhi della gente che non è capace di immaginarsela da sé, gente che non ha viaggiato e non ha coltivato le facoltà immaginative. Un contadino italiano, come potrebbe figurarsi l’Annunciazione meglio che guardando questa cappella? Il senso comune avverte che o non bisogna dir nulla dell’Annunciazione a un contadino, oppure bisogna facilitargli con ogni mezzo la possibilità di concepire quell’idea con qualche chiarezza.» (Samul Butler, Alps and Sanctuaries of Piedmont and the Canton Ticino, 1881)

 

Sacro Monte di Varallo, Cappella della Ciconcisione, statue in terracotta policroma e pitture murali di Gaudenzio Ferrari, 1512, 1513 circa.


Itinerari gaudenziani. Seconda tappa: Vercelli

 

A Vercelli Gaudenzio risiedette dal 1529 al 1534, per attendere dapprima al Polittico di Sant’Anna destinato all'omonima chiesa, quindi agli affreschi nella locale chiesa di San Cristoforo. In questo lasso di tempo si appoggiò alla bottega del pittore locale Eusebio Ferrari, suo omonimo ma non suo parente, che aveva probabilmente conosciuto a Roma nel suo famoso viaggio, condotto in compagnia del Bramantino.

Il polittico si compone di sei riquadri, due dei quali (L'incontro di Gioachino e Sant'Anna alla porta Aurea - registro inferiore - con l'Eterno - registro superiore - sono oggi conservati alla National Gallery di Londra, che li ha prestati in occasione della mostra.

 

Vercelli, Chiesa di San Cristoforo. Gaudenzio Ferrari, Madonna degli Aranci, pala d’altare, 1529; Storie della Maddalena, Assunzione della Maddalena, 1530-1534.


La chiesa di san Cristoforo sorge in pieno centro storico, qui Gaudenzio, fra il 1530 e il 1534, dipinse un altro suo capolavoro composito, costituito da una pala d’altare, detta Madonna degli aranci, e da due cicli d’affreschi sulle pareti del transetto. Il committente, inginocchiato sulla destra in basso nella pala d'altare, è Andrea Corradi di Lignana, dell’omonima potentissima famiglia, sodale di Carlo V, che ha largamente finanziato i lavori artistici nella chiesa sulla cui parete destra Gaudenzio ha affrescato le Storie della Maddalena, mentre su quella sinistra le Storie della Vergine

Nonostante la differenza tematica delle Storie, l’unitarietà dell’insieme risiede, oltre che nella potenza espressiva con cui esse sono rese e nella loro vitalità cromatica e compositiva, nel motivo ornamentale che le collega: una grande fascia monocroma che corre sulla parte alta di tutti gli affreschi, a testimonianza che l’autore le concepì con un progetto unitario.

Erano questi gli anni in cui la fiorentissima bottega del grande artista valsesiano era sommersa dalle commesse (Vercelli, Casale, Vigevano, Saronno), tuttavia egli scelse di attendere personalmente al ciclo pittorico di san Cristoforo dando così vita ad “uno dei più grandi esiti non che di Gaudenzio, dell’intero Cinquecento italiano”, come ebbe a sostenere in proposito Giovanni Testori.

 

Gaudenzio Ferrari. Storie della Vergine, Crocifissione, dettagli, affresco, 1530,1534,Vercelli, Chiesa di San Cristoforo.


Carichi di pathos, questi affreschi coinvolgono emotivamente lo spettatore tanto per la loro teatralità, quanto per le accese policromie e i cangiantismi dai palpitanti bagliori che li connotano. Le Storie, inoltre, narrate con uno stile magniloquente, dimostrano l’attenzione manifestata dal Ferrari per le ricerche artistiche a lui contemporanee, che dal Rinascimento erano già in procinto di transitare verso il Manierismo.

 

Itinerari gaudenziani. Terza tappa: Novara 

 

Nella Basilica di san Gaudenzio a Novara, coperta dalla svettante cupola di Alessandro Antonelli (lo stesso della Mole Antonelliana), si trova poi il grande polittico a due piani che Gaudenzio Ferrari realizzò nel 1516. Originariamente era ospitato nella chiesa omonima che fu in seguito demolita per far posto a questa nuova, realizzata su probabile disegno di Pellegrino Tibaldi.

L'opera è strutturata in tre parti: in quella superiore sono raffigurati, da sinistra a destra, l'arcangelo Gabriele, la Natività e la Vergine Annunciata. In quella inferiore troviamo San Pietro e San Giovanni Battista, la Madonna con il Bambino tra i Santi Ambrogio e Gaudenzio, San Paolo e Sant'Eusebio o Sant'Agabio. 

Proseguendo in direzione del Duomo, vi si può ancora ammirare la superba pala raffigurante il Matrimonio mistico di santa Caterina (1530-34), soffusa di dolcezza, come ebbe a scrivere Giovanni Testori, elogiandoin proposito «la qualità umana della materia di Gaudenzio […], quel suo incarnar le figure piano, piano, come al tepore d’una continua carezza».

L'opera aveva nella predella quattro superbe tavolette con Angioletti danzanti e suonatori, oggi conservate all’Accademia Carrara.

 

Gaudenzio Ferrari forever

 

Dopo Novara, Gaudenzio Ferrari realizzerà i suoi capolavori soprattutto a Milano. Ad incoraggiarne la conoscenza da parte di coloro che ancora li ignorano, c'è persino la testimonianza di Giorgio Vasari, che scrisse di lui avendone fin da subito compresa la grandezza:

«Fu coetaneo di costui Gaudenzio Milanese pittore eccellentissimo, pratico et espedito, che a fresco fece per Milano molte opere, e particularmente à frati della Passione un Cenacolo bellissimo, che per la morte sua rimase imperfetto. Lavorò ancora ad olio eccellentemente, e di suo sono assai opere a Vercelli e a Verallo molto stimate da chi le possiede.»

 

Il "pittore eccellentissimo" morì a Milano il 31 gennaio 1546, dopo avervi trascorso un decennio, durante il quale ebbe modo di dipingervi altri straordinari capolavori.

Ma questa è un’altra storia.

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Cirque Bidon: fiaba felliniana o utopia “anarchista”?

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L’arte del teatro è universale: la si potrebbe rappresentare come una carovana in viaggio, nel tempo e nello spazio, perché se fosse un’entità statica, ferma nel punto in cui è stata creata, non avrebbe la possibilità di sbocciare e di evolvere.

In effetti, questa carovana non è solo una metafora, poiché si è manifestata concretamente proprio durante l’estate: è il Cirque Bidon! Una compagnia circense francese capeggiata dal suo fondatore François Rauline e composta da un patchwork di artisti (giocolieri, clown, musicisti, acrobati) di diversa nazionalità (Francia, Spagna, Italia), che viaggia in carovana, su carrozzoni di legno trainati da cavalli. Lentamente, a ritmo di 20 km al giorno. Gli ultimi a spostarsi così. 

Si erano fatti desiderare per ben quindici anni in Italia, dal loro ultimo passaggio e sono tornati nel 2016, facendosi perdonare con una tournée di tre mesi. Hanno attraversato Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna, partecipando ai più significativi festival di arte circense e teatro di strada, principali promotori del loro grande ritorno. Dal festival La Strada di Brescia al Mirabilia di Fossano, per giungere, quasi al termine della loro tournée, a Tutti matti per Colorno. Hanno superato ogni aspettativa, realizzando il tutto esaurito ogni sera: ovvero, seicento spettatori a ogni replica e circa un centinaio di persone che non potevano entrare e rimanevano fuori. Numeri da record: “Sono il primo stupefatto!” afferma orgogliosamente il direttore François Rauline. “Ogni sera non vedevo la fine della fila. In Italia abbiamo sempre avuto il circo pieno, ma rifiutare della gente, così tanta…!”. E aggiunge: “Tutti mi dicono che dopo quindici anni di assenza, avevano voglia di rivedere il Cirque Bidon e mi chiedono di non aspettare altri quindici anni per tornare. Strano, eh? Non è che facciamo dei numeri fantastici o che ci sono chissà quali tecnologie…”.  Nel 2016 hanno portato in Italia lo spettacolo Bulle de rêve e hanno mantenuto la promessa, tornando nel 2018, con il nuovo Entrez dans la danse, entrambi creazioni collettive, sotto la direzione di François. Una tournée completamente emiliano-romagnola quella di quest’anno, che li ha visti partire dal Festival di Pennabilli agli inizi di giugno, per concludere a Bologna (parco di Villa Angeletti), dove stanno rappresentando proprio in questi giorni. L’evento è stato prodotto grazie alla collaborazione del Festival Tutti matti per Colorno, di Teatro necessario e di Ater.

 

Villa Angeletti, Bologna.


Perché raccontare questo mondo? 

Senza dubbio, si tratta del fascino di questa compagnia, che si muove in modo antico, quasi secolare. In realtà, è come se loro avessero regalato un gioiello al pubblico, anzi alla popolazione intera, che ha seguito il loro passaggio in carovana, a cavallo. Non hanno realizzato soltanto uno spettacolo, ma sono riusciti a fare vedere quale sia l'essenza di un artista. Un incentivo che serve a tutti gli artisti che si domandano se il pubblico può ancora essere interessato a questo tipo di proposta, oppure se è vero che si va solo a teatro d'inverno. 

La tournée del Cirque Bidon conferma la vittoria di un altro modo di fare teatro. Il messaggio è chiaro sia per chi si occupa di teatro, sia per il pubblico titubante, ma che sceglie di mettersi in gioco.

Cosa significa oggi questo tipo di compagnia nel contesto di vita attuale, dove le persone hanno un legame quasi simbiotico con cellulare, pc, televisione? Il teatro ha perso il contatto diretto con il pubblico? In generale, come reagiscono le persone a una proposta simile?

C'è il timore che il pubblico non vada ad assistere alle rappresentazioni, perché teoricamente si pensa che non sia interessato. Invece, la sorprendente risposta positiva ottenuta dal Cirque Bidon ci mostra che il pubblico ha voglia di questo.

Se la compagnia si propone in un modo diverso da quello in cui viviamo e ha successo, significa che lo spazio c'è. Ci possiamo ancora mettere in gioco con un teatro di questo tipo, perché il pubblico ne ha bisogno, ha voglia di uscire dagli schemi quotidiani.

Il Cirque Bidon lascia al pubblico una speranza che dice: "Se lo posso sognare, lo posso anche fare" (cit. dallo spettacolo Bulle de Rêve).

 

 

Sur la route.


SUR LA ROUTE!

 

Lo spettacolo inizia dal viaggio. Il loro passaggio da un paese all’altro, percorrendo le strade statali, ha strabiliato le persone in transito, a volte generando qualche problema di traffico, lunghe code. L’incanto suscitato dalla carovana è stato in grado di rallentare i tempi frenetici del procedere dei veicoli e della vita odierna, avvolgendo le persone con la sua poeticità. Un viaggio con una triplice valenza: transito per il raggiungimento della mèta; trasmissione di un messaggio poetico oltre la dimensione tecnologica delle nostre vite da ventunesimo secolo; genuino strumento di autopromozione.

“Ho sempre viaggiato con le carrozze e i cavalli, non riesco a vedere il mio circo diversamente”, afferma François Rauline, ricordando i primi tempi del Cirque Bidon, nato nel 1976, quando si spostavano da un luogo all’altro senza acqua né corrente elettrica, al massimo una sola lampadina; non utilizzavano amplificazioni, era tutto acustico. Ora la loro vita è confortevole, però il ritmo è sempre lo stesso: non più di 25 km al giorno. 

Questo vincolo impone un’accurata selezione dei luoghi, molto tempo prima dell’inizio della tournée, quando si organizza il percorso della carovana. “Il posto più bello per noi è semplicemente quello dove il circo viene visto dalla gente”, poco importa che sia “carino” o che coincida con il centro cittadino. Si deve trovare in un luogo di passaggio: così, durante il giorno, la gente lo vedrà e incuriosita dall’allestimento, andrà a vedere lo spettacolo la sera.

 

Carovana e città.


Come nasce uno spettacolo?

François ammette di scrivere poco, di avere alcune idee, soprattutto immagini. Come quella che ha dato vita a Bulle de rêve: la notte, qualche volta, quando era finito lo spettacolo, si trovava con gli amici e al ritorno, si fermava a osservare il suo circo, tutto illuminato. Si diceva, spontaneamente, “che bello!”. Lo faceva pensare a una “bolla di sogno” e si riprometteva di fare uno spettacolo con questo tema, un giorno. Non era facile, l’idea era un po’ vaga, ma era poetica, evocativa e ha funzionato. 

L’intenzione è quella di proporre temi che nessuno si aspetta, per sorprendere il pubblico. Quando Rauline decide di creare uno spettacolo, ancora non sa quali numeri ci saranno. Prova, si aggiusta. Per il nuovo spettacolo, Entrez dans la danse, ha pensato che “tutto balla nell’universo” e che il circo di per sé comprende molti elementi circolari: la pista, il cerchio dell’acrobata... così è nato anche il numero del meteo Bidon, a partire dal pianeta Terra.

Quando ha un’idea, la propone alla troupe, poi “si lavora tutti insieme, ognuno mette la sua parte”. Ammette di essere un autodidatta, che tutto ciò che ha imparato del circo, l’ha raggiunto facendolo e basta. Una volta comunicato il tema agli artisti, dona loro qualche semplice consiglio. Per le canzoni, si rivolge a Frédérique Zagato, da sette anni nella compagnia: lei ne compone alcune sulla base delle indicazioni che François suggerisce. Il risultato del lavoro della compagnia è una creazione collettiva, con la direzione del regista.

 

L’aspetto più importante della creazione è che non ci siano “buchi” tra un numero e l’altro. Lo spettacolo segue un ritmo continuo, non c’è mai una fermata, inizia già mentre il pubblico sta terminando di prendere posto attorno alla pista e lo sguardo dello spettatore è attirato in tutte le direzioni. François afferma che questa particolare struttura dello spettacolo è il risultato dell’esperienza di trent’anni di lavoro nel teatro di strada: non si possono lasciare tempi vuoti tra un numero e l’altro, così come non si possono fare numeri di giocoleria troppo lunghi, altrimenti la gente si annoia e se ne va. Questo assolutamente non deve succedere. Dunque, l’assenza di buchi serve per sopravvivere, per guadagnare il pane. “Si deve fare uno spettacolo che aggancia la gente e quando è presa, non parte più”. 

Dunque, niente a che vedere con i circhi tradizionali e le presentazioni sullo stampo “Ed ecco a voi... i giocolieri!”. Il Bidon è sempre stato diverso dagli altri circhi: inizialmente, gli artisti facevano quello che sapevano fare, senza preparazione tecnica, “un po’ alla buona”, dice. Nonostante ciò, funzionava e la gente tornava a vedere i loro spettacoli. Allora come oggi. Ricorda, ad esempio, lo storico numero delle galline, sempre presente in ogni spettacolo: “Avevamo solo quel numero a mano, ma accompagnato da musicisti dal vivo, prendeva una direzione e subito la gente rideva, veramente tanto, anche se il numero in sé non aveva nessuna tecnica. Non c’erano cose forti, però piaceva lo stesso”.

 

Scena iniziale “Entrez dans la danse” - Villa Angeletti (BO).


Assistere a uno spettacolo del Bidon significa trascorrere un paio d’ore in un’atmosfera di leggerezza, avendo l’impressione che gli artisti stiano improvvisando. In realtà, ogni gesto è studiato veramente al dettaglio. “Non ho mai visto uno spettacolo così!”, oppure “Da quando ero bambino, non vedevo un vero circo!”: questi alcuni dei commenti scaturiti tra gli spettatori al termine di una rappresentazione. 

Una componente fondamentale del Cirque Bidon, che non può mai mancare a un suo spettacolo, è quella di donare delle emozioni, mai provate fino a quel momento. Infatti, la gente rimane colpita, perché vede qualcosa che non è artificiale. “Non è facile da spiegare…”. La generosità degli artisti di questa compagnia, il darsi fino in fondo, nonostante la fatica di quest’avventura, affascina persone di tutte le età: tutti accorrono al loro arrivo nelle città, come se fossero una gara di ciclisti! Non hanno bisogno di pubblicità, è sufficiente il viaggio in carovana. 

In passato, però, non sempre questa troupe è stata accolta favorevolmente dalle amministrazioni comunali: considerati saltimbanchi o addirittura zingari, in alcune occasioni, gli artisti del Bidon non ricevevano il permesso per l’allestimento scenico. Allora, François aveva escogitato una strategia: arrivava all’alba presso un paese, montava le scene in un paio d’ore, così la mattina, quando arrivavano i poliziotti, era tutto pronto. Seguivano discussioni che si protraevano per l’intera giornata: l’obiettivo era quello di realizzare una prima rappresentazione. Alla sera, se arrivava pubblico, era tutto sistemato e il Comune permetteva loro di proseguire la tournée. In effetti, vedendo la confusione che facevano i poliziotti, le persone erano ancor più incuriosite e voilà, ecco arrivare un pubblico numeroso allo spettacolo.

In altre occasioni critiche, François ha avuto l’impressione di aver ricevuto la protezione di Fellini. I due registi non si sono mai incontrati, o forse Fellini è passato da Fregene mentre il Bidon faceva tappa lì; ma Rauline non lo ha riconosciuto, anche se desiderava tanto incontrarlo. Successivamente, quando la troupe ha avuto problemi con le autorità su suolo romagnolo, la situazione si è sempre sistemata, senza capire in quale modo fosse accaduto. Perciò si pensa all’intervento benevolo del regista riminese.

Dichiarandosi apertamente “un vecchio anarchista”, François ricorda una frase di Mao Tse Tung: “Per fare la rivoluzione, il rivoluzionario deve essere come un pesce dentro l’acqua, tra il popolo”. Lui aveva poi trasformato questa frase per renderla calzante alla sua realtà: “Per fare il circo come noi, dobbiamo essere come un pesce dentro l’acqua, tra il popolo” perché, grazie al sostegno del pubblico, è sempre andato tutto bene. Bandiere rosso/nere sventolano ai fianchi della cabina di regia e del palco dei musicisti, a ricordare il credo politico del regista…

 

Bandiere rosse e nere.


Tutto ha un senso profondo al Bidon: gli spettacoli contengono sempre un messaggio politico o sociale, ma ciò non significa che siano selettivi o destinati a una cerchia di intellettuali.  “Volevo fare spettacoli accessibili a tutti, così che tutti li capissero: operai, contadini…”, spiega François. È il caso di Vite! Ralentir (2012) e Attention, rire fragile! (2010): il primo una denuncia della società consumistica a confronto con il lento procedere a cavallo del Cirque Bidon; il secondo, un monito ad aprire gli occhi di fronte alle ingiustizie sociali, in particolar modo alla situazione dei migranti. Senza alcuna intenzione di dare lezioni alle persone in modo pesante, ma divertente.

 

LA TROUPE

 

Una quindicina di persone, tra artisti di varia formazione (attori, clown, giocolieri, acrobati), musicisti e tecnici, che arrivano al Bidon soprattutto tramite un passaparola di conoscenze, alcuni candidandosi autonomamente e presentandosi alle audizioni invernali. 

François vuole offrire ai giovani artisti l’opportunità di imparare qualcosa, per poi prendere la propria strada. Non tutti sono idonei a questa esperienza, sicuramente chi viene scelto ha qualcosa in particolare, un carisma.

Gli artisti scelgono di venire a lavorare al Bidon perché è un sogno per loro poter fare questa esperienza con le carrozze e i cavalli, però a nessuno François nasconde quanto sia faticoso. “La strada fa parte dello spettacolo”. Molti vengono perché conoscono la storia del Cirque Bidon e li fa sognare lavorare qui; altri perché non è una storia comune, ma è una storia particolare, un’avventura, che li attrae.

Al Bidon, gli artisti sono in regola e ricevono l’“intermittence”, una sorta di disoccupazione: molto utile per un artista, difficile riuscire ad ottenerla altrove.

 

Ensemble “Entrez dans la danse” - Villa Angeletti (BO).


GLI ANIMALI

 

Una dozzina di cavalli, un mulo, cinque galline, un’oca. Gli animali fanno parte integrante della vita del Cirque Bidon e insieme agli artisti, concorrono alla realizzazione della produzione di questa poetica avventura. Senza di loro, questo circo non sarebbe lo stesso. Sono costantemente accuditi da tutti i membri della troupe e non viaggiano mai più di 25 km al giorno. Di fronte alla preoccupazione di alcuni animalisti, François ricorda che tutta la civiltà occidentale è cresciuta con la trazione animale. I loro cavalli mangiano bene e sono in ottima forma, così pure le galline e gli altri animali al loro seguito. 

 

Il Cirque Bidon si può vedere in Italia ancora fino al 5 settembre a Villa Angeletti a Bologna.

Tutte le foto sono dell’autrice, Lara Bell’Astri.

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Psicofarmaci

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Il Valium, creazione di un chimico croato, Leo Sternbach, dipendente della industria Roche, è un tranquillante basato su una molecola, diazepam. Entra nelle farmacie americane nel 1963 soppiantando i tradizionali barbiturici nelle sindromi ansioso-depressive; tra il 1969 e il 1982 diviene il farmaco più prescritto negli Stati Uniti. Nel 1974 il suo nome figura infatti in ben 70 milioni di ricette stilate da medici di famiglia, ginecologi, pediatri. Cura l’ansia e la tensione associata a stati di stress. Lo spodesta un farmaco antiulcera, Tagamet. Nel 1982 la Upjhon Company realizza invece un ansiolitico a base di alprazolam, molecola appartenente alle benzodiazepine: lo Xanax, che diventa uno dei farmaci più utilizzati contro gli attacchi di panico, sebbene sviluppi una dipendenza sia psicologica che fisica. Nel 1974 tre chimici della Eli Lilly stanno conducendo ricerche su un composto con effetti analoghi agli antidepressivi triciclici; dal loro laboratorio nel 1987 nasce un nuovo farmaco: Prozac. In poco tempo diventa lo psicofarmaco più prescritto dagli psichiatri americani; dopo quattro anni è il farmaco più venduto nel mondo. Il Prozac è il più diffuso inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina, neurotrasmettitore del cervello, che regola sonno e veglia, ipotalamo, ipofisi e varie importanti pulsioni umane. Sulla serotonina agiscono sia le droghe tradizionali, derivate da erbe e piante, sia quelle chimiche sintetizzate a partire dagli anni Quaranta del XX secolo.

 

Che differenza c’è tra psicofarmaci e droghe? Entrambi contengono sostanze psicoattive. Il farmaco, come sostanza che allevia le sofferenze dell’uomo, è sempre esistito, così come in tutte le culture sono presenti droghe, sostanze inebrianti cui gli uomini si sono affidati nella speranza di uscire dai limiti delle proprie conoscenze o per annullare le sofferenze, scrive Franca Ongaro Basaglia. L’evoluzione storica del farmaco procede con l’avanzamento stesso della scienza, che dissolve progressivamente il mondo magico. Nonostante ciò le richieste che gli uomini fanno al farmaco, “continuano a conservare il carattere magico-religioso del miracolo che elimina la sofferenza”. Il farmaco risponde al problema della sofferenza e della morte, la droga a quella del superamento delle costrizioni imposte dalla vita quotidiana, entrambe “giocano sul bisogno di salute, di benessere e di felicità dell’uomo” diverso a seconda delle varie culture. A parere del sociologo tedesco Günter Amendt, esperto dell’uso di sostanze psicoattive, oggi “le caratteristiche chimiche del corpo non sono più sufficienti per adattare l’organismo sia psichicamente sia fisicamente alla velocità delle macchine e dei processori. L’uomo vive in una condizione di permanente sovraccarico e cronica sovreccitazione”.

 

Illustrazione di Manshen Lo.


Come aveva pronosticato il filosofo Günter Anders all’inizio degli anni Sessanta, in L’uomo è antiquato, la trasformazione iniziata in quel periodo esige qualcosa di eccessivo e con questa pretesa provoca “uno stato patologico collettivo”. Sotto forma di stimolanti, ma anche di tranquillanti, psicofarmaci contro l’ansia o antidepressivi, le sostanze chimiche sono entrate a far parte del nostro orizzonte quotidiano. Sono i numeri dei farmaci consumati quotidianamente da milioni di persone in America e in Europa a indicare che la barriera che separava ancora farmaci e droghe è stata abbattuta. Del resto, la parola “farmaco” nella sua origine greca – pharmacos– descrive sia il rimedio che, il veleno, duplice significato che è presente nella parola inglese drug: farmaco e anche droga. Esistono le “droghe da lavoro”, come le anfetamine, sintetizzate in Germania nel 1887, meno potenti di cocaina e metilfenidato, ma più della caffeina, entrate in commercio nel 1932, e le “droghe del divertimento”, spesso sintetiche (MDMA, MDA, MDEA, MBDB, MDOH). Un settore farmacologico in grande espansione, il cosiddetto lifestyle segment, comprende il Viagra, le “happy pill” e le “pillole del dopotutto”.

 

Molte persone nella loro farmacia casalinga possiedono una fornitura di ansiolitici. Gli psicofarmaci aiutano a reggere la flessibilità che è oggi richiesta agli individui, e sono sostanze molto prossime alle droghe e ai loro effetti. Inoltre, c’è una questione imposta dalla diffusione delle droghe sintetiche, le cosiddette “droghe da party”: l’uso edonistico delle sostanze psicoattive. Sembra tramontato l’uso della droga quale strumento di conoscenza o d’allargamento della coscienza, come accadeva negli anni Sessanta e Settanta. Le droghe chimiche svolgono oggi una funzione decisiva nell’ambito del divertimento. Il loro abuso poi è affidato a una sorta di autogestione dei singoli, sia per quanto riguarda i farmaci psicotropi, come le benzodiazepine, sia per le sostanze sintetiche. Il rapporto tra farmaci legalmente disponibili e droghe illegali si trova stretto tra due poli: da un lato, l’intensificazione del lavoro, il superamento delle strutture temporali (giorno/notte, feriale/festivo), il dissolvimento dei tradizionali legami sociali e quelli emotivi; dall’altro, la ricerca di divertimento e felicità mediante sostanze stimolanti. Negli ultimi decenni si è inoltre modificata l’idea di sofferenza psichica, grazie alla medicalizzazione di molti dei sintomi provocati dalle trasformazioni sociali in atto. Con l’avvento dell’“era Valium”, com’è definita, l’aspetto medico-psichiatrico e quello afrodisiaco-ricreativo (P. Adamo e S. Benzoni) si sono mescolati e sovrapposti, producendo nuove mitologie di massa.

 

L’idea di benessere individuale è in rapido mutamento, come la stessa idea di “soggetto individuale”. Negli anni Novanta i romanzi di Bret Easton Ellis, American Psycho (1991) e Glamorama (1999), raccontavano in modo estremo e provocatorio la trasformazione in corso: un mondo in cui la psico-farmacologia aveva un’evidente influenza. Un saggista americano, Randolph Nesse, ha ipotizzato che la bolla speculativa americana degli anni Novanta sia spiegabile tenendo conto degli antidepressivi ingeriti dai giovani e rampanti brokers. Venticinque anni prima Philip K. Dick in Le tre stimmate di Palmer Eldritch (1965), aveva narrato la vicenda di due imprenditori che smerciano droghe ai coloni terrestri che vivono su Marte; il primo diffonde Can-D, sostanza che induce la sensazione di risiedere felicemente sulla Terra; mentre Palmer Eldritch fornisce Chew-Z, sostanza che crea sensazioni più interessanti e coinvolgenti, ma che si rivela la porta d’ingresso in universi strettamente controllati da Eldritch stesso; un modo per evocare i timori di controllo sociale che le droghe sintetiche iniziavano a suscitare. Ci stiamo probabilmente avviando verso un mondo in cui i farmaci-droghe e le droghe-farmaco diventeranno generi voluttuari alla pari del caffè e del tabacco, divenendo legali, com’è accaduto nel corso della prima rivoluzione industriale, come spiega W. Schivelbusch? Psicofarmaci e droghe sintetiche renderanno più sopportabile la società post-postindustriale, in cui ci troviamo a vivere, senza creare dipendenza? Sarà possibile superare il proibizionismo attuale, che contempla l’uso legale di psicofarmaci mentre proibisce e criminalizza le droghe? Come scongiurare l’effetto di controllo che la farmacopea sintetica può assumere sugli individui? Domande per cui non ci sono risposte, ma che non potranno più essere ignorate a lungo.  

 

Cosa leggere per saperne di più

P. Adamo e S. Benzoni, Psychofarmers® (Isbn Edizioni) dizionario su psicofarmaci e problematiche legate; G. Amendt, No drugs no future (Feltrinelli) e Droghe in Lessico postfordista: dizionario delle idee della mutazione (Feltrinelli); Franca Ongaro Basaglia, Farmaco/droga in (Enciclopedia Einaudi, vol. VI). W. Schivelbusch, Storia dei generi voluttuari (Bruno Mondadori).

 

Questo articolo è uscito in versione più breve su La Repubblica, che ringraziamo. 

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I colori del fascismo

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Another Side of Venice

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Sarà la proverbiale crisi del settimo anno (vengo al Lido dal 2011), o forse il nuovo alloggio (quello nel quale ero ospitato fino alla scorsa edizione non era più disponibile); ma mai come quest’anno la Mostra mi è apparsa, all’arrivo, così labirintica: transenne, deviazioni, vicoli ciechi. Ma è solo il primo impatto con il festival, come al solito: dopo qualche giorno di permanenza, tutto sembra rientrato ormai nella placida routine della Mostra – fatta eccezione con l’ossessione securitaria (metal detector, poliziotti, camionette, eccetera), che, occorre dirlo, si fa sempre più forte di anno in anno, dando alla cittadella del festival l’aria di una piazzaforte in perenne attesa del nemico.

 

Per quanto riguarda la selezione, al contrario, si può dire con un certo margine di tranquillità che, nel corso delle ultime tre edizioni, non ha fatto altro che migliorare (d’altra parte, forse era difficile far peggio dell’edizione 2015, quando i film indimenticabili si contavano sulle dita di una mano). Sulla carta, il concorso veneziano di quest’anno è uno dei migliori da parecchio tempo a questa parte. La gestione Barbera, da sempre incline a un compromesso “virtuoso” fra esigenze di pubblico e mercato da una parte, e gusto cinephile dall’altra, tocca in questa edizione il suo vertice forse irripetibile. Lo dimostrano i film visti in questi primi giorni: Il primo uomo di Damien Chazelle, ospite ormai abituale della Mostra (proprio qui a Venezia, due anni fa, iniziò l’irresistibile ascesa del suo La La Land), biopic con tanto di star (Ryan Gosling), già pronto per l’uscita in sala (in Italia, il 31 ottobre); The Mountain di Rick Alverson, prodotto arthouse in quota indipendente, destinato a compiere il proprio ciclo vitale all’interno del circuito festivaliero. E ovviamente gli autori affermati, in grado di metter d’accordo il colto e l’inclita: Yorgos Lanthimos (premiato per la sceneggiatura alla Mostra del 2011) con il suo La Favorita, Alfonso Cuaron con Roma, i fratelli Coen con una versione per la sala della loro prima serie tv, The Ballad of Buster Scruggs, Mike Leigh con Peterloo. Tutti accomunati, sembrerebbe, da un unico tema di fondo: la Storia, riletta in chiave critica, demistificante o semplicemente intimista.

 

 

Prendiamo Lanthimos, ad esempio: la prima cosa che sorprende è il netto cambio di marcia a poco più di un anno dall’ultimo Il sacrificio del cervo sacro (presentato a Cannes nel 2017 e arrivato sugli schermi italiani all’inizio di questa estate). Davanti a La Favorita, si ha l’impressione che il regista abbia voluto compiere lo scatto di reni necessario per uscire dal cul-de-sac in cui gli ultimi film sembravano averlo confinato. Accettando di dirigere una sceneggiatura per una volta scritta da altri (Deborah Davis e Tony McNamara), Lanthimos (ri)trova un vigore inaspettato con una satira feroce e sopra le righe, dal sapore swiftiano – riferimento reso esplicito nel film – ambientata alla corte della malandata regina Anna (interpretata da Olivia Colman, a cavallo fra grottesco e tenerezza). La Favorita del titolo è la duchessa di Marlborough (Rachel Weisz, al suo secondo film con Lanthimos dopo The Lobster), che vede diminuire la propria influenza sulla sovrana diminuire poco a poco, a favore della cugina, la baronessa di Marsham (Emma Stone). Sullo sfondo, la Guerra di successione spagnola e gli scontri fra i Tories, rappresentanti dell’aristocrazia fondiaria, e i Whigs, che curano gli interessi della borghesia mercantile. Con il consueto gusto per le geometrie (narrative e non), tra un ralenti e una ripresa grandangolare, Lanthimos mette in scena un secolo dei lumi come raramente si era visto su grande schermo, fra corruttele e ricatti, raffinatezze ostentate e crudeltà inaudite (il tiro al piccione accostato a una festa da ballo), in cui l’unico modo per non lasciarsi manovrare è manovrare qualcun altro, e basta il capriccio momentaneo di un potente per rovinare decenni di rispettabile carriera. In questo, che è il suo film più esplicitamente politico, Lanthimos sembra guardare la nascita dei regimi parlamentari euro-occidentali con l’occhio disincantato e un po’ perfido di chi viene da molto lontano – e non è escluso che, nella sua polemica acuminata, La Favorita non parli piuttosto dell’Europa di oggi.

 

Sempre in Inghilterra, ma stavolta un secolo più tardi, è ambientato Peterloo di Mike Leigh, che affronta con piglio quasi didattico un episodio che è stato definito “uno dei più sanguinosi della Storia inglese”: il massacro di St. Peter’s Field, nei pressi di Manchester, avvenuto il 19 agosto del 1819, quando la cavalleria dell’esercito britannico, nel disperdere una folla che chiedeva – disarmata e pacifica – l’allargamento del suffragio elettorale, uccise una quindicina di persone e ne ferì oltre 700. Una vera e propria Waterloo per il nascente movimento radicale inglese (e Peterloo è appunto il nome con cui venne da subito ribattezzata dalla stampa dell'epoca, facendo il verso all’allora recentissima vittoria su Napoleone), cui il film di Leigh arriva piano piano (il film dura due ore e mezza), delineando con precisione quasi filologica nomi, discorsi pubblici, accenti, servendosi di un cast affollatissimo in cui nessuna faccia è sbagliata (e c’è di che restare stupiti e ammirati, davanti a un complesso di interpreti così di alto livello, dai protagonisti ai personaggi di secondo e terzo piano) e di una fotografia che si rifà ai toni della pittura sociale sette-ottocentesca, da Hogarth a Daumier a Courbet (d’altra parte, Leigh aveva ampiamente dimostrato il proprio gusto pittorico nel precedente Turner, dedicato al maestro inglese). Anche in questo caso, e con tutto che il film sia stato prodotto da Amazon, non c’è bisogno di sottolineare le analogie con l’oggi, dopo lo smantellamento progressivo del Welfare ad opera di tatcheristi e blairisti, e con lo spettro della Brexit a tenere compagnia.

 

Alfonso Cuaron e Yalitza Aparicio sul set di “Roma”.


Ugualmente calato nella Storia – gli anni Settanta del XX secolo – è il film di Cuaron, Roma, che arriva a cinque anni di distanza dal bellissimo e virtuosistico Gravity (che ebbe peraltro la sua “prima” proprio qui a Venezia, nel 2013). Narrata dal punto di vista di Cleo (Yalitza Aparicio), cameriera india presso una famiglia della borghesia benestante di Città del Messico, la saga storico-affettiva di Cuaron abbraccia pubblico (la strage di Corpus Christi ad opera del gruppo paramilitare Los Halcones; gli echi dell’Operazione Condor) e privato, rispecchiandoli l’uno nell’altro con un passo ampio e quasi meditativo, che parte da una narrazione quasi rapsodica, a piccoli quadri staccati, per approdare nella seconda parte a un vero e proprio respiro romanzesco, che culmina nei due lunghi piani sequenza del parto di Cleo e del salvataggio dei bambini sulla spiaggia di Vera Cruz. Cuaron sembra guardare al cinema europeo degli anni Sessanta, in particolare al “superspettacolo d’autore” felliniano: e in effetti, a cominciare dal titolo (che peraltro indica un quartiere della capitale messicana), il regista riminese è un po’ l’affettuoso convitato di pietra del film, con citazioni più o meno esplicite da 8 ½ (la scena dell’ingorgo) e La dolce vita (la già citata scena in spiaggia, ma anche la scelta del formato panoramico, da kolossal intimista). Assolutamente personale, invece, è la regia di Cuaron, che fa della panoramica (circolare e semicircolare) il fulcro stilistico del film, dimostrando un controllo nell’uso della macchina da presa che potrebbe avere pochi rivali nel concorso di quest’anno.

 

Per continuare sul filo della narrazione storica, anche The Ballad of Buster Scruggs di Joel e Ethan Coen è, a suo modo, un confronto con quello che André Bazin definiva il genere americano per antonomasia – e dunque con la Storia americana tout-court. Da qualche tempo, i Coen si stanno accostando con frequenza sempre maggiore al western (il crepuscolare e pessimista Non è un Paese per vecchi, tratto da Cormac McCarthy, e il più classico – ma non meno crudo – Il Grinta). Più che all’epos fordiano o allo spaghetti-western, i Coen – che, come ricordava un loro grande esegeta, Vincenzo Buccheri, sono due “scrittori in pectore” (e non solo, se qualcuno ricorda i racconti di Ethan Coen pubblicati anche in Italia da Einaudi, col titolo I cancelli dell’Eden) – aggirano il confronto con la tradizione andando direttamente alle radici, letterarie o para-letterarie, del western. A parte il primo episodio – in cui si riprende, ibridandolo con la tall tale e il cartoon, il filone dei cowboy canterini alla Gene Autry – The Ballad of Buster Scruggs (che, sia detto a scanso di equivoci, è una piacevole vacanza, puro piacere del racconto) è allora una vera e propria suite di short stories nella migliore tradizione statunitense: un piccolo “esamerone” in cui il lettore-spettatore più accorto può agevolmente rintracciare echi da Jack London, Ambrose Bierce, O.Henry. Certo, viene da malignare che, senza il nome dei Coen, le serie tv non sarebbero mai approdate in concorso…

 

 

Gli sguardi sul passato non sono una novità al Lido, sia che si tratti della riproposizione di classici amati dal pubblico (la sezione Venezia Classici, forse quest’anno meno affollata del solito), sia che si tratti, come nella Mostra di due anni fa, di ricalchi fra il cinefilo e il vintage di generi e film del passato. Forse è un riflesso incondizionato di questi tempi, bloccati fra un presente che preoccupa e un futuro che atterrisce, e che ci spingono sempre più spesso a cercare le risposte nel passato. In questa 75esima edizione della Mostra veneziana, tuttavia, il cortocircuito fra passato e futuro, almeno a livello cinematografico, si è palesato in modo lampante.

Il film di Cuaron e la serie televisiva dei Coen (oltre alla miniserie Sulla mia pelle, dedicata al delitto Cucchi e presentata nella sezione collaterale “Orizzonti”) sono infatti produzioni Netflix. È nota la polemica che ha opposto, durante le ultime edizioni del festival di Cannes, la piattaforma on demand agli esercenti d’Oltralpe, col risultato che nessun film targato Netflix è stato presentato in concorso sulla Croisette. La Francia chiude, l’Italia apre, avranno pensato in laguna: e la selezione della Mostra di quest’anno ha proprio l’aria di voler essere prima di tutto una risposta di Barbera al suo omologo transalpino Frémaux. Certo, una scelta fatta in nome della revanche nazionale rischia di non tenere conto degli elementi più deboli della filiera cinematografica, per i quali l’invadenza della piattaforma statunitense costituisce una vera e propria “concorrenza sleale” a livello distributivo; e schermarsi, come ha fatto il direttore artistico della Mostra, dietro un pilatesco “è un problema che riguarda il mercato, la distribuzione e l’esercizio” non sembra il modo migliore per affrontare “criticamente” la questione.

 

Non va dimenticato, fra l’altro, il vero “colpaccio” messo a segno da Netflix quest’anno, ovvero la ricostruzione e la distribuzione di The Other Side of The Wind di Orson Welles, uno dei “Sacri Graal” della cinefilia degli ultimi quarant’anni. Avremo il tempo di tornarci in seguito, quando il film sarà disponibile su Netflix (è già stata annunciata la data: 2 novembre 2018), ma si potrebbe dire fin d’ora che il film di Welles, giunto con una forza e un’energia espressiva incredibili a dispetto dei quasi cinquant’anni che lo separano da noi, delle inevitabili interpolazioni e della scomparsa di buona parte del cast e della crew (oltre che del regista stesso), sembra proprio il film venuto dal passato per parlarci del presente: una realtà totalmente mediatizzata in cui le immagini non rimandano ad altro che a se stesse e in cui gli individui parlano e agiscono come se fossero costantemente sotto l’occhio vigile di una telecamera – che appartenga a uno smartphone o a una cinepresa a 16mm poco importa, in fondo. “Il cinema è un oggetto morto, come un libro; e, come un libro, è allo stesso tempo sempre vivo”, spiegava Welles a Peter Bogdanovich (che di questo tentativo di ricostruzione di The Other Side è stato il mallevadore): non si può dire che la Storia non gli abbia dato ragione.

 

È ironico (e forse Welles avrebbe apprezzato l’ironia) che il recupero di questo inestimabile reperto del recente passato sia stato reso possibile dall’attore più innovativo dell’attuale panorama mediale. Un’ironia che, se da un lato sembra essere la risposta migliore a qualunque misoneismo, dall’altro spinge a riflettere se questa possibilità di disporre di tutto a un prezzo modico (o addirittura gratuitamente, come regolarmente accade nel web) costituisca davvero un accrescimento del comune patrimonio di conoscenza. Parafrasando uno dei personaggi di Double vies, il non memorabile film di Olivier Assayas appena presentato in concorso: Netflix ha messo a disposizione di ognuno di noi la memoria del cinema, o l’ha soltanto presa in ostaggio? 

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Venezia 75
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Il monaco Gaudí

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Il monaco Gaudí vive nel cuore di Barcellona, a Parc Güell. Mi è presto chiaro che ho scelto il periodo peggiore dell’anno per rendergli omaggio. Da quando Barcellona non è più una città, ma una marca, la solcano torme di turisti mezzi nudi, con la musica sparata da casse bluetooth, sudati e famelici di vedere i luoghi-che-devono-essere-visitati. Sembrano perennemente in cerca di luoghi da sbranare e divorare. Quei luoghi puntualmente coincidono con i consigli delle guide turistiche in tutte le lingue del mondo.

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Gianikian-Ricci Lucchi: noi due cineasti

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Nel film, tutto parte nel 1975. È l'anno in cui si conoscono. Angela aveva appena filmato una cerimonia paesana in otto millimetri. Il loro incontro è un colpo di fulmine (deve essere stato così). Tanto che viene suggellato da una specie di patto (almeno così io lo immagino). Yervant inserisce in sovrimpressione alcune immagini sulla pellicola filmata da Angela. Mentre le inquadrature del film scorrono sullo schermo, la sua voce off ricorda il loro incontro (o la voce è quella di Yervant?) e la storia delle sovrimpressioni. Il titolo di questo primo film lo riprendono da Pound, Erat-Sora (così lo descrivono, nel catalogo curato da Sergio Toffetti: «Nel mese di maggio l'aria è profumata di rosa. Nelle campagne si prega la madonna di Fatima, di Lourdes, di Pompei. Mutamenti, trasformazioni, miracoli, danze mistiche, roseti»). La meccanica delle cineprese amatoriali permette di riavvolgere la pellicola filmata, quando ancora si trova nel caricatore. Permette di rifilmarla, aggiungendo strati di immagini. Dunque, un accorgimento tecnico suggella la nascita di una relazione amorosa e insieme artistica.

 

Noi due cineasti, come dice la seconda parte del titolo. Due in una sola striscia di pellicola: sovrimpressi. Restano i diari di Angela, la prima parte del titolo, che di questo film miracoloso, tenero, a volte buffo, commovente, sono le fondamenta. Sì. I diari di Angela Noi due cineasti. Non è un titolo perfetto? Riassume con nitidezza ciò che vediamo scorrere per più di due ore. Così, due mani aprono un quaderno. E dal 1975 facciamo un salto. Ci ritroviamo nel 2012. Una voce (quella di Yervant) legge alcuni passi. Riguardano la grande mostra tenutasi presso l'Hangar Bicocca. Un vero evento. Angela la definisce "bellissima". C'è fierezza nelle parole. Finalmente, dopo decenni di lavoro indefesso, anche l'Italia si è ricordata di loro. Quella mostra che raccoglie l'insieme delle loro installazioni, i rotoli dipinti da Angela, è una specie di risarcimento per tutti gli anni in cui il loro nome era sulla bocca di tutti all'estero, ma ignorato qui nel nostro paese. E li vediamo in penombra, passeggiare tra gli schermi in una specie di flânerie, mentre Dominique Païni (uno dei primi ad aver intuito l'importanza del loro lavoro) li filma. Angela cammina tra le opere. Sul fondo vediamo le "torri" di Kiefer. Il buio è interrotto dai colori esplosivi delle installazioni. Giallo rosa acceso. E i volti rallentati.

 

I gesti. Tutto sembra finalmente al suo posto. Come doveva essere. Quella mostra è un altro sigillo che, seppur tardivo, prende atto dell'importanza del loro lavoro. Il loro lavoro di artisti. Le pellicole ormai mangiate dalla decomposizione, analizzate; ogni fotogramma osservato con una lente d'ingrandimento, amplificato, descritto in taccuini (da Yervant) e poi ri-filmato, per rendere giustizia alla "Storia", a quella del secolo che ci siamo lasciati alle spalle. Secolo di violenze che continuano ancora oggi. Per fare questo, è necessario collezionare, immagazzinare bobine, fotografie, giocattoli, riempiendo pagine fitte di inchiostro, leggendo libri, informandosi con precisione. È quello che hanno fatto per una vita intera: sporcarsi le mani tra immagini efferate, formati ormai desueti, materiali evanescenti simili a rovine, da cui emana una puzza pestilenziale, pagine altrettanto violente, che inneggiano alla supremazia della razza, con un linguaggio pomposo, retorico, stomachevolmente lirico. Il loro lavoro, furioso, incessante, libero da restrizioni e censure, fieramente indipendente, sta invece all'opposto di tutto questo. Clinico, inesorabile fino a far male. Risponde a quei metri di pellicola e a quelle pagine pompose con un secco: «sappiamo chi siete in realtà, non ci fregate con le vostre balle: noi non dimentichiamo, guardate cos'avete combinato». E cosa state combinando ancora oggi.

 

 

Quelle immagini terribili, mangiate, dissolte chimicamente, riverberano, illuminano il nostro presente. I loro film, le loro installazioni nascono da quell'archivio feroce, incandescente. Ma c'è un altro archivio che è andato a formarsi nel tempo. Quello delle immagini che loro stessi hanno filmato. Ed è a partire da questo secondo archivio che I diari di Angela Noi due cineasti è composto. Da questo archivio ormai enorme, Yervant Gianikian ha selezionato alcuni momenti: i viaggi in direzione Est: Turchia, Armenia, Russia, ex-Yugoslavia. Sono viaggi legati ovviamente ai loro film. Viaggi in Russia per quel progetto infinito sugli artisti, scrittori, cineasti sopravvissuti alle violenze staliniane, che ha visto luce lo scorso anno a Documenta 14. Un lavoro che parte dal 1989, anno del loro primo viaggio in Russia (ce ne sarà un secondo l'anno dopo). I viaggi in Turchia e Armenia sono invece legati al terribile massacro che i turchi hanno commesso nei confronti degli armeni.

 

Il loro Uomini Anni Vita e Ritorno a Khodorciur Diario Armeno, parlano di questo. Anche i viaggi nella ex-Yugoslavia per presentare i loro film (ad esempio Inventario balcanico) sono l'occasione per testare con mano i danni ingenti e la distruzione, lo stato di catastrofe causato dal conflitto. Qui in una ripresa in albergo, Angela riflette a voce alta. Bisogna capire – dice – da dove arriva tutto questo. Come in un'anamnesi medica. Risalire ai motivi. Non ai sintomi. Per scongiurare altre guerre. Pare che non ci siamo ancora arrivati. E forse non ci arriveremo mai.  

A questi materiali (il viaggio armeno conta la presenza di un loro caro amico, Walter Chiari: presenza magnetica, unica, colta nella quotidianità di un viaggio; eppure, che verve, e che capacità di sorprendere con un gesto, una maschera con cui giocare, scherzare...) se ne aggiungono altri, più intimi. Ad esempio le riprese nella loro casa in campagna. Angela che cucina dolci. La cura dell'orto. La presenza di Laura, la vicina novantottenne. Il processo per fare il vino. La legna tagliata.

 

Le pellicole sbobinate. L'attenzione alla loro condizione fisico-chimica. La loro vita si fonde con il loro lavoro. Ci sono momenti davvero intensi. Le riprese "rubate" in Turchia a cui Yervant aggiunge qui la voce registrata del padre, scampato al massacro turco. E il luogo che stanno filmando è proprio quello, tanti anni dopo. Si crea così una strana vertigine temporale. L'inquadratura sghemba, un po' sfocata, traballante e la voce, il testo, i ricordi di un uomo che ci riporta indietro nel tempo, a un campo di grano pieno di cadaveri senza testa, ceppi di alberi usati come base per ghigliottinare uomini, il campo che diventa un cimitero (i turchi obbligano i superstiti a scavare buche di un metro per seppellirli). Ma del viaggio in Turchia, ci sono anche i momenti in nave. Angela giovanissima (sono riprese del 1978) in posa, o coi capelli lunghi, bagnati. E Yervant coi capelli neri, occhiali scuri (filmato da Angela). E la Volkswagen targata Ravenna, da dove sono partiti. È solo uno dei tanti esempi che potremmo fare. 

 

E il film? Ci sono mani che sfogliano pagine di quaderni, fitte di scrittura, a cui si aggiungono schizzi veloci, dettagli, specie di aide-mémoire: ciò che di certo aveva colpito l'attenzione di Angela. E mentre le pagine scorrono, sul vertice della loro parabola perdono il fuoco. Poi lo ritrovano. Scelta la pagina giusta, una voce (quella di Yervant) legge alcune righe. Giusto il tempo di ritrovarci immersi in ciò che quel testo aveva trattenuto. Insomma, qualcuno scrive e un altro filma. Questo è l'aspetto più sorprendente. C'è una specie di telepatia, o di simbiosi tra loro due. Lo scritto, ciò che Angela ricorda è ciò che spesso ritroviamo filmato da Yervant. A volte è Angela che indirizza Yervant su un dettaglio, come il melo cotogno sopravvissuto tra le macerie al confine bosniaco. Ma è incredibile quanto il testo di Angela e le inquadrature di Yervant finiscano per sembrare vasi comunicanti. Tanto che per un istante sembra che le riprese siano una materializzazione-visualizzazione del testo scritto (viene prima il diario? la ripresa? cosa vedere Yervant mentre filma?). Insomma, cosa fa Yervant mentre filma, e Angela mentre scrive o schizza figure? Registrano entrambi a modo loro "cose viste".

 

Il gatto Miska in Russia, ad esempio. Scontroso, si struscia su Angela, accoccolandosi, meravigliando l'arcigna padrona degli archivi filmici a Mosca. Totalmente conquistata, aprirà immediatamente loro gli archivi, stampando anche bobine che i due porteranno in Italia. E viene in mente una cosa stramba: che nel film la ripresa funga da visualizzazione dei ricordi scritti da Angela nei suoi diari, come in una specie di immersione flashback. E viene in mente anche che ci deve essere una sorta di testardaggine nel filmare ogni cosa, ogni istante. Cambiano i formati, ma qualcuno filma sempre. E questo aspetto, questa specie di abitudine crea meravigliosi siparietti tra i due. Angela che si mette in posa, scherza con Yervant. O le candele in campagna, la sera. Le finestre. I tramonti. Oppure Angela che rompe male l'uovo e rimbrotta amorevolmente Yervant per averla disturbata. L'occhio della cinepresa, della videocamera registra tutto. E deve essere stato sorprendente rivedere tutti questi materiali, sepolti in archivio, forse dimenticati. Improvvisamente riemersi. 

 

E scorrono così immagini, acquerelli: i volti dei russi schizzati da Angela. Il ricordo dell'incidente terribile capitato a Yervant nel 2014, quando a causa di una vecchia bobina nitrato esplosa è diventato una specie di torcia umana. Qui, la voce di Angela rotta dall'emozione, con un groppo in gola, commenta gli acquerelli: vediamo occhi spalancati, fiamme, rosso acceso ovunque. Dai primi soccorsi, al coma, i deliri, gli strati di unguenti, e poi la convalescenza, fino al premio che vincono alla Biennale Arte, con Ritorno a Khodorciur – Diario Armeno, e Angela scrive, commenta: «posso finalmente scoppiare a piangere». E vediamo Angela a San Lazzaro degli Armeni, nel corridoio, scherzare, ridere. Loro due con il Leone d'oro – Yervant con la mano sinistra ancora avvolta nelle bende. 

 

Le immagini e i testi scorrono ma il tempo quasi si annulla. Così arriviamo al 2016. A una pagina che è chiamata da Angela "cronaca". Il tempo è prezioso, dice. L'ultima parte del film è la più toccante. La più intima. I malanni fanno la loro comparsa. Angela, con la gamba ingessata su una carrozzina, osserva un film in moviola. E poi la tavola da pranzo. Le candele. Piccoli rituali. Filmare. Amare. Lavorare. Vivere. Deve essere la cosa più bella che possa capitare a qualcuno. E poi, in fondo, Angela ancora in campagna, nell'orto. Controlla le verdure. Raccoglie pomodori in un cesto. In un braccio tiene una stampella. Ma il cesto è troppo pesante. I pomodori mangiati da insetti. Yervant continua a filmare, ma allunga l'altra mano: prende il cesto. «I pomodori dell'ultima stagione» dice Angela. E mentre la vediamo camminare in un passaggio dell'orto, una specie di stacco-dissolvenza ce la mostra mentre corre, in una stretta calle veneziana, con la laguna sul fondo. E la vediamo mentre impugna macchine fotografiche usa e getta. Ovunque. E cosa fa? Fotografa Yervant. Lui la filma, lei lo fotografa. Non sono più sovrimpressi, come nel primo film del 1975, eppure, io non ho mai visto in vita mia tanta prossimità, tanta comprensione, condivisione. Deve essere questa l'impressione che I diari di Angela Noi due cineasti ha fatto anche agli spettatori in sala, durante la proiezione ufficiale al 75° festival di Venezia. Un applauso infinito ha allentato la commozione. 

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A Roncisvalle con Mimmo Cuticchio e Orlando paladino

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Carissimi, poiché mi avete chiesto: ma cosa avete fatto a Roncisvalle, eccovi un sunto.

 

Alti, immensi, boscosi, pieni di d’acqua, gole profonde, pendii dolci, fiumi e torrenti spettacolosi sono i Pirenei. Là, appena dentro la Spagna, nel paese basco, a 1.000 metri d’altezza, c’è Roncisvalle. In basco si chiama Orreaga – che vuol dire, come Roncisvalle, la spinosa, la piena di brughi.

A dicembre dell’anno passato ecco che vengono a trovarmi Mimmo Cuticchio ed Elisa sua sposa. Erano a Firenze per quello spettacolo con Virgilio Sieni. A pranzo (dal burattinaio Jellinek, alla Sinagoga) mi hanno esposto l’idea: un’azione in tre tempi, a Palermo La macchina dei sogni, a Roma dal papa per fargli Tancredi e Clorinda coi pupi, a Roncisvalle per fare il cunto là dove la leggenda dice essere morto Orlando. Vieni?

Sì che vengo.

E sul tovagliolo di carta gialla abbiamo buttato giù schizzi e idee, ed Elisa ha detto quella frase meravigliosa di Totò nelle Nuvole di Pasolini: La straziante meravigliosa bellezza del creato. Il titolo per la trilogia e per i giorni lassù.

Negli schizzi sul tovagliolo c’era anche scritto: da Roma ai Pirenei per nave, con veliero. 

E sogna e sogna, passano i mesi, so che Mimmo ed Elisa e i loro guerrieri sono roccia e acciaio, so che non mollano – ed ecco che a maggio mi chiamano da Roncisvalle – e mi mandano le foto di loro due sul sentiero che dall’abbazia porta a Ibañeta – così si chiama il passo della battaglia – e Mimmo là in fondo sembra Carlo Magno.

Dunque si può fare, si farà, hanno studiato il terreno, visto dove si può dormire – e soprattutto capito che da Saint-Jean Pied-de-Port si può salire a piedi fin lassù per il sentiero storico dei pellegrini. Diciotto chilometri.

 

Mimmo Cuticchio tra i suoi pupi.


Passa un po’ di tempo e mi arriva il programma: io sarò uno dei dodici Pari – Orlando, Oliviero, Ivo, Ivano, Gerino, Geriero… – dodici, come gli apostoli. La Chansonè tutta costruita sulla forma della Passione. Se Mimmo è Orlando io sarò Oliviero.

Come sapete c’è stata La macchina dei sogni (da 35 anni si fa: stavolta aperta dal poema sinfonico La creazione di Giacomo Cuticchio, per 32 strumenti); e c’è stato l’incontro con papa Francesco (dolcissimo, mi dice Elisa: gli hanno fatto san Francesco pupo).  

Ed eccoci – è il 26 luglio 2018 – verso Roncisvalle – la compagnia e alcuni dei pari arrivano a Tolosa in aereo da Palermo, io da Venezia con l’aiuto alla guida della mia sposa, attraverso Pau, Orthez e montagna, montagna, montagna.

Fantastici, sono i Pirenei – in quei giorni abitati dal Tour – lucenti e tempestosi – le alte cime sono innevate – nella conca di Gavarny l’angelo vigilessa ci mostra la brèchede Roland sul crinale altissimo, ci passa il sentiero più antico, e ci salva ricaricandoci la batteria della macchina – in cambio le do il santino taumaturgico de L’azione perfetta. Là Victor Hugo ha avuto la visione delle rocce immense come “emanazione del misterioso architetto”. 

Che incanto le gorges e le bestie, tutto è ben tenuto, intensa l’agricoltura, ovunque mucche, pecore, capre, cavalli – la luce, le nebbie, le grotte suggeriscono visioni. Qui i pastorelli e le pastorelle hanno spesso visto Madonne, cavalieri e angeli – e ora campioni ciclisti super veloci e dopati.

 

Sui sentieri di Roncisvalle.


Ed eccoli i cavalieri del teatro: li troviamo in piazza del mercato vecchio a Saint-Jean: hanno montato sei praticabili e il palco per i pupi – Pulcinella/Bruno Leone conduce di palchetto in palchetto, di mansion in mansion, per due ore raccontano, imboniscono, duellano – i Pari aspetteranno lassù, a Roncisvalle, domani sera. Oggi ho voluto stare con tutti – essere in compagnia. Loro dormiranno (male) in un ostello – noi cercheremo qualcosa su per i monti. Mimmo mi ha detto: Non occorre che tu venga, hai camminato tanto nella tua vita. Sì, li aspetterò domani sera: con una sorpresa. Mi sono preparato.

Viene il giorno dopo e loro partono alle 7 – e ogni tanto nel luogo Roncisvalle riceviamo notizie – il giorno è di sole, limpido, fresco dopo il grigio afoso di ieri. Andiamo a esplorare il sentiero – i luoghi da cui passeranno – frequenti sono i pellegrini – bianchi, neri, gialli, misti. E mi viene in mente di quando con Paolo Pierazzini (ora tutto preso dal mondo di Alzheimer) abbiamo ideato il primo trekking nella Valle Benedetta (1988), lungo l’acquedotto del Poccianti sopra Livorno, narrando e suonando Teatro con bosco e animali fino al calar della sera.

Passano le ore – viene pomeriggio – viene sera: ecco, stanno arrivando. Metto al vento il mio stendardo, la sorpresa (c’è il disegno del Teatro Vagante che sogna la battaglia di Roncisvalle), arrivano, eccoli: non se l’aspettavano, sento l’emozione, mia e di loro, gli occhi stupiti nel congiungimento. Di colpo capisco che il teatro è anche e forse soprattutto questo: un congiungimento di occhi e corpi in cammino sorpresi dall’apparizione.

 

Il Teatro Vagante e la battaglia di Roncisvalle.


Il giorno dopo piove – Roncisvalle è spesso fra le nuvole spinte dal vento del Nord e d’inverno ha metri e metri di neve – i muri sono potenti – i tetti qualche volta crollano per il peso. Stiamo, il 28, nella Collegiata – l’antica sala dove i pellegrini si ristoravano e dormivano. Stiamo a contarcela – il sacerdote che parla della luce, l’agronomo, l’archeologo del mare, la scrittrice che parla del tradimento, l’astronoma che a notte ci mostra Altaìr, il giornalista che ricorda don Milani, e i racconti degli allievi di Mimmo – i Pari e i non Pari – ci sono momenti altissimi, di emozione incontenuta, come quando Beatrice Monroy e Giuseppe Barbera correggono il racconto appassionato ma un po’ mitizzante di una giovane e ricordano come era veramente Peppino Impastato – loro compagno di militanza – e come, appena giunta la notizia dell’assassinio, tutto il movimento studentesco si riversò a Cinisi, 9 giugno 1978 – e qualcuno dice: vogliamo diventare diversi, qui, a Roncisvalle. Cuticchio guida, introduce, commenta. A sera con Bruno Leone lo ascolto mostrare ai giovani allievi le tracce di Orlando su per i muri, i bassorilievi, le sculture, l’ossario con le reliquie dei Paladini (ma è tutta inventata la Chanson– lo sai bene – qui non c’è nessun Paladino: e qui è emozionante credere che sia tutta vera). 

 

Mimmo Cuticchio e il cantastorie di Roncisvalle.


Il giorno dopo c’è il sole – si può uscire per strada. Roncisvalle è un luogo come Camaldoli, non c’è paese: ma i pellegrini si fermano, e i turisti: guardano Pulcinella che fa la farsa contro la guerra accanto all’ossario (ormai Bruno fa musica astratta, perfetta, con le sue guarattelle): guardano i pupi che suonano di spade e amore, con Angelica che fugge. Le armature si illuminano di bagliori di sole. È alta poesia – c’è voglia di gridare Mongioia.

Ed ecco che viene il pomeriggio – l’ora della salita. Arriva la nebbia, col vento. Di stazione in stazione, perfetta drammaturgia dello spazio – Mimmo guida il racconto e il cammino. Ha la spada. Si sale – la foresta è di faggi, querce, nocciòli – i capelli si bagnano di nuvole – uno dei pari, addossato alla schiena gotica della chiesa, tiene la sua breve lezione magistrale – ha paura, si vede, in mezzo a tanti narratori – ma se la cava – “magistralmente”. Per ogni passaggio del racconto – per ogni intervento è ben scelto il luogo, la nicchia teatro. È un crescendo di stazione in stazione – il salire della Passione – Mimmo porta con sé il pupo Orlando con la fascia tricolore – dopo 1200 anni torna a Roncisvalle. Da Palermo a Roncisvalle.

 

Il suono del corno.


Adesso, nella nebbia sempre più fitta, attenti a non perderci di vista, Mimmo Cuticchio – nato a Gela fra i pupi durante una delle tournée di suo padre – realizza il sogno di raccontare la morte di Orlando nel luogo tante volte nominato e mai visitato.

È quasi notte quando arriviamo al sasso – e qui, finito il cunto con dolcezza e potenza Mimmo corifeo chiude: Signori miei…

E tutti si fanno le foto – e tre telecamere riprendono tutto (Rai 3, Tv 3, Università di Roma) – nulla di questi giorni è sfuggito alle registrazioni. Sento adesso con più certezza che questa salita è un atto teatrale potente che viene da lontano – forse da quell’agguato del 15 agosto 778. So che intorno ci sono gli arcangeli – san Michele, san Gabriele – e anche il Diavolo e il suo Angelo. So che piano piano in tanti anni l’abbiamo spalancato il teatro – forse l’abbiamo innamorato delle sue origini – del suo futuro. La rete ci avvolge, nessuno vuole restarne fuori – forse non può: ma qui in nuvole e notte ci siamo noi coi nostri corpi infreddoliti e bagnati – innamorati d’amicizia. Vorrei nominarli tutti i 58 saliti qui da tutta Italia – ma li trovate nel programma. Ognuno, se lo incontrate, vi potrà fare il suo racconto del dramma.

Alla sera del 29, dopo la cena, c’è una specie di assemblea affettuosa: c’è emozione, commozione. Una giovane donna di pelle color del rame, narratrice – ha una figlia di tre anni il cui nome è Guadalupe – sollecitata dice: Io sono argentina, ma il mio popolo è Quechua, anzi, Chico, ma i Quechua ci hanno cancellati: però mia nonna era greca e mio padre croato: adesso ho sposato un italiano. Cosa sono? Com’è luminosa, meravigliosa – forse tutti pensiamo: Eccola l’umanità futura. Ogni tanto Tania – scenografa, disegnatrice, manovratrice – grida Mongioia! – e tutti gridiamo: Mongioia!

 

Racconto.


Si fa omaggio a Mimmo che compie 70 anni: è anche per il suo compleanno questo viaggio del teatro e del racconto: per la sua grandezza di maestro artigiano, costruttore di pupi, narratore e poeta. 

Sulla pietra di Orlando mi sono trovato accanto a lui – e mi ha dato la spada. Poi ha detto: Giuliano ha scritto un bellissimo testo di Roncisvalle (l’ho fatto per ben tre volte nella Macchina dei sogni): lui con la penna, io con la spada, ha detto. E viceversa, ha detto.

E allora ho detto: Stanotte, a mezzanotte, farò qui la Tragedia di Roncisvalle con bestie per la mia sposa. Solo per lei.

Perché la mia sposa, prima di partire, mi aveva detto: Voglio che a Roncisvalle tu me la legga.

E io avevo detto di sì.

Non ho fatto la recita a mezzanotte – ma il giorno dopo sì, a mezzogiorno in punto, nel sole, quando ormai tutti erano partiti.

Era un rito interno.

E un rito interno è stato quando – mentre la compagnia stava salendo sul pullman – e non c’erano più telecamere – sono apparso con lo stendardo del Teatro Vagante – e subito mi è corso incontro Bruno Leone che aveva capito. Metto la pivetta? – ha detto.

Sì, – ho detto. – Perché adesso tutti piangeranno.

E infatti piangevano.

Ma io muovendo la bocca con Bruno dietro che pivettava ho cercato di far passare il pianto.

E sono rimasto lì fin che sono partiti – con un segreto che un giorno vi rivelerò.

Carissimi, che felicità, che onore essere stato dentro la gran salita di Mimmo, di Orlando, di Elisa strepitosa drammaturga dell’organizzazione, di Nino Cuticchio manovratore intenso, di Giacomo musico e puparo, di Marcello d’Agostino tecnico perfetto, di Tania Giordano e di tutti quelli scritti nel programma, a futura memoria, a Roncisvalle, luglio 2018. Sì, è stato un grande onore, un sogno.

Salve

 

Giuliano 

 

Il viaggio di Mimmo Cuticchio a Roncisvalle, accompagnato da vari artisti e narratori e da dodici “pari”, studiosi, intellettuali, poeti, faceva parte della trentacinquesima edizione del festival La macchina dei sogni, concepito e realizzato dall’Associazione figli d’arte Cuticchio. Quest’anno la rassegna si è articolata in tre momenti: il festival a Palermo, dall’8 al 10 giugno nel monastero e chiesa di S. Caterina d’Alessandria; in una visita al papa in Vaticano, il 27 giugno; in quattro giornate di racconti, incontri, pellegrinaggi e spettacoli nei luoghi dove si narra avvenne la rotta di Orlando e dei Paladini di Francia. Il programma completo e i nomi dei partecipanti si possono leggere in questo link.

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Jon McGregor, Bacino 13

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“Si trovarono al parcheggio un’ora prima dell’alba e aspettarono che qualcuno gli dicesse cosa fare. Faceva freddo e si parlò poco. Certe domande restarono non dette. La ragazzina scomparsa si chiamava Rebecca Shaw. L’ultima volta che l’avevano vista portava una felpa bianca con il cappuccio. Sulla brughiera aleggiava una foschia bassa e il terreno era indurito dal gelo.” 

Così inizia, come un thriller, Bacino 13 (trad. it Ada Arduini, Guanda, 2018), notevole quarto libro del quarantunenne inglese, ma nativo delle Bermuda, Jon McGregor, accolto benisssimo in patria da critica e pubblico come i precedenti. Il romanzo, diviso in 13 capitoli, uno per ciascun anno successivo alla scomparsa della ragazza avvenuta durante una passeggiata con i genitori, narra la vita della comunità che abita nel paese immerso nelle brughiere di un distretto di bacini idrici e cave, dove Rebecca era ospite per le vacanze natalizie.

 

La scomparsa, con le indagini che si protraggono per anni, fa da esile filo conduttore all’interno di una composizione strutturata come un’elaborata partitura musicale; o piuttosto costituisce la linea melodica che ritorna nelle improvvisazioni dei solisti jazzisti, che nelle jam session la sviluppano e lasciano e variano fino alla ripresa complessiva finale, che però chissà se ci sarà o meno qui, in questa storia che del thriller mantiene qualche parvenza anche se talora sembra spostarla sull’indagine della realtà, del suo mistero, più che su quello relativo a Rebecca. Accanto a questo motivo, la cui incidenza decresce con il passare degli anni, si dispone tutta una serie di temi, grappoli di accordi, accenni di ritornelli, linee di fuga, che ricorrono essi pure in ogni capitolo ma ogni volta con un rilievo e in combinazioni differenti. È facile azzardare che McGregor, come Perec e altri autori amanti dei vincoli da essi stessi creati, aveva un elenco di voci che spuntava a ogni ricorrenza per capitolo, a scandire il decorso temporale, le stagioni, la vita della natura e quella sociale e religiosa della comunità.

 

 

Queste voci, numerose e all’apparenza eterogenee, riguardano il paesaggio, l’erica, il bosco, le volpi, i pipistrelli, le farfalle, le poiane, le rondini, le greggi, le mandrie di mucche, il torrente, il ponte e le briglie di consolidamento, i consigli parrocchiali, l’organizzazione delle feste, la scuola, gli orti comuni, le esplosioni nelle cave, gli insetti, le felci, i pesci, i reciproci rapporti e le storie dei vari personaggi che ogni tanto si espandono in piccoli episodi, mentre di solito sono accennate e tenute vive solo da una o poche frasi, ma in modo da costruire pian piano nella mente del lettore un’immagine solida della comunità nello scorrere del tempo, pur composta di mattoncini in apparenza slegati e autosufficienti.

Le storie della famiglia Jackson e degli altri personaggi, Les Thompson, la reverenda Hughes, il macellaio e la moglie che lo lascia, il direttore del giornale locale e la moglie cinese che lavora (fino al licenziamento) per la BBC, famigliari con problemi di ogni genere, disadattati e malati, le unioni solide e quelle effimere, i ragazzi che crescono, gli emigranti e i nuovi arrivi, vengono seguite ogni volta per un breve tratto e si intrecciano al poco che si viene a sapere della ragazza scomparsa e dei suoi genitori, che in ogni capitolo viene arricchito di un nuovo tassello che chissà mai se porterà a capire cosa è davvero successo.

 

Ogni capitolo inizia con i festeggiamenti per l’anno nuovo e attraversa alcuni passaggi obbligati (Feste del raccolto e dei Pozzi, Notte degli scherzi, partita di cricket con un paese vicino, la transumanza e la tosatura delle pecore…) che saldano la vita della comunità a quella della natura in cui è inserita (gli amori degli animali, la nascita e lo svezzamento dei piccoli, la caccia dei carnivori e dei rapaci) in dettagli che aggiungono ogni volta sfumature diverse pur lasciando l’impressione di un eterno ritorno dell’identico, a partire dalla percezione che i personaggi stessi ne hanno, i quali vi sono immersi e ne fanno parte nello stesso modo degli animali, della vegetazione e del cielo sopra di loro. La natura è lì: una voce anonima e impersonale ne riporta questo o quell’aspetto con variazioni di tono sottili, non marcate, perché scandiscono dei ritmi e compongono uno spazio all’interno dei quali le vicende dei personaggi non devono distinguersi dal punto di vista narrativo in quanto a loro volta non si distinguono sotto quello vitale e esistenziale. I sentimenti, le emozioni, le frustrazioni, i conflitti, la continuità silenziosa degli affetti e le loro incrinature, sono come i cambiamenti nel ciclo naturale, o poco più, forse anche per coloro stessi che li vivono. Tutto non è che una serie di riprese, variazioni, sviluppi, risonanze, echi, abbandoni, concatenamenti, interruzioni, sfumati, sospensioni, accostamenti, contiguità, lacune, assenze.

 

 

A parlare è una specie di narratore onnisciente con il gusto della disseminazione e della frustrazione, a volte più laconico che reticente, altre reticente e basta (abilissimo!: ma con il rischio risaputo che la troppa abilità, come l’astuzia, a volte si ritorce contro chi se ne compiace), che sa, o che si immagina che potrebbe sapere, tutto, ma è come se dicesse solo quel poco che attira la sua attenzione e colpisce i suoi sensi in un dato momento e non oltre. A volte questo momento si prolunga, per una pagina al massimo, e allora è un susseguirsi di azioni o gesti o parole piuttosto sintetiche, veloci annotazioni di sensazioni confuse o inespresse di qualche personaggio, che illumina un aspetto di lui o mostra in modo nuovo la sua figura, ma senza indugiarvi e soprattutto senza spiegazioni e senza indicare o solo suggerire nessi e implicazioni di alcun genere. Solo qualche accenno, qua e là, a qualcosa del passato, ma anch’esso fugace, raramente perspicuo. Anche le informazioni e gli indizi sparsi come per caso, in contesti diversi da quelli che ci si sarebbe atteso, non è mai sicuro che lo siano davvero o siano invece parti di altri insiemi o false piste. A dominare è l’implicito, o ciò che viene dato come tale, scontato per chi vive la situazione o ne viene a conoscenza dall’interno, e orchestrato con grande perizia dall’autore.

 

Chi parla insomma è come se fosse parte della comunità descritta e ad essa si rivolgesse, uno che conosce tutti e ne parla a un pubblico che li conosce a sua volta (una specie di versione moderna del narratore anonimo popolare dei Malavoglia, con qualche tendenza a microscopiche infrazioni subliminali, che non sai se reputare più irritanti o ammirevoli quando te ne accorgi), al quale quindi non è necessario dare nessuna informazione circostanziale o storica o caratteriale. 

Anche il lettore, dopo un iniziale disorientamento, pian piano entra a sua volta nel paese e nel paesaggio, come se fosse lui pure parte del coro o uno dei personaggi. Cosa lo distingue, a ben vedere? È come se a parlare non fosse nessuno o ci fosse un momentaneo punto di vista per ciascun personaggio ogni volta che il discorso si focalizza su di lui, ma non la sua voce. La voce è sempre la stessa, più distaccata che partecipe, anche se non fredda e soprattutto mai giudicante. Nessuna riflessione, o quasi, e comunque ben mimetizzata nel flusso narrativo, come sorta dalle cose stesse narrate, al loro stesso livello, o a volte, ma parziale e non generalizzabile, dai discorsi dei personaggi.

 

A volte però le vicende individuali e soprattutto le loro ripercussioni emotive e esistenziali, le solitudini, le debolezze, i segreti…, vengono ad essere più note al lettore che agli stessi famigliari o amici dei personaggi. La vita che li circonda – i nuovi nidi, i volpacchiotti che escono a caccia per la prima volta, il corteggiamento dei cinghiali, il letargo dei pipistrelli e dei tassi, le metamorfosi delle farfalle, le trasformazioni dei cespugli e del bosco –, non sono colore o allegoria, sfondo o contrappunto, motivo secondario o basso continuo (anche se ogni lettore è libero di interpretarli anche in questo modo): sono invece la stessa cosa della trama quasi del tutto assente; sono, se mi è concesso, la trama della trama. Sono la storia allo stesso titolo degli eventi umani, personaggi allo stesso titolo di quelli dotati di un nome proprio. Niente distingue formalmente e sintatticamente gli uni dagli altri. Le frasi si susseguono senza nessi e senza stacchi che non siano quelli dettati dalla punteggiatura, tutti sulla stessa linea, segmenti di pari valore e senso di uno stesso percorso, senza soluzioni di continuità, in perfetta contiguità, come lungo un asse sintagmatico liberato da qualsiasi complicazione paradigmatica e nondimeno pullulante di sfumature e risonanze, che sembrano però generarsi lungo la catena temporale del discorso, nella memoria del prima e del dopo e nelle diverse occorrenze del simile e dell’uguale che fanno presagire, ma senza alcuna garanzia in quanto mai meccaniche, il loro ritorno imminente, la loro risorgenza futura. 

E infatti praticamente nessuna delle annotazioni “naturalistiche” ha qualche ripercussione sugli eventi della trafila umana e viceversa, come nessuna ripercussione sul comportamento delle nubi ha quello degli abitanti, sul cui capo però esse corrono o rovesciano pioggia o neve.

 

 

Le storie degli uomini non si distinguono, cioè non hanno più valore, da quelle delle piante e degli animali o degli elementi. Le gazze rubano le uova, le poiane piombano sulle loro prede, gli insetti si accomodano alle piante e a volte le minano, l’erica cresce, i pipistrelli si rimpinzano in vista dell’inverno, le mine fanno saltare la roccia, il livello dell’acqua dei bacini si alza o si abbassa, le trote passano sotto i ponti come i ragazzi sopra, nelle grotte e nelle forre la vita è nota e misteriosa; i legami si serrano e allentano e sciolgono, i figli vanno e non sempre ritornano, sono affidabili e incomprensibili, ognuno a sua volta noto e misterioso.

La comunità sembra chiusa e fuori dal tempo, e invece i cambiamenti e i traumi incombono, a cominciare dalla scomparsa di Rebecca, che ritorna nei ricordi e qualcuno pensa addirittura di vedere qua e là, a volte. La scomparsa non scatena nessun male, al di fuori del dolore dei genitori e di qualche eco in chi l’ha conosciuta (e del vampirismo mediatico che casi come questi non mancano di suscitare, a caldo, e periodicamente anche a freddo, quando un episodio simile si verifica o le programmazioni necessitano di riempitivi, come sanno anche i telespettatori italiani, che praticamente di questi riempitivi sono a loro volta rimpinzati); e se fa da cartina da tornasole per qualcuno, specie tra i ragazzi che l’avevano conosciuta, per il resto si inserisce nel normale corso delle cose, dove il male è un dato che alcuni segna, altri solo sfiora, e poi, duole dirlo, passa. 

Il figlio problematico e violento di Irene trasforma la casa in un intrico di cavi, schermi, luci e chissà che altro; i supermercati scalzano i negozi; i piccoli commercianti e gli artigiani perdono il lavoro; il costo del latte in negozio è inferiore alle spese e al lavoro richiesto; il vecchio Jackson vuole resistere solo con la tradizionale attività di pastore e non accetta le proposte e le opportunità concrete di rinnovamento avanzate dai figli, due dei quali un giorno emigreranno; nel pc del bidello viene trovato materiale pedopornografico; la reverenda si trasferisce in città e nessun nuovo pastore viene a sostituirla tra i fedeli locali, sempre più sparuti; sulle colline si moltiplicano le pale eoliche, qualcuno apre un pub biologico… Sembrano tutti solo frammenti di storie individuali o di piccoli nuclei famigliari, ma a staccare lo sguardo e adottare una visuale un po’ più distante ci si accorge che al di là delle ricorrenze e delle feste tradizionali, che peraltro spesso subiscono nuovi per quanto a prima vista minimi aggiustamenti, il cambiamento è già ovunque e non si ferma.

 

Si inserisce anch’esso nel ciclo naturale, nel normale evolversi degli eventi (nello stato normale delle cose, come viene detto nel libro d’esordio di McGregor, Se nessuno parla di cose meravigliose (trad. it. Massimo Ortelio, Neri Pozza, 2003): a indicare una continuità di riflessione pur nel capovolgimeto dell’approccio: qui condensato, là rallentato e dilatato, come in tante istantanee, o fermo-immagini, dei frammenti strappati al loro continuum e inseriti in quello della narrazione costituito da altri frammenti analoghi e dello stesso tenore, anche se non dello stesso argomento, ecc.; e spesso solo didascalie di istantanee inesistenti, o implicite, che hanno grande evidenza, ma si possono solo immaginare: si devono, anzi) che ogni individuo o nucleo o segmento della comunità avverte e affronta come per conto suo. Ma per gli stessi esseri umani il cambiamento storico è parte del loro ciclo naturale e anche gli eventi traumatici pian piano vengono assorbiti e entrano a farvi parte, al pari di ciò che sembra restare uguale o cambia solo lentamente. 

I ragazzi crescono, i giovani maturano, chi più chi meno, gli adulti invecchiano, i vecchi muoiono, le storie seguono il proprio corso prevedibile, alcune si intessono, altre si interrompono, altre ancora si riallacciano; alcune prendono vie diverse per incrociarsi di nuovo, o forse no, tutte continuano, e se qualcuna finisce, un’altra prende il suo posto.

E tuttavia nemmeno per il lettore, non è facile accettare “l’ordine delle cose”, che presuppone che le cose abbiano un ordine che sia il loro, che esse prima o poi vadano a sistemarsi in un ordine, o che in qualunque stato siano, in qualche ordine sono già disposte, e che quell’ordine sia visibile e decifrabile, o che ci sia anche se non si vede, e magari che tanto più perfetto sia, a modo suo, quanto meno è visibile e decifrabile, e che esso non sia né buono né cattivo. E più difficile ancora è accettare che forse non sia nemmeno il caso di stare a chiederselo, perché in ogni caso è quello che è, e come tale vale la pena accettarlo senza cercare in alcun modo di alterarlo o addirittura sovvertirlo, perché qualsiasi cosa uno faccia, esso resta quello che è, e che quindi è più saggio, o meno stolto, adattarvisi. Perché, come dice il poeta, le cose sono come sono, terribili per gli idioti. Anche se, a pensarci un po’ di più, come le cose sono, ammesso che lo si possa capire, per chi idiota del tutto non lo è, probabilmente è ancora più terribile. 

(Eppure anche questo “terribile” – tutto il dolore, tutto ciò che non si saprà mai –, nell’ordine delle cose niente è e niente rimane, e va a sistemarsi anch’esso al suo posto: né bene né male, solo come è.)

 

Ma le cose non sono come sono, si può anche pensare. L’ordine delle cose non esiste, è solo quello che sembra di percepire mentre si prova a descriverlo, a dargli appunto un ordine, quello che viene costruito mentre viene narrato. Nessun perno esterno o sottostante salda insieme la sfilata degli eventi e delle cose, nessun mistero centrale tiene insieme tutto con la sua forza di attrazione, perché il centro non c’è. È vuoto. In Se nessuno parla… alla fine si veniva a sapere verso cosa tutti i personaggi stavano muovendosi nel momento fatale; qui tutto resta ancora in movimento. Il 14° anno (il 14° bacino) resta ancora da riempire, la realtà ancora sempre da indagare, e edificare. Molte cose saranno prevedibili; altre chissà. Poi, da lontano, una volta narrate anche loro troveranno il loro proprio ordine, che non sarà insito in quello che esse saranno, ma sarà solo quello in cui verranno raccontate, se qualcuno si prenderà la briga di farlo, e a seconda di chi lo farà.

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Un pomeriggio nella stanza dei sogni

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L’avventura artistico-letteraria di Alba de Céspedes è segnata da un cosmopolitismo in anticipo sui tempi e da una fiera militanza. Non c’è modo qui di ripercorrere le tappe salienti del suo processo di formazione ma è opportuno ricordare almeno la sua doppia radice, metà cubana e metà italiana, la tensione costante verso un senso vivo della libertà e della giustizia, la precoce esperienza di madre e di donna separata, che la costringe a guadagnare per vivere fino in fondo la sua indipendenza. Sarà la scrittura a darle il lasciapassare per un’esistenza autonoma e responsabile, a cui si abbinerà presto l’esercizio pubblico dell’intelligenza attraverso i canali della stampa periodica (paradigmatica in tal senso la direzione della rivista «Mercurio» in quanto atto di resistenza culturale).

L’incontro con il cinema è precoce e duraturo, nonostante la prudenza iniziale («quello che voi chiamate il mio ingresso nel cinema altro non sarà che un rapido passaggio. M’allontano vigliaccamente come si fugge da una donna bella per tema di restarne prigionieri» - Ho paura del cinematografo, «Film», 12 dicembre 1942), e viene scandito da una suggestiva ambivalenza tra vita e forma, produzione e ricezione, generi e volti. Se l’attività di sceneggiatrice, già accreditata dalle feconde analisi di Lucia Cardone, resta forse il capitolo più interessante dei suoi scambi intermediali, le note a margine affidate a periodici o a rotocalchi offrono un ritratto mosso dello sguardo della scrittrice, capace di sostare ai bordi dello schermo e di lasciarsi conquistare dai sogni vellutati della commedia americana o dai palpitanti corpi del neorealismo.

I grandi temi che attraversano la scrittura romanzesca di de Céspedes tornano, anche se con sfumature diverse, negli articoli dedicati al cinema, a testimoniare una profonda circolarità di idee e simboli dentro il macrotesto dell’autrice. La dialettica fra interno ed esterno ad esempio, cioè una delle strategie del racconto di de Céspedes, diviene presto metafora del suo rapporto con la sala, intesa come luogo di «dolci estasi», distante dal clamore della città.

Il pezzo che qui presentiamo si apre proprio con l’indicazione di una precisa consuetudine («Mi piace andare al cinema di pomeriggio»), che anticipa il vero motivo d’interesse del brano, ovvero la descrizione di un ‘modo’ spettatoriale deciso e consapevole, votato a un principio di evasione e incanto. A rendere possibile questa fuga nel regno della "favola"è Katharine (Caterina) Hepburn, ricordata di recente da Emanuela Martini per Film Tv nell’anniversario della sua scomparsa, protagonista di delicate screwball comedy in cui appare– secondo l’attenta lettura di Mariapaola Pierini – «sofisticata, eccentrica, risoluta ma romantica […] capace di sapersi destreggiare con i tempi “matematici” della commedia» (Hepburn-Grant: una coppia brillante, in Cary Grant. L’attore, il mito, a cura di G. Alonge e G. Carluccio, Marsilio, 2006). Il «tempo artificiale» di Holiday di Cukor (Incantesimo per la distribuzione italiana, 1938) accende la fantasia di de Céspedes, che sceglie di guardare all’effetto di presenza di Hepburn, alle traiettorie della sua performance; la sua penna sembra ricalcare le morbide superfici degli abiti dell’attrice, anche se poi è il suo passo a incarnare lo spirito del testo («Attoniti la sentiamo camminarci addosso col suo passo irreale»). L’immagine-guida del film per la scrittrice è «la stanza dei giochi», uno spazio separato – di evidente matrice woolfiana – che richiama e accoglie l’inclinazione prima della protagonista, quel «favoleggiare» che resta probabilmente il lemma chiave dell’articolo. La radice stessa del rapporto di de Céspedes col cinema sembra ispirarsi allora al principio coltivato da questa «poetica ragazza» nel chiuso della sua stanza: il grande schermo, prima dell’ingresso nel vortice della produzione al fianco di Blasetti, è una sorta di mondo di mezzo («mezzo infantile mezzo nevrastenico») entro cui avvolgersi, per ritrovare il distacco e l’armonia giocosa dell’infanzia. (Stefania Rimini)

 

 

Caterina Hepburn presentata da Alba de Céspedes

 

Mi piace andare al cinema di pomeriggio perché la sala è colma di ombra soffice, un’isola d’ombra nella città ancora tutta chiara e viva. Contro le porte ovattate i rumori di fuori si frangono, si spengono addirittura. Lì dentro si respira in un clima di benessere, perduti in una dolce estasi. Mi piace, seduta al buio, ascoltare la musica, appesa al filo di una delicata vicenda d’amore. Perciò non amo il film di massa, le fanfare, le battaglie cruente. E ancora meno mi piacciono le commedie americane, dove si vedono entrare liberamente nello schermo come in casa propria, volgari “yankees” che sparano colpi di rivoltella, percorrono in automobile la città di cartone rincorsi dalla sirena della motocicletta inseguitrice, strapazzano dattilografe procaci e stupidelle. Mi pare così che la sala oscura non mantenga la sua promessa, che improvvisamente lasci entrare lì dentro tutto quanto mi disturbava fuori. Amo invece, seduta al buio, vedere entrare nello schermo la magica figura di Caterina Hepburn. Mi sembra che al suo apparire ogni cosa si trasformi, che lei soltanto sappia raccontare la favola che mi interessa: ella porta sullo schermo, e ce lo mostra e ce lo svolge come una sciarpa di seta, il miracolo del suo mondo interno, quello che appare nei grandi occhi trasognati. Attorno a lei, in ogni trama, vivono personaggi che non la comprendono. È la ragazza sposata di Primo amore, è la sorella ribelle di Incantesimo, è la collega ambigua di Palcoscenico. In ogni film ci narra come, al suo nascere, la cicogna che la portava verso chissà quali meravigliosi destini se la sia lasciata sfuggire dal becco ed ella sia caduta per caso nella famiglia meno adatta a riceverla. 

 

Ma lei non se ne preoccupa; immediatamente, dovunque, alza la sua tenda come gli zingari. Si fabbrica un mondo di cartone, di stracci, si mette addosso un vestituccio di percalle. E poi si muove, e cammina. Allora, miracolosamente, quanto è attorno, rispecchiando la sua grazia, appare di colpo grazioso anch’esso. L’abitino di cotone diviene di preziosissima seta, lo scenario miserabile s’annobilisce. Basta che lei percorra due volte lo schermo con quel suo armonioso modo di camminare. Si diffonde attorno una luce che ha sorgente in lei, nelle sue movenze. Poi, in primo piano il viso nervosissimo, gli occhi. Poche decine di metri di pellicola. E tutti gli spettatori entrano al suo seguito nella favola. Allora ella può compiere qualunque cosa, farci qualunque gioco di prestigio. Di nulla ci meraviglieremo. Attoniti la sentiamo camminarci addosso col suo passo irreale. Tutti ne siam affascinati. Tutti no, forse. Non a tutti è aperta la porta della meravigliosa stanza di giochi che abbiamo visto in Incantesimo. Caterina Hepburn non è mai stata tanto stupefacente come in quel film e in quelle scene. Arditamente, quasi istruendoci con una parabola, ci svela il suo segreto. Il suo mondo è come una stanza chiusa in una ricca villa di gente borghese. Lì si vive un tempo artificiale, mezzo infantile mezzo nevrastenico, dove i nostri ideali di adolescenza paiono ancora raggiungibili, dove c’è la fiamma accesa invece del termosifone, dove ci sono il piano ed il violino invece della radio, dove abitano i grotteschi pupazzi e le principesse immaginarie e gli animali di pezza che popolavano i boschi della nostra fantasia. Poca gente entra nella stanza chiusa della poetica ragazza d’Incantesimo.

 

V’entra il fratello quando è ubriaco, cioè anormale, debole, che facilmente si lascia condurre ad agire come lei vuole. Vi entrano i due vecchietti ingenui, rimasti chiusi in una loro giovinezza idilliaca e gentile, che il chiasso della pantagruelica festa di fuori intimidisce e sgomenta. Per loro la ragazza, nella finzione scenica, ritrova il vecchio teatrino dei burattini e muove i fili dei fantocci; recita, insomma, nella commedia, una commedia sua. E così, mi sembra, manifesta il suo gioco. Per i pochi iniziati, Caterina vive nel film il suo film, apre sotto il mondo dell’autore e del regista il suo mondo, si rivela, si inventa, si lascia andare a favoleggiare. Pochi, dalla platea, possono salire nella sua stanza chiusa. Con quelli corrono invisibili, misteriosissimi cenni d’intesa. Gli altri trovano che ha la bocca larga, le narici da gatto, che, insomma, è proprio bruttina. Io, quando sento dire questo, annuisco, approvo, dico che sì, è molto più bella Mae West, diamine. E dentro di me, zitta zitta, mi rallegro del privilegio. Sono coloro ai quali Caterina Hepburn ha chiuso in faccia la stanza dei sogni.

 

 

L’ho vista, in carne ed ossa, a Washington. Annunci e manifesti delle sue recite dappertutto. Uomini-sandwich, vestiti di rosso, fermi agli angoli delle strade, portavano sulle spalle il sorriso di lei, felino, e indifferenti, pelavano con le nere mani una banana. Un teatrone: di quei teatri americani così vasti che, sembra, le parole debbono faticare a raggiungerti e ti arrivano già un po’ appassite e stanche. Io ero sola, perduta nella gran folla. E attorno la gente rideva divertita in anticipo, emozionata da fanciullesca aspettativa. Tre ometti andavano attorno vendendo coca cola e gomma da masticare. Poco mancava che me ne andassi, se no distruggo tutto, pensavo, le risate di questi bravi americani manderanno in aria la stanza dei sogni come se dentro vi esplodesse una bomba; “lei” parlerà col naso e con frasi fatte, che voce avrà? Dio mio, forse non sarà più neppure così bella. Tuttavia, intimorita da questa gran folla, restavo; bisognava scomodare troppa gente per uscire. E poi, meglio finirla con questi ideali da cinematografo; al teatro non resisterà, il teatro è un’altra cosa. Mentre mi dibattevo in queste incertezze, si fece buio, silenzio, il sipario s’aprì.

 

Che commedia fosse, neppure rammento con precisione; si trattava di una famiglia che sembrava rubata al cinematografo. Tutti sportivi; sport, niente altro che sport. L’animatrice di questo gruppo, la più indemoniata, il pepe della famiglia, era colei che ancora non era entrata in scena, l’interprete; Caterina, senza dubbio. Fu a quel momento che venni più fortemente tentata di uscire. Tutti guardavano attenti, divertiti, a bocca aperta. Adesso dico “prego, prego” mi faccio largo ed esco.

Ma già, in un lieve volo, Caterina era entrata in scena. Vestiva in foggia quasi mascolina, da sport. Ma le scarpe grevi non potevano appesantire il suo magico passo. Essa era la stessa dello schermo. Solamente mi parve, forse per la vastità della sala, un po’ più spenta e fragile. Forse le costava maggior sforzo affrontare la platea come persona viva che come ombra. Diceva con la dolce voce cose piuttosto sciocche e però non sembravano tali; già dal suo apparire ogni cosa attorno a lei aveva incominciato la trasformazione. Anche i bravi ragazzi che la circondavano, senza panciotto e col cappello in testa, divennero improvvisamente simpatici. E tuttavia ella si muoveva in un’aria sua, particolare, che la divideva dai suoi stessi compagni, simile a certe immagini di santi che hanno intorno una fitta cornice di nuvolette.

Avvinta dal fascino dell’attrice, la grande mandibola aveva smesso di masticare; e lei, idealmente liberata dai suoi vestiti sportivi, già si muoveva in uno di quei suoi scenari ideali che facilmente riesce a fare accettare per veri. 

Era, al solito, una ragazza sposata e infelice; fingeva di essere d’accordo con gli altri per mantenersi il “job”, l’impiego. Ma, dentro, era diversa. Spiegò questo in un modo suo specialissimo che mi fece battere il cuore per l’emozione di averla ritrovata. Epperò per un certo gioco di parole il pubblico non capì la mestizia della sua ironia. La grande mandibola scoppiò in una fragorosa risata. Allora Caterina, con uno di quei suoi atteggiamenti inimitabili, si accasciò in una poltrona bassa e mormorò: – Nessuno mi capisce.

Questa frase mi parve fuori del testo, un suo intervento personale: mi sembrò di vederla improvvisamente vestita di lungo, seduta accanto al fuoco nella stanza dei sogni in Incantesimo. Alta era la stanza, irraggiungibile. – Nessuno mi capisce – ripeté. E fu come se con quelle sue parole ella avesse gettato giù dal palcoscenico una scaletta di seta. Lesta e invisibile, agilmente mi vi arrampicai e la raggiunsi sorridendo nel mondo della sua favola.

 

(Dalla rubrica “Gli scrittori e il cinematografo”, in «Film», II, 49, 9 dicembre 1939).

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Riso alla milanese

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Quest'anno l'attenzione de Il Senso del ridicoloè rivolta alla comicità milanese, attraverso proiezioni e incontri. Sabato 29 settembre, alle 17.15, il festival ospiterà una conversazione fra il direttore artistico Stefano Bartezzaghi, Sandro Paté (studioso di Enzo Jannacci e biografo di Guido Nicheli, il «Dogui» delle commedie milanesi), Marco Ardemagni e altri ospiti, per ripercorrere storia e caratteri di un umorismo che, soprattutto a cavallo fra gli anni '60 e i '70, ha fatto scuola nel cabaret, nella televisione e al cinema.


È difficile (o facilissimo) ricostruire un albero genealogico della comicità milanese, quella che, per semplicità, porta l’etichetta del Derby Club (una palazzina liberty in via Monte Rosa 84, tra corso Sempione e San Siro, per chi non è pratico). 

 

Delio Tessa.


Il lievito dell’umorismo impasta la letteratura milanese. Per tacere dell’ironia manzoniana, bisogna almeno ricordare i due grandi poeti che scrivono in dialetto: la commedia umana di Carlo Porta e quella, più in minore, di Delio Tessa. È però una ricerca che ha il rischio di sortire gli stessi risultati di chi si rivolge a un esperto di araldica: un antenato che ha combattuto in Terra Santa, a cercar bene, salta sempre fuori. E, a proposito di crociati, vengono in mente le strofette che si sentivano in casa: 

 

Passa un giorno, passa l’altro, 

mai non torna il prode Anselmo, 

perché era molto scaltro, 

partì in guerra e mise l’elmo.

 

La partenza del crociatoè opera del milanesissimo Giovanni Visconti Venosta, patriota risorgimentale di nobile famiglia e fratello di un noto ministro degli Esteri di fine Ottocento. E chi non ricorda i versi del Pierino Porcospino

 

O che schifo quel bambino!

È Pierino il Porcospino. 

Egli ha unghie smisurate, 

che non furon mai tagliate. 

I capelli sulla testa, 

gli han formato una foresta. 

Densa, nera, puzzolente. 

Dice a lui tutta la gente: 

O che schifo quel bambino! 

È Pierino il Porcospino

 

La traduzione hoepliana del terribile Der Struwwelpeterè di Gaetano Negri, sindaco della Milano fin de siècle e poi deputato. In attesa che Beppe Sala si cimenti in simili prodezze (i cui risvolti social risultano per ora incalcolabili), quel che preme è segnalare che è nelle corde della città un controcanto umoristico che si prende gioco delle prodezze dei campioni del lavoro, “degli eroi del lunedì mattina” (Luca Doninelli). Così non è difficile trovare, nei cassetti di stimati professionisti del mondo di ieri, strofette umoristiche, scherzi e caricature di una società che corrisponde, più o meno, a quella che entra con slancio positivistico nel Novecento, descritta mirabilmente nell’Adalgisa di Carlo Emilio Gadda (a proposito di umoristi).

 

Vittorio Caprioli, Luciano Salce e Franca Valeri ai tempi de I Gobbi.

 

Il mondo di ieri si infrange con la fine degli anni Cinquanta, quando i confini della città si allargano, le classi sociali si mescolano e si affaccia una nuova generazione di adolescenti, figli della società di massa, attratti dalla cultura pop americana. Il solo esempio italiano fuori dalla tradizione a cui questi giovani in cerca di qualcosa di nuovo potrebbero guardare, è il cabaret nostrano, che nasce colto, su esempi parigini, e ha i suoi massimi interpreti nel Teatro dei Gobbi di Franca Valeri, Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci (poi sostituito da Luciano Salce), a cui si possono aggiungere i testi umoristici di Billa Zanuso. Più a portata di mano è il trio Dario Fo-Franco Parenti-Giustino Durano, che, tra commedie (Il dito nell’occhio) al Piccolo Teatro e sketch radiofonici nella sede RAI di corso Sempione, fanno circolare una nuova comicità surreale, più legata alla situazione e al costume che alla battuta. Aperti e innovativi, Piccolo Teatro e RAI milanese rappresentano un traguardo ambito anche se un po’ condizionante: nel 1962 Fo deve lasciare la RAI dopo un episodio di censura e da lì comincia la sua carriera di autore "impegnato".

 

A partire dagli anni del boom economico, la notte milanese è il rovescio del giorno. Le ore notturne propongono una nuova geografia, non più intorno alla Scala, ai teatri e qualche ristorante e pizzeria (Santa Lucia) del centro. Alla religione del lavoro si contrappone quella del "tirar mattina", per citare il titolo del romanzo di Umberto Simonetta, uno dei padri della nuova comicità milanese. Ci sono locali come il Santa Tecla, dove si affacciano i giovanissimi rockettari di casa nostra, e il Derby di Gianni e Angela Bongiovanni, che comincia con i concerti di jazz e musica leggera, per poi declinare verso il cabaret.

 

Enzo Jannacci e Dario Fo.


La nuova comicità milanese nasce dall’intreccio fra musica e parole, fra teatro e canzone. Sono ironici i testi dei Gufi (Nanni Svampa, Gianni Magni, Lino Patruno e Roberto Brivio), scrive canzoni Dario Fo, che incontra Enzo Jannacci attorno al 1963. L’anno prima Jannacci ha scritto qualche testo in dialetto per lo spettacolo Milanin Milanon, antologia della cultura popolare milanese rivisitata da Filippo Crivelli, con Tino Carraro e Milly. È Jannacci, valorizzato da Nanni Ricordi, il vero padre fondatore della nuova comicità milanese. Tuttora amatissimo, è una figura che deve essere ancora studiata a fondo – e non solo testimoniata – per comprendere un genio che ha una formazione musicale classica (diploma di Conservatorio) a cui aggiunge il jazz e il rock 'n' roll. I suoi testi possono essere in lingua o in dialetto, con una vena poetica dove prevale un tono malinconico (il magone, il rimpianto di cose sognate o vissute a metà), che si mescola a un umorismo surreale, a volte acre, ma sempre dalla parte degli ultimi, di chi fatica a stare al passo con la Milano del boom. Carlo Lizzani, che aveva fatto debuttare Dario Fo come attore protagonista ne Lo svitato (1956), una commedia che costeggia il nonsense, si accorge del fenomeno Jannacci e lo infila ne La vita agra (1964), tratto dal romanzo omonimo di Luciano Bianciardi che è “il” libro sulla Milano di quegli anni. 

 

Jannacci ha anche doti comiche eccelse, una mimica mobilissima, e sul palco si muove a scatti stando in scena, per così dire, sempre un po’ di sbieco. Giorgio Gaber può essergli paragonato per tanti aspetti, ma gli mancano quell’irruenza e quella vis comica che attraggono invece i giovani Cochi (Ponzoni) & Renato (Pozzetto) e il giornalista RAI e autore Beppe Viola, con i quali Jannacci costituisce il primo nucleo della nuova comicità milanese. La base operativa, “l’ufficio facce”, è il bar Gattullo, a Porta Ludovica, un punto di osservazione della sempre rinnovata commedia umana milanese, dove ora sono arrivati tanti meridionali (il titolo di un film di Mariano Laurenti del 1982, a riprova di un’integrazione più o meno riuscita, suona così: Si ringrazia la regione Puglia per averci fornito i milanesi). Qualche anno dopo, attorno al 1980, Diego Abatantuono, nipote dei Bongiovanni, ha un successo breve ma intensissimo col personaggio del "terrunciello" (forse "scippato" a Giorgio Porcaro), il meridionale che ha introiettato una milanesità posticcia (aggettivo che si immagina pronunciato col suo inconfondibile accento). Non bisogna dimenticare però che Abatantuono, attraverso la collaborazione con Gabriele Salvatores, diventa anche il punto d'unione coll’umorismo più eversivo di Paolo Rossi, a sua volta "figlioccio" di Dario Fo: tutto si tiene, insomma.

 

Cochi e Renato.

 

Il successo della nuova comicità milanese è sancito da una trasmissione pomeridiana della RAI, Quelli della domenica, scritta da Italo Terzoli, Enrico Vaime e dal veterano Marcello Marchesi: nell'anno della contestazione, Jannacci, Cochi & Renato e un dirompente Paolo Villaggio scatenano un vero e proprio '68 sul piccolo schermo. A questo primo nucleo si aggiungono poi Massimo Boldi e Teo Teocoli, che conosceranno la massima gloria alcuni anni dopo con le infinite dirette su Antenna 3, una delle prime tv private locali, insieme al mitico Ossario (al secolo Armando Celso); e il Gruppo Repellente, di cui fanno parte, oltre ad Abatantuono, Boldi e Porcaro, anche Mauro Di Francesco, Giorgio Faletti e il povero Ernst Thole, morto prematuramente, che sfruttava a fini umoristici la sua aria effemminata. Ma vanno ricordati anche autori relativamente "minori" come Felice Andreasi, coi suoi monologhi comici a metà fra Ionesco e Beckett, o come Walter Valdi che, con aria impiegatizia, canta, assorto e insieme spensierato, La büsa növa e Vacaputanga

 

Il Derby chiude i battenti nel 1984: siamo già ai tempi di Drive In, che istituzionalizza e rende popolare questa comicità, ma non la rinnova. Così come lo Zelig (nato nel 1986), palcoscenico di tanti nuovi comici, che arrivano da tutta Italia. Contano di più gli impresari Antonio Ricci e Gino e Michele, ma l’ultimo soffio di libertà arriva da Antonio Albanese e dal trio Aldo Giovanni e Giacomo, dove gli effetti comici migliori sono nel recupero delle origini meridionali (Aldo Baglio e la sua comicità corporale; i personaggi di Frengo e Alex Drastico di Albanese). I figli della grande migrazione degli anni Sessanta hanno modificato la comicità meneghina, parodiando l’efficientismo di facciata, il "Ghe Pensi Mì" (vi viene in mente qualcuno?), facendola diventare qualcosa di diverso, ma sempre, in qualche modo, milanese. 

 

L’ultima parola però spetta a un milanese nato ad Abbiategrasso, Walter Fontana, autore dei testi di tanti comici nell’ultimo (argh!) quarto di secolo. Un bambino "presuntuoso e saccente" (un futuro cumenda?) viene interrogato dalla maestra: "Ma tu credi in Dio?". "Be', credere è una parola grossa. Diciamo che lo stimo". 

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Il senso del ridicolo 2018
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Ricette immateriali. Le virtù

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A lungo gli Appennini sono stati una spina dorsale geografica e umana, inevitabilmente culturale, dell’Italia. Una realtà, secondo la lezione di Fernand Braudel, mediterranea come il mare che li lambisce e quasi mai ne è distante. 

 

Una realtà che tuttavia non è sopravvissuta ai profondi mutamenti economici della seconda metà del Novecento e che la modernità ancora oggi “cristallizza” in un lento e progressivo abbandono, apparentemente irreversibile. 

 

Un punto di equilibrio non si intravede ancora eppure in territori esangui dal punto di vista demografico ed economico sopravvive parte dell’antica cultura tradizionale e, ancora nitida, resta la sua memoria. La “dimenticanza”, quasi la rimozione da parte del nostro paese di un intero territorio, ha permesso di conservare maggiormente quello che in altre zone d’Italia, più fortunate geograficamente, si è inevitabilmente perduto.

 

Oggi resiste in molte comunità il sentimento diffuso di un patrimonio culturale da preservare; insieme a questo, timidamente si fa strada anche la consapevolezza che questo patrimonio ha un suo interesse e un suo valore anche economico, se è vero che nella società odierna appare sempre più evidente una domanda di tradizioni – vaga nelle sue declinazioni quanto certa nel bisogno – di genuinità, originalità, conoscenza...

Di tutto questo il cibo e l’alimentazione tradizionale rappresentano il punto focale, perché autentico distillato della cultura di una comunità e di una popolazione.

Ma un bisogno di genuinità, originalità, conoscenze è innanzitutto una fame immateriale, una fame di storie e di parole ben oltre quella del cibo in sé...

 

In questo quadro, La Sapienza degli Appennini vuole essere spazio in cui riscoprire ricette tradizionali (minime, dimenticate, semi sconosciute) degli Appennini – e del mondo mediterraneo a cui appartengono – ma solo per raccontare storie, vale a dire il distillato umano, sociale, letterario, antropologico di un’antica cultura che, seppur rimossa, è parte della nostra identità.

 

 

Può essere anche un terreno di confronto tra due mondi solo apparentemente distanti: da una parte le città e noi consumatori, il benessere, le urgenze di un tempo senza memoria, le mille forme della modernità, dall’altra la montagna con i suoi vuoti demografici, la sua pochezza economica, i suoi silenzi, il senso profondo del territorio, i tempi millenari e quasi cristallizzati.

 

Un ricettario immateriale, perché se è vero che la dimensione più nobile del cibo è la convivialità tra i presenti, è solo nelle storie che per tutti avviene l’incontro tra il racconto e l’ascolto: le parole antiche di una cultura e di una montagna dimenticata, la fame di parole e storie che ignoriamo ma di cui, paradossalmente, possiamo avere ancora bisogno.

 

Le Virtù 

 

Una ricetta abruzzese di oltre quaranta ingredienti differenti tra legumi, paste, ortaggi, erbe aromatiche e spontanee, carni e “condimenti”. Tra questi si potrebbero considerare tali anche i salumi e appunto le carni (prosciutto crudo, parti del maiale) conservate dall’anno precedente. Queste e le primizie dell’anno nuovo vanno a comporre una minestra forse unica nel suo genere; oltre quaranta ingredienti per un piatto il cui nome richiamerebbe alle virtù femminili necessarie alla preparazione del cibo più consono alla famiglia, in cui ancora il nome virtù riporta alla medicina dispersa nelle erbe (ancora conoscenza soprattutto femminile) e nel creato. Certamente nome che guarda al benessere come vocazione.

Tradizionalmente è consumata il primo maggio; non un caso, se maggio, “da sempre”, attraverso la lunga stagione della società contadina, rappresenta il culmine della primavera.

Ma quaranta e più ingredienti per una minestra che vuole essere salutare sono un'enormità, sono quasi una contraddizione. Più di quaranta ingredienti per comporre un alimento che guarda a prevenire e curare il caos da cui scaturirebbe ogni malattia ma al quale allo stesso tempo un numero così elevato di ingredienti sembrerebbe condannarlo...

 

Detto in altri termini, quaranta ingredienti per una semplice minestra non sono forse una sfida alla cultura e alla cultura alimentare, alla capacità di riconoscere e dare senso a ogni singolo ingrediente?

Quanta condivisione dunque, quanta cura tra danni e benefici, tra male e bene, quante attenzioni nella scelta tra i diversi nutrimenti devono esserci state in un piatto chiamato "virtù"...

Eppure se il rinnovamento primaverile era uno degli elementi più evidenti che segnavano l’antico calendario agrario – e la vita delle persone – questa minestra ne rappresenta forse la metafora più estrema e al tempo stesso la sostanza più confacente. Unire insieme legumi, cereali, erbe aromatiche, erbe spontanee e carni significa unire la dispensa all’orto e ai campi, significa comporre un piatto che fosse il trionfo della dietetica e che ne andasse oltre, significa il tentativo di unire la medicina con la cucina, significa rendere quest’ultima altare gaudente nel celebrare il tempo, la natura e la sua forza ad ogni anno rinnovata.

 

E allora vale la pena di ricordare come per qualunque cultura scegliere il cibo ha sempre significato rischiare tra bene e male, tra "buono e cattivo da mangiare". Un dilemma che accompagna da sempre i nostri giorni: il sospetto per ciò che può essere negativo, l'entusiasmo per ciò che è riconosciuto come “positivo”. Oscillare continuamente tra prudenza ed entusiasmo è paradosso ma anche una delle possibilità della vita: in mezzo solo la conoscenza a fare da bussola e sestante. 

Così, un'antica minestra chiamata Virtù può farci intuire un frammento dell'antica sapienza mediterranea, quella femminile in particolare e quella letteralmente dispersa lungo gli Appennini, che ha attraversato e unito il paese.

 

Poi... ben prima di Darwin e di ogni generazione, già all'origine dei tempi, in un punto indefinito a Oriente del Mediterraneo, il cibo era già conoscenza: "La donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza, prese del suo frutto e ne mangiò poi ne diede anche al marito che era con lei e anch'egli ne mangiò" (Genesi 3,6).

 

Vide, prese, mangiò, diede... già con un piede fuori dall'Eden, Eva, sacerdotessa del vero, era la sintesi del nostro destino...

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I robot avranno sempre bisogno di noi

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Quello che dobbiamo aspettarci da una filosofia della forza lavoro non è la rivolta degli androidi assassini, né la sostituzione del lavoro da parte degli algoritmi, ma una rivoluzione nel nostro rapporto con le macchine e con noi stessi. Da qui passa il potere, da qui passa l’alternativa. 

 

***

 

Agli ingegneri della Silicon Valley, e a quelli del Pentagono, piace la fantascienza. Questo genere letterario, e cinematografico, ha la capacità di anticipare l’esistenza dei dispositivi digitali che governano la nostra vita cinquant’anni prima che siano commercializzati.

Motherè il super-computer che esegue la volontà della multinazionale che ha deciso di portare sulla terra un’arma di distruzione di massa come Alien. La stentorea, e angosciante, voce femminile inventata da Ridley Scott nel 1979, è simile a Google Home, il potente speaker e assistente vocale che suona la musica che vogliamo in cucina o in bagno, chiama i nostri amici, controlla il riscaldamento, accende il forno, risponde alle nostre domande.

 

 

Nel primo Alien, Sigourney Weaver programma la distruzione del Nostromo. Potremmo fare anche noi la stessa cosa, ma per una ragione diversa dal film. Google o Amazon non hanno progettato uno xenomorfo che ci fa a brandelli con le sue fauci e aculei mostruosi.

Hanno progettato un nuovo sistema di estrazione del valore e di sfruttamento del lavoro. Noi lavoriamo per loro. Loro accumulano profitti stratosferici. Noi acquistiamo le tecnologie che servono ad aumentarli ancora.

 

La voce di Hal 9000

 

Hal 9000, il super-computer della nave spaziale Discovery – nel film 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968) e nel libro di Arthur Clarke – è il padre di Siri e di Alexa, le voci femminili che guidano le nostre giornate di navigazione sugli smartphone Apple o su Amazon. 

Nel 1967 Stanley Kubrick era in fase avanzata di post-produzione negli studi cinematografici di Londra e cercava una voce maschile per il suo Hal 9000. Era un perfezionista maniacale, attese sino all’ultimo per la scelta, era scontento dei provini. Non capiva il modo in cui l’algoritmo euristico (Heuristic ALgorithmic: HAL) avrebbe dovuto parlare. Con quale accento? Americano della California o del Wyoming? Con accento messicano o con il ritmo delle Black Panthers? Il cockney, il dialetto parlato a Londra Est? 

 

 

Guardate il film, il problema è serio. Hal 9000 è gentile, calmo, ossequioso, acuto, ironico, rassicurante, paterno, fraterno. Hal è tutto, sa tutto, non c’è nulla che gli sfugga. È la voce personaggio. Quella più importante del film!

Alla fine la scelta di Kubrick ricadde sull’attore canadese Dougal Rain. Il suo inglese era privo di accento, molto standard, suona proprio com’è Hal: viene da nessun luogo ed è dappertutto. È l’inglese che si sente nei dizionari online, la pronuncia delle vocali non permette di capire la regione di provenienza.

Douglas oggi ha più di 90 anni, dice di non avere mai visto 2001 Odissea nello spazio, la sua voce è stata caricaturata dai Simpson, in South Park e negli spot pubblicitari. A chi ha recitato con Alec Guiness in Riccardo III e nel Macbeth o in Re Lear forse non fa piacere essere ricordato così. 

Per lui Hal 9000 era solo un lavoro.

Uno dei luoghi più potenti del nostro immaginario, l’idea che oggi noi conosciamo come Google Home, Siri o Alexa sono il risultato di un attore che ha fatto un lavoro. E così continua ad essere: le voci sintetiche sono il risultato di miliardi di interazioni tra esseri umani e algoritmi finalizzati all’addestramento di intelligenze artificiali. 

Si chiama machine learning, attraverso le chat box che dialogano con gli esseri umani, noi aumentiamo il valore delle tecnologie possedute dalle Big Tech.

 

In Forza lavoro, il lato oscuro della rivoluzione digitale sostengo che tutte le interazioni tra uomini e robot dovrebbero essere viste nello stesso modo in cui Douglas Rain vedrebbe (se lo volesse) 2001: Odissea nello spazio. Un rapporto di lavoro in un'economia politica, non solo un'interfaccia tecnica.

 

Il robot esploratore e l’aspirapolvere

 

Prendiamo la missione Mars rover pensata dalla Nasa per esplorare il pianeta rosso. Le funzioni del robot esploratore, uno dei giocattolini usciti da un film di fantascienza di serie B, sono state elaborate attraverso la collaborazione tra scienziati e l’interazione tra la concreta attività dei circuiti con gli input forniti dal team scientifico.

 

 

E poi, ecco a voi il robot-aspirapolvere Roomba:

 

 

 

Vi assicuro che questo oggetto è stato studiato da fior di analisti che hanno compreso qualcosa di molto importante. Anche se il robot è venduto come un automa, i suoi acquirenti devono lavorare per lui per allestire l'ambiente in modo che Roomba possa fare bene il lavoro per cui è stato acquistato. Per fargli aspriare la polvere, o lavare i pavimenti, è necessario rimuovere mobili e posizionare barriere dove il dispositivo potrebbe rimanere incastrato, sotto uno scaffale ad esempio. Bisogna essere pronti a andargli in soccorso per evitare che la sua intelligenza artificiale… si confonda. 

Roomba e Rover estraggono lavoro umano e lo rendono invisibile. Il loro funzionamento sembra essere il risultato di una misteriosa volontà delle macchine che prendono vita da sole, mentre invece tali macchine esistono solo a condizione di una significativa e continua interazione con gli umani che permettono il loro funzionamento.

 

La storia del cucciolo foca

 

Paro è un cucciolo di foca robot. È rivestito di pelliccia di peluche bianca, sotto la quale esistono sensori che permettono la percezione del tatto, del suono e dei cambiamenti di posizione, come gli abbracci. Paro è stato progettato per i pazienti affetti da demenza. 

 

Diversi studi hanno dimostrato la capacità di Paro di migliorare l'umore dei pazienti, ridurre lo stress e aumentare le interazioni con gli altri. Nella letteratura accademica è descritto come "autonomo". Il suo inventore Takanori Shibata sostiene che il robot "agisca in modo autonomo ...mentre riceve la stimolazione dall'ambiente, come con la vita organismi. Le azioni che si manifestano durante le interazioni con le persone possono essere interpretate come se Paro avesse un cuore e sentimenti". 

È questa l’illusione che viene venduta sul mercato degli investitori e all’opinione pubblica. In quella malafede programmatica che accomuna gli esperti di marketing ai propagandisti accademici e giornalistici dell’automazione totale, questa illusione rappresenta la principale merce da vendere nei notiziari della sera o nelle pagine degli inserti patinati. 

Gli esperti di robotica, come Shibata, che invece conoscono il funzionamento delle macchine, portano alla luce il lato oscuro della rivoluzione digitale in cui viviamo: “Paro – ha detto Shibata – ha un numero limitato di funzioni come una macchina. Ma attraverso l'interazione con gli esseri umani evoca associazioni nella mente umana. Non è necessario che Paro abbia tutte le sue funzioni perché l'interazione può ampliare le loro interazioni”.

 

È il mercato, baby

 

I robot non sono non così autonomi come invece si crede in una rappresentazione molto popolare che confonde la magia con la fantascienza. Il loro buon funzionamento comporta sforzi considerevoli da parte degli esseri umani che interagiscono con gli algoritmi, li allenano e li fanno diventare intelligenti. Dietro ogni interazione, macchina robotica, voce sintetica esistono le interazioni con i microlavoratori che archiviano, classificano, selezionano, ricombinano dati. Dietro ogni automazione che profila i dati e li associa a prestazioni automatizzate e ai servizi alla persona o alla conoscenza esistono ricercatori e dottorandi, infermieri, anziani residenti in case di cura, o bambini piccoli. 

E invece l’intelligenza artificiale è confusa con la magia e fantascienza ed è avvolta da una patina deferente di oggettività. Questo è il grande il lavoro degli uffici stampa e comunicazione: una distorsione continua, non priva di aspetti comici e deliranti, che sequestra l’idea di autonomia dell’essere umano a favore di un’idea del tutto metaforica. 

 

Sono i sistemi computazionali a essere autonomi, non il lavoro necessario degli umani che permettono alla macchina combinata – così la chiamava Marx – di ottenere un crescente e sempre incompleto margine di efficienza operativa che permette ai circuiti di eseguire i compiti per i quali sono stati concepiti. 

L'interazione tra uomo e robot è sequestrata dalla retorica dell’automazione totale e dal potente tropismo dell'autonomia dei sistemi computazionali che rendono invisibile la forza lavoro umana necessaria per concepire questi sistemi e per colmare le loro lacune. Questa rimozione è una costante, storicamente non riconosciuta, in tutte le principali formulazioni delle teorie sul mercato accademico e su quello dei capitali che finanziano i progetti di Google, Uber o Tesla sulle macchine-che-si-guidano-da-sole o sulle prossime missioni su Marte. 

 

Politica digitale

 

A cosa serve l’ignoranza del rapporto tra essere umano e tecnologia? Il problema non è soltanto quello di una banale rappresentazione mediatica, ma interroga i fondamentali dell'economia capitalistica e del potere nel XXI secolo. 

 

Questo dispositivo

  1. trasforma la forza lavoro in utenti, clienti, partecipanti o lavoratori a basso costo per compensare le carenze tecniche del digitale;
  2. legittima il comandamento contemporaneo: il lavoro non si paga e, nel caso, è il lavoratore a pagare per lavorare;
  3. legittima il potere assoluto delle grandi aziende tecnologiche; 
  4. trasformare l’autorità in un potere magico e oscuro che fa il “bene” del “popolo”, ovvero degli utenti di un dispositivo; 
  5. moltiplica la paura per l’apocalisse e l’angoscia di vivere in un mondo governato da potenze tecnologiche minacciose; 
  6. elimina l’idea di avere diritti in un mondo dove l’automazione è crescente ed è usata per indirizzare i corpi e le menti all’esecuzione di ingiunzioni contradditorie e devastanti. 

 

La mercificazione della maggior parte degli aspetti della vita contemporanea ha trasformato tecnologie come la robotica in strumenti a scopo di lucro invece di mezzi per la felicità umana o il benessere sociale. La spinta è così forte da essere scontata e indiscutibile. 

Abbiamo dimenticato che una delle prime promesse della robotica e delle tecnologie informatiche in generale è stata quella di ridurre, non di aggravare, il peso del lavoro per gli esseri umani, liberando il tempo e il desiderio per le attività culturali, la cura di se stessi e degli altri, per la politica e l’emancipazione attraverso la partecipazione. L’aspetto più importante della rivoluzione digitale oggi è fare lavorare di più in maniera sempre più miserabile, in un parossismo senza alternative. 

 

Fuori dall’ufficio propaganda

 

Al contrario di quanto dicono Brynjolfsson e McAfee “la nuova rivoluzione delle macchine” non sostituirà il lavoro con le macchine, ma metterà gli esseri umani al lavoro sempre di più, pagati sempre di meno, aumentando a dismisura i profitti stratosferici di chi già possiede le tecnologie. 

 

Invece di recitare la Bibbia dell’ufficio propaganda digitale – lo stesso che distribuisce ai propagandisti di tutte le latitudini i rendimenti delle azioni a Wall Street delle Big Tech– è giunto il momento di inventare un nuovo sistema che riconosce la realtà della forza lavoro e immagini il modo attraverso il quale lavoratori (e non) distribuiranno il valore del loro lavoro in un modo tecnologicamente, e politicamente, più giusto rispetto agli attuali sistemi di micro-pagamento, il cottimo 2.0. 

La tecnologia oggi si basa sul lavoro umano attivo che deve produrre risultati. I social media forniscono valore alle aziende attraverso il lavoro degli utenti che popolano i database di siti come Twitter e LinkedIn, fornendo informazioni personali rivendute ad altre società o usate per promuovere pubblicità. 

Questi sistemi quantificano, mercificano, smaterializzano e riducono le persone a un insieme di abilità, attributi e preferenze. Attraverso questo processo di riduzione algoritmica, il lavoro di milioni di persone – in generale gratuito, solo a volte sottopagato –, viene estratto un valore immenso gestito in modo efficiente senza pagare le tasse. 

 

Il lavoro, inteso sia come remunerazione che come produzione, è sostituito da un sistema di ricompense che coinvolgono gli attori in una gara avvincente per la conquista della visibilità in vista di un premio simbolico che appaga il narcisismo e la speranza di affermarsi in un sogno di onnipotenza e singolarità assoluta. Il motore di questo scambio simbolico è l’aiuto tra pari e i meccanismi di condivisione, oltre che il sistema di sorveglianza reciproca e di auto-controllo di chi si impegna in una competizione. L’aiuto tra pari e gli algoritmi si combinano.

Quello che dobbiamo aspettarci non è la rivolta degli androidi assassini, né la sostituzione del lavoro da parte degli algoritmi, ma una rivoluzione nel nostro rapporto con le macchine e con noi stessi. Da qui passa il potere, da qui passa l’alternativa. 

Fuori dall’ufficio propaganda digitale c’è vita. 

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Manga e anime

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Caro, vecchio Goldrake fai ancora un figurone

Ieri la critica di sinistra non capiva i cartoon giapponesi e oggi gli anime si prendono la loro rivincita, anche senza la televisione

 

PARIGI — Sono di ritorno dall’ultima intensa giornata di Japan Expo, la kermesse delle culture pop giapponesi che si tiene ogni luglio – quest’anno dal 5 all’8 – al Parc des Expositions di Parigi.  Attrae centinaia di migliaia di francesi, la maggior parte dei quali fra i 15 e i 25 anni che si riversano negli immensi padiglioni, che potrebbero contenere un’armata di Gundam a grandezza reale. E hanno un’intenzione di spesa media di 200 euro fra manga, dvd, gadget, accessori e prelibatezze culinarie nipponiche, riferisce Thomas Sirdey, uno dei tre fondatori della fiera.

 

Nello stendere queste righe comincio con una notazione un po’ dura ed è per questo che dovevo partire dal contesto transalpino: l’Italia e il Giappone stanno perdendo una grande occasione per ravvivare una volta di più quello che negli anni Ottanta e poi nei Novanta si era configurato come il grandissimo exploit dei cartoon e fumetti giapponesi nel nostro paese, molto più penetrante e massiccio che in qualsiasi altro paese europeo, come ho documentato e analizzato nello studio sociologico Il Drago e la Saetta (Tunué 2008, 650 pp.) e ancor prima in Mazinga Nostalgia (1999, 2018). I sistemi dei media e delle industrie creative italiani sembrano ormai incapaci di muovere capitali importanti in merito ai prodotti giapponesi: per esempio, le serie animate del Sol Levante sono scomparse dalle reti in chiaro; e le aziende di Tokyo sono scettiche sull’investire risorse da noi, anche perché hanno alzato i prezzi, pertanto le società di casa nostra non fanno i salti di gioia all’idea di acquistare serie che anni fa costavano un terzo o un quarto di quelle americane e che oggi invece hanno prezzi simili. Non è un caso che la filiale europea della Tōei Animation (lo studio di Goldrake, Candy Candy e Dragon Ball) sia stata aperta a Parigi, malgrado dal 1978 al 2005 sia arrivato in Italia il triplo delle serie giapponesi (animate a fumetti) viste in Francia; tredici anni fa, peraltro, il sorpasso dei Cugini. 

 

La popolarità mainstream dei cartoon giapponesi per la tv, così trasversali e interclassisti (sulla Rai e nelle stazioni private raggiungevano tutti i bambini: quelli con le scarpe bucate e quelli che i buchi nelle scarpe li avevano di serie e di marca), per anni è andata perduta in un mare di indifferenza e si è trasformata in una costellazione di nicchie di nostalgici ormai quarantenni, riuniti in una subcultura che si nutre di concerti revival e di collezioni di dvd e gadget su Jeeg Robot& co. ma non può più nemmeno rivendicare come una medaglietta sul petto lo stigma che fino a quindici anni fa sanzionava gli anime e i manga come prodotti iconoclasti, brutti, sporchi e cattivi – detto per inciso, erano invece tutto l’opposto, com’è stato dimostrato nei miei studi e nell’illuminante libretto di Luca Raffaelli Le anime disegnate (1994, anch’esso in uscita nel 2019 in un nuova edizione).

 

 

La normalizzazione e parziale accettazione di questa subcultura in Italia ha tuttavia i suoi vantaggi: in primis, la transustanziazione degli anime dal supporto televisivo a quello su piattaforme internet come Netflix e altri servizi simili per abbonamento. Un processo che però ancora stenta. Oggi il leader europeo della distribuzione di anime su internet, Wakanim, è presente nei principati mercati del continente ma non in Italia, dove – mi dice il suo fondatore e proprietario, Olivier Cervantès – la fa da padrone la piattaforma tutta italiana Vvvvid ma con risultati inferiori in confronto ai numeri francesi o tedeschi. Insomma, si sta consumando il passaggio dalla trasmissione per tutti mediante la tv a quella per chi usa il pc e pratica il binge-watching (bulimia dell’audiovisione: tre, cinque, dieci episodi in sequenza visti in una notte); questo vale in generale e sta funzionando anche per l’animazione nipponica. Questa transizione potrebbe produrre una riscossa dei cartoon giapponesi vecchi e nuovi grazie alle nuove abitudini di consumo. Però c’è una possibile incognita: i quarantenni di oggi vanno in brodo di giuggiole se vedono immagini o odono note musicali riferite gli eroi giapponesi della loro infanzia, allorché per la prima volta entrarono in contatto con gli anime proprio grazie alla televisione; invece oggi il primo accesso agli anime subentra nell’adolescenza o nella prima giovinezza: basti guardare al pubblico di Rai 4, che dal 2009 al 2015, grazie alla lungimiranza dell’allora suo direttore Carlo Freccero, ha trasmesso molti anime di qualità alla sera e per un pubblico tutt’altro che infantile. L’incontro con questa forma di intrattenimento in età più avanzata produrrà un pubblico fedele e coinvolto fra quindici anni? A giudicare dalle folle di astanti delle tante fiere italiane del settore come Lucca Comics & Games dovremmo dire di sì; staremo a vedere.

 

Nel frattempo possiamo registrare la consacrazione a nazionale-popolare (nel senso originario introdotto da Antonio Gramsci) di alcuni eroi giapponesi sì, ma naturalizzati italiani, a partire dal mitico Goldrake: vituperato dalla stampa di sinistra fin dal 1978 sia in Italia che in Francia (dov’è noto come Goldorak), fu sostanzialmente incompreso perché mai realmente esaminato con dovizia. Michele Serra, in un vecchio articolo su L’Unità del 1981 (“Caro, vecchio Topolino fai ancora un figurone”), lo condannò a vantaggio di Mickey Mouse, in un capovolgimento invero spassoso: per mettere all’indice le presunte brutture dell’intrattenimento industriale alla giapponese, Serra portava come esempio virtuoso uno dei simboli dell’imperialismo culturale un po’ bigotto all’americana.

Oggi possiamo passare quel tipo di critica blasé e alquanto prevenuta in cavalleria. Il paladino della resistenza interetnica e interstellare, il pacifista re-filosofo Actarus con il suo maestoso, arcano ufo-robot – di cui si celebrano quest’anno i quarant’anni di successo immarcescibile nei cuori di una generazione, per la quale nel 1999 coniai appunto la definizione “Goldrake-generation” – è ancora vivo e, anche se non lotta con noi, in compenso è divenuto un classico nel senso calviniano: va riscoperto, perché certi suoi contenuti educativi di grande profondità non hanno ancora finito di dirci quel che hanno da dirci.

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Singolarità tecnologica

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Westworld e Humans sono solo due tra le più recenti serie televisive che mettono a tema il nostro rapporto con la singolarità tecnologica, cioè con il momento in cui si produrrà quel salto evolutivo caratterizzato dalla realizzazione di un’intelligenza di tipo superiore, artificiale. Se in Westworld i robot intelligenti sono oggetti di intrattenimento di un parco tematico per ricchi, in Humans sono parte della classe operaia che svolge quelle mansioni che gli umani non vogliono più svolgere, sono assistenti familiari con la funzione di domestici e badanti forniti dal servizio pubblico. Entrambe le serie ci mettono di fronte a questioni etiche e al bisogno di una morale capace di affrontare il rapporto con il post-umano ma soprattutto ipotizzano la singolarità, il momento in cui i robot acquisiscono consapevolezza e libero arbitrio, diventando una specie evolutivamente competitiva nei confronti dell’uomo.

 

In tal senso questi prodotti dell’immaginario non fanno altro che mettere a fuoco le inquietudini del nostro rapporto con le tecnologie intelligenti che, sottotraccia, cogliamo già in un presente prossimo con le auto che si guidano da sole o con gli assistenti intelligenti nei nostri smartphone o gli smart assitant domestici, quelli commercializzati da piattaforme come Amazon e Google. Ma ancora di più nei progetti di robotica, che spesso conosciamo perché raccontati nel mondo dell’informazione, che prevedono tecnologia dalle fattezze umane, capace di espressione facciale, di interazione in linguaggio naturale; fatti di umanoidi capaci di assistere gli anziani anche in relazione alla telemedicina. In un mix tra fascino e preoccupazione ci prepariamo sempre di più al “momento robotico”, come lo definisce la psicologa Sherry Turkle, il momento in cui saremo sempre più disposti a considerare le macchine come reali interlocutori per le nostre questioni personali e intime, il momento in cui saremo empaticamente predisposti a relazionarci con loro.

 

 

È così che le questioni legate alla presenza sociale delle macchine e all’esplosione di una loro intelligenza escono dalle speculazioni accademiche per entrare in un ambito di interesse sociale più vasto, tra approccio futurista e un bisogno immediato di mettere a tema qualcosa di inevitabilmente vicino.

Il libro Vita 3.0. Essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale (Raffaello Cortina Editore, 2018), recentemente uscito, è in questo senso uno strumento per costruire oggi un pensiero sull’intelligenza artificiale che ci aspetta domani e sui cambiamenti che introdurrà nell’ambito del lavoro, della cura e della giustizia. Max Tegmark, professore di fisica al MiT e presidente del Future of Life Institute, ha il dono di saper raccontare la complessità del futuro dell’artificiale intelligente ponendo le domande giuste per progettare oggi un allontanamento dei rischi domani, analizzando il pensiero di utopisti digitali – per i quali la vita digitale rappresenterà il prossimo passo dell’evoluzione e, quindi, dobbiamo solo lasciarla sviluppare come una cosa naturale –, tecnoscettici – che ritengono talmente complessa la costruzione di un IA dall’intelligenza umana da non rappresentare un problema reale – e appartenenti al movimento dell’IA benefica, di cui Tegmark fa parte, che prende seriamente una visione polarizzata in cui lo sviluppo tecnologico potrebbe aiutare l’umanità a fiorire o diventare un incubo della cybersorveglianza globale e che quindi lavora cercando di tracciare il contesto culturale e morale in cui far sviluppare il futuro delle macchine in una direzione non orwelliana.

Secondo la prospettiva del volume, la vita può essere pensata come un processo complesso di mantenimento e replicazione che evolve per stadi: la Vita 1.0 è quella di tipo biologico, caratterizzata da hardware e software che sono soggetti alle dinamiche proprie dell’evoluzione; la Vita 2.0 è di tipo culturale, costituita dalla possibilità di progettare il proprio software grazie allo sviluppo consentito dall’apprendimento; la Vita 3.0 ha una natura tecnologica e ha a che fare con la possibilità di progettare anche il proprio hardware, progettando così la propria evoluzione. 

 

L’IA oggi è ristretta, opera cioè in campi specifici e contenuti, su fini limitati, a differenza dell’intelligenza umana che ha una natura ampia. Nel 1997 il computer Deep Blue dell’IBM ha battuto a scacchi il campione mondiale Garry Kasparov, ma si tratta di una macchina particolarmente esperta in quel campo specifico. Ma il miglioramento tecnologico consentirà a tecnologia più potente di cominciare a costruire tecnologia più potente, in una una spirale ascendente in cui vedremo reti neurali sempre più complesse capaci di apprendere ad apprendere. Nel 2015 Google ha reso pubblico il metodo di apprendimento profondo con rinforzo della rete neurale usata per l’IA Deep Mind che consente di imparare da sola diversi giochi online. Oggi abbiamo computer che usano reti neurali di questo tipo per “giocare” con altri computer, evolvendo quindi, per ora, all’interno di simulazioni. C’è da chiedersi cosa accadrà se robot con reti neurali di questo tipo verranno lasciati liberi di evolvere in ambienti reali. 

Il punto, quindi, non è la trasformazione malvagia della macchina, che abbiamo esorcizzato in una miriade di prodotti dell’immaginario fantascientifico, ma la sua competenza nel raggiungere i fini che le sono stati dati attraverso la progettazione algoritmica. Come spiega Tegmark: “Probabilmente non odiate le formiche così tanto da andare in giro a schiacciarle per pura cattiveria, ma se siete responsabili di un progetto idroelettrico per l’energia verde e c’è un formicaio nella regione che verrà inondata, tanto peggio per le formiche. Il movimento per l’IA benefica vuole evitare di mettere l’umanità nella posizione di quelle formiche.” (p.67) 

 

Nel volume vengono analizzati diversi contesti in cui l’IA, in particolare quella più robusta, verrà applicata in modi sempre più complessi: dal mondo delle comunicazioni a quello dei trasporti, dall’esplorazione spaziale alla finanza, dalla sanità al mondo dell’energia, passando ovviamente per la produzione. In questi contesti dovremo affrontare diverse questioni relative alla sicurezza, alla privacy, ai rischi dovuti all’automazione, alla possibilità di errore tecnico e di anomalie nell’hardware o nel software. Ma la trasformazione più profonda ha a che fare con il nostro essere umani, col significato che avrà l’essere umano in un mondo con l’IA: “già nel breve termine, molto prima che un IAG (Intelligenza Artificiale Generale) possa essere alla pari con noi in tutte le attività, l’IA potrà avere conseguenze drastiche su come vediamo noi stessi, su quello che possiamo fare affiancati dall’IA e su quello che possiamo fare per guadagnare denaro facendo concorrenza all’IA” (p. 127).

Una delle ipotesi suggestive presentate dal libro su cosa farà scattare la singolarità è rappresentata dalla teoria del caricamento dell’intelligenza umana in una macchina. È un percorso che si colloca lungo la possibilità di produrre dei cyborg, ibridi tra carne e silicio, che non è solo materia fantascientifica cyberpunk ma propria di una riflessione culturale che dagli anni ’90 è stata esplorata proficuamente, pensiamo solo ai lavori di Donna Haraway, e che rimanda all’evoluzione di innesti e protesi sempre più raffinate. 

 

 

Ripercorrendo le suggestioni del pensiero di Ray Kurzweil, autore di La singolarità è vicina, Tegmark racconta – considerandola una prospettiva però minoritaria pur se possibile – come “l’uso di nanobot, di sistemi a biofeedback intelligenti e di altre tecnologie [finirà] per sostituire prima i nostri sistemi digerente ed endocrino, il nostro sangue e il cuore, agli inizi degli anni Trenta del ventunesimo secolo, per poi passare ad aggiornare scheletro, pelle, cervello e il resto del nostro corpo nei due decenni successivi” (p. 205). I cyborg sono quindi letteralmente intelligenze nella macchina, corpi umani che si modificano fino alla sostituzione completa degli organi che prelude al caricamento dell’intelligenza umana nella macchina, una realtà non incompatibile con i limiti posti dalla fisica, quindi che ha a che fare con il campo delle possibilità – “Quando?” si chiede Tegmark, non “se”. Anche in questo caso la serialità contemporanea ha esplorato nella recente produzione Netflix Altered Carbon, tratta dall’omonimo romanzo cyberpunk, spingendosi oltre il limite, quello di intelligenze umane che vengono scaricate in altri corpi umani.

 

Anche qui siamo di fronte a prefigurazioni che i prodotti dell’immaginario trattano in modo emotivo, spesso mettendoci di fronte alle nostre paure – quelle della prevaricazione da parte delle macchine – ma che nell’avvicinarsi concreto della prospettiva IA evoluta, nella sua quotidianizzazione nelle nostre vite – pensiamo alla diffusione di oggetti intelligenti – stanno aprendosi a questioni etiche più complesse, mostrando l’esigenza di parlare di nuovi diritti – quelli dei robot –, esplorando elementi complessi che rimandano a vissuti interrazziali e a un’antropologia del post-umani: tra Terminator e Humans, per capirci, c’è un abisso. La nostra esigenza oggi è abituarci a un pensiero che contempli la Vita 3.0 come prospettiva concreta.

 

Il lavoro che fa Tegmark in questo volume ci porta a pensare l’IA in modo meno reattivo e più proattivo. Abbiamo quindi bisogno di sviluppare un’etica dell’IA che non si faccia guidare da una casistica spicciola o dagli ultimi hype sulle reti neurali. Dobbiamo pensare al nostro modo di relazionarci con le macchine che parta da una consapevolezza sociologica e culturale e non dalle necessità ingegneristiche legate alle interfacce. E abbiamo bisogno di elaborare il pensiero di un rapporto con un’intelligenza diversa com’è quella delle macchine, per cui possono servire anche prodotti dell’immaginario come serie tv capaci di farci porre molte domande più che fornirci sbrigative risposte catartiche.

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Anatomia do Paraíso

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Beatriz Bracher (San Paolo, 1961), scrittrice brasiliana ancora inedita in Italia, è una delle voci attualmente più rispettate e ammirate nel suo Paese. Il crescente consenso critico sinora ottenuto ha premiato l’originalità della scrittura e la capacità dell’autrice di rinnovarsi in ogni sua nuova opera. In rapporto alla trama e alla dimensione psicologica dei personaggi, la narrativa di Bracher è caratterizzata da scelte molto particolari, che ogni volta dettano e stravolgono anche la struttura formale del romanzo.

 

Con il suo ultimo lavoro, Anatomia do Paraíso (Editora 34, 2015) – del quale presentiamo in anteprima alcuni estratti in traduzione – Bracher ha ottenuto importanti riconoscimenti, come il Prêmio Rio de Literatura, e il Prêmio São Paulo de Literatura espressamente dedicato alla narrativa. Dopo anni dedicati al lavoro editoriale (è stata tra i fondatori della casa editrice Editora 34 di San Paolo), Beatriz Bracher esordisce come scrittrice nel 2002 con un romanzo, Azul e dura, il cui stile già maturo richiama subito l’attenzione della critica. Alternando i romanzi alle raccolte di racconti, Bracher crea un solido percorso nel quale, attraverso la scelta di prospettive e temi sovente contraddittori, spesso presenta i limiti dell’atto narrativo in sé, incapace di fornire versioni univoche dei fatti. La tensione sempre latente che ne risulta dipinge una società da secoli divisa e stratificata, in cui i diversi valori e le consuetudini sociali interagiscono, si confrontano e offuscano la comprensione diretta della realtà. (Prisca Agustoni)

 

Frammento 

 

È un lunedì mattina d’inizio autunno, uno studente scrive, curvo sulla scrivania nel suo minuscolo appartamento al nono piano di un palazzo dai lunghi corridoi. Su un quaderno dalla copertina ocra, Félix copia gli appunti presi durante gli ultimi mesi dedicati al Paradiso perduto di Milton. Mentre scrive non percepisce la vibrazione della gru nel cantiere di fianco e nemmeno il formicolio alla gamba, da quattro ore nella stessa posizione. Non alza la testa stirando la spina dorsale, non guarda i palazzi di fronte alla sua finestra, né la favela Pavão-Pavãozinho che si estende sulla collina con il suo verde senza vigore. 

Già totalmente cieco, durante le estati e gli inverni londinesi anteriori al 1667, Milton scrisse sulla caduta di Lucifero dal Cielo e sull’espulsione di Adamo ed Eva dal Paradiso.

 

Prisca Augustoni.


Féliz fa uno sforzo per decifrare la propria calligrafia ai margini del libro di poesia con traduzione portoghese, rilegge i versi sottolineati, e gli altri sui quali cade il suo sguardo; decifra gli appunti e aggiunge una frase sul quaderno. Quando sfiora la leggera scanalatura lasciata dalla sua matita al margine della pagina, vicino ai versi stampati, il ragazzo di ventiquattro anni, alto, pelle lattea e quasi imberbe, sente i granelli di sabbia che vi si depositarono, e si ricorda della forte luce del sole sulla pagina del Paradiso, del caldo sul suo corpo, seduto in riva al mare e della vibrazione delle parole nella sua testa. Ne rimase così sorpreso che la mina, come la punta di un sismografo, registrò la sua energia in linee simili a un mare increspato, con abissi e creste spumeggianti.

La finestra dell’appartamento guarda verso il sole della sera. Di solito Félix si alza prima che nasca il giorno, cammina fino alla spiaggia e aspetta che il sole appaia dietro allo scoglio del Leme. Non esiste parola per esprimere la luce rosa e la trasformazione provocata dall’alba sulle pietre monumentali che si stagliano sul mare calmo, pensa Félix, in un tale stato di sospensione che gli fa percepire il proprio corpo indistinto dal colore del giorno.

 

Nel bar all’angolo, Oneida gli offre un caffelatte e un panino. Dopo la colazione, Félix ritorna alla stanza ancora fresca con vista sulle quattrocento finestre degli otto piani che cingono un insieme di case basse, a schiera, attraverso le quali possono circolare la luce del sole e l’aria. Dietro ai palazzi che si trovano sulla destra, in fondo, le baracche sulla collina moltiplicano il numero delle finestre contate da Félix quando lo sguardo e il pensiero si riposano dalle scene straordinarie del Paradiso perduto. 

Scrive nelle pagine rigate del quaderno, la gamba si indolenzisce e i versi brillano: coralli, opaline, smeraldi, fuoco e filigrane d’oro. Scritti più di trecento anni fa, la rivolta degli angeli, la caduta di Lucifero, la creazione di Adamo, la sua disgrazia e il paradiso perduto; quanto tempo fa? Nascono in questo momento, di nuovo e una volta ancora, nascono e sono versi più antichi dell’uomo; sprofondano in acque che il sole non conosce.

Scendono, toccano il fondo; lì aspettano. Sabbia e sale; cocci di conchiglie, ossa di pesce e di mammiferi morti sul fondo dell’oceano. Onde leggere, poi più intense si avvicinano al gancio in attesa. Uno strappo e il filo si tende, bisogna tenere i piedi ben saldi per terra, tenerlo stretto e girarlo con cautela, il mulinello, per non rompere il filo. La canna s’impenna e finalmente appare sulla superfice dell’acqua – e poi già in aria – un animale vivo che sgambetta e getta luce tutt’attorno. È la memoria dell’uomo. Quanto maggiore il luccichio dell’animale, più intenso il suo sanguinare, tutto è fresco ed è già morto. L’odore di mare invade la stanza. 

 

2.

 

Nello stesso palazzo, in via Francisco Sá 88, a tre blocchi dalla spiaggia di Copacabana, alle cinque del mattino, nel suo piccolo appartamento, in arretrato con l’affitto, Vanda scavalca il letto della sorellina, appende la camicetta al gancio dietro alla porta e si fa una doccia. Poi recupera i panni asciutti, stesi sullo stendino retrattile appeso fuori dalla finestra, li piega e li sistema. Nuda, si siede al tavolo appoggiato contro la parete, vicino al letto, accende l’abat-jour la cui lampadina è di 40 watt e non disturba il sonno della sorella, ripassa le lezioni studiate la sera prima.

Alle sei accende il fornello per riscaldare il latte. Maria Joana, dodicenne, si sveglia, si lava il viso e si veste. Tira il lenzuolo, infila il suo letto sotto quello di Vanda e beve la cioccolata calda. Vanda indossa dei pantaloni jeans che si chiudono con difficoltà, le anche si allargano, il reggiseno stringe. Poi le sorelle si caricano gli zaini pesanti in spalla, infilano le scarpe da tennis consumate ed escono dalla stanza. Vanda chiude la porta con la manopola dorata, gira la chiave. Mentre si dirige verso l’ascensore, verifica mentalmente il contenuto degli zaini; nel suo, un succo di frutta, mappette, pranzo pronto solo da riscaldare, una banana, indumenti per la ginnastica, asciugamano, sapone, shampoo, le chiavi di casa e degli armadietti degli spogliatoi dell’Istituto e della palestra; nello zaino della sorella: quaderni, libri, succo di frutta, una banana e le chiavi di casa.

Le due sorelle camminano per dodici isolati fino a raggiungere la scuola di Maria Joana. 

  • Hai studiato tutto il capitolo? – chiede Vanda.
  • A-ahm – risponde Maria Joana. 
  • Quando sono rientrata stavi già dormendo.
  • Le mestruazioni sono forti questo mese, ho preso una pastiglia e sono crollata.
  • Hai studiato per bene?

Vanda dorme nell’autobus fino all’Istituto Medico legale di Itabró, città vicina a Rio de Janeiro. Si cambia i vestiti, mette dei pantaloni e un gilet marrone, una cuffia, dei guanti, degli stivali di plastica bianchi ed entra nella sala dell’autopsia.

Ritira dall’armadio congelato un cadavere femminile, legge la scheda, è il corpo di una donna senza nome, inizia così il suo lavoro. 

 

Traduzione di Prisca Agustoni. Beatriz Bracher, Anatomia do paraíso, São Paulo, Editora 34, 2016.

 

Beatriz Bracher sarà oggi a Babel, Festival di letteratura e traduzione, alle ore 14.00 al Teatro Sociale.

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“Daisy Miller”: una recensione immaginaria

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Anna Banti, è lei stessa ad annotarlo, andava al cinema «alle tre, tre e mezzo, l’ora delle donne di servizio». È un’immagine inedita perché intesse alla postura rigida con cui sovente viene rammentata la scrittrice fiorentina un atteggiarsi meno severo, come un dimenticare di essere Lucia Lopresti in Longhi, colta studiosa d’arte e narratrice celebre con lo pseudonimo di Anna Banti, mentre si concede il gusto di immergersi nei film insieme a spettatori e spettatrici forse meno provveduti culturalmente ma pronti, come lei, a commuoversi, ridere, annoiarsi davanti alle star del grande schermo. Così, tra le righe della scrittura sul cinema di Banti s’intrecciano la frivolezza e il rigore, e la ricerca strenua di una saldezza ideologica si accosta al piacere venato di nostalgia di rivedere i volti delle stelle che, confidente, chiama per nome: Greta, Marlene, Jean...

 

È certo vero che nelle recensioni – che si dispiegano in un arco di quasi trent’anni, dal 1950 al 1977, prima, come timidamente, su «Paragone» e poi, con toni più professionali, su «L’Approdo» e «L’Approdo letterario», rivista che la Rai accompagna alla rubrica radiofonica omonima − Banti si muove con piglio intemerato che la porta a una certa fermezza ideologica nei giudizi. Ma sarebbe un errore limitare il suo pensiero sul cinema all’acrimonia di una certa caustica fiorentinità, forse gustosa ma trascurabile sul piano della critica, confinandone le pagine nella cura, preziosa ma in fin dei conti inutile, del bello scrivere. E in effetti, quell’immagine di lei che va al cinema nelle prime ore del pomeriggio, quasi di nascosto, come fosse una trasgressione dal piacere sottile e infantile, suggerisce anche un porsi meno impettito e più incline all’empatia. 

 

Se si ha la pazienza di leggere le molte pagine bantiane – raccolte nel volume Cinema. 1950−1977, curato da Maria Carla Papini e pubblicato dalla Fondazione Longhi nel 2008, da cui è tratto il testo che segue – si scorgono trame meno evidenti. Succede quando Banti, stanca del suo stesso lamentarsi della pochezza delle visioni squadernate sui grandi schermi italiani o francesi («tempi di magra, per chi crede nel cinema»), si azzarda a preferire la «fantasia» al «giudizio» e prova a immaginare una sceneggiatura per il racconto Daisy Miller di Henry James (1878). Sono due pagine percorse da un afflato che vorremmo dire femminista, non fosse che Banti detestava questa definizione. 

 

 

La Daisy Miller che la scrittrice evoca, «americana del 1874», riprende i tratti jamesiani di giovane donna inconsapevole della propria audacia. Nel testo, Daisy è una «pretty American flirt», «unsophisticated», miscuglio imperscrutabile di «audacity and innocence»; una giovane spregiudicata che non si rende conto di esserlo e che con il suo atteggiarsi leggero – cammina per le strade in compagnia dei suoi ammiratori senza chaperon, disdegna la prudenza ipocrita dei riti sociali, fino a intrattenersi a tarda notte, a Roma, in compagnia di un italiano di dubbia reputazione, e morendo poi di malaria – sfida le convenzioni che regolano il comportamento femminile e lo relegano alla riservatezza delle buone maniere che conducono a un’esistenza irreprensibile e prevedibile. Banti ricalca il ritratto di Daisy e vi sovrappone le figure femminili che in quegli anni andava tratteggiando. Così la protagonista del film allora solo fantasticato (Peter Bogdanovich porterà Daisy Miller sullo schermo nel 1974, con protagonista Cybill Sheperd; ma Banti non lo segnalerà) è «in anticipo sulle sue compatriote», «inconsapevole pioniera» alla ricerca di una libertà «formidabile» quanto lo sono la «selva dei pregiudizi» e «delle ipocrisie del suo tempo». Come molte delle «personagge» bantiane – uso consapevole il neologismo introdotto di recente dalla critica femminista, che segnala la ribellione, anche linguistica, alle gabbie di stereotipi che racchiudono il comportamento delle donne nei canoni del femminile – Daisy vuole sfilarsi dalle pagine numerate del copione. 

 

L’idea di cinema che fa capolino da queste pagine evoca un racconto che ritesse le fila della letteratura bantiana ricamando, sull’ordito del romanzo di James, la trama di figure femminili inedite, sospinte verso un’indipendenza che cozza contro un universo al maschile pronto a circondare di vergogna le donne desiderose di uscire da un oroscopo obbligato. «Cosa pretendeva Daisy Miller? Di passeggiare, di scherzare, di “flirtare” un poco, giovanilmente, senza che la gente la sospettasse di nequizia. E perché le fu impossibile, non le importò di morire»: piena di grazia frivola e al contempo consapevole di sé e dei suoi desideri, Daisy chiedeva solo di andare al cinema alle tre, tre e mezzo, insieme alle donne di servizio. (Chiara Tognolotti)

 

Cybill Sheperd nella versione cinematografica (1974) del racconto di James, diretta da Peter Bogdanovich.


Daisy Miller

 

Tempi di magra, per chi crede nel cinema: le nostre previsioni scoraggiate si verificano, purtroppo, appuntino e ogni serata male spesa ce le riconferma, togliendoci via via la speranza di quella lieta sorpresa (un film senza pubblicità che inaspettatamente prenda quota) sempre invocata dal nostro cuore. Dal cinema italiano, almeno per ora, siam quasi certi che non verrà. La tanto deplorata Romana non era neppure un cattivo film, era solo un film mediocre, e quanto a Senso di Visconti ci dicono stia subendo, in clinica chirurgica, le più crudeli amputazioni di questa età farisaica. Né sarà la Francia a far salire il barometro depresso, colle illusorie grazie di un Monsieur Ripois [Le amanti di Monsieur Ripois, 1953, di René Clément], invecchiato come Gérard Philipe o di un Air de Paris [Aria di Parigi, 1954, di Marcel Carné], affaticato, stanchissimo. Tace, o quasi, l'Inghilterra; dell'America non occorre parlare, quando non si affrontino i batticuore del film giallo e livido. His fretus, ci è venuto in mente che gli spettatori potrebbero, almeno per una volta, esercitare, in luogo di un giudizio, la propria fantasia. E valga un esempio.

 

Sono anni – che dico? – decenni che aspettiamo il regista W.Y. o il regista M.N. alle prove con un soggetto di nostra predilezione. Tanto lo aspettiamo che potremmo suggerirgli gli sceneggiatori, gli attori, i costumisti e tutto quanto. Ve la ricordate la storia di Daisy Miller, raccontata da Henry James? Nel nostro film, la figura indimenticabile di questa ragazza americana in anticipo sulle sue compatriote di almeno ottant'anni, agisce e pensa con una obbiettività che più visiva non potrebbe essere. Lei ha avuto vent'anni nel 1874 e non è colpa sua se si comporta come faranno le più savie delle sue nipoti nel 1954 e passa, quando si mantengano, per grazia di Dio e naturale inclinazione, limpide e innocenti.

Tale era miss Daisy, al tempo che incontrò a Vevey, davanti al lago Lemano, il giovane Winterbourne, suo conterraneo, ma educato a Ginevra. Gli abiti secondo impero e i gesti misurati non impediranno all'acuto regista d'impostare con finezza il personaggio della inconsapevole pioniera e del riflessivo intellettuale europeizzante, posto dinanzi a un problema femminile avanti lettera. Coincidenza portentosa, miss Daisy possiede una madre ipocondriaca, picchiatella, apparentemente svaporata (che ruolo per Billie Burke!) che le lascia fare ciò che vuole, costume già praticato in America, ma riprovato in Europa dalle americane medesime. L'ambiente è quello cosmopolita di un grande albergo svizzero, dovizioso di spunti di colore e di satira mondana, oltreché ottocenteschi, attualissimi.

 

Ed ecco, il vento di scandalo che, senza sconvolgerla, soffierà per tutto il film sulla figura della protagonista, si fa lieve brezza romantica durante la gita al castello di Chillon, insidiata da sguardi malevoli, ma di una così icastica innocenza che la stessa curiosità del giovane corteggiatore ne rimane come purificata. Nulla impedisce alla ragazza di dimostrare a Winterbourne la sua candida simpatia, come nulla la tratterrà dal dichiarargliela inalterata, quando, fra pochi mesi, lo incontrerà di nuovo, a Roma. Ma nel frattempo il vento dello scandalo è divenuto glaciale e tagliente, né valgono a mitigarlo il sole meridionale e la chiara e mite spensieratezza di miss Daisy. Adesso l'americanina se ne va in giro – orrore! – con un signor Giovannelli, il tipo, secondo le matrone cosmopolite, del cacciatore di dote senza scrupoli: e l'istintivo rispetto di mister Winterbourne comincia a tentennare.

 

E qui si dichiarerà la bravura del nostro regista. Una serie di scene spettacolari nel paesaggio più bello del mondo, fra monumenti illustri: e l'aperta seppure inconscia polemica di una fanciulla integra contro la formidabile selva dei pregiudizi, delle ipocrisie del suo tempo. Ecco l'impetuosa miss Walker che lancia la sua pariglia all'inseguimento di Daisy sul Pincio, nell'ora della passeggiata. Ma la fanciulla rifiuta questo salvataggio teatrale della sua reputazione e chi pensasse di scorgervi un aperto gesto di ribellione, potrebbe anche sbagliare, in realtà Daisy non ha voluto mortificare il povero Giovannelli che l'accompagnava a passeggio. Che altro le rimane da fare se i suoi connazionali ed eguali si accordano nel voltarle le spalle? Seguita dal suo cavaliere occasionale, in fondo più galantuomo e rispettoso dei tanti gentlemen cosmopoliti del suo mondo, essa continua la sua vita innocente, ma, ormai, oscuramente amareggiata.

 

Sempre più dubbioso, sempre meno amichevole, Winterbourne la incontra a San Pietro, al Castello dei Cesari, ma con lei non si trattiene. E tutto si conclude nel clima già delicatamente funereo della visita notturna al Colosseo, dove il giovane riceve l'ultimo colpo: Daisy, turista instancabile, scortata dall'assiduo romano, e con lui seduta, poco innanzi alla mezzanotte, nella solitaria arena. Chi può credere, ormai, alla sua innocenza? Certo non Winterbourne che, riconosciutala, s'allontana senza salutarla. «Ma è Winterbourne!» esclama la fanciulla; e, costretto ad avvicinarsi, egli ne profitta per adempiere il suo ultimo dovere verso di lei, freddamente umano e quasi impersonale. «Andate a casa subito, o prenderete la “febbre romana”» egli insiste, mentre ella vorrebbe spiegargli, nel suo candido entusiasmo, come sia felice di aver visto il Colosseo a lume di luna. Il signor Giovannelli è andato innanzi a cercare la carrozza, i due giovani camminano soli, com'erano a Chillon quando si conobbero. Ma Daisy si ferma e guarda il compagno: «Avete creduto, l'altro giorno, che fossi fidanzata?». A cui Winterbourne risponde: «Lo siate o no, per me è indifferente».

 

 

Lo spettatore capirà a questo punto che Daisy avrebbe amato Winterbourne come una ragazza d'oggi ama il suo compagno liberamente scelto. Così, senza segni d'amore e senza baci una storia d'amore si conclude, lugubremente. «Poco m'importa di prendere o no la febbre romana» afferma stancamente la fanciulla, montando in carrozza. E l'ha già addosso. 

Apprezzeremo il buon gusto del regista che non c'introdurrà nella camera dove Daisy Miller va incontro alla morte ma, seguendo Henry James, nel vestibolo dell'albergo romano affollato di servitori, di “corrieri”, di turisti indifferenti e anche di chi chiede notizie della bella americana (non mancano i lazzi) rientrata dopo mezzanotte in compagnia di un uomo. Vi compare, pregata da Winterbourne, la povera mrs. Miller, non così svaporata, dopo tutto, se assiste con tanta intelligenza la figliola. «Non so perché» essa dice «ma per tre volte mi ha ripetuto di dirvelo che mai si è fidanzata coll'italiano; e se vi ricordavate di Chillon...».

 

Non vi aspettavate che Winterbourne, americano, ma educato a Ginevra, corra al letto della fanciulla morente. Lo rivediamo invece al cimitero protestante, tra una folla più numerosa e più dolente di quanto ci si potesse aspettare. In prima fila, il signor Giovannelli che, sul fresco tumulo, ha qualche cosa da dire. «Era», confessa, «la più bella creatura che abbia mai vista e la più gentile. E anche», qui abbassa la voce, «la più innocente».

Così si chiude il film, e non sappiamo se Winterbourne abbia inteso il messaggio di Daisy Miller: non un semplice messaggio d'amore, ma soprattutto dell'ansiosa fiducia che una donna – una americana del 1874 – chiedeva all'uomo che stava per amare. Cosa pretendeva Daisy Miller? Di passeggiare, di scherzare, di “flirtare” un poco, giovanilmente, senza che la gente la sospettasse di nequizia. E perché le fu impossibile, non le importò di morire. Ecco un film con tutte le grazie della frivolezza e tutto il peso morale di un documento d'oggi.

E farà bene il regista W.Y. a darci un antefatto del dramma che James non poteva immaginare: una moderna discendente dei Miller, in tutto simile alla lontana Daisy, che racconta al suo ragazzo, sulla fede di vecchie carte e fotografie, questa storia di amore e di dignità senza fortuna. Crediamo che anche l'America, dopo tutto, abbia bisogno di questi ricordi.

 

(Pubblicato originariamente su «L'Approdo», III, 4, ottobre-dicembre 1954; poi raccolto, con il titolo redazionale qui riportato, in A. Banti, Cinema. 1950−1977, a cura Maria Carla Papini, Fondazione Longhi, Firenze, 2008, pp. 41-44. Per gentile concessione della Fondazione Longhi).

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La magia dell’arte degenerata

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Lilly Abraham aveva solo 11 anni quando il Kindertransport la portava da Berlino a Londra nel marzo del 1939. È per lei e migliaia di bambini come lei, che non poterono vederla, ma ne ricevettero gli esiti, che Noel Norton, Irmgard Burchard, Richard Paul Lohse, Paul Westheim e Herbert Read organizzarono la mostra Twentieth Century German Art alle New Burlington Galleries di Londra nel giugno del 1938: oltre 300 opere di artisti tedeschi, fra cui Max Beckmann, Max Liebermann, Wassily Kandinsky, Paul Klee, Georg Grosz, Otto Dix e Kurt Schwitters, vennero esposte per presentare al pubblico inglese l’arte che la Germania non avrebbe più avuto, ma che, per fortuna, passando per Londra, sarebbe diventata del mondo.

 

 

A Hitler, infatti, convinto che l’arte dovesse essere solo figurativa, Kandinsky &C. non piacevano: l’anno prima, il 1937, due mostre a Monaco avevano scavato un solco, fra l’arte come doveva essere (nella visione nazista) e l’arte come avrebbe potuto essere (ma non sarebbe stata). La prima mostra, Große Deutsche Kunstausstellung (Grande arte tedesca), tenuta nella Haus der deutschen Kunst (Casa dell’arte tedesca), ebbe fra gli spettatori anche l’ineffabile Benito Mussolini, che nella foto davanti alla Kameradshaft di Josef Thorak appare insieme al Führer, naturalmente un passo indietro, in modo da sembrare più piccolo e più basso del suo omologo d’oltralpe.

 

 

La seconda segnò il discrimine: all’arte ufficiale del regime contrapponeva l’Entartete Kunst, l’arte degenerata, escludendo ogni sperimentazione formale e ricerca espressiva dall’orizzonte dell’arte tedesca. Ci fu pure un catalogo, di piccolo formato, con riproduzioni in riquadri inseriti nel testo, di modo che l’oggetto non diventasse di culto, ma semplicemente segnasse uno stigma. Una copia del catalogo si conserva alla Wiener Library di Londra, che ha ora rimesso in scena, in occasione dell’80⁰ anniversario, la mostra alle New Burlington Galleries, in una piccola, ma bellissima esposizione di documenti d’archivio, fotografie, manifesti e cataloghi, che ne ricostruisce genesi, contesto e ricezione: London 1938: Defending 'Degenerate' German Art.

 

L’allestimento non fu facile, ma il colpo d’occhio fu grandioso, perché per la prima volta gli spettatori poterono vedere insieme Kandinsky, Kirchner, Dix, Beckmann, Marc, Nolde, ecc., alcuni dei quali allora erano semisconosciuti a livello internazionale. La reazione tedesca fu immediata: a vedere la mostra vanno solo ebrei e immigrati, scriveva il Völkischer Beobachter, come se non fossero un pubblico anche loro, con quell’uso distorto della lingua a fini propagandistici (l’infamità del «solo») che avrebbe segnato l’esperienza più bestiale della storia umana. Eppure era ebreo lo scultore ufficiale del regime, Arno Breker, che era cresciuto sotto la protezione del gallerista Alfred Flechtheim, finché nel 1935 Hitler non separò le loro strade: fuorilegge Flechtheim, che sarebbe fuggito in Svizzera, servitore della nazione Breker, che avrebbe contribuito alla statuaria ufficiale del Terzo Reich. Uno dei tanti paradossi di quelle ideologie che preferiscono i sudditi ubbidienti ai collaboratori intelligenti, a costo di chiudere gli occhi davanti alle proprie stesse contraddizioni: come nel caso, rovesciato, di Nolde, che aveva aderito al nazismo e non era ebreo, ma si trovò tra i degenerati per via delle sue pitture moderniste. 

Cosa abbia significato il salvataggio di quell’esperienza artistica per la memoria e il progresso dell’umanità ce lo indica un’altra mostra londinese, alla Tate Modern, dove la collezione di George Economou consente di celebrare degnamente l’anniversario della fine della prima guerra mondiale (questo sì meritevole di essere festeggiato, tra i tanti happenings memoriali più o meno demenziali): Magic Realism. Art in Weimar Germany 1919-1933, tanto più lodevole quanto, inaspettatamente, gratuita – e destinata a durare quasi un anno, fino al 14 luglio 2019.

 

La scelta stessa di dedicare la mostra al realismo magico (formula coniata da Franz Roh nel 1925 per indicare il superamento dell’espressionismo a favore di un realismo aperto a suggestioni surrealiste, fantastiche e oniriche) anziché ad altre sigle possibili, da espressionismo, dadaismo e astrattismo fino a modernismo, è in realtà una precisa denuncia della visione ristretta e meschina dei gerarchi nazisti, che invece concepivano un solo tipo di realismo, materiale, monumentale e pedagogico. L’introduzione di elementi grotteschi, umoristici e fantastici nell’osservazione minuziosa della realtà quotidiana, con una forte carica satirica contro i miti della società borghese del tempo, è ciò che Hitler & Co. non potevano tollerare: basta prendere lo schizzo per Der Spisser-Spiegel (Lo specchio della borghesia, c. 1925) di George Grosz, col borghese grassoccio in primo piano che manda un bacio di nascosto dietro al cappello alla bella signora che saluta, mentre alle sue spalle un piccolo uomo arrabbiato si aggrappa al braccio di un’annoiatissima moglie più alta di lui, per capire quello scarto tra facciata rassicurante e tumulto sentimentale che avrebbe messo in crisi qualsiasi ideologia dell’ordine e della stabilità.

 

Non era solo un problema di contenuti, però, a conferma del fatto che forse i nazisti capivano di più di quello che di solito si pensa della pericolosità politica della dimensione estetica. Non erano certo solo il suicidio dipinto da Grosz nel 1916 o l’aborto suggerito da Radziwill nel 1929 (Gespräch über einen Paragraphen) a disturbarli, ma la deformazione delle figure, la luce diretta, il colore sparato, la visione allucinata, la composizione asimmetrica, la pluralità dei punti di fuga e la varietà apparentemente sconnessa dei dettagli. Così diverse nelle scelte figurative e nelle tecniche pittoriche, le due tele hanno in comune un particolare in posizione centrale, che segna la comparsa dell’irrazionale: una faccia-fantasma ridotta a macchia di luce e un angelo-fatina avvolto da un alone fiabesco (aggiunto in verità trent’anni dopo, quasi a commento) ci prendono per mano e conducono oltre la tela, in profondità o semplicemente fuori, distruggendo ogni ipotesi di spazio chiuso e controllato.

La comparsa dell’inconscio, la dimensione onirica, i turbamenti del desiderio, lo scontro tra la forma che compone e la vita che si ribella generano confusione anziché ordine, perturbano anziché rassicurare, fanno riflettere piuttosto che confermare: vedere i macellai con le fattezze di bovini e l’omicida per lussuria in giacca e cravatta nelle caricature di Otto Dix smaschera un mondo di contraddizioni, in una Germania in cui i veterani della prima guerra mondiale dovevano inventarsi o reinventarsi un lavoro da civili. Allo stesso modo le due Mondfrauen (Donne lunari) di Otto Rudolph Schatz (1930), nella loro nuda impassibilità classica e ideale, sono anche figure dell’aldilà, del futuro, dell’automazione e del dominio. 

 

Né mancava l’autoironia verso il lavoro privilegiato e influente dell’artista stesso, che oggettivizza la realtà e il corpo altrui, come in Der Künstler mit zwei erhängten Frauen di Rudolf Schlichter (L’artista con due donne impiccate, 1924), con i corpi appesi al cappio di due modelle davanti all’artista in un acquerello che fornisce solo sfondo senza contesto; mentre Grosz, da par suo, aveva già qualche anno prima rappresentato l’artista come un arrapatissimo manipolatore della propria modella in Selbstbildnis mit Modell im Atelier (Autoritratto con modella nello studio, 1916). Come poteva l’artista cui era affidata una missione sociale così importante autodenunciarsi, deridersi o denigrarsi? Come poteva un realismo formalmente così spoglio, asciutto e perfetto aprirsi allo spazio dell’interpretazione, con la domanda se si trattava di un suicidio o di un omicidio nel quadro di Schlichter, se si trattava di un pittore o di un guardone nel quadro di Grosz? Un’arte simile faceva del realismo uno strumento per aprire altri spazi anziché appiattire la vista, l’immaginazione e la riflessione.

 

«Quello che voglio mostrare nel mio lavoro è l’idea che si nasconde dietro la cosiddetta realtà. Cerco il ponte che conduce dal visibile all’invisibile», dichiarava Max Beckmann. È questo movimento da davanti a dietro, che va in cerca dell’oscuro anziché portarlo alla luce, che è disposto a perdersi all’inseguimento dell’oggetto piuttosto che appropriarsene, che metteva in crisi tutta una generazione cresciuta con promesse di benessere e trovatasi a guardare un paesaggio in cui l’unica cosa a non essere cambiata erano le nuvole, come ebbe a dire più tardi Walter Benjamin.

Prima devastati dalla guerra, poi travolti dalla ripresa economica, infine sconvolti dalla grande crisi, i tedeschi rischiavano di sbandare continuamente, coi vecchi che non trovavano più le antiche sicurezze e i giovani che ne approfittavano per effimeri successi. Il nazismo fu una risposta alla paura dell’ignoto e del diverso, all’improvvisa povertà e ai facili arricchimenti, all’umiliazione subita dopo la sconfitta e all’incapacità di dare un senso alla rinascita. Pretese di cancellare la contraddizione, il conflitto e l’inquietudine. Rifiutò la mediazione, il dialogo e la conciliazione. Si oppose strenuamente alla vita, in tutte le sue forme, per creare una società di automi.

 

Immaginare Hitler e Goebbels ritratti da Gruschner, Heitmüller, Schlichter, von Motesiczky, Hy, Grundig, Schramm o Pauser a completare la parete della mostra con la serie dei ritratti del realismo magico tedesco negli anni di Weimar potrebbe essere un utile esperimento per capire l’intreccio tra estetica e politica, forma e ideologia: tra le due opzioni antitetiche, dare ordine al caos oppure abbandonarsi al tumulto delle passioni, Apollo e Dioniso, si è giocato il destino dell’arte contemporanea. Sappiamo com’è andata: senza rinunciare alla forma, ma facendone uno strumento d’interrogazione anziché di ricomposizione, l’arte magica, che tanto doveva a De Chirico da un lato e Chagall dall’altro, ha dato a chi è venuto dopo la possibilità di esprimere, cercare, scavare, giocare e ripartire. Quello che Hitler e Goebbels più di tutto temevano: il divenire. L’uomo è troppo più ricco e complesso di chi pretende di ridurlo a un’ordinata società di uguali. 

 

Il paradosso storico ed estetico sta nel fatto che il realismo magico originariamente non era altro che espressione di quel ritorno all’ordine che si affermò nell’arte del primo dopoguerra per reagire agli eccessi sperimentali e quindi anche bellicisti delle avanguardie di primo Novecento: ritorno all’ordine che fu interpretato soprattutto come maggiore esigenza di adesione alla realtà e comprensione dell’umano, ma quel realismo, che in Germania prese la forma della Neue Sachlichkeit, la mostra tenuta a Mannheim nel 1923 per celebrare la nuova oggettività, voleva essere psicologico, introspettivo e riflessivo invece che esteriore e descrittivo. Di qui l’equivoco di un artista dilettante come Hitler e di un ideologo senza dubbi come Goebbels, che si sentirono probabilmente traditi da un ritorno all’ordine che si tradusse, dal loro punto di vista, in un trionfo di disordine, di immagini distorte, fantasie allucinate e forme scomposte. Arte pervertita, depravata e debosciata, dal loro punto di vista: il contrario di quello che avrebbe dovuto essere l’arte, perché l’arte, secondo loro, era un dover essere anziché un essere. Al punto che il recensore del Guardian, l’autorevole critico d’arte Jonathan Jones, ha provocatoriamente ribadito che gli autori dell’arte che sarebbe stata in seguito etichettata come degenerata furono effettivamente dei perversi, intendendo con ciò, naturalmente, che furono scandalosi e anticonformisti. Vederli con gli occhi di allora, reduci di guerra e vittime di disturbi post-traumatici, spiegherebbe psicologicamente la loro pittura; ma vederli con gli occhi di Hitler, come abbiamo provato a fare qui, aiuta a capire politicamente la loro poetica collettiva e la loro repressione successiva. «La missione dell'arte non è – urlava il Führer comiziante nel 1935, con parole che sarebbero state riprese per introdurre la mostra sull’arte degenerata del 1937 – immergersi nella sporcizia per amore della sporcizia, dipingere l'essere umano solo in uno stato di putrefazione, disegnare cretini come simboli della maternità, o presentare idioti deformi come rappresentanti della forza virile».

 

Espellere gli ebrei e censurare l’arte furono quindi lo stesso gesto, violento e imbecille, di ambizione a una purezza e una purificazione che non hanno nulla di divino, ma si limitano a negare l’umano, terrorizzate dal divenire e dalla morte. Per avere il coraggio di vivere si dovrà pure avere la consapevolezza del dolore, dell’angoscia e del limite: mettersi davanti alla Crocifissione (Kreuzigung, 1921) di Albert Birkle, che è un potente urlo di dolore e un altrettanto potente inno alla vita. La religione dell’uomo contrapposta alla religione della perfezione: solo così il nazismo, il razzismo, l’intolleranza e l’imbecillità potranno essere combattuti. Col fare, come scriveva, proprio poco prima di essere costretto alla fuga, Liebermann allo psichiatra Paul Plaut, che voleva indagare la genesi psicologica del processo creativo: «Lessing disse una volta che aveva scritto opere teatrali per essere un critico migliore». Le lettere scritte da vari artisti al Dr Plaut, che condussero alla pubblicazione di Die Psychologie der produktiven Persönlichkeit (La psicologia delle personalità creative, 1929), sono in mostra alla Wiener Library. Molti di loro sarebbero stati presto accusati di arte degenerata. 

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Arte e nazismo
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