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E la vita non separi più ciò che la morte può unire

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Cosa preferisci essere? Una grande poeta o un uomo buono? Una sola vita a disposizione non basta ad essere entrambi. Guardandosi alle spalle, in una prospettiva storica, c’è un punto di non ritorno, in cui occorre gettare nel fuoco ciò che resta. Grandi poeti sono morti giovani, e non hanno probabilmente avuto momenti di riflessione che permettessero loro di scegliere: Byron, Shelley, Rimbaud. Altri costruirono le loro carriere letterarie con lunga maestria, trasformando in materiale di scrittura ciò che resisteva dal dilemma: Petrarca, ad esempio, che costruì la sua celebrità europea sino all’alloro in Campidoglio, nel Secretum in un dialogo immaginario con Agostino, scavò impietosamente la sua accidia, peccato capitale che insieme all’arte di amare lo tenne sempre lontano dalla beatitudine cristiana.

 

Per lui, nel Trecento, essere un uomo buono sarebbe stato lasciare l’ossessiva riscrittura del Canzoniere per dedicarsi alla preghiera, ma scelse la nevrosi del suo amore sublimato per Laura e un vocabolario limitato di soli 3.000 lemmi per scolpire infinitamente la sua miniatura di marmo perfetto, di alloro, oro, aura. Che uomo fu, Francesco Petrarca nella sua intimità privata? La sua distanza biografica lo protegge, in una teca di cristallo, e la sua perfetta parabola di grande poeta parrà eternamente riuscita. Petrarca scriveva all’amico Boccaccio senza andare sul privato, o decisamente si rivolgeva a Cicerone. Nessun diario, diletto così intimo e femminile, nessuna indiscrezione sui propri comportamenti in arrivo sull’altro: amata, figlio. Di Byron e Shelley sappiamo invece molto. 

 

 

La psichiatra americana Kay Redfield Jamison pubblicò un libro, Touched by the Fire, che la TEA tradusse nel 2009. Una galleria di maniaco-depressivi (o bipolari) della storia della creatività. Per stare in letteratura: William Blake, Robert Louis Stevenson, Edgar Allan Poe, Henry James, Virginia Woolf, Ernest Hemingway, Dylan Thomas, Lowell Powell, Shelley e Byron, che pur non avendo ancora a disposizione né Freud, né psicoterapia, né litio né Prozac né venlafaxina, ingollavano alcool (non-cura per secoli dell’accidia acuta) o fumavano oppio: «Noi del mestiere siam tutti pazzi – osservava di se stesso e dei suoi colleghi poeti Byron. – Alcuni sono affetti da gaiezza, altri da melanconia, ma tutti siamo più o meno toccati». 

 

“Quello è un po’ toccato” si dice di chi ha un rapporto asimmetrico con la realtà. E certamente Mary Shelley, nella Londra di primo Ottocento, aveva un rapporto conflittuale con la “moralità” del suo tempo. Sua madre morì di parto pochi giorni la sua nascita, ma lasciò alcuni scritti che oggi vengono considerati i primi testi femministi della storia: figlia di due tessitori, prima agiati e poi repentinamente poveri, Mary Wollstonecraft a fine Settecento fondò due volte senza successo due scuole e pubblicò due libri rivoluzionari: Thoughts on the education of daughters, with the reflections on female conduct, in the more important duties of life e il successivo A Vindication of the Rights of Woman. Fece la precettrice, lesse Rousseau e il suo Émile, polemizzando con la sua “ridicola” visione della donna. Fu amante del pittore Heinrich Füssli, scrisse sulla Rivoluzione Francese e possiamo dire fosse maniaco-depressiva, perché tentò il suicidio gettandosi nel Tamigi. A Londra si innamorò del libraio e editore William Godwin, che avendo pubblicato libri di ispirazione radicale la sposò pur essendo lei già ragazza-madre. Il 10 settembre 1797 morì di setticemia, dieci giorni dopo la nascita di Mary Wollstonecraft Godwin, che un giorno diventerà la seconda moglie di Percy Bysshe Shelley.

 

Mary sedicenne si innamorò e sincronicamente fu sedotta dal bellissimo irresistibile Shelley, che frequentava la casa di Godwin. Come la mamma era coraggiosa e piena di amore per la libertà e per l’amore. Quando scoprì che Shelley era sposato e aveva un figlio, soffrì il primo di una interminabile serie di dolori, ma decise di fuggire con lui, bandita dal padre, che non riuscì ad applicare nella sua famiglia i principi radicali dei suoi libri. Mary partorì una bimba – Clara – che morì di stenti a cinque mesi. E ancora partorirà due volte vedendo morire altri due bambini, e quando Harriet, la moglie ovviamente infelice del maniaco-depressivo (e potremmo aggiungere perverso-narcisista) Shelley, si suicidò nel Tamigi Mary divenne la signora Shelley. Nel 1822, mentre vivevano in un capanno sul Golfo di La Spezia, Shelley con un amico prese ancora una volta il largo con una barchetta, sfidando la tempesta: lui e l’amico verranno ritrovati a riva, annegati. Mary visse ancora fino al 1851, dedicando se stessa all’editing e alla fama postuma del suo Percy Bysshe, morendo infine di un tumore al cervello.

 

Mary Wollstonecraft.

 

Mary Shelley.


Duecento anni fa, nel 1818, fu pubblicato anonimo un romanzo sconvolgente: Frankenstein, o il moderno Prometeo, con una prefazione di Percy Bysshe Shelley. Era stato scritto in nove mesi e infine partorito da una donna coraggiosa, innamorata e addolorata, che nell’estate del 1816, priva di sole come mezzo pianeta per le immense emissioni di polveri e ceneri provocate dall’eruzione del vulcano Tampora in Polinesia, aveva cominciato ad abbozzarlo ospite di Lord Byron a Villa Diodati, sul Lago di Ginevra. Byron, tediato e sbiellato dalla continua oscurità e dai continui violenti temporali, drogato e sbronzo, lanciò agli amici ospiti una sfida a scrivere immediatamente un racconto di fantasmi. Lo presero in parola soltanto Mary Wollstonecraft Godwin e John Polidori, medico personale di Byron che in The Vampyre inventa il nucleo del potente Dracula di Bram Stoker. 

 

 

 

Mary era affascinata e turbata dagli esperimenti di galvanismo che si vedevano in alcuni teatri londinesi: un cadaverino di rana scalciava improvvisamente a una scarica elettrica. Quell’idea di un morto che riprendeva vita per un artificio scientifico o para-scientifico divenne la Creatura assemblata da vari cadaveri dal ginevrino dr. Frankenstein. Nel film Mary Shelley della regista di origini saudite Haifaa al-Mansour, uscito nelle sale in questi giorni, la nostra eroina è interpretata da una bravissima e incantevole Elle Fanning. La sceneggiatura è stata scritta dalla regista con un’altra donna, Emma Jensen. La colonna sonora è stata composta da un’altra donna, Amelia Warner. Il personaggio di Mary soffre – come milioni di donne hanno sofferto e soffrono – l’indifferenza del padre nei confronti dei figli, sconta la maternità come la conseguenza della passione erotica, si strazia perdendo i bambini perché la medicina non ha ancora sufficienti mezzi, viene tradita da uomini chiusi nel loro narcisismo e nei loro salotti di detentori del potere economico. Le affettuose intense amicizie tra sorelle di genitori diversi, le invidie e i tradimenti delle amiche trafiggono Mary ripetutamente, ma lei continua a lottare, ad amare, a fuggire, a cercare una felicità già perduta dopo i mesi della passione corrisposta da Percy Bysshe. Shelley almeno qualche volte piange, in fase depressiva, ma si sente un Prometeo, appunto, spezzato dagli Dei per avere osato con la sua poesia sfidare la loro vetta. La scrittura contemporanea delle due autrici rende il grande poeta un uomo inaffidabile e spregevole, anti-patico e piacione, bellissimo e stronzissimo, intrappolato – più che dalla irregolare attività elettrica delle sue sinapsi – da un narcisismo incapace di costanza di affetti. Byron fa ancora più schifo, ed è difficile davvero ricordarsi la sua scrittura di grande poeta.

 

 

 

In questo teatro impietoso di donne torturate da uomini spregevoli, la scrittura del Frankenstein diventa così una grandiosa sublimazione del vissuto: la sua Creatura, “buon selvaggio” repellente ripudiato dal “padre” creatore Frankenstein, vaga nel dolore, implora la creazione di una compagna al suo artefice, e infine si vendica con raccapricciante strategia di tutti gli affetti del medico sgomento per aver tanto osato. 

La Creatura, fatta di pezzi di tanti cadaveri, è come se fosse fatta dai tanti cadaverini dei figli di Mary, creati e poi lasciati dal padre egotista Shelley. Così, il graphic novel Mary e il mostro disegnato dal’americana Lita Judge e accompagnato da un suo delicato poemetto (molto ben tradotto da Rossella Brancone per la casa editrice il castoro) fa il passo finale, e consegna alla Creatura la narrazione della vita strenua e straziante della sua autrice. «E la vita non separi più ciò che la morte può unire» scrisse Shelley nel suo Adonaïs. Grazie a Haifaa al-Mansour e Lita Judge Mary è finalmente unita a noi come amata e sorella, mai più separata dalla nostra infinita, viva compassione.

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Lo sguardo del migrante

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Tra la caotica e spesso fugace proliferazione di immagini da cui siamo quotidianamente bombardati, anche su un argomento di stretta e perenne attualità come l'immigrazione, alcune più di altre si fissano drammaticamente, arrivando a comporre un ipotetico immaginario. Tali immagini si sedimentano poi nella memoria condivisa dal web e ricompaiono come flash di una cattiva coscienza, che sempre più spesso, negli ultimi tempi, la vulgata furoreggiante su social e forum tende a trasporre in inviolabili principi di sovranità nazionale. Nell'orrenda immediatezza di raffigurazioni come quella di Aylan, il bambino siriano di tre anni riverso con la sua maglietta rossa sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, o in quella di un padre e un figlio in fuga sgambettati da una reporter al confine tra Serbia e Ungheria o ancora nell'occhio vitreo di Josefa cristallizzato dal terrore dopo essere rimasta due giorni aggrappata a un pezzo di legno alla deriva nel Mediterraneo, convogliano sentimenti solo apparentemente (e illusoriamente) univoci. I tratti comuni di queste immagini-simbolo di fasi differenti dello stesso problema sono l'iconicità e la conseguente viralità, non la commozione o l'indignazione, per quanto possa sembrare assurdo. Ma assurdo non è, si tratta soltanto di una questione di prospettive, le stesse che originano una divaricazione tra le lacrime di compassione di qualcuno, i like degli engagé da salotto e i meme dei buontemponi notturni, gli strali da tastiera degli haters più oltranzisti e le decisioni ora concilianti ora intransigenti dei vari governi. 

 

L'immagine vive esclusivamente negli occhi e per gli occhi di chi guarda e vivifica grazie al suo potenziale di trasmissione che fagocita tutto il resto (il piccolo Aylan aveva un fratello maggiore di due anni morto nello stesso viaggio e nelle medesime drammatiche condizioni, ma il suo non essersi tramutato in immagine lo ha di fatto condannato all'oblio). Il dramma si fa quindi segno, diventa un veicolo di lettura istantanea di una realtà altrimenti esclusa o di cui giungerebbe eco attenuata sui quotidiani, nei notiziari o una pallida distorsione da parte dei social. E la prospettiva assunta diventa dirimente. Crea schieramenti, moltiplica consensi alle elezioni, attiva discussioni rabbiose o induce allo sdegno sprezzante.

 

Per noi occidentali si tratta sempre di una prospettiva sul migrante. Le uniche possibilità di adottare una visione altra, ossia del migrante, sono ricorrere a una memoria ancestrale (per molti che risiedono nell'attuale Nord Italia), fare il cooperante oppure assumere in sé simulacri di realtà mediati dal cinema, perlomeno quello più sensibile ad alcune delle dinamiche attuali della nostra società. Non fidandoci completamente della prima ipotesi e pur ammirando chi decide di realizzare la seconda, per comodità – non del tutto casuale la rima con viltà – ci soffermiamo sulla terza e su come l'immigrato, inserito in un preciso disegno narrativo, non rappresenti soltanto un controverso oggetto di discussione sociale e politica, quanto una figura osservante e percipiente che guarda la realtà da un'angolazione sempre esterna, come se questa fosse un diaframma attraverso cui scrutare, decifrare e interpretare un mondo, il nostro mondo, spesso dato per scontato e sicuramente mai esaminato da un punto di vista estraneo alle nostre categorie abituali, per quanto illuminate e progressiste queste possano essere. In alcuni dei film recenti incentrati sul problema dell'immigrazione e su quello conseguente della convivenza tra le parti, il punto di vista e la sua traduzione tecnica, la soggettiva e l'intera aura dei suoi equivalenti funzionali, assumono una prospettiva d'indagine particolarmente interessante, poiché la parabola dello sguardo dei singoli personaggi si erge a soggetto privilegiato della narrazione, o di una parte decisiva di essa, diventando contemporaneamente oggetto di comprensione, trasmissione e classificazione. Comprensione del personaggio all'interno della narrazione, trasmissione della prospettiva in un'ottica di condivisione con lo spettatore e classificazione dell'esperienza secondo un filtro finzionale creato e gestito dall'autore. Ciò a cui si assiste è un complesso movimento di assunzione e inevitabile separazione, a causa del quale lo sguardo dei migranti è il risultato di una differenza aritmetica tra soggettiva e impostazione narrativa, tra vita e racconto, tra dramma individuale e sua trascrizione empatica.

 

Tendenzialmente, il cinema italiano, recente e di un passato che si può far risalire alla prima ondata di immigrazione proveniente dalle coste albanesi (la cui traduzione in immagini, circa tre anni dopo, fu Lamerica di Gianni Amelio, uscito nel 1994), ha sempre modulato lo sguardo dei personaggi in due forme essenziali. Attraverso i criteri dell’avvicinamento e dell’accesso, modalità di osservazione che conducono anche a due strutture narrative differenti, anche se convoglianti nel medesimo luogo. Il primo è il punto di vista che si fissa sull’immigrato, cercando di coglierne la realtà, di comprendere la diversità per stemperarla attraverso un percorso di formazione (casuale, il più delle volte) volto a congiungere le opposte polarità e condurre all’accoglienza. Si tratta della tipologia di pellicole meno recenti, propedeutiche al fenomeno e alla sua narrazione, bisognose di indirizzare lo spettatore quasi pedagogicamente verso una riflessione non compromessa dal pregiudizio. Il suo scopo è avvicinare progressivamente due realtà differenti, spesso tendenti all’opposizione, per testimoniare un percorso di crescente consapevolezza con il quale accompagnare per mano il pubblico. 

 

L’esempio più maturo e compiuto di questa tipologia è probabilmente Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005) di Marco Tullio Giordana. Il protagonista, il dodicenne Sandro, è un’ovvia figura vicaria dello spettatore. Attraverso i suoi occhi ancora innocenti passa la curiosità di chi osserva la superficie delle cose, riflette con la limitazione propria della sua età e della sua scarsa conoscenza del mondo su aspetti che non comprende totalmente o perlomeno in parte, fino a quando la drammaticità del caso non lo porta a provare in prima persona il problema. È l’unico figlio, accudito e coccolato, di una famiglia benestante, aperta nei confronti della diversità ma formalmente estranea a una realtà drammatica che si affaccia soltanto con la presenza ormai assodata di qualche operaio di colore nella piccola azienda che il padre gestisce. Il punto di partenza dell’avvicinamento di Sandro è proprio una soggettiva, dapprima parziale, poi più ampia, ma non per questo più chiara, come se Giordana avesse voluto sottolineare quello su cui, nel passato, hanno dibattuto i narratologi del cinema, ossia che vedere non è necessariamente comprendere.

 

Mentre si reca a scuola (mentre cioè vive la sua quotidianità), Sandro vede un uomo di colore disperato in una cabina telefonica. Non riesce a prendere la linea e urla tutta la sua frustrazione. Sembra folle, perché la prima inquadratura che restituisce lo sguardo di Sandro (tecnicamente una semisoggettiva) tiene fuoricampo ciò che invece mostrerà la seconda, un avviso su un cartone posto in alto, “Non in funzione”. Scarto fondamentale: l’uomo non è pazzo, è solo privo di una conoscenza che gli permetta di comprendere l’italiano e quindi capire la realtà intorno a lui. Il film denuncia la parzialità dell’impressione e invita ad ampliare la prospettiva, andando oltre l’ingenuità di qualunque luogo comune, anche quello che pretende di considerare gli africani come una categoria granitica con cui si racchiude genericamente il nero, l’altro-da-sé (Sandro chiede di tradurre una frase proferita dall’uomo della cabina all’operaio che lavora per il padre, convinto dell’unicità di una supposta lingua africana). Per tentare di comprendere il dramma dell’uomo della cabina che tanto lo ha incuriosito e di tutti gli uomini, ognuno con le sue specificità e la sua storia, vedere non basta, bisogna esperire: Sandro passerà attraverso una necessaria immersione (reale e metaforica) che non gli fornirà la verità sulle cose, ma che consentirà di introdursi in un’altra dimensione, in cui coesistono speranza e incubo, verità e menzogna, giusto e sbagliato.   

 

 

Quando sei nato non puoi più nasconderti segna un punto di passaggio nella filmografia sull’immigrazione, perché la prospettiva si predispone a una sua reversibilità, non priva di alcune ambiguità che fanno sì che il percorso di formazione del protagonista non mostri la perfezione inattaccabile di un romanzo a tesi, quanto l'approfondimento di una realtà complessa che pur se analizzata più da vicino continua a frantumarsi in mille dubbi e contraddizioni. 

Il secondo sguardo, quello relativo all’accesso, appartiene a una fase più recente delle pellicole sui migranti. Una fase in cui l’intento educativo si è affievolito per mutazione sociale (nel bene e nel male) e per esigenze di rinnovamento narrativo. I migranti condividono lo sguardo con lo spettatore. La soggettiva, in questo caso, è una chiave d'ingresso, la possibilità di approdare a una reciprocità da sempre preclusa, per etnocentrismo, cultura, formazione ed esperienza, indipendentemente dalla buona volontà di ognuno. Il cinema di Andrea Segre e Jonas Carpignano (soprattutto Mediterranea), ma anche i film degli esordienti Roberto De Paolis (Cuori puri) e Andrea Magnani (Easy – Un viaggio facile facile), senza dimenticare il rigoroso punto di vista interno di un nuovo autore come Suranga Katugampala (Per un figlio), immigrato di seconda generazione di origine cingalesi, mostrano esempi indicativi di questa tendenza. L’assunzione recente di un punto di vista da parte dei personaggi su cui, fino a qualche anno fa, lo sguardo convogliava per raccontarne da una prospettiva esterna l’ingresso in un mondo avvertito come estraneo e problematico, pare rispondere a una reale esigenza. Un’esigenza di attestazione attraverso cui si tenta di accedere direttamente, senza intermediazioni, a un’esistenza in cui lo sguardo ha la possibilità di chiarire e infondere sensazioni, reazioni, volontà.

 

Ma l’esigenza è anche espressiva, perché mostra un bisogno di colmare lo iato esistente tra insieme e soggetto, tra lo sfondo in cui più facile appare la generalizzazione e l’individualità con le sue distintive peculiarità. In questa direzione vanno i recenti esperimenti di cinema dal basso realizzati in prima persona e in perfetta autonomia dai migranti stessi: non personaggi ma autori con un preciso punto di vista sull’Italia, su ciò che significa guardare un paese con occhi davvero differenti, rievocando quell'ingenuità poetica propria del fanciullino pascoliano, ancora capace di scrutare il dettaglio ormai scontato, di meravigliarsene e di rioffrirlo con la sua purezza a un pubblico costretto a riconsiderare sotto una luce nuova le sue certezze quotidiane. La freschezza di iniziative come Tumaranké (in cui 38 minori giunti in Italia senza accompagnamento riprendono la loro vita nel nostro paese) o come Reverse Angle (installazione su tre schermi concepita da Davide Ferrario a seguito di un suo workshop a Pecetto, nel torinese, con un gruppo di 28 ragazzi immigrati chiamati a riprendere l'universo in cui sono approdati nelle sue varie forme di manifestazione) risiede proprio nell'immediatezza di uno sguardo che si fa registrazione spontanea attraverso l'uso dello smartphone. 

 

Uno sguardo spontaneo e la sua sedimentazione istantanea all'interno di una memoria condivisa diventano la testimonianza di un bisogno e di una trasformazione in atto, anche nel cinema narrativo. 

I film dei registi citati in precedenza hanno poco in comune, se non la volontà di oltrepassare un confine per porsi dall'altra parte, superando una prospettiva che talvolta, nel passato, si era adagiata per osservare rispettosamente ma senza forzare l'ingresso in una realtà ulteriore. Ne L'ordine delle cose di Andrea Segre (2017), tale movimento di ideale infiltrazione è reso quasi plastico dalla progressione delle inquadrature. Attraverso il protagonista, Corrado Rinaldi, funzionario del Ministero dell'Interno che indaga sul traffico di immigrati partiti dalle coste libiche, queste inquadrature passano dalla semplice denotazione esterna del problema a inserirsi spazialmente in esso per tentare di risolverlo. Se Corrado, infatti, guarda dapprima in piani ampi le immagini di un salvataggio sullo schermo del suo computer, una volta giunto in Libia gli stessi piani si restringono, la macchina da presa si avvicina al suo volto, cogliendo insieme punto di vista e assorbimento rispetto a ciò che le immagini mostrano, per poi diventare una soggettiva in senso stretto quando il filmato mostra le condizioni drammatiche dei profughi. Questa penetrazione per mezzo delle inquadrature è ribadita simbolicamente dal fissarsi del riflesso del dramma sulle lenti di Rinaldi, prodromo di quel contatto personale che il funzionario intratterrà con una profuga somala, Swada, consentendo al privato originato dalla visione personale d'introdursi nell'istituzionale e che l'emotività s'impossessi del suo ruolo, anche se solo per un arco di tempo relativamente breve. Sottratto l'oggetto alla vista, una volta rientrato definitivamente in Italia, Rinaldi deciderà di non intercedere più per la donna, frustrando la speranza di salvezza di questa e tornando a quell'ordine delle cose che ha sempre caratterizzato la sua vita. 

 

Segre sembra dire che lo sguardo dell'italiano, per quanto disposto all'ibridazione e allo scambio, così come mostrano anche gli altri suoi film di fiction precedentemente realizzati (Io sono Li del 2011 e La prima neve del 2013), è disposto all'immedesimazione pur rifiutando infine l'assunzione, decidendo di rimanere al di qua del confine ideale posto tra le due realtà. Un pessimismo di fondo che si allinea a quello invece piuttosto scanzonato di Andrea Magnani, che in Easy - Un viaggio facile facile (2017) connota l'immigrato ucraino defunto da riportare in patria come perennemente contiguo al corpulento autista italiano ma formalmente assente, giungendo all'estremo di fargli osservare tramite improprie soggettive dalla sua bara il grottesco viaggio di ritorno a casa oppure di diventare muto interlocutore del suo compagno che gli parla come se fosse la testa di Alfredo Garcia nel film di Peckinpah. E anche parte della visione proposta da Roberto De Paolis in Cuori puri (2017) pare non essere aliena rispetto a questa tendenza. In un film in cui è evidente la separazione netta tra i Rom stanziati a ridosso di un parcheggio per i lavoratori di un supermercato e gli italiani che nella zona vi risiedono, l’immigrato non nomade è pressoché cancellato dall’inquadratura, esiliato in un fuoricampo da cui provengono solo le timide proteste per l’atto di prevaricazione in corso. È quello che succede al titolare cingalese di un minimarket, escluso dai piani e da qualunque controcampo nel corso della rapina che il protagonista Stefano e il suo amico perpetrano ai suoi danni, quasi si trattasse di un dettaglio (reso) insignificante nel corso di un’azione che nasce come un normale acquisto serale, diventa uno sfottò sulle abitudini religiose del titolare e sfocia con naturalezza nell’estorsione successiva.

 

Sul motivo della negazione dello sguardo è incentrato interamente Per un figlio (2017), opera prima dalla messa in scena rigorosa di Suranga D. Katugampala, che narra del conflitto tra un ragazzo cingalese cresciuto in un piccolo centro dell'Italia settentrionale e di sua madre, ancorata alle tradizioni e alle usanze del paese di provenienza e il cui unico contatto con il mondo occidentale è lavorare a tempo pieno come badante per un'anziana. Katugampala colma la sua storia di densi silenzi ma soprattutto esprime la diversità inconciliabile dei due protagonisti in alcune brevi scene in cui essi si ritrovano per pranzare in un angusto cucinino, evitando attentamente che le traiettorie dei due sguardi s'incrocino pur nell’esiguità dello spazio a disposizione. Un conflitto che investe la modernità, l’esplorazione del sesso, il bisogno antropologico di maternità e la necessità di svellere il cordone ombelicale, la stessa lingua usata per comunicare; un'inconciliabilità che non sembra ricomporsi neanche nell’ultima scena, quando il ragazzo, ancora una volta a tavola, cerca finalmente lo sguardo della madre in una tarda ricerca di contatto che però la madre non accoglie, continuando a pelare le patate e frustrando il tentativo.

 

È però Jonas Carpignano in Mediterranea (2015) a compiere il più grande sforzo di penetrazione soggettiva all'interno di una realtà altra. Nel narrare la storia di Ayiva, giovane del Burkina Faso che tornerà come personaggio di contorno nel successivo A Ciambra (2017), il regista s'inserisce di fatto nella sua stessa messa in scena per fornire una prospettiva quanto più interna possibile rispetto al problema che intende raccontare. Permutando il proprio punto di vista con quello individuale e collettivo, la visione s'immerge nel dramma, inserendosi prima tra i corpi dei migranti che si sforzano di salire sulle rocce del deserto al confine tra Algeria e Libia, con l'obiettivo della macchina da presa lambito addirittura dagli svolazzi dei loro abiti, poi, rimanendo in prima fila quando gli stessi migranti sono vittime dei predoni. Infine, con intenzione ancora più drammatica, il protagonismo della macchina da presa si palesa anche sul barcone in mezzo al mare, tramutandosi in una delle vittime delle mareggiate e del temporale, rischiando a ogni scossone di cadere, aprendosi alla speranza nell'udire la sirena di una nave, disperandosi al suo allontanamento, giocandosi la vita quando cade in acqua insieme agli altri corpi sbraccianti e urlanti fino all'arrivo della guardia costiera italiana. 

 

Carpignano non fa altro che creare uno stato di empatia con i personaggi così com'è stato teorizzato da Murray Smith in Engaging Characters: Fiction, Emotion, and the Cinema (Clarendon Press, Oxford 1995): penetrando nelle viscere del dramma condivide l'esperienza più che assumere semplicemente un punto di vista soggettivo, simula emotivamente la situazione (Emotional Situation), si rispecchia nelle emozioni del gruppo (Affective mimicry) e proietta il pubblico all'interno dello stimolo predisposto (Automatic Reactions). Si tratta, con ogni probabilità, del tentativo più ardito di trasmigrazione delle componenti logiche e affettive tra fiction e pubblico in film di questo tipo. Il punto di vista non sostituisce lo sguardo di un personaggio ma punta deliberatamente, pur con tutti i suoi limiti estetici e psicologici, all'assunzione dell'esperienza. La potenzialità empatica del piano s'impossessa della documentazione visiva e stimola la conoscenza diretta, resa ancora più acuta e disperata dal montaggio convulso, dai rumori incontrollati, dalle grida disperate di persone e da un mancato ancoraggio oculare, a causa del quale le immagini si percepiscono febbrilmente senza che si padroneggino.     

Se è indubbio che ci sia una motivazione etica alla base della realizzazione di queste pellicole, esiste allo stesso modo una morale di questi piani empatici che puntano alla coincidenza tra personaggi e pubblico, eliminando le distanze e rendendo aderenti motivazioni e reazioni? Questo tipo di rappresentazione, avendo l'evidente scopo di collocare il pubblico all'interno dello spazio narrativo, sollecitandone la responsabilità, ha un intento formativo rispetto alle persone cui si rivolge? Il suo è un tentativo di incanalare socialmente il pensiero del pubblico? 

 

È probabile, al di là dell'urgenza ideologica dei singoli registi, ma assolutamente velleitario. Perché, ammettendo la plausibile risposta affermativa ai quesiti posti precedentemente, bisogna riconoscere che l'intento di tali opere è di conferma, non di convincimento. Questi lavori si rivolgono a un pubblico ben determinato e comunque (sempre più) esiguo, progressista e antirazzista, che volontariamente si reca al cinema o decide di guardare i film autonomamente nella propria abitazione. Il rapporto è duplice: il film conferma le sue tesi democratiche a un pubblico che si rispecchia in valori che condivide e che vede semplicemente convalidati. Ma il circolo è chiuso e il bacino sempre più limitato, se anche la popolarità di Papa Francesco è scesa per le sue prese di posizione sui migranti (dall'88 al 71%, secondo un sondaggio Demos-Coop del luglio scorso). L'ordine delle cose, Cuori puri, Easy – Un viaggio facile facile, Per un figlio, Mediterranea sono tentativi encomiabili, esteticamente apprezzabili, mostrano una vitalità intellettuale del nostro giovane cinema ma si rivolgono esclusivamente a un pubblico già performato ideologicamente che si conforta nel riflesso del suo stesso pensiero. 

È anche questo uno svilente gioco di assunzione di precise prospettive, laddove la maggioranza preferisce adagiarsi sulle fake news e sugli allarmi relativi a un'emergenza sociale avvertita come sempre più pressante. È la visione del mondo preponderante, quasi soverchiante, in questo preciso momento storico. 

E non si tratta più solo di cinema, purtroppo.

 

Questo testo è stato scritto per l’intervento dell’autore al convegno FIC  L’Italia è una terra straniera (Bergamo, 22 settembre 2018). Ringraziamo l'autore e il direttore di "Cineforum" Adriano Piccardi per averne consentita la pubblicazione in anteprima.

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Quando Paul Simon entra in materia

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“Lui era un marinaio di stanza a Newport News, lei una reginetta della scuola senza nulla da perdere”. Raymond Carver? No, Paul Simon. “Con il loro cane, dopo la guerra, René e Georgette Magritte tornarono alla suite dell’albergo, e socchiusero la porta”. Somerset Maugham? No, Paul Simon. “Arriverà il giorno in cui sarai stanco, stanco come un sogno che aspetta solo di morire”. Roberto Bolaño? No, sempre Paul Simon.

Nessuno sa entrare in materia come Paul Simon. Gli incipit delle sue canzoni sono degni di un racconto di Hemingway o di Francis Scott Fitzgerald. Alcuni hanno passo romanzesco (“A winters day in a deep and dark December; I am alone, gazing from my window to the streets below, on a freshly fallen silent shroud of snow” – Un giorno d’inverno nel pieno di un cupo dicembre; da solo, alla finestra, fisso le strade e la silenziosa coltre di neve fresca – I am a rock); altri fissano la nevrosi contemporanea in perfetto stile Woody Allen (“The problem is all inside your head, she said to me” – Lei mi disse: il problema sta tutto nella tua testa – Fifty ways to leave your lover); altri ancora fanno leva sull’immaginario americano, sontuoso e banale al tempo stesso (“The Mississippi Delta was shining like a National guitar” – Il Delta del Mississippi splendeva come una chitarra resofonica – Graceland).

 

A colpire, in molti incipit di Paul Simon, sono anzitutto precisione sintattica e un registro lessicale non comune in canzone (“If I have weaknesses, don’t let them blind me or camouflage all I am wary of” – Se ho delle debolezze, fa che non mi accechino o occultino tutto ciò di cui diffido – The rhythm of the saints). Un attacco come quello di I am a rock chiede non tanto una forma capace di contenerne l’ampiezza di respiro, quanto la capacità, da parte dell’autore, di articolare diversamente la narrazione. Ascoltando una canzone di Paul Simon, vuoi per il tono, vuoi per la ricchezza armonica che accompagna le parole, vuoi per la complessità ritmica, si ha spesso la sensazione di stare dentro un brano che stravolge i canoni comunemente impiegati in canzone. Il più delle volte si tratta però di un abbaglio. Dal punto di vista della metrica musicale, Paul Simon opera quasi sempre nel rispetto di modelli consolidati, in particolare dalla tradizione dei song americani. Ciò che percepiamo in quanto anomalo o, meglio, di distintamente originale in queste canzoni, non è dovuto alla struttura del brano, ma al modo in cui Simon riesce a far emergere in modo unico melodia, armonia, ritmo e parole dentro la canzone. Il testo, in modo particolare nel Paul Simon più maturo, si articola in chiave più narrativa che non poetica. Nelle sue canzoni Simon racconta delle storie che presentano uno svolgimento e dei personaggi, ognuno con un suo carattere e un conflitto da risolvere. 

 

Nei primi anni di carriera, quando ancora si esibiva a fianco di Art Garfunkel, Paul Simon non era molto amato dalla critica. Ellen Willis, la prima firma del New Yorker a occuparsi di rock, nel 1967 confessò di odiare quasi tutte le sue canzoni. In particolare perché credeva di leggervi della cattiva poesia, ma anche perché il tema dell’alienazione dell’uomo moderno, che sembrava stare al centro della sua opera, se trattato con tanta insistenza e ingenuità, finiva con l’indurre saturazione nell’ascoltatore. Il genere di anticaglia sentimentale tanto cara alla sinistra (an old-fashioned sentimental liberal bore, l’espressione usata dalla Willis). Robert Christgau, l’autoproclamato decano dei critici rock americani, non fu da meno quando definì i testi di Paul Simon “la forma più pura, più alta e più elaborata di kitsch del nostro tempo”. Aggiungendo, per sovrappeso, che anche la poesia peggiore può essere figlia di un lavoro accurato. La meticolosità di Simon, a suo dire, era lungi dal produrre l’effetto sperato. Each song is perfect. And says nothing. Ogni canzone è perfetta. E non dice nulla.

 

 

Poi è successo che Paul Simon è cambiato o, più banalmente, che la sua scrittura è maturata. In modo sempre più marcato a partire dagli anni ’70, e in particolare dopo la rottura con Garfunkel, all’astrazione e all’impaccio poetico (“What a dream I had, pressed in organdy, clothed in crinoline of smoky burgundy, softer than the rain” – Che razza di sogno ho fatto, strizzato nell’organza, rivestito di crinolina di un fumoso bordeaux, più leggero della pioggia – For Emily, Whenever I May Find Her), Simon ha cominciato a preferire una narrazione più ancorata alla realtà, fatta di spunti e dettagli concreti, di brevi storie, di personaggi in carne ed ossa, fortemente caratterizzati, spesso inseriti dentro un contesto conflittuale o psicologicamente complesso (“Went to my doctor yesterday, she said I seem to be O.K.” – Sono stato dal medico ieri, dice che le sembro a posto – Run that body down, dal primo disco solista del 1972). I suoi testi sono insomma transitati dalla dimensione adolescenziale a quella adulta. Pur esprimendosi in ambito di canzone, Paul Simon è riuscito a trasferire la concisione drammatica, la chiarezza espressiva e la minuta cesellatura del dettaglio che è dei grandi autori di short stories, in ambito di canzone pop. Lo stesso si può dire per il modo in cui fa uso del dialogo diretto o indiretto, non solo come artificio per rompere il ritmo del racconto o offrire un’alternativa al punto di vista del narratore, ma anche per scolpire meglio il carattere dei personaggi. Loro ne guadagnano in vivacità, ma ne guadagna anche la verosimiglianza delle loro azioni, oltre che delle loro ragioni.

 

Un aspetto interessante della sua scrittura, sottolineato da Simon stesso in un’intervista molti anni fa, è come le scelte operate in ambito musicale – si tratti di scelte melodiche, ritmiche o armoniche – influenzino in modo diretto il testo, imponendogli determinate scelte linguistiche. Se ad esempio in una canzone si presenta una svolta armonica importante (un cambio di tonalità, ad esempio), Simon sostiene che il testo ne deve a sua volta risentire. Quello scarto armonico deve essere registrato anche a livello poetico. Può tradursi in un’annotazione ironica che contrasta con il tono della canzone, oppure nell’introdurre una parola che produce un effetto di sorpresa. Perché una canzone funzioni, e sono parole di Paul Simon, testo e musica devono lavorare in sinergia fra loro.

 

Molti anni prima di Paul Simon compositori come Irving Berlin o Cole Porter, e parolieri come Lorenz Hart o Ira Gershwin, s’erano già confrontati con il problema di far convivere parole e musica dentro un’idea di canzone in profonda evoluzione. Allora s’era trattato di innestare lo slang urbano della New York d’inizio Novecento sul ritmo sincopato del ragtime e del jazz. L’esercizio era consistito, fra le altre cose, nel troncare le frasi in sillabe, mozzandole in segmenti o frammenti di parole, una frantumazione lessicale e sintattica resa necessaria dall’incidere ritmico del ragtime, dove l’accento musicale aveva d’un tratto imposto alle frasi un esercizio di agilità ai limiti dell’acrobazia (si veda la versione originale di Puttin’ on the Ritz cantata da Fred Astaire, e contemporaneamente si legga il funambolico esercizio lirico di Irving Berlin). Una lingua costretta a sobbalzi, fermate e ripartenze continue. Una sorta di rap ante litteram, anche se immensamente più sofisticato e ricco di sfumature.

 

Quella generazione di musicisti e di parolieri influenzò profondamente Paul Simon, affinandone la sensibilità. L’idea musicale e la ricerca sul suono nel suo caso hanno sempre prevalso, ma a quella ricerca ha poi saputo accostare un’analoga ricerca linguistica, capace di scovare il miglior equivalente possibile in parola di un dato suono o di un dato ricamo musicale. In questo senso il paragone con un compositore tanto diverso da lui come Irving Berlin non è azzardato. Entrambi newyorchesi, entrambi di origine ebraica, entrambi autodidatti, entrambi arrivati alla canzone in giovanissima età, entrambi prolifici e artisticamente longevi, entrambi capaci di raccontare la realtà americana con pertinenza di linguaggio, oltre all’indiscusso talento di coglierne le pieghe più profonde senza mai allontanarsi dal sentire comune. Pur diversissimi fra loro, Paul Simon e Irving Berlin sono accomunati dalla diversità di registri in cui si sono cimentati nel corso delle rispettive carriere. 

 

Per cogliere questa varietà, nel caso di Simon, è sufficiente scorrere i suoi incipit. Simon sa essere colloquiale (“I’m sittin’ in the railway station, got a ticket for my destination” – Sto seduto in stazione, e sul biglietto c’è la mia destinazione – Homeward bound), aulico (“Many’s the time I’ve been mistaken, and many times confused” – Molte le volte in cui mi sono sbagliato, molte quelle in cui ero confuso – American Tune), disinvolto (“I feel good, it’s a fine day” – Sto bene, è una bella giornata – She moves on), surreale (“After I died, and the make up had dried, I went back to my place” – Una volta morto, e quando il trucco fu asciutto, tornai al mio posto – The afterlife), realista (“A cooling system burns out in the Ukraine” – Un sistema di raffreddamento va in corto in Ucraina – Can’t run but; che fa il paio con quella gemma sommersa che è Papa Hobo: “It's carbon and monoxide the ole Detroit perfume” – È di monossido e carbonio il profumo della vecchia Detroit), provocatorio (“When I think back on all the crap I learned in high school, it’s a wonder I can think at all” – Se ripenso a tutte le schifezze che ho imparato a scuola, è già un miracolo che riesca a pensare – Kodachrome), fumettistico (“The mama pajama rolled out of bed, and she ran to the police station” – La mammina in pigiama schizzò giù dal letto alla stazione di polizia – Me and Julio down by the schoolyard), psicoanalitico (“Paraphernalia never hides your broken bones” – Non c’è stratagemma capace di mascherare i tuoi acciacchi –  Everything Put Together Falls Apart; singolare scelta, quella di attaccare una canzone con la parola paraphernalia, armamentario. Curioso pure che la stessa preceda di pochi mesi la gaberiana Far finta di essere sani, di cui è una sorta di equivalente tematico in lingua inglese). Nulla, in cinquanta e più anni di carriera, è rimasto inesplorato. A volte si confronta anche con le formule di genere (“A man walks down the street, he says: why am I soft in the middle now?” – Un tale cammina per strada e dice: com’è che d’un tratto mi sto intenerendo? – You can call me Al), ma sempre con originalità; nel caso specifico, con taglio ironico, aprendo la canzone come lo farebbe un dispensatore di freddure: “un tale entra in un bar…”.

 

Nessuno meglio di Paul Simon ha saputo fissare i sentimenti di una nazione e i mutamenti sociali e politici che quella nazione ha attraversato sull’arco di cinque e più decenni. Fossero queste le sue incertezze, così poco americane (“When you’re weary, feelin’ small” – Quando ti senti fiacco e insignificante – Bridge over troubled water), le sue origini umili, così implicitamente americane (“I am just a poor boy, though my story’s seldom told” – Non sono che un povero ragazzo, e la mia storia non fa notizia – The Boxer), le sue promesse (“Let us be lovers, we’ll marry our fortunes together” – Diventiamo amanti, uniremo le nostre fortune – America), la sua gloria (“New York, to that skyline I come, flyin’ in from London to your door” – New York, eccomi al tuo orizzonte; sto volando da Londra alla tua soglia – A heart in New York), l’esibizione del suo benessere e insieme del suo patrimonio umano calpestato (“She’s a rich girl, she don’t try to hide it, she got diamonds on the soles of her shoes” – È una ragazza ricca e non fa nulla per nasconderlo, ha dei diamanti sulla suola delle scarpe – Diamonds on the soles of her shoes, che fu sì metafora dell’apartheid sudafricano, ma anche della Graceland di presleyana memoria: il sud americano visto come il Paese della Grazia). Nei titoli e negli incipit delle canzoni di Paul Simon ci sono il cuore, le ragioni e i sogni di un intero continente. Irving Berlin ebbe il merito di raccontare l’euforia e la definitiva messa in opera di quel sogno; Simon si è trovato fra le mani i cocci di tanta esuberanza, mal di testa del dopo risveglio compreso (“Hello darkness, my old friend” – Salve oscurità, mia vecchia amica – The sound of silence).

 

Gli incipit di Paul Simon sono le soglie più distintamente aforistiche del rock. Aprono lo sguardo, descrivono una situazione, ci presentano degli esseri umani di fronte a una prova. Contrariamente al blues o al canto di tradizione, che entrano spesso in materia appoggiandosi a delle formule consolidate ma convenzionali (I woke up this morning; stamattina mi sono alzato), la canzone moderna sa che un incipit ben assestato è già indice di originalità. Il blues, che come tutto il canto popolare muove piuttosto da un principio di ricalco, necessita di molto meno. Da quel fatidico “mi sono svegliato stamattina” (l’equivalente del “c’era una volta” nelle fiabe) discende una serie inenarrabile di donne infedeli, bottiglie vuote di whisky, mal di piedi, case bruciate, lavori persi, chitarre rotte: I woke up this morning, e chi ascolta è già predisposto al peggio.

 

Paul Simon, pur restando fedele alla tradizione (alla forma canzone, ma anche al ruolo del folksinger), ha esplorato assiduamente dentro e oltre quella tradizione. La molteplicità e la varietà dei suoi incipit va di pari passo con la ricerca sui ritmi, sui suoni e sulle armonie. Un tempo cantava che le parole dei profeti stanno scritte sui muri della metropolitana e negli atri dei palazzi (the words of the prophets are written on the subway walls and tenement halls), e che a sussurrarle è il suono del silenzio. Più di venticinque anni dopo, passato dalla metropoli alla foresta pluviale, con meno enfasi poetica ma più sostanza, cantava invece che sono le voci degli spiriti a governare la notte (“We sailed up a river wide as a sea and slept on the banks on the leaves of a banyan tree, and all of these spirit voices rule the night” – Abbiamo risalito un fiume ampio come un mare, dormito sulle sponde su foglie di baniano, e tutte queste voci degli spiriti governano la notte – Spirit voices). Sarebbe esagerato pretendere di amarle tutte, queste sue canzoni, ma non amarne nessuna è impossibile. La grandezza di Paul Simon forse è cominciata proprio nel momento in cui ha smesso i panni del poeta per vestire quelli del narratore. E sarebbe probabilmente tempo di riconoscerlo come tale. Non un cantastorie o un cantautore in senso classico, ma un artista che ha saputo conferire alla canzone una dimensione nuova, e che dentro la sua forma antica ed elementare ha trovato il modo di far stare la complessità della nostra epoca.

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Ritratto di Venedikt Erofeev

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Henri Focillon scrive: «I visionari li si direbbe a disagio nello spazio e nel tempo. Interpretano più che imitare, trasfigurano più che interpretare». E ribadisce: «Il visionario soggiace al potere della vertigine». Nella letteratura russa del secondo novecento non c’è autore più fedele alla vertigine di Venedikt Vasil’evic Erofeev (1938-1990), autore del celebre poema-romanzo, Moskva-Petuski (1969-1970). Venedikt Erofeev, nella sua opera irridente e anomala, tragica e sconsacrata, sembra tradurre «in forma di romanzo» quattro celebri versi dell’amato Aleksandr Blok: «Inchiodato al banco d’una bettola / sono ubriaco da un pezzo, che importa. / Su una trojka la mia felicità / in un fumo d’argento è rapita…».

La vertigine di Erofeev è l’estasi alcolica. In russo ‘Erofeiv’ significa ‘alcolizzato’. Lo scrittore sembra portare, nell’etimologia del proprio nome, lo stigma del suo futuro destino. Venedikt Vasil’evic Erofeev nasce nel 1938 a Cupa, in Karelia. Il padre, vittima delle repressioni staliniane, è condannato a cinque anni di reclusione e a tre di privazione dei diritti civili. La madre si trasferisce a Mosca e abbandona i figlia Nina, Boris e Venedikt nell’orfanotrofio di Kirovsk. Venedikt, che si distingue per la prodigiosa memoria, si iscrive nel 1955 alla facoltà di filologia dell’Università Statale Lomonosov. Straordinario lettore, soprattutto di poesia, a sette anni scrive Memorie di un pazzo e a diciotto un diario lirico-autobiografico Memorie di uno psicopatico. Supera gli esami del primo anno di università, poi viene espulso per mancata frequenza. Fa ogni genere di lavoro (magazziniere, custode, muratore, meccanico, eccetera). Si avvicina con passione ai testi proibiti dal regime (Mandel’stam, Cvetaeva) e alla musica proibita (Mahler, Stravinskij). È campione nelle gare di bevute di vodka senza ubriacarsi. Si sposa con Valentina Vasil’evna Kimakova e vive con lei, la suocera e una capra in una vecchia isba fredda e fatiscente, non lontano da Petuski. Nel 1966 ha un figlio: compone per lui poesie e manuali, usati spesso dalla suocera per accendere la stufa nei giorni di gelo. Nel 1969-1970 scrive Moskva-Petuski, il romanzo-poema che lo renderà celebre, tragicomico poema dell’io ubriaco nel tratto ferroviario Mosca-Petuski. Scrive anche un romanzo, Dmitrij Šostakovič– dove parla di un omonimo del grande compositore sovietico che lavora in una rivendita di alcolici – e di cui perderà, ubriaco, il dattiloscritto proprio nel vagone di un treno. Diversi i racconti, tra cui La mia piccola Leniniana e Vasilji Rozanov visto da un eccentrico. Nel 1974 conosce Galina Pavlovna Nosova, che diventerà la sua seconda moglie. Nella dacia di Kanatcizovo scrive il testo teatrale La notte di Valpurga. Muore di cancro alla laringe nel 1990.

 

 

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«Ma di che si stupisce, paziente? Ha a disposizione una sindrome bellissima. A dirle un segreto, è da un bel po’ che ci siamo messi a ospedalizzare anche quelli che – a uno sguardo superficiale – non dispongono manco di un sintomo di alterazione psichica. Ma non dobbiamo dimenticare le capacità di dissimulazione involontaria o consapevole di cui sono dotati simili pazienti. Queste persone, di norma, non commettono fino al termine della propria vita nemmeno un’azione antisociale, nemmeno un reato, e non fanno nemmeno sospettare il minimo disequilibrio nervoso. Ma è proprio per questo che sono così pericolosi e devono essere sottoposti a cure. Non foss’altro che per la loro mancanza di propensione interiore all’adattamento sociale» (“La notte di Valpurga”, in Tra Mosca e Petuski, Roma, Fanucci 2003) 

 

Potrebbe essere questa una ‘diagnosi psicopatologica’ possibile dell’eccentrico Erofeev? ‘Mancanza di propensione interiore all’adattamento sociale’. L’ironia di questa diagnosi testimonia la conoscenza dell’autore dei meccanismi burocratici e repressivi della politica psichiatrica dell’era brezneviana. In La notte di Valpurga sono evidenti, anche se deformati da un filtro grottesco, echi del tragico, cecoviano rapporto con la follia, espresso in La corsia n. 6 e il Monaco nero.

 

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Erofeev è l’esatto opposto dello scrittore che vuole organizzarsi la carriera, intento a conservare con scrupolosa attenzione le tracce della sua scrittura. Per lunghi anni, vittima delle sue dissipazioni creative e alcoliche, non ha una fissa dimora a Mosca; fa mille lavori, dall’operaio della linea ferroviaria al fuochista, dal custode al magazziniere, e altro ancora. 

Il romanzo-poema Mosca-Petuskiè un viaggio daviaggiatore incantato’ (Leskov), sospeso nella digressione senza scopo e senza tempo dell’ebbrezza alcolica, un viaggio scandito dal nome delle stazioni attraversate, non si sa se nella realtà effettiva o se nelle nebbie del delirio alcolico. La sistematica, rovinosa dispersività di Erofeev, che vende o perde i suoi dattiloscritti, è leggendaria. Il dattiloscritto di Moskva-Petuski è venduto dall’autore per pochi rubli a un collezionista di samizdat, e solo per un caso un amico, che ne intuisce il valore, lo fa trascrivere nel corso di una notte prima di restituirlo all’autore. È un’abitudine, per Erofeev, perdere i dattiloscritti, venderli per i pochi rubli di una sbornia o consentire che siano usati come combustibile della stufa per riscaldarsi dal gelo polare delle notti russe. Sembra che, alla radice della sua opera, ci sia la volontà, più o meno consapevole, di smarrirla e disperderla, dimostrando come l’inevitabilità della distruzione sia parte integrante e costitutiva del processo creativo dell’autore.

Moskva-Petuskiè il resoconto fantastico di un viaggio tra sbronze dilaganti (zapoj) e stati di abbandono e di angoscia (pochmelje), un viaggio forse mai accaduto, dove il protagonista, un ubriacone incallito che ha lo stesso nome dell’autore, Venicka, tragicamente diventa lui stesso un fantasma, venendo trucidato dai suoi persecutori (immaginari? reali?), nel finale del libro-poema, in una grottesca parodia dell’esecuzione di Joseph K. in Il processo kafkiano. Mario Caramitti, nel risvolto di copertina di una delle edizioni più recenti del libro, scrive: 

 

«Non che Venicka, protagonista e narratore del romanzo, non navighi letteralmente sulla vodka, ma questa – nei vagoni malconci della tratta che collega Mosca a Petuski – si trasforma in spirito santo, in manna, nella morte e nell’ispirazione artistica… E assieme alla vodka sguazzano in una fantasmagorica miscela i testi sacri del cristianesimo e di tutte le letterature del mondo, e uno strambo gruppo di personaggi che di stazione in stazione, come una corte dei miracoli, si raduna attorno a Venicka, attore e regista di una grande recita collettiva. Venicka domina la scena da esilarante mattatore, facendo tutto un fascio dei propri cataclismi personali (l’amore, la paternità) e della storia universale, tra trovate sorprendenti e poetiche meditazioni, tra ebbrezza e dolore, in un regime della narrazione sospeso tra la visionarietà fantastica e un realismo brutale e grottesco».

 

 

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Venedikt Erofeev potrebbe dire, con Dostoevskij: «Quarant’anni? Turpe superare i quarant’anni! Non si deve! Dopo i quaranta è indecente respirare!» (Diario di uno scrittore, Bompiani, 2007). Frasi del genere, un misto di invettiva e tragedia, di ebbrezza alcolica e saggezza filosofica, sono la matrice che innerva la scrittura del nostro autore. Erofeev, bevendo, non cerca tanto la prematura morte personale, che peraltro non tarderà troppo a venire, quanto la miseen abyme di qualsiasi utopia sociale del suo tempo, di qualsiasi realismo progressista e socialista che autorizzai false speranze o presuntuose illusioni. Il suo viaggio-libro è un work in regress che termina con la morte fantasmatica e atroce del suo protagonista – tragica premonizione della morte reale dell’autore, ucciso da un cancro alla gola, perché i persecutori, alla fine del libro, uccidono il protagonista piantandogli una lesina da calzolaio proprio nella gola. È soltanto un caso che il mestiere di calzolaio fosse stato esercitato da Stalin nella sua giovinezza?

 

5

Moskva-Petuskiè uno dei rari casi in cui l’io narrante, alla fine, sembra descrivere la sua stessa morte. Jacques Derrida afferma che in letteratura non si può mai dire «io sono morto», ma gli scrittori sono sempre attratti da questa impossibilità, dai monologhi di Edgar Allan Poe fino ai racconti di James Ballard. 

Erofeev, con accorta strategia, sfida fino all’estremo limite le leggi della verosimiglianza e fa dire al suo alterego, alla fine del libro: «e da quel momento non ho più ripreso coscienza né mai più la riprenderò». Finale ambiguo, intrigante. Il protagonista, pur non riprendendo coscienza, ha però l’energia di scrivere l’intero libro. Oppure l’intero libro è l’allegoria di un viaggio postumo, un febbrile delirio alcolico, il resoconto allucinato di un incubo?

Sul tema delirio alcolicoè indimenticabile il film americano Giorni perduti, diretto da Billy Wilder nel 1945, dove il protagonista, contro ogni logica e ogni suggerimento, continua a bere fino al delirium tremens. Celebre la scena in cui, riverso nel letto, in piena astinenza, scoprendo una bottiglia di whisky dimenticata nascosta sopra il lampadario, la afferra come ultima salvezza e beve ancora, irrefrenabilmente. 

Venicka-Velemir, il protagonista di Moskva-Petuski, darebbe la vita per un’ultima bottiglia di vodka nascosta magari in una reticella per la spesa dimenticata nel vagone di uno scompartimento ferroviario. Bere è un modo tragico e spassoso di perdersi completamente, un modo velocissimo di arrivare alle soglie della propria distruzione. Ma, nell’atto di bere, c’è anche la costruzione di un’identità forte, spavalda, maniacale, non depressa, un’identità che può essere mille identità – bugiarda, prepotente, facinorosa, pronta a sfidare, a gridare, a ‘esistere’.

L’ubriaco mette le carte allo scoperto, rende visibile ciò che deve restare nascosto. In questo senso, certi monologhi di Dostoevskij potrebbero essere alla radice di questi monologhi (da Il sosia a Bobok). Venicka si raddoppia negli altri protagonisti del libro, Baffonero e Decabrista, e in questo delirio di moltiplicazione di identità ricostruisce e ricompone nuove invenzioni, in una recita sconsacrata ed esilarante della propria ‘distopia’ personale, della propria eccentrica visione rispetto ai centri stabiliti del mondo. Uno dei capitoli più spassosi e più tragici riguarda il singhiozzo discusso da Erofeev come entità metafisica, parodia tragica della logica umana, dell’arbitrio divino, di ogni arrogante Ente supremo.

 

 

«Il singhiozzo sovrasta ogni legge. E così come v’ha colpito poc’anzi la repentinità del suo inizio, così vi colpirà la sua fine, che voi non potete né prevedere né evitare, come la morte.

-ventidue-quattordici-stop. E silenzio.

E in questo silenzio il vostro cuore vi dirà: esso è insondabile, mentre noi siamo impotenti. Noi siamo del tutto privi di libero arbitrio e in balia del caso che non ha nome e da cui non c’è scampo.

Noi siamo creature tremebonde, mentre esso è onnipotente». 

 

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Un celebre libro di Alexander Radiščev, Viaggio da Pietroburgo a Mosca (Voland, 2007), è uno dei classici riconosciuti della letteratura utopista russa: scritto all’inizio degli anni ’90 del XVIII secolo, per la sua condanna del dispotismo fu considerato dall’Imperatrice Caterina II la Grande più pericoloso di una guerra persa. Caterina accusò di follia l’autore e fece imprigionare l’editore. In ventiquattro tappe, che sono altrettanti capitoli, Radiscev descrive un viaggio da Pietroburgo a Mosca compiuto in carrozza da un nobile che così viene a contatto con gli aspetti multiformi della realtà dell’epoca.

Anche Erofeev fa un viaggio eretico, non in carrozza ma in treno, viaggio che lo mette in contatto soprattutto con la sua realtà psichica di bevitore («una psiche sciabordante vodka») che come un caleidoscopio rimanda a mille assonanze/dissonanze: il sacro, l’utopia, la poesia, la rivolta. 

Le assonanze del nome Petuski, a 115 chilometri da Mosca, con il nome della mitica Pietroburgo blokiana sono spesso evidenti (nel romanzo Erofeev inventa una beffarda analogia tra una poesia di Aleksandr Blok – «Oggi, poche ore dopo Natale,/ è fiorito nel mio giardino il gelsomino d’inverno» – e un profumo di gelsomino usato per un cocktail a base di vodka).

 

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Diario di un pazzo e Memorie di uno psicopatico (Edizioni Miraggi tamizdat, 2017) sono alcuni tra i testi che avvicinano Erofeev al mondo della follia. Memorie di uno psicopaticoè un atto di eresia contro la religione, un rovesciamento paradossale delle formulazioni evangeliche, interpretate in modo antitetico all’interpretazione corrente. Una delle caratteristiche della follia è proprio il «prendere alla lettera» certi luoghi comuni, cancellando qualsiasi significato metaforico per mostrare ogni realtà come assoluta e unica, come profezia rivelata. Il vangelo, nelle parabole di Cristo, invita spesso a un letterale abbandono dalla mondanità che porterebbe l’uomo, nell’intransigenza di quella scelta, a essere uno strannik, un jurodivyj, un santo. Chi segue alla lettera il vangelo – Nazarin, Viridiana, Simon del deserto nei film omonimi di Louis Bunuel – alla fine viene espulso dalle regole sociali e considerato ‘folle’.

Erofeev è un intellettuale déraciné (non controlla la sua opera, scrive samizdat, non ha una residenza fissa). I suoi libri oggi leggibili sono solo soltanto una parte di quelli disseminati e frammentati nella sua avventurosa, stramba esistenza. Lo scrittore ci narra la sua impossibilità di essere uomo in un ‘limbo grondante vodka’. I suoi libri, ora, sono studiati come quelli di uno dei più originali e irriverenti scrittori sovietici del secondo novecento. Ma per decenni Erofeev, pur essendo una persona reale e pur scrivendo testi reali, era come se non fosse mai esistito. La sua era e resta una voce degli inferi, un ghignante, sotterraneo, subumano sberleffo. Lo scrittore ci racconta questa sofferta e oscura materialità della lingua parlata, dell’ebbrezza alcolica, della disperazione assoluta. In questo senso non è dissimile dallo sgradevole, grottesco Rozanov, ma senza atteggiamenti intellettuali: più di lui è a contatto con la corrotta, violenta vita reale, anche se i suoi libri sono, in un certo senso, come quelle del celebre scrittore, Foglie cadute.

 

 

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Erofeev è uno scrittore realista, di un realismo ‘intensivo’. Questo realismo è come un enorme crogiuolo in cui tutto è in sommovimento e mai si definisce: senso del sacro, parodia, del sacro sovversione, surrealismo, visionarietà, ubriachezza.

L’alcool, nella fase della ‘grande sbornia’, libera la mente e la trascina verso invenzioni analogiche straordinarie. Tutto sembra possibile, nel momento dell’onnipotenza alcolica, come all’interno di un delirio megalomanico – anche fare smorfie irridenti contro i giganti della letteratura. Come quando Erofeev accusa Goethe, il celebre scrittore del Faust, di essere sobrio nella realtà perché quella è solo la maschera del suo ‘essere un perfetto ubriacone’ attraverso i personaggi delle sue opere.

Erofeev era alto e prestante, i capelli precocemente bianchi, sempre ubriaco. Sbeffeggiava il realismo socialista e gli angelismi spiritualisti. Attraverso la finzione reale dell’ubriachezza, introduce concetti eretici di violenza inaudita e propone una sua religiosità scarna, nuda, assoluta, da jurodivny, da anomalo santo. Il viaggio Mosca-Petuski assomiglia molto a un viaggio cristico, con tanto di sacrificio finale di Cristo-Venicka, ma la costante eresia contro i cieli e gli angeli dell’ipocrita religiosità bigotta è testimoniata dalla scena finale dell’uomo maciullato delle gambe, ormai morto, nella cui bocca gli angioletti-bambini ficcano una sigaretta. Petuski, nelle assonanze del nome, è anche il sogno edenico della grande ‘città di Pietro’ che, riconosciuto come impossibile nella realtà, assume tonalità da incubo. Ma Pietroburgo, nella fantasia degli scrittori, da tempo ha smesso di essere «un luogo dove gli uccelli non smettono di cantare né di giorno né di notte, e né d’inverno né d’estate sfiorisce il gelsomino». Già la Pietroburgo di Andrej Belyi era un perfetto incubo. Un suo capitolo, dal titolo Nevski Prospekt, rimanda alla lezione gogoliana, matrice tout court dell’anima grottesca russa; è un frammento che descrive una folla in movimento e trasuda percezioni allucinate che non sfigurerebbero nelle future fantasie di Erofeev. Scrive Belyi: «Le spalle tutte formavano una calca vischiosa che scorreva lentamente; la spalla di Alkeksàndr Ivànov si incollò anch’essa alla calca; e, per così dire, vi si agglutinò; egli seguiva un’altra spalla, conformandosi alle leggi dell’impenetrabilità dei corpi; e così fu scagliato sul Nevskij. […] Non c’erano persone sul Nevskij; ma un garrulo millepiedi strisciante; l’umido spazio versava la molteplicità delle voci in una molteplicità di parole; le parole tutte, imbrogliandosi, si intrecciavano in frasi di nuovo; e ogni frase pareva incongruente; restava sospesa sul Nevskij; c’era nell’aria una nera esalazione di frottole» (Pietroburgo, Einaudi, 1961). 

 

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Ad eccezione del suo amore per la poesia russa (Cvetaeva e Mandel’stam su tutti), e per Freud, che legge con assiduità, Erofeev si accosta prevalentemente ai grandi autori della satira russa, in primis Gogol. Nella sua ‘sconsacrazione’ di ogni sublime (nell’introduzione a Mosca-Petuski ci informa si avere deliberatamente espunto dal libro tutto un lungo brano sul turpiloquio), supera persino il sarcasmo intellettuale del grottesco Bulgakov e del suo alter ego fisiologico Rozanov, come le fantasie stravaganti dell’autore di Russia scompigliata. Aleksej Remizov. Piuttosto viene in mente la figura di Kostantin Vaginov, il giovane autore di Bambocciata, strampalato e stravagante romanzo popolato di personaggi assurdi e folli che però ha una sua vena elegante e sottile, quasi struggente. 

Erofeev, al contrario, è un borborigma della letteratura, una vera pietra d’inciampo, un coagulo di scrittura visionaria, metamorfica, non riassumibile e non definibile. Nella freschezza sfrontata delle sue metafore, nella sua capacità di «descrivere l’oralità» è secondo solo a Céline, che nei suoi Colloqui con il professor Y ci racconta di come sia complesso e artificioso riprodurre la lingua parlata attraverso la lingua scritta mantenendone la naturalezza.

Il racconto Il tunnel di Friedrich Dürrenmatt e il film Un soir, un train di André Delvaux sono i più vicini, nella loro natura fantastica, al poema ‘ferroviario’ di Erofeev. Nella narrazione dello scrittore tedesco un treno, privo di conducente, è lanciato a tutta velocità dentro un tunnel che non sembra avere fine. Nel film del regista belga un attonito Yves Montand si ritrova, dopo un incidente ferroviario, a sognarsi di camminare in un luogo dove non comprende la lingua, abitato probabilmente solo da anime di morti.

Difficile trovare degli eredi alla scrittura di Erofeev. Potrebbero esserlo, in parte, i racconti surreali e metafisici di Anna Starobinev, moscovita, trentenne, dal titolo Paura, tradotti in italiano nel 2007. In uno di questi il protagonista, che sprofonda in una totale perdita d’identità, ha qualcosa di stralunato e di enigmatico che lo avvicina al Venicka erofeeviano. 

 

 

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L’identificazione che il delirio alcolico di Erofeev richiede al lettore è l’identificazione assoluta nel punto di vista del narratore ubriaco, la «sospensione di ogni incredulità», la capacità di abbandonarsi e di perdersi nei meandri di un’opera squinternata e imprevedibile per le sue devianze e le sue irregolarità. All’interno del libro c’è un episodio esemplare, che prefigura l’assassinio finale di Venicka, ma in modo meno tragico: è l’apparizione di Mitridate, re del Ponto, col moccio al naso, sovrano destituito di ogni sublimità (Mitridate è sopravvissuto ai diversi attentati contro la sua vita assumendo terapeuticamente piccole dosi di veleno); qui, invece di essere ucciso, è lui a uccidere, in un rovesciamento onirico e comico, tipico della fantasia erofeeviana.

 

«E dalla nebbia esce fuori qualcuno molto conosciuto. Achille no, non è Achille, ma è molto conosciuto. Oh adesso, lo riconosco: è Mitridate, il re del Ponto. Tutto impiastrato di moccio e con il coltellino in mano…

«Tutto questo che dici va benissimo, Mitridate, ma… perché hai un coltellino in mano?...».

«Come perché?... ma per tagliarti la gola… ecco perché… Belle domande: perché?... Per tagliarti la gola, è ovvio…».

 

Il soliloquio alcolico disseminato in tutti i suoi libri da Erofeev, autore dissennato, disubbidiente, infelice, tormentato, scava nella memoria del lettore una scia di feroce, compulsiva comicità che sfida ogni logica narrativa e ogni architettura compositiva, e si impone come il potente, definitivo, farneticante fallimento dello scrittore: «Ho a lungo battuto la testa furiosamente contro il muro del Cremlino, e non sono riuscito a cavare un briciolo di buonsenso…» (Memorie di uno psicopatico). E un lampo di autobiografia emerge, fulmineo, in queste parole che rivendicano la necessità orgogliosa della follia: «Il mio bisnonno impazzì. Mio nonno benedisse con le dita tremanti le canne dei fucili sovietici puntate contro di lui. Mio padre si è strozzato con alcol a 96 gradi. E io come prima sono Venedikt. E lo sarò per sempre» (Ibid.). 

 

Nota

Di Moskva-Petuski sono quattro le edizioni in lingua italiana: 

- Mosca sulla vodka, Milano, Feltrinelli 1977 (traduzione di Piero Zveteremich).

- Tra Mosca e Petuski, Roma, Fanucci 2003 (traduzione di Mario Caramitti).

- Mosca-Petuski, Milano, Feltrinelli 2004 (che raccoglie anche i racconti Vasilij Rozànov visto da un eccentrico, Sasa Cernyj e gli altri, La mia piccola leniniana e il testo teatrale La notte di Valpurga), a cura di Gario Zappi.

- Moskva-Petuski – un poema ferroviario (traduzione di Paolo Nori), Quodlibet, 2014.

Memorie di uno psicopaticoè pubblicato nelle edizioni Miraggi tamizdat, 2017 (traduzione di Lidia Perri).

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Made in Italy

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Oggi il concetto di made in Italy è di complessa definizione. Letteralmente, un prodotto è “made in Italy” se viene costruito in Italia. Ma nell’attuale epoca sociale dominata dalla globalizzazione economica e dalla delocalizzazione produttiva esistono diverse percentuali possibili di realizzazione di un prodotto in un Paese. E non è facile riuscire a stabilire fino a quale percentuale sia possibile considerare un prodotto effettivamente “made” in quel Paese.

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Oriana Fallaci: sul fronte del cinematografo

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Figura ingombrante e in molti sensi difficile, Oriana Fallaci ha attraversato da protagonista la seconda metà del Novecento, muovendosi con agio e con piglio sicuro in ambiti fino ad allora impensabili per le donne: basti ricordare la sua tenace presenza come inviata di guerra in numerosi e infuocati fronti, a partire dal Vietnam, e le celebri interviste ai potenti della Terra, condotte con garbo e rigorosa impertinenza. Ma al di là delle immagini, ormai proverbiali, di lei che calza l’elmetto militare o che si scopre spavaldamente il capo al cospetto di Khomeini, ciò che più colpisce della sua intensa vita professionale è l’invenzione di inedite modalità di scrittura, felicemente in bilico fra letteratura e giornalismo, caratterizzate da una cura estrema per lo stile e da un meticolosissimo lavoro di documentazione. Di fronte alla ricchezza, alla originalità e alla vivace intelligenza dei testi che ha lasciato, emerge una sconcertante mancanza di studi, per lo meno in ambito italiano, dedicati a un corpus tanto eccezionale. A tale disinteresse hanno certamente contribuito, da un lato, il carattere ibrido della sua scrittura, che travalica i confini del giornalismo, frequenta ambiti disparati, dalla politica alle cronache mondane, dai viaggi nello spazio al divismo cinematografico, sfuggendo alle definizioni letterarie canoniche; dall’altro lato, l’eccesso di visibilità della sua persona pubblica, unito all’immagine di sé costruita negli anni dalla scrittrice, hanno prodotto una sorta di inscalfibile maschera mediale a salvaguardia di una dimensione intima, privata e inaccessibile; e infine, in maniera forse ancor più forte, è intervenuto lo stigma ideologico che, negli ultimi tempi, ha legato a doppio filo il nome di Fallaci alla crociata anti-islamica ingaggiata all’indomani dell’11 settembre. 

 

 

Ecco, ciò detto, credo che la sua scrittura e anche la sua esistenza, così radicalmente anticonvenzionale, debbano essere finalmente indagate, a partire - ed è ciò che mi propongo di accennare in queste righe - dai numerosi e imperdibili testi dedicati al mondo del cinema, che «nessuno si è dato ancora la pena di inventariare e di studiare in modo approfondito» (Alberto Boschi, L’antipatica. Oriana Fallaci scrittrice di cinema, «La valle dell’Eden», 2017). Difatti, giovanissima e già attiva nel giornalismo italiano, Fallaci mette a punto il suo sguardo acuminato e i suoi affilati strumenti professionali proprio nei dintorni dello schermo, per così dire, in quello spazio liminare e vischioso dove si incontrano la cultura popolare e i personaggi dello spettacolo. Ha soltanto ventidue anni quando entra a far parte - rarissima presenza femminile - della redazione di «Epoca», e ne ha ventiquattro quando la lascia per passare a «L’Europeo». È alle prime armi ed è una donna, dunque si trova fatalmente destinata a un comparto per tradizione considerato “femminile”, vale a dire la cronaca mondana e di costume. Da lì - e con malcelato fastidio - si affaccia su uno scenario che sente estraneo e frivolo, ma lo fa alla sua maniera. Si inventa un modo del tutto personale di scrivere e di guardare, riuscendo a trovare una postura che le consente di restituire le sottigliezze e persino le minute sfumature del mondo dello spettacolo senza venir meno a se stessa. La sua scrittura, infatti, ci consegna, ad un tempo, i divi e i personaggi del jet-set e i contorni, ben saldi, di colei che li osserva e li ritrae per il pubblico. Così, in circa quindici anni, dal 1955 al 1970 (e con puntate successive, come testimonia ad esempio il commovente articolo dedicato a Ingrid Bergman all’indomani della sua scomparsa, La vita coraggiosa della mia amica Ingrid, «L’Europeo», 13 settembre 1982) compone un vivido e ironico affresco del mondo del cinema. Comincia da Hollywood, dove è inviata nel 1957, sorta di insospettabile e soave Mata Hari, come la definisce Orson Welles nella prefazione al volume che scaturirà dall’esperienza americana (I sette peccati di Hollywood, Longanesi, 1958), ed approda a Cinecittà, al languido e fascinoso provincialismo della nascente dolce vita. 

 

Per comprendere la peculiarità del suo tratto, capace di alternare diverse maschere, è utile soffermarsi su un articolo pubblicato su «L’Europeo» il 9 novembre 1958, Donne, cravatte e tasse, (ora in Oriana Fallaci, L’Italia della dolce vita, Rizzoli, 2017) che testimonia l’approccio corale di Fallaci, e la sapiente costruzione di una tessitura che sembra guardare allo schermo e ricavarne una specie di sceneggiatura; o meglio la novellizzazione di un film immaginario: ci troviamo di fronte a una galleria di spin off ante litteram, nella quale compaiono, accuratamente messi in scena, personaggi e schegge cinematografiche differenti. Nei primi anni, raramente gli articoli sono dedicati ad un’unica personalità: più di frequente tratteggiano un ritratto di gruppo, offrendo delle istantanee a tema dedicate, via via, alle attrici e alle mamme delle attrici, ai registi, ai produttori o, come in questo caso, agli attori. Nel brillante Donne, cravatte e tasse Fallaci cuce insieme tre incontri - con Amedeo Nazzari, Raf Vallone e Alberto Sordi - trovando per ciascuno una diversa e calzante misura. 

Comincia con Amedeo Nazzari, al quale l’autrice guarda con scoperta simpatia, quasi con tenerezza, sottolineandone l’umiltà e il garbo e riservando invece le punte feroci della sua ironia a una figura minore, quella del segretario, che la giornalista descrive in modo sapido, mettendone in ridicolo la pomposa arroganza, come se il vero divo fosse lui:

 

Guidando sulla Via Cassia, il segretario del divo aveva un’aria molto solenne. «Inutile fare i modesti» diceva. «Lui è un divo sul serio: l’unico autentico divo che sia rimasto a Cinecittà. Vive da gran signore, non riceve nessuno. Certo è una generosa eccezione quella che ha fatto per lei.» Il segretario era atletico, con i baffetti e la voce baritonale: proprio come il divo al quale è orgoglioso di assomigliare. Dinanzi al portone della villa suonò il clacson con impazienza: per dimostrarmi che lì dentro è di casa. La villa è cintata da un muro che la protegge dagli sguardi indiscreti: come quella di Mary Pickford a Hollywood. Il portone è di legno pregiato, con le maniglie d’ottone che brillano al sole come gioielli. Il maggiordomo venne ad aprire: estremamente severo sotto la giacca inamidata. L’auto del segretario scivolò lungo il viale pavimentato di mattonelle. […] 

Il maggiordomo fece un inchino e ci pregò di seguirlo. Sui pavimenti lucidi il segretario scivolava un pochino. I suoi occhietti esperti mi fissarono per vedere se fossi turbata dall’incontro ormai imminente col divo e dallo sfarzo del luogo: arazzi, tappeti persiani, quadri d’autore, il pianoforte a coda. In fondo al salone c’era il bar coi bicchieri di cristallo e i vassoi d’argento coi grissini rivoltati nel prosciutto e le tartine spalmate di caviale. Veniva da un altro salone l’eco di una conversazione in inglese. Lo psicologo meno scaltrito avrebbe giurato che in quella scenografia il divo si muoveva solo in giacca da camera di velluto cremisi, adorna di nappe, dando ordini secchi e ascoltando Beethoven. 

 

Amedeo Nazzari con Giulietta Masina ne “Le notti di Cabiria”.


Nazzari, invece, la accoglie con cortese timidezza e, in una certa misura, con l’imbarazzo di una persona semplice e per bene calata, quasi suo malgrado, nelle fattezze del divo:

 

[…] si udì un colpettino intimidito di tosse e un ormone dal sorriso bonario, vestito di grigio, venne avanti spiegando che gli dispiaceva essersi fatto pregare, chissà cosa avevo pensato di lui, lui non è mica un tipo che ami farsi pregare, purtroppo i giornalisti gli mettono addosso un acuto imbarazzo, così esita a vederli, ma i giornali li legge lo stesso, tiene in cantina dieci anni di settimanali, se non ci credevo me li avrebbe mostrati. «E intanto permetta che mi presenti: Amedeo Nazzari, molto piacere». 

Sul volto lungo, appena increspato dagli anni, tremava un’ansia sincera. Ma, per carità, mi sedessi. Che facevo lì in piedi? Gradivo un Martini? Corse al bar per preparare un Martini. «[…] Prenda una tartina. Sono fresche, le ho fatte stamani da me.» Il segretario lo guardò preoccupato: avvertiva il pericolo di una mia delusione. Cosa sarebbe successo se mi fossi accorta che il divo più divo di Cinecittà è un brav’uomo occupato a spalmare tartine? «Talora» disse compunto «il signor Nazzari si diletta di passatempi innocenti.» Nazzari lo guardò con sorpresa, senza capire. Poi mi consegnò la tartina.

 

Parlando di sé e della sua vita, Nazzari riflette sul lavoro dell’attore, e sulle circostanze che lo hanno spinto a tentare la carriera dello schermo, nonché sulle conseguenze derivanti dal successo:

 

«Avevo bisogno di soldi. Ma questo mestiere m’è sempre piaciuto pochino. È un mestiere da saltimbanchi. E io detesto fare il giullare. Poi, non mi piaccio. Non mi va la mia faccia, né la mia voce. La prima volta che mi vidi e mi ascoltai attraverso lo schermo, mi si chiuse lo stomaco.» Arrossì un poco perché lo aveva sfiorato il timore che non lo credessi sincero. Il segretario invece era pallido, alquanto indignato. «Il signor Nazzari è troppo modesto» esclamò. «Non c’è bisogno di far rilevare, è intuitivo, come tutte le donne siano innamorate di lui. Riceve in media cinquecento lettere al giorno.» Nazzari ebbe una risatina bonaria. «Facciamo cinquanta. E non gli dia retta. Le donne sono innamorate del divo, mica di me. Per questo non mi sono sposato. E Dio sa se mi piacerebbe avere moglie e bambini. Quando ero in Argentina o in Spagna, dicevo: “Amedeo, qui la moglie la trovi. Non ti conosce nessuno, ti puoi fidare”. E facevo progetti su una ragazza che sul più bello mi chiedeva l’autografo. Dico, ho proprio l’aria di un divo?»

 

Oriana Fallaci approfitta della domanda di Nazzari per concludere il resoconto del loro incontro, confrontando le bonarie stravaganze di questo gentiluomo d’antan con la stentorea aggressività dei divi d’oltreoceano: 

 

Non gli rispondete di sì. Gli dareste un grandissimo spiacere. Il Gran Seduttore di Cinecittà è un brav’uomo che la sera va a a letto alle dieci, per guardare la televisione stando disteso sul letto, e la mattina si alza alle sei e mezzo, il pomeriggio fa una passeggiatina a via Veneto dove si ferma a bere una tazza di tè. Lo avreste mai detto? Il suo hobby è l’allevamento dei polli: la produzione di uova in casa Nazzari basterebbe per portarle al mercato. Il suo terrore è passare per un “tombeur de femmes”. Con le donne è timido. Tutte le sue avventure amorose si risolsero per lui in delusioni cocenti. Quando gli chiedono l’autografo, soffre: come se si sentisse in gravissima colpa. Per molti anni visse insieme alla mamma alla quale ubbidiva come un fanciullo. Ora abita insieme a una sorella che si chiama Nina, ha tre anni meno di lui ed è una brava donna all’antica, coi capelli ormai grigi, il grembiule nero, e all’arrivo di un ospite si dilegua in camera sua a ricamare su una immensa tovaglia i titoli dei centoventisette film interpretati dall’adorato fratello.

Il cronista che vada a caccia di personaggi sensazionali fra gli uomini di Cinecittà, si trova quindi a disagio. Nessuno di loro possiede la grinta aggressiva di Marlon Brando, o la misteriosa inaccessibilità di Yul Brynner, o il tumultuoso capitale di scandali che ha Frank Sinatra.

 

La scrittrice non manca di una punta di ironia ma, tutto sommato, sembra congedarsi da Amedeo Nazzari con una certa dolcezza. Di ben altro tenore è il ritratto di Raf Vallone, con il quale prosegue l’articolo:

 

[…] Faceva il giornalista sulla terza pagina dell’«Unità». Laureato due volte, una in legge l’altra in filosofia, Vallone era deciso a diventare scrittore, quando gli capitò di intervistare De Santis e gli recitò Garcia Lorca. Il regista cercava un tipo spontaneo per il personaggio del soldato in Riso amaro. Gli offrì una cifra che superava lo stipendio di un giornalista. Vallone accettò. La sua giustificazione fu filosofica: «Nessuna arte» dice aggrottando la fronte «aderisce alla nostra cultura come quella del cinema, abbiamo, più di qualsiasi altro popolo, il gusto dell’immagine.» Divenne quasi subito un divo e, con la disinvoltura degli italiani che subiscono senza fatica i cambiamenti più inaspettati, ci si adattò. «Ha un volto antico e moderno, il più italico di cui disponga il cinema d’oggi» diceva Malaparte. E lui ama ripeterlo, quasi volesse convincersi che non è una bugia e giustificare meglio il fatto che lavora nel cinema. Malaparte, del resto, era suo amico. «Ci incontrammo prima che girasse Cristo proibito. Teneva sottobraccio alcune stampe di Masaccio e di Piero della Francesca. Mi parlò del film come della composizione di un quadro. Mi sembrò di sognare. Per la prima volta non mi trovavo oppresso dall’equivoco del dilettantismo professionale e morale del cinema, da una totale ignoranza del problema culturale ed estetico» racconta Vallone. E la sua voce di aggrava come se, fasciato nel frac, gli occhiali sul naso, tenesse un discorso a un banchetto di professori.

 

Raf Vallone con Lucia Bosé in “Non c'è pace fra gli ulivi”.


Vallone posa di fronte a Fallaci come un intellettuale progressista prestato al cinema, e lei da una parte ne mette in evidenza la sofisticata e vuota prosopopea, riferendone semplicemente le parole; e dall’altra tenta di riportarlo alla concretezza, al dato ineliminabile del suo volto abbronzato e del suo muscoloso corpo di divo:

 

[…] siede sulla terrazza della sua villa a Sperlonga, affacciata sul mare, e veste blue jeans, una camiciola che aderisce al torace robusto, calza zoccoli. […] Il teatro Antoine, dove recita Uno sguardo dal ponte ormai da otto mesi, gli ha concesso un po’ di vacanza che impiega leggendo Hegel e sant’Agostino o terminando la sceneggiatura di un film sulla rivolta ungherese col quale vorrebbe iniziare la carriera di regista. Come faccia a non prendersi l’esaurimento cerebrale, non lo so. Ma la sua civetteria consiste nel dimostrare che piglia tutto sul serio, e per lui recitare non è più un’avventura. «Questo cielo mi pulisce le meningi. Non immagina il tormento di recitare in una lingua che non era la mia. Per mesi ho fatto la vita di un monaco, chiuso in albergo col copione francese. Mi conforta il sapere che il pubblico abbia compreso lo sforzo.» È anche questa una civetteria per ricordare a se stesso che ha “spopolato”. L’ho visto la primavera scorsa a Parigi e la città era ai suoi piedi. […] «Finalmente ecco un uomo sul palcoscenico» gracchiava Coco Chanel accarezzandogli i bicipiti gonfi. «Ero stufa del terzo sesso che recita.» All’aneddoto, che conosce benissimo ma dice di non ricordare, il commento si fa quasi cupo: il ruolo di pin up boy non gli si addice. «Non era per i bicipiti. Era per la trasposizione del personaggio […].»

 

L’incontro con l'attore si conclude con un quadretto familiare che, chiamando a testimone la di lui moglie, Elena Varzi, la quale dopo il matrimonio ha voluto lasciare il lavoro di attrice e serenamente sopporta le avventure del marito, incornicia l’immagine seriosa e tronfia di un Vallone campione del patriarcato e della sua doppia morale:

 

Questo torinese nato a Tropea, orgoglioso come un uomo del Sud e disciplinato come un uomo del Nord, non si presta a interpretazioni umoristiche. […] Il suo concetto della famiglia è pressoché patriarcale. Gran seduttore, si arrabbia come una tigre quando i giornali raccontano che qualche celebre attrice ricambia la sua simpatia: l’armonia del focolare domestico non deve restare turbata da quelle schermaglie galanti. La celebre diva può chiamarsi Michèle Morgan, Maria Schell o Brigitte Bardot: dopo la schermaglia alla quale nessun italiano nato a Tropea riuscirebbe a sottrarsi, Raf si rifugia più innamorato di prima nelle braccia di Elena. Per nulla al mondo le farebbe un torto un po’ grave. E lei lo capisce. È una creatura mite e dolcissima, paziente come sanno esserlo solo le donne latine che sacrificano l’intera esistenza al marito. […] Ma nessuna equivale alla signora Vallone che per il marito rinunciò a una carriera sicura. Fu Elena Varzi solo in tre film. «Che mi importa,» dice convinta «di lavorare nel cinema? E poi come farei nelle scene d’amore, ad abbracciare un uomo che non è mio marito?» Lui ride ma è chiaro che il discorso gli piace e, tutto sommato, lo condivide. […]

C’è da posare dinanzi al fotografo e, divo o no, la famiglia deve posare riunita. Perfino quando Maria Schell andò a Roma, Raf accettò di farsi fotografare con lei a condizione che l’obiettivo inquadrasse anche Elena e i figli. Il vescovo di Prato ci troverebbe ben poco da ridire.

 

L’articolo prosegue con il racconto della spassosa conversazione, in un bar del centro, con Alberto Sordi, nel quale Fallaci ci consegna, attraverso le scelte di sintassi, di punteggiatura, di lessico e, nel complesso, attraverso il suo stile affilato, un saggio di scrittura propriamente cinematografica, dove la maschera dell’attore appare in tutta la sua rotondità, a partire dal momento della presentazione:

 

«Eh, eh! Alberto Sordi, Madame. Enchanté». Poi ci ripensa: «Vraiment enchanté». Poi ci ripensa ancora e mi fa il baciamano. Infine batte i tacchi, si gratta sinceramente impacciato la nuca, si mette a sedere e ordina una granita e un caffè. Il caffè è per me, la granita è per lui. «Chiariamo subito, Madame, che la granita la piglio perché mi piace: tirchio non sono. Io la conosco questa voce che circola. Chiariamo subito che se volessi potrei comprarmi il locale. Non lo compro perché non mi va. In questo momento mi va la granita.» Il locale cui allude è la Casina Valadier. Lo incontro qui perché sostiene di aver perso le chiavi di casa. In realtà non ha voluto che ci incontrassimo nella vecchia casa in Trastevere perché capisce che non è degna di un divo; e quella nuova non è ancora pronta.

 

Alberto Sordi con Oriana Fallaci.


Oriana Fallaci descrive l’abito, l’automobile e il segretario di Sordi, ossia gli indispensabili accessori di cui un divo, seppure vocato alla parsimonia, non può fare a meno: 

 

[…] È vestito con un doppiopetto grigio fumo molto bello. Il conto del sarto non lo spaventa. «Lei mi capisce, un attore si deve cambia’. E poi il sarto mi fa un prezzo speciale.» Lo accompagna il suo segretario ed è venuto con l’automobile. Il segretario è magro, senza cravatta e sta sempre zitto. Non ha chiesto nemmeno la granita o il caffè. L’automobile è la Millenove che Sordi vinse al Rally del cinema insieme al Pegaso d’oro. «Un chilo d’oro, Madame. Io la gara la feci per vincere, mica per regalare pubblicità alla donna che mi accompagnava. Così, ora di macchine ne ho due e la Mercedes (quella l’avevo comprata, come si fa?) resta sempre in garage. Beve benzina che non le dico. […]» 

 

La conversazione tocca svariati argomenti, dall’acquisto e relativa ristrutturazione della nuova casa del divo («un vero affare!»), alle sorelle Aurelia e Savina, che sono donne all’antica e si prendono amorevolmente cura del celebre fratello, cucinano per lui, tengono in ordine l’appartamento e preferiscono il tranvai alle moderne automobili. Nel frattempo:

 

Sordi vuota fino all’ultima goccia il bicchiere della granita, medita un poco col segretario per decidere se deve prenderne un’altra, decide di no, gli farebbe male allo stomaco, dà una ripassatina al bicchiere per accertarsi che sia proprio finita e si direbbe che stia recitando. Invece no, non recita mai senza contratto, escluso quando partecipa alle serate dei nobili. «M’invitano a cena, m’invitano alle crociere, con le belle donne che vestono bene, i bei camerieri coi guanti puliti, come faccio a rifiutarmi? Mi alzo, scatto, e compio questo dovere» ridacchia. E i suoi occhietti acutissimi, che vedono tutto e capiscono ancora di più mi fissano per accertarsi che non gli chieda una esibizione gratuita, è intelligente, non si esibisce mai a caso.

 

Pur nella cornice di autentico divertissement che abita il loro dialogo, Fallaci non mette in discussione l’intelligenza di Alberto Sordi, del quale riconosce la lucidità e la contezza di sé, anche nella scelta di resistere alle lusinghe hollywoodiane: è ben consapevole di essere un personaggio italiano, e sa che oltreoceano perderebbe il suo colore. L’ultimo argomento che viene affrontato è il più scottante e pernicioso: si parla infatti di matrimonio.

 

Il problema di prender moglie è sempre tormentoso in un divo che è scapolo. Ma per Sordi rasenta l’angoscia. «Vede, Madame, tutti me vogliono morto, voglio dire coniugato. Ma anzi tutto io mi son sempre governato da solo, ho le mie abitudini: come giocare a carte con amici fidati che, son sicuro, non barano. Poi ci ho le sorelle che mi stirano le camicie, cucinano bene e sostituiscono perfettamente la moglie che magari non sa stirare e pretende la cuoca. Poi queste donne d’oggi, così ardimentose, mi terrorizzano. […] Mica la rifiuterei una mogliettina. Tutte le volte che incontro una donna la guardo dicendo a me stesso: “Guardala bene, Alberto. Che sia questa qui?”.» Mi guarda bene: «Lei è sposata? No?». Tossisce impaurito. «E poi c’è il problema economico. Mettiamo che sposo una ricca. Quella si mette a spendere, abituata com’è. Mettiamo che sposo una povera. Quella fa economia ma si lamenta […] insomma mi tocca mantenere la sua famiglia. E le tasse? Sono un fiscalista nato e sto zitto, ma la moglie, se non è fiscalista? Vatti a sposa’! Quella parla.»

 

A questo punto Sordi teme di aver detto troppo, di essersi pericolosamente esposto con una sconosciuta, una giornalista per giunta, e la scena si fa irresistibilmente concitata. La chiusa dell’articolo, difatti, sembra mimare i personaggi impersonati dall’attore sugli schermi della commedia all’italiana, e la scrittura, sulla pagina, ne delinea abilmente la maschera:

 

[…] si interrompe fissandomi con sgomento. «Ma lei scrive. Scrive tutto! Poi me lo pubblica. Mamma mia, che ho fatto! Stia bonina, Madame. Lei mi rovina. Io facevo per ridere. Nun so’ mica così. Non facciamo scherzi, Madame, io sono un omo tranquillo. Ma guarda in che guai vado a ficcarmi per esser gentile.» E si allontana nella notte per raggiungere Mario Bonnard che lo aspetta per giocare a scopone.

 

È il 1958 quando questo articolo viene pubblicato: l’autrice ha appena ventinove anni, ancora non utilizza il magnetofono per registrare le sue interviste, e gli argomenti trattati sono ben lontani da ciò che più le sta a cuore. Eppure, è proprio parlando del mondo dello spettacolo, delle futilità buffe o fastidiose dei divi nostrani che crea lo stile delle “Fallaci interviews”, quelle che «verranno poi studiate nelle università americane» (Cristina De Stefano, Oriana. Una donna, Rizzoli, 2013, p. 179). L’essenziale del suo personalissimo approccio è già interamente qui: la maestria nel restituire gli incontri in forma di racconto, la scelta di parlare in prima persona e, soprattutto, di fare di se stessa un personaggio, mettendosi in scena accanto ai suoi interlocutori, e rivolgendosi con schiettezza al pubblico. Insomma, è sul “fronte del cinematografo” che nasce il suo stile, e forse è proprio da qui che si potrebbe cominciare a rileggere e finalmente a studiare il lavoro e la figura di Oriana Fallaci.

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Scrittrici italiane al cinema
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Giuseppe Pontiggia, uno sconfinato amore per la ragione e la letteratura

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Giuseppe Pontiggia se ne è andato, quindici anni fa, lasciandoci pagine di rara profondità intellettuale, illuministica passione per la ragione, abilità di scrittura e cordiale fraternità. Tra i suoi libri più importanti: L’arte della fuga, Il giocatore invisibile, Il raggio d’ombra, La grande sera, Nati due volte, Prima persona.

La sua biblioteca, 45.000 volumi, e le sue carte sono custodite dal 2004 a Mendrisio in Svizzera. Il Comune di Milano aveva sciaguratamente rinunciato alla possibilità di conservare e far conoscere gli strumenti di cultura e di lavoro di uno dei nostri maggiori scrittori, nato a Como il 25 settembre 1934 e scomparso a Milano, il 27 giugno del 2003.

 

Questo testo è la trascrizione di un nostro dialogo, avvenuto il 22 marzo del 2001, presso la biblioteca di Cornate d’Adda (MI). Il bibliotecario, Stefano Tamburrini, lesse alcuni brani del libro Nati due volte con una sobrietà che piacque molto al suo autore, senza l’enfasi di certi teatranti. Fu una bella serata, qualche tempo dopo Pontiggia mi scrisse: “…un incontro che mi è rimasto nella memoria e nel cuore.”

Pontiggia parlava sempre con la stessa precisione e chiarezza con la quale scriveva: salvo qualche piccola limatura e qualche sintesi, non ho dovuto fare interventi di rilievo. Questo il suo pensiero, queste le sue parole. 

 

Nati due volteè forse il più autobiografico tra i suoi libri. La scrittura è tersa e ironica come sempre ma si avverte anche molta sofferenza

Vorrei dire qualcosa sul libro, sul modo in cui è nato, anche sul rapporto con l’autobiografia. Su quello che ho scritto, sullo scrivere e su altre cose. 

Questo è un libro sulla disabilità; nel risvolto, che ho scritto io stesso, si dice che racconta il rapporto di un padre con un figlio disabile. Qualcuno mi ha detto che questo risvolto è completamente sbagliato. Chi l’ha fatto? L’ho fatto io. L’osservazione non mi ha sorpreso perché qualsiasi risvolto è in fondo un modo d’ingabbiare una materia che in realtà è centrifuga. Al centro del libro  c’è sì il padre che racconta (il padre è un insegnante di trent’anni), lo sconcerto. Nella prima parte c’è la tragedia che la disabilità del figlio provoca nella sua vita, nella vita di sua moglie. Ma progressivamente il testo, la storia, acquistano altri significati, altre valenze; in realtà progressivamente diventa protagonista il figlio. Il figlio convive con la disabilità, una tetraparesi spastica, fin dalla nascita, l’accetta ed è il padre invece che se ne vergogna,  e che impiega 15 anni per accettare il figlio. Dapprima lo rifiuta, anche se non esplicitamente. A poco a poco non solo lo accetta, ma lo ama e se ne innamora. Si innamora di quello che il figlio ha, non di quello che al figlio manca. Del resto questo capita sempre anche nei rapporti d’amore. Ci si innamora di quello che uno ha, la cosa straordinaria nei rapporti d’amore è che quello che uno ha appare come totalità: non si desidera altro. Poi c’è un’illusione ma è un’illusione di totalità. 

 

Quale?

Che la disabilità non riguarda tanto il disabile, certo lo riguarda nella sua forma più evidente, più vistosa, ma riguarda tutti nei confronti dei disabili. Cioè la nostra disabilità di fronte alla disabilità, la nostra incapacità di capirla, di accettarla, il miraggio di una normalità che appare assurda, concepita come meta: la normalità, l’essere normali. In una società come la nostra essere normali cosa vuol dire? Se pensiamo alla normalità che viene indicata ai giovani, è una normalità efficientistica, estetica, edonistica, di super efficienza; la normalità estetica che viene additata alle donne non so cosa sia. Le donne fenicottero, donne scheletriche, sono questi i modelli a cui dobbiamo riferirci? La normalità. In realtà il padre è ossessionato dai test dell’intelligenza di fronte ai quali teme che il figlio soccomba, ma quello di cui dovrebbe preoccuparsi ad un certo punto – e lo capisce lui stesso – sono i test della stupidità come epidemia universale. La stupidità che ci circonda. 

 

È la storia di suo figlio, dei suoi rapporti con lui e con la sua disabilità. Un compito difficile, cui nessuno è preparato, ma oltre l’accettazione e la consapevolezza, tra le pagine si avverte anche una forte indignazione. Quando ha deciso di mettere tutto ciò a tema nella scrittura?

Ho aspettato trentun anni per fare questo romanzo. Vorrei chiarire che non sono attirato dall’autobiografia come racconto di quello che mi è successo. Non ho interesse per quello che mi è successo, ho interesse per quello che capita sulla pagina. Mi piace inventare nel senso etimologico latino di invenire, trovare. Allora ho l’impressione che se racconto quello che mi è successo “non trovo”. È vero che gli scrittori autobiografici in realtà scoprono dalla propria esperienza cose che non sapevano.

 

È successo anche a lei?

Sì, certo. E sono cambiato scrivendo questo libro proprio nei confronti di mio figlio, di mia moglie, della disabilità, il libro mi ha aiutato a cambiare prospettiva ed è quello che mi hanno testimoniato molti lettori, molti disabili, moltissimi, molti pedagogisti, fisioterapisti, medici, in parte perché li attacco con durezza. Mi hanno invitato a Siena, sono andato proprio sabato scorso a un congresso di medici,  all’università, e ho detto che la disabilità è causata molte volte da medici incapaci che intervengono tardivamente durante il parto, non sanno prendere provvedimenti tempestivi… sono tutti sbagli… no, non li chiamerei sbagli, no. Un medico non può sbagliare, un pilota di jet non può distrarsi. Se si distrae in fase di decollo o atterraggio, e la nascita è qualcosa di analogo, non può distrarsi. Una compagnia aerea che si distrae poi fallisce.

Se cadono tre aerei in un mese ha chiuso, i piloti non possono distrarsi. Piloti che fanno 50.000 ore di volo e non hanno un incidente, quindi anche il medico, in certe condizioni, non può distrarsi. E poi ho detto: un medico che si distrae è un disabile, un medico che non sa avere un rapporto con il paziente,  né con i suoi pazienti, non dobbiamo chiamarlo “un buon medico che però non sa avere un rapporto con il paziente”, è un medico disabile, è una disabilità professionale. Devo dire che mi hanno dato ragione,  infatti mi hanno invitato proprio perché questi problemi li sentono. Però il tema è stato molto sentito da tutte le persone coinvolte nel problema. 

 

 

Non era dunque la dimensione autobiografica a ispirarla?

No, non ero attirato dall’idea di ripetere la cosiddetta verità storica, la fedeltà dei fatti. Poi avevo anche dei problemi di carattere psicologico con mia moglie e mio figlio, insomma non mi ritenevo libero di raccontare le cose, non mi attirava e non volevo farlo. E poi il tema della disabilità mi angosciava, fino a 15 anni dalla nascita di mio figlio la sua presenza  era per me una fonte di frustrazione e di angoscia, con dei momenti liberatori. Poi effettivamente nella realtà è avvenuto quello che racconto, cioè un mutamento e anche questo ha concorso a farmi cambiare atteggiamento di fronte al problema. La disabilità da un certo punto di vista anche letterario-narrativo va affrontato non come un’angoscia indicibile, perché allora uno ha chiuso. Se è indicibile non ne parla. E direi che non va affrontata neanche come una tragedia, perché nella maggior parte dei casi – forse nella totalità dei casi – quando invece la si va ad affrontare, non è una tragedia:è un esperienza drammatica, direi terribile, ma non tragica. Quest’ultimo però è il termine che viene usato comunemente.

Il mio libro è stato citato durante il Giubileo, mi ha fatto piacere, però qualcuno ha anche scritto “arriva il corteo degli infelici”, e volevo chiedere a quel giornalista: ma perché, tu sei felice? Tua moglie è felice di vivere con un idiota come te? I tuoi figli sono felici? Ti sei mai interrogato sulla felicità? Perché, i disabili sono infelici? Non è vero che i disabili sono infelici: sono sfortunati, hanno difficoltà, ma non più dei sani che per esempio si imbattono in disabilità temporanee. Ci sono più suicidi tra i sani che tra i disabili, anzi nei disabili, compresi i ciechi, l’atteggiamento è molto più positivo e allora perché…? Perché si usa questo linguaggio nei confronti della disabilità? 

 

Ha parlato con i suoi famigliari prima di iniziare a scrivere la vostra storia? Hanno capito e condiviso il tuo desiderio di raccontarla?

Quando ho progettato di scrivere il libro nel gennaio del 1999 ne ho parlato in famiglia, ed è stato accolto come un progetto magari importante che poteva dare frutti importanti. Mio figlio mi ha detto “Ma con te sono preparato a tutto”. Lui dice di essere l’unico equilibrato in una famiglia di squilibrati e probabilmente ha ragione, almeno per quello che mi riguarda, ma il solito amico… che dice “cosa vuoi fare, una confessione? Un lavacro?” No, lavati tu, io non devo fare nessun lavacro, nessuna confessione. Io devo fare un buon romanzo, devo fare un romanzo che tenga, nessuna confessione, non è un talk show in cui si confessa quello che agli altri piace che uno confessi. Io devo andare a fondo, devo raccontare la verità del rapporto con l’handicap e non è una verità patetica e lacrimosa, è una verità dura, ma non voglio fare nessuna confessione. Chi scrive non si confessa, chi scrive costruisce una storia in cui riconosce e spera che chi legge si riconosca in tutti i personaggi. Lasciamo questi patetismi a chi non conosce la letteratura.

 

 

E lei non vuole confessarsi...

Ma no! Io voglio costruire una storia e voglio raccontare cose vere, nel senso che il lettore riconosce la verità e si identifica. Poi un’altra cosa che mi ha aiutato a scrivere è quello che emerge dal primo capitolo, che racconta del padre con il figlio sulle scale mobili di un grande magazzino. Questo mi ha sbloccato, pensare a una scena che non cominciava dal parto, perché ogni inizio rimanda sempre a un altro inizio. Perché l’inizio di una storia deve essere il parto? Non si sa quando la storia ha inizio. Ha inizio nel rapporto tra marito e moglie, ha inizio nelle mentalità, nell’equilibrio del narratore, dei medici. Quando ha inizio la storia? Allora tanto vale cominciare dalle scale mobili. Il primo capitolo entra nel vivo di un’esperienza così sconcertante, dura, come l’handicap, descrivendo le difficoltà del figlio con le scale mobili. 

 

Pensa che il suo libro possa essere utile a far capire meglio il problema della disabilità? Come è stato accolto dai lettori?

Questo primo capitolo è stato letto quando mi hanno dato il premio Moravia,  e c’era l’attore che quando dice ”sìì… sìì” (Pontiggia mima una recitazione enfatica e melensa) io ero allibito perché parliamo di disabilità e poi  Dacia Maraini mi dice “Ma perché …? Non ha recitato bene?” “Bene francamente  no!” dico io. “Eh, ma dagli un segno di incoraggiamento perché è un giovane” insiste lei, “Giovane, ma va corretto quando sbaglia, non si legge così” rispondo ancora. “No ma…”, e allora spiego: “Ha fatto una lettura patetica”. E ho detto grazie e mi sembrava il massimo complimento. E invece in realtà è una disabilità, una disabilità professionale. Bisognava dirgli “No, il disabile dice sì, no, sì, no. Poi alla fine fa un discorso più articolato ma non devi leggere sìì, perché non dicono sìì, sei tu il disabile, non lui.” 

In questo capitolo il conflitto è più evidente. Tutto comincia con il movimento, e questo penso sia giusto: la narrativa è azione. Lo so che c’è chi pensa a romanzi dove non succede niente, ma sono cose che riguardano soprattutto la testa di chi li concepisce, è lì che non succede niente.

In un  romanzo, in un racconto, l’azione è fondamentale. Qui l’azione è quanto di più estraneo vi può essere per la disabilità: scale mobili, qualcuno che  precipita. C'è poi un altro tema importante.

 

Quale?

Il tema dello sguardo, i disabili sono ossessionati dagli sguardi rapaci di quelli che li guardano perché è uno spettacolo gratuito. In Italia lo spettacolo gratuito crea una particolare popolarità. Mi ha scritto una disabile, dice: “Io ancora oggi faccio fatica a sopportarli gli sguardi, perché non sono sguardi soccorrevoli, sono sguardi di curiosità invadenti.” Tranne i casi in cui lo sguardo è amico, non è facile… non è facile, però è un segno di civiltà. I greci avevano la civiltà dello sguardo, lo sguardo era fonte di conoscenza, c’è tutta una rete di parentele etimologiche tra vedere e sapere nel mondo greco. Noi abbiamo piuttosto l’inciviltà dello sguardo. Per noi lo sguardo nel campo della disabilità è un modo di impadronirci delle difficoltà altrui senza voler aiutare.

E poi, c’è la frase tremenda e però anche solidale del figlio che dice al padre: “Se ti vergogni, puoi camminare a distanza, non preoccuparti per me”. È il figlio che si preoccupa per il padre, capisce che il padre vive l’esperienza come vergogna, come colpa.

 

Ed è ancora così, oggi?

Trent’anni fa era una norma; oggi si sono fatti dei progressi importanti, però è un sentimento che ancora si prova, e non c’è ancora cultura di fronte alla disabilità. Il linguaggio è sempre inadeguato e fuorviante. Tempo fa io feci un corso di scrittura, sono stato tra i primi in Italia a tenere corsi di scrittura creativa, dal 1985 al 1996 ne ho tenuti anche per i giornalisti e parlavo del linguaggio autoritario della cronaca e mi hanno chiesto: “Ma com’è il linguaggio autoritario in una cronaca?” Ma, per esempio, se lei scrive “Vecchietta travolta sulle rotaie da un tram” lo direbbe per sua madre? “Vecchietta”! Perché vecchietta? O magari dicono “ragioniere” si uccide gettandosi dal 5° piano. Lo direbbe trattandosi di suo figlio? No! Però trattandosi di un altro allora dice vecchietta! Ma dica: una donna viene travolta, oppure: la signora Bianchi è stata travolta, ma non dica vecchietta. Noi diventiamo ossessivamente attenti riguardo il linguaggio solamente quando siamo coinvolti personalmente, professionalmente, emotivamente… allora diventiamo molto sensibili. Ma quando si tratta di uno spastico, è uno spastico, un mongoloide, nessuno che abbia in famiglia un mongoloide, cioè un ragazzo down, direbbe mongoloide, però gli altri lo dicono con estrema facilità. Perché la differenza tra uno scrittore e uno che non lo è, è che lo scrittore è sensibile al linguaggio. Cioè tutte le parole sono cariche di senso, sono degli universi, e quindi ha un’attenzione come i cani sentono gli ultrasuoni. Ma gli altri dicono è uno spastico…

Oggi la sensibilità al linguaggio è aumentata, si è capito che il linguaggio è uno dei modi di aggredire e ci sono delle censure, però è un processo molto lungo. 

 

Capire la disabilità, la diversità, è così difficile?

Il problema direi che non è quello di accettare la diversità degli altri, è di accettare la nostra diversità, cioè noi siamo diversi  gli uni dagli altri, la diversità del disabile è una diversità più vistosa, più drammatica, più forte. Dobbiamo acquisire occhi diversi se vogliamo procedere nella conoscenza nei confronti della disabilità. 

La disabilità è un’esperienza che noi abbiamo continuamente.

 

In che senso?

I giovani si sentono disabili emotivamente, sessualmente, psicologicamente, professionalmente, hanno continuamente un senso di disabilità. Gli uomini ce l’hanno continuamente, a 40 anni vengono rottamati, subiscono il mobbing, in tanti vengono allontanati con questi sistemi d’emarginazione sociale, per cui non sono alla pari. Il senso della nostra inadeguatezza direi che è congeniale all’uomo. Lo confermano tra l’altro i fisiologi, gli psicologi, noi siamo attrezzati anche per una vita diversa a quella che facciamo. Dal punto di vista alimentare, veglia/sonno, tutti dicono siamo stressati. Poi c’è il linguaggio dei cronisti: “Era una famiglia perfetta”, ma dove vivono, dove vivono? “Sei felice?, tu sei felice? Io faccio una vita felice”. Ma da dove vengono? Da quale pianeta? Parlano d’imperfezione… abbiamo un linguaggio devastante nella sua menzogna. Ci sono dei vecchi che vanno in televisione, soprattutto vecchie, rapacemente invidiose delle più giovani alle quali attribuiscono tutti i difetti: “Noi sì che abbiamo dovuto superare terribili difficoltà, ma ho avuto tutto dalla vita” Ma cosa stai dicendo? Allora di fronte a queste cose noi dobbiamo cominciare a capire che la disabilità è qualcosa che ci riguarda da vicino. I disabili lo sono ma sanno di esserlo, noi lo sappiamo un  po’. Il padre pensa di essere immaturo di fronte alla maturità del figlio dopo 15 anni. 

Il problema non è di contrapporre la disabilità alla normalità concepita come una condizione privilegiata.

 

E qual è la prospettiva corretta?

È accettare lo stato della disabilità. Noi siamo diversi uno dall’altro, come no? Ogni tanto per esempio mi vengono in mente le feste da ballo dove andavo da giovane. Erano esperienza tragiche, ma non me ne rendevo ben conto; ragazze che non ballavano, infelici, trascurate, si sentivano come vermi perché non le invitavano, allora io non me ne rendevo conto. Uno che è intelligente molte volte si sente a disagio, uno colto… uno che appena appena è un po’ preparato… Mi ricordo quando lavoravo in banca da impiegato… c’era una ragazza che mi piaceva pure che mi ha detto: “Non posso parlare con te perché parli… sei troppo intelligente” Io non so se ero disabile io o idiota lei, non so, in ogni caso noi parliamo di normalità, Ma quale normalità? Se noi cominciamo ad accettare la nostra diversità, guardiamo…, invecchiando non facciamo che conoscere forme di disabilità. Se io faccio una conferenza a persone sopra i 40 anni e parlo per esempio della memoria sono subito tutti attentissimi, sono tutti sinistrati dalla memoria dopo i 40 anni, tutti angosciati, sono disabili della memoria. Anche perché, se lo mettano in testa, non è che i giovani abbiano una memoria strepitosa, altrimenti non dovrebbero tanto impegnarsi per rispondere agli esami, dimenticano un mucchio di cose, dimenticano valanghe di cose, ma dopo i 40 anni il mondo diventa nevrotizzato nel tema della memoria.

Io dedico un capitolo tragicomico al nonno del disabile che per tutta la vita spera che il nipote diventi normale, lui è salutista, igienista, autoritario, e spera che diventi normale… lui ha un fisico efficiente, a 90 anni comincia a dimenticare il nome delle cose più comuni e questa sì è una catastrofe della memoria e lui che perseguitava i suoi famigliari chiedendo loro i nomi di personaggi famosi per poter fare le parole crociate, metterli in difficoltà, non ricorda più la parola bicchiere, tavolo. 

Allora facciamo i conti con la nostra disabilità. Mi ricordo che quando insegnavo c’era una bella ragazza molto timida, che non riusciva a parlare, cioè parlava a voce molto bassa. Io allora avevo 27 anni, superando le prime difficoltà ho detto: “Parlami vicino all’orecchio” sembrava che si confessasse, però… dimostrava di essere preparata. Avevo una collega che mi diceva “Ma come fai a capire quello che dice?” “Ma basta stare un po’ attenti”. “Ah , no è una disgrazia, mi fa senso”. Io le dicevo, mi ricordo: “La disgrazia è avere una testa come la tua, questa è la disgrazia irrimediabile, a quella ragazza basta un amplificatore.” E lei era convinta di essere una donna capace, matura. Quest’ultimo è uno degli aggettivi più controversi. Shakespeare dice: “La maturità  è tutto”. I giovani vengono giudicati sulla maturità da parte di persone che fan commenti e il più delle volte non lo sono mature, non lo sono. 

 

Restiamo sulle cose difficili: far capire ai  più giovani l’importanza e la bellezza della letteratura.

Ricordo che, quando insegnavo, i ragazzi di una classe mi avevano regalato un disco di jazz  e mi avevano scritto una dedica: “A Pontiggia, che ci ha fatto capire che la letteratura ha un senso”. Bisogna far capire che ha un senso importante.

 

Ma perché è interessante che la letteratura abbia  un senso?

Perché normalmente la letteratura pare insensata ai giovani, agli studenti; lo studio della letteratura, e non hanno tutti i torti se penso come io studiavo la letteratura, come studiavo il latino. Io il latino ho cominciato a capirlo all’università. Per conto mio studiavo la grammatica storica, capendo che il latino era una lingua parlata da persone, non era una lingua inventata dai grammatici. Lo parlavano, lo scrivevano sulle tombe, si mandavano dei messaggi d’amore in latino, … ma questo a scuola non l’avevo capito. Per esempio, lo studio filologico del latino e del greco e anche lo studio letterario, insistere su certi particolari che sono totalmente estranei all’interesse e alla sensibilità dei ragazzi è perfettamente inutile, è molto nocivo, non ci fa capire cos’è la letteratura: quindi la letteratura appare insensata. Allora vuol dire che ci sono errori pedagogici, ma addirittura teorizzati: Castiglione a Milano, di fronte alla domanda “Perché studiamo?”, rispose “Non bisogna rispondere. Non dobbiamo parlare di bellezza, di umanità, dobbiamo occuparci di altre cose.” Quindi c’è proprio un errore anche pedagogico che è stato commesso nei confronti della letteratura, e che alcuni insegnanti probabilmente commettono ancora oggi mentre altri cercano di far capire che la letteratura è importante.

 

Giuseppe Mendicino e Giuseppe Pontiggia, Cornate D'Adda, 22 marzo 2001.


Qualche esempio?

Penso a una grande filosofa americana, Martha Nussbaum, è stata tradotta da Feltrinelli, e insegna diritto ed etica nelle università americane. Per far capire cos’è il diritto lei legge e commenta in classe Dickens, Dostoevskij, Hawthorne, i grandi narratori, perché se noi vogliamo capire cos’è il diritto, non dobbiamo vedere le trasmissioni di Santoro, Vespa, ecc. Lei non lo dice ma possiamo dirlo noi: dobbiamo leggere i grandi narratori. Questi ci fanno entrare nelle emozioni e sono gli unici che ci possono far capire, chi ha letto Dostoevskij, lo dice anche Hemingway, chi ha letto Madame Bovary, alla fine quel ragazzo che salta il muro e va a piangere sulla tomba di Madame Bovary…. il lettore fa delle esperienze che altrimenti non farebbe, sono esperienze di enorme importanza. La civiltà greca, noi lo sappiamo, è stata formata dall’Iliade e dall’Odissea; Saffo è stata la poetessa che ha detto: “Questa cosa è bella perché piace a Saffo” è la prima che ha fondato la soggettività del valore estetico, che non è soggettivo ma è fondamento soggettivo… Questo è fondamentale. La società greca è stata fondata dalla poesia. E così la civiltà rinascimentale. La scienza ha enormi debiti verso la cultura, i filosofi, i poeti. Allora a un giovane si fa capire che la letteratura è un esperienza emotiva, intellettuale, fantastica,  sapienziale di enorme portata. A un giovane può interessare Il giovane Holden. È il libro che ha rivelato all’America una intera generazione.

 

L’importanza della letteratura è anche necessità di un linguaggio ricco, ben articolato, non banale.

L’importanza della letteratura è enorme se noi vogliamo intanto riscoprire le parole nelle sue potenzialità espressive. La parola è degradata negli usi quotidiani, nella letteratura  acquista splendore. Ma se uno vuole capire l’amore, è sì importante che senta Gino Paoli, ma se legge John Donne, impara qualcosa di più importante. C’è una  poesia di John Donne: un mattino, al risveglio, due amanti che si ritrovano vicini e lui dice ma cosa abbiamo fatto io, tu, prima di conoscerci? Dove eravamo vissuti? Dove eravamo? Queste sono le cose importanti se vogliamo capire il senso di sconcerto, di rivoluzione che produce l’amore (la poesia citata da Pontiggia è “Il buongiorno” di John Donne). Poi possiamo anche ascoltare Gino Paoli che dice anche delle cose importanti. “Il cielo in una stanza” va bene, ma John Donne aveva messo un universo in quella stanza. Se legge John Donne anche un ragazzo capisce, certo bisogna anche faticare perché le strade più belle non sono anche quelle più  semplici e leggere. John Donne richiede molta concentrazione però è la stessa concentrazione che richiedono Chopin o Bach. Certamente a me piaceva il jazz, mi piace tuttora ma mi guarderei bene dal dire che Ellington è come Bach; è un grande musicista, però Bach è una scoperta più straordinaria. Quello bisognerebbe far capire ai giovani. Perché un giovane naturalmente sente un disco, pensa è buono, come uno che beve il Lambrusco e pensa è ottimo. Però se beve altri vini capisce che c’è dell’altro e di meglio. È il confronto che rivela la qualità.

Io penso che la letteratura apre degli spazi emotivi più ampi, nessun pregiudizio verso la altre forme di espressione, ma la letteratura….

Dobbiamo abituare i giovani a non considerare la visibilità, l’essere conosciuti, come una conferma del valore. Io ho rifiutato tante volte di apparire in televisione, da Costanzo non sono mai andato. La letteratura deve riacquistare il suo orgoglio ecco, lo so che è difficile, ho insegnato anch’io, le so queste cose, però lo dico anche  per me. Non mi conoscono? Peggio per loro. Se chiediamo a dei giovani, chi è Emily Dickinson? Chi è? Mah! E invece è importante. La funzione dello scrittore è di testimoniare in modo radicale la verità. La verità è  sempre occultata dall’ideologia, dalla politica, dagli interessi. Ecco io direi che solo lo scrittore sa arrivare a una verità caleidoscopica, complessa e contraddittoria. 

 

I passi del libro che mi sono piaciuti di più sono quelli dell’amarezza, dell’indignazione personale e civile verso le cose ingiuste e sbagliate: gli errori e l’insensibilità dei medici ad esempio. È difficile scrivere bene del bene. Perché troviamo più interessante l’Inferno di Dante rispetto al Paradiso?

Mah! Ricordo che una signora a Trieste mi chiese: “Lei Pontiggia, racconta spesso storie di tradimenti, di infelicità. Perché non racconta di una unione felice, senza nubi, per tutta la vita?” “Ma signora, ho risposto, non sono uno scrittore di fantascienza, io mi occupo di altre cose”.

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Ricette immateriali. Testaroli

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Sono un piatto caratteristico di quella lingua di terra dell'alta Toscana chiamata Lunigiana. Regione antica, per lo più aggrappata agli Appennini e “da sempre” via di transito tra il mondo continentale delle terre un tempo chiamate Lombardia e quello più solare del Mediterraneo. E piatto antico e misterioso sono i testaroli, preparati ben prima che la pasta facesse la sua timida presenza in Italia in pieno Medioevo.

Testaroli, ovvero dischi di un impasto di farina, acqua e sale cotti tra testi di coccio o metallo arroventati sul fuoco. La cottura con i testi– assimilabili a una specie di forni portatili – rappresenta una delle tecniche di cottura più originali e antiche, utilizzata un tempo fuori dalle mura domestiche. Tagliati a larghi pezzi, vengono poi sbollentati rapidamente e conditi con pesto o pecorino. 

Il pesto o il formaggio di pecora dunque come condimento per uno stesso piatto a collegare non solo idealmente gli orti alla montagna, non solo l'agricoltore della costa al pastore di greggi. È anche una conferma di come il Mediterraneo sia uno e sia tale anche lontano dal mare, anche sui monti che lo costeggiano o lo attraversano, una conferma di come ogni alimento, ogni ricetta giuntaci dalla tradizione sia stata selezionata attraverso il tempo e le generazioni.

 

Eppure è idea comune ai nostri giorni che il benessere debba arrivare soprattutto con le conoscenze scientifiche, con le teorie, le attualità nutrizionali, pillole di divulgazione dietetica che ci informano e ci confondono...

Il cibo della tradizione sarebbe appunto "passato" (in questo periodo in auge) ma sostanzialmente buono per il brodo e per il gusto più che per il benessere. L’alimentazione mediterranea e poche altre tradizioni alimentari sarebbero le eccezioni epocali che tuttavia avrebbero sempre bisogno delle conferme della scienza. 

 

Ma il conflitto tra modernità e tradizioni, tra nuovo e vecchio, almeno in alimentazione non dovrebbe esistere: il cibo che arriva dalla tradizione non è in qualche misura sempre moderno?

Quasi sempre ci si dimentica che un piatto o un alimento del territorio un tempo sono stati novità, sono state invenzioni che qualche vantaggio – qualunque fosse stato – ha fatto riconoscere e selezionare attraverso il tempo.

 

Selezione culturale come selezione naturale? 

Scriveva a proposito Charles Darwin: “La conservazione delle variazioni individuali favorevoli sono state da me chiamate "selezione naturale" o "sopravvivenza del più adatto””.

Il grande scienziato inglese non conosceva l'esistenza del DNA (né quella dei testaroli...) ma aveva compreso come la selezione dell'ambiente fosse il motore dell'evoluzione. Era sotto la pressione della selezione che le specie viventi evolvevano con le loro varianti migliori. Era la sopravvivenza dell'individuo più adatto che garantiva il passaggio delle sue qualità alle generazioni successive. 

Accade forse la stessa cosa per il cibo della tradizione. Non è forse selezione (culturale) ciò che ha favorito la trasmissione di questa o quella consuetudine, scelta alimentare, ricetta? Perché la tradizione alla fine per diventare tale deve sempre aver dimostrato qualche vantaggio. Un piatto, una scelta alimentare, una ricetta sono conservati e diventano tradizioni solo dopo aver confermato le loro "verità" per il gusto, per il corpo, per il benessere e sempre per le comunità...

Se così fosse stato, se così è... allora la tradizione in cucina è anche innovazione, perché nel cibo e nei suoi benefici ci sarebbe sempre la selezione di qualcosa di positivo, di qualcosa che un giorno si è rivelato “più adatto” al corpo o allo spirito...

 

Dopo il famoso viaggio con il Beagle Charles Darwin non si staccò più da Down House, dove concepì la teoria che cambiò le scienze biologiche; mai quindi scese in Italia per un altro, possibile e differente, gran tour

Piace pensare che se fosse andata diversamente, forse Charles Darwin avrebbe potuto amare i testaroli della Lunigiana; li avrebbe amati come ogni ricetta antica in cui si fosse imbattuto. 

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Che fare quando il mondo è in fiamme

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“What You Gonna Do When the World’s on Fire?”, verso iniziale di un negro spiritual ripreso più tardi dal cantante e chitarrista nero Lead Belly (1906-1949), è il titolo del nuovo film di Roberto Minervini.

Virato in urgente e imperativa domanda politica attuale, “Che fare quando il mondo è in fiamme?”, quel verso introduce limpidamente il film che il regista e la sua troupe hanno costruito mescolandosi alla gente di Tremé, uno dei quartieri più antichi di New Orleans, il primo nella storia della città ad accogliere le gens de couleur libres, le persone di colore non più schiave. 

Tremé, che in base al censimento del 2000 contava 8.853 persone, 3.429 case e 2.064 famiglie (4.918 persone per km²), dopo il passaggio dell’uragano Katrina nell’agosto del 2005 annovera oggi, secondo il censimento del 2010, 4.155 persone, 1.913 case e 827 famiglie. Dimezzato da una catastrofe ‘naturale’, attualmente è in via di gentrificazione, un disastro che di naturale non ha nulla.

 

Minervini, che nel corso degli anni ha scelto con coerenza di raccontare l’America profonda, mette questa volta al centro della sua narrazione questa specifica ‘zona di esenzione’, una delle tante dove i diritti civili sono stati sospesi o revocati dallo Stato: una comunità di africani americani in bilico tra estinzione e sopravvivenza, tra cancellazione e tenace memoria di sé. 

Per niente interessato a spiegare, giudicare, denunciare, fare la morale, il regista si assume il compito di mettere ‘semplicemente’ in vibrazione e in risonanza alcune storie individuali affinché agiscano tra loro e, intrecciandosi, dicano di sé e di ciò che hanno intorno. In altre parole le rende udibili attraverso un dispositivo filmico che postula e costruisce un ascolto partecipe, emozionato, politico.

I temi portanti, corrispondenti grossomodo a quattro blocchi narrativi, sono: la memoria (incarnata da Chief Kevin e dalla tradizione degli ‘Indiani’ del Mardi Gras, un nitido caso di gratitudine storica); la paura (filo conduttore di tutti gli scambi tra una giovane madre, Ashlei King, e i suoi due figli ragazzini, Ronaldo King e Titus Turner); la resistenza (incarnata da Judy Hill, proprietaria di un bar storico che sarà costretta a cedere, perché gli affitti stanno andando alle stelle); la lotta e l’autodifesa (personificate dal nuovo partito delle Black Panthers). 

 

 

La regia di Minervini e lo straordinario lavoro di montaggio di Marie-Hélène Dozo li uniscono, li mescolano, li giustappongono, creando una sapiente tessitura narrativa giocata sul ritmo, su un canto e controcanto fluido e compiuto.

Nelle immagini di questo film, nell’armonia con cui si legano le une alle altre, nei suoi personaggi, nella delicatezza con cui il regista li avvicina e li guarda avvicinarsi tra loro, nello splendore ipnotico del bianco e nero di Diego Romero Suárez-Llanos, c’è la grandezza del cinema classico, ma anche tutta l’invenzione necessaria a raccontare il mondo in cui siamo.  

Coniugandosi con un’idea di cinema e di responsabilità civile indocile alle idee ricevute, la passione di realtà, la modestia, la capacità empatica, l’occhio e il respiro da grande documentarista e narratore di Roberto Minervini hanno prodotto un film che è pura grazia – cinematografica, umana, politica. 

Se con Monrovia, Indiana il grande Frederick Wiseman continua a raccontarci l’ordinata America bianca illusa di democrazia, Roberto Minervini, forse proprio grazie alla sua ‘alienità’, ha il coraggio di immergersi nelle sue tenebre e di portare alla luce quel devastato rimosso che è l’America nera.

Misurarsi con la storia nel suo farsi – non limitandosi a ricostruire il passato attraverso film variamente autobiografici o in costume come molte opere in concorso a Venezia quest’anno, da Roma di Alfonso Cuarón a Tramonto di László Nemes – richiede coraggio e un’idea di mondo svincolata dai feroci dogmi politico-economici correnti. Il cinema di Minervini è questo e What You Gonna Do When the World’s on Fire? ne è il compimento.

 

Il film, che sarà presentato all'interno di “Le vie del cinema” in programma a Milano dal 19 al 27 settembre prossimi, sarà distribuito in Italia dalla Cineteca di Bologna, che ritenta così l'esperimento di “Villages Visages” di Agnès Varda. In Francia il film di Minervini sarà nelle sale a partire dal prossimo novembre, distribuito da Shellac. Dopo Venezia What You Gonna Do When the World Is on Fire? è stato invitato al Toronto Film Festival, al New York Film Festival, al Busan International Film Festival (Corea del Sud), al London Film Festival e alla Viennale.

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Domani a “Le vie del cinema”, Milano
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Robert Venturi, architetto gioioso

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Dunque il 2018 si porta via due grandi americani della East Coast, Tom Wolfe e Robert Venturi. Di Richmond, Virginia, il primo, di Filadelfia, Pennsylvania, il secondo, nonostante tutte le loro differenze stilistiche resteranno entrambi legati alla città di Las Vegas scoperta letteralmente da Wolfe in uno dei primi reportage del New Journalism, Las Vegas (What?) Las Vegas (Can’t Hear You! Too Noisy) Las Vegas!!!!, pubblicato su “Esquire” nel febbraio del 1964. «Las Vegas è l’unica città al mondo in cui lo skyline non è costituito da edifici come a New York o da alberi come a Wilbraham, Massachusetts, ma da segnali stradali» è la sintesi del suo paesaggio urbano. In quel periodo Venturi stava preparando il suo primo libro, Complexity and Contradiction in Architecture, pubblicato poi dal MoMA nel 1966 (e in Italia da Dedalo nel 1980), un saggio teorico che impostava similitudini fra architetture antiche e moderne con estrema disinvoltura, pescando anche tra autori più rimossi che proibiti come gli architetti italiani compromessi col fascismo Armando Brasini e Luigi Moretti, detestati da Bruno Zevi e dal direttore di “Casabella Continuità” Ernesto Nathan Rogers. Formalista allora era infatti un’offesa, eppure non solo Venturi – che avrebbe voluto intitolare il libro Complexity and Contradiction in Architectural Form–, ma tutta una nuova generazione di architetti si stava orientando verso lo studio dei problemi formali sulla base di una comune critica del funzionalismo. Questo era stato invece la spina dorsale della generazione “eroica” del Movimento Moderno, quello dei maestri Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe, Walter Gropius, introdotti negli USA dalla celebre mostra International Style curata da Henry-Russell Hitchcock e Philip Johnson nel 1932 proprio al MoMA.

 


 

Per esempio Aldo Rossi pubblica in parallelo con la Marsilio di Cesare De Michelis, sempre nel fatidico 1966, L’architettura della città (appena ristampata dal Saggiatore), vera e propria locomotiva del formalismo architettonico che esploderà però negli anni ’70. Un altro studio seminale, manifestatosi però a scoppio ritardato, è la tesi di dottorato a Cambridge di colui che negli anni diventerà un fiero avversario di Venturi, in una lotta intestina fra “white” e “grey”, puristi e impuri, vale a dire Peter Eisenman, autore di The Formal Basis of Modern Architecture (1963). Ma andiamo con ordine: dopo la laurea a Princeton nel 1947, Venturi aveva lavorato nello studio di due architetti dall’enorme peso culturale: Eero Saarinen, figlio di Eliel autore di The Search for Form in Art and Architecture (1948), e soprattutto Louis Kahn, l’architetto che aveva separato lo spazio in due tipologie, servente e servito, proprio per potersi concentrare sugli sviluppi più liberi della conformazione architettonica. Venturi non cita mai Kahn, prerogativa solo di chi riteniamo essere i veri maestri secondo Carmelo Bene: fra i due ci fu un dissapore perché durante una lezione il giovane allievo si era accorto che il maestro stava spacciando per sua una teoria sulle finestre che invece nasceva da una propria ricerca e forse qualche altro screzio. In ogni caso l’enfasi su Roma e i suoi monumenti, che Kahn visita a fondo solo nel 1951 dunque poco prima che Venturi entri nel suo studio (dove teneva appesa una mappa del Campo Marzio di Piranesi davanti alla sua scrivania) ha lasciato un’impronta indelebile sull’allievo – che andrà all’American Academy di Roma fra il 1954 e il 1956. I monumenti si sa non hanno funzione, quanto piuttosto un fortissimo valore simbolico, un valore che era stato rimosso dall’architettura moderna, impegnata perlopiù in battaglie di ordine sociale e tecnico.

 

Las Vegas from car.

 

Ecco perché ritornano prepotentemente dopo il ’66, i libri di Rossi e Venturi sono solo le prime due stelle che preannunciano un’inversione di tendenza dal modernismo al postmodernismo, dall’architettura della funzione a quella della comunicazione. Ciò che manca a Complexity and Contradictionè il Pop, fatta salvo l’ultima illustrazione di una tipica strada mercato americana, «main street is almost all right». È un’immagine molto significativa, perché rovescia il significato della lettura di Peter Blake, God's own Junkyard (1964) e al contempo manifesta il legame con Denise Scott Brown in modo ufficiale, in ogni senso. Nata in Zambia da genitori ebrei baltici, Denise Lakofski studia architettura a Johannesburg in Sudafrica e poi a Londra presso l’Architectural Association dove scopre la cultura Pop grazie a Reyner Banham, Alison e Peter Smithson e all’Independent Group insieme con il primo marito Robert Scott Brown, scomparso in un incidente stradale. Dopo un breve soggiorno in Italia, all’inizio degli anni ’60 si trasferisce a Filadelfia convinta che Kahn insegni urbanistica come lei, e invece non è così: dopo un breve apprendistato comincia allora a insegnare a Penn un corso di teoria parallelo a quello di Robert, conosciuto a una manifestazione di protesta contro l’abbattimento di un edificio di Frank Furness; alla fine lui le confida di essere d’accordo su tutta la linea, lei però lo sgrida perché non l’ha sostenuta in pubblico. Nasce un’amicizia fra colleghi e poi quando lei lo invita per un sopralluogo a Las Vegas nel ‘66, quello della ormai celebre doppia foto, all’improvviso in un bar si stringono la mano e non si lasceranno mai più. L’anno dopo si sposano, poi nel ’68 lei, passata a Yale, porta i suoi studenti prima a Los Angeles, fra l’altro nello studio di Ed Ruscha, e poi a Las Vegas per uno studio approfondito della città del vizio dove gli effetti dell’uso di massa dell’automobile stanno producendo i loro risultati più radicali. Per questo nella fotografia che ritrae i due novelli sposi nella nuova edizione di Imparare da Las Vegas (in Italia pubblicato da Quodlibet), scattata da uno studente seduto nel sedile posteriore mentre Robert guida e Denise regge la sua macchina fotografica, Rem Koolhaas ha visto, più che una foto di un gruppo di ricerca, «a love story».

 

 

Sempre nel ’68, esce l’articolo Un significato per i parcheggi A&P, ovvero imparare da Las Vegas su “Architectural Forum” che aprirà poi il volume, pubblicato solo nel 1972: «Attraverso Las Vegas passa la Route 91, l’archetipo della Strip commerciale, la più pura e la più intensa espressione di questo fenomeno. Siamo convinti che un’accurata documentazione e analisi della sua forma fisica siano importanti per gli architetti e gli urbanisti di oggi tanto quanto gli studi sull’Europa medievale, sulla Roma e sulla Grecia antiche lo sono stati per le generazioni precedenti. Un tale studio aiuterà a definire un nuovo tipo di forma urbana che sta emergendo in America e in Europa, completamente differente da quella che conosciamo; un tipo di forma urbana che siamo stati finora scarsamente preparati ad affrontare e che, per ignoranza, definiamo oggi sprawl urbano. Uno degli obiettivi di questa ricerca sarà quello di arrivare, attraverso un’analisi avalutativa e priva di pregiudizi, a una comprensione di questa nuova forma, cominciando ad affinare le tecniche per il suo trattamento». Nell’edizione rivista e corretta del 1977, Venturi eliminò molte soluzioni grafiche di sapore Bauhaus e introdusse il sottotitolo Il simbolismo dimenticato della forma architettonica che lo metteva in relazione con lo strutturalismo («Il primo criterio dello strutturalismo è la scoperta e il riconoscimento […] del simbolico», Gilles Deleuze) e quindi con la semiologia dei cartelloni al neon. Tuttavia sarà la formula dell’analisi “avalutativa” a scandalizzare gli intellettuali conservatori americani e quelli marxisti europei né più né meno che con Wolfe. Come si permettono V&SB di studiare un soggetto così brutto e ordinario per di più con una crescita esponenziale? Il dito nell’occhio dell’analisi avalutativa farà scuola, specie con Rem Koolhaas che a partire da Delirious New York (1978) e proseguendo con le sue analisi più mature su Atlanta (1987), Singapore (1994), le megalopoli cinesi, Lagos e altre città “brutte” e congestionate cercherà spesso di trarre una lezione di architettura a partire dall’analisi di una singola città, non sempre riuscendoci.

 

Denise Scott Brown e Robert Venturi nel deserto di Las Vegas, 1966, courtesy studio Venturi Scott Brown and associates inc., Filadelfia.


Secondo il filosofo Emanuele Coccia, i libri di Venturi&Scott Brown e Koolhaas «sono bastioni della modernità perché rifiutano lo snobismo tradizionale di tutte le discipline verso gli usi e costumi di massa che sono comunque prodotti delle culture democratiche, si confrontano col presente seriamente, modernizzandolo».

E veniamo però alla spinosa questione del postmoderno, di cui Venturi è stato considerato il padre almeno in architettura, anche se non solo. In realtà negli ultimi anni ha negato di considerarsi o di esserlo mai stato – così come Freud non è stato freudiano o Marx marxista – perché sincero amante del modernismo e di Ville Savoye in particolare per via dei suoi elementi desunti dal vernacolare industriale. Però già nel 1967, cioè prima del libro su Las Vegas, Zevi avvertiva che «Chi ha deciso di abbandonare il Movimento Moderno può scegliere tra Versailles e Las Vegas, tra la sclerosi e la droga». Con i suoi due libri capitali, Venturi aveva percorso entrambe le strade. È certo indubbio che gli storici propugnatori dello storicismo la fanno da padroni nella prima Biennale di architettura del 1980, La presenza del passato diretta da Paolo Portoghesi che fa eco al motto kahniano del “passato come amico”.

 

 

Essi sono Vincent Scully (che aveva scritto un’entusiastica prefazione a Complexity), Christian Norberg-Schulz (autore di Genius Loci e di vari libri su Kahn) e quel Charles Jencks autore di The Language of Post-Modern Architecture (1977) e non a caso Kenneth Frampton, inizialmente coinvolto, rassegnò le dimissioni. Tutti, tranne forse Norberg-Schulz, avevano in Venturi la stella polare, a ben vedere più per Complexity cioè Versailles che per Las Vegas, per usare le categorie zeviane. In ogni caso Venturi come tutti i classici resta un autore ancora da esplorare, paradossalmente: la sua estrazione cattolica (T.S. Eliot è l’autore più citato), il suo studio di Michelangelo e dei manieristi italiani e inglesi iniziato con Richard Krautheimer a Roma, la passione per il vernacolare americano e giapponese, il disinteresse per lo spazio architettonico, l’interesse per la comunicazione e l’architettura digitale sono presenti anche negli ultimi libri Iconography and Electronics Upon A Generic Architecture (1996) e Architecture as Signs and Systems: For a Mannerist Time (2004), tutti temi sviluppati insieme con la moglie naturalmente, che è molto di più che una compagna di vita e socia dello studio.

 

 

 

Per questo è stato profondamente ingiusto il conferimento del Pritzker Prize al solo Bob nel 1991, come se Scott Brown sia stato un accessorio e non l’inscindibile partner come nel caso di Figini e Pollini o Herzog & de Meuron. L’anno prima lo aveva vinto Aldo Rossi, primo italiano, che con Venturi condivide il destino di essere fra gli architetti più influenti del ‘900, ma solo per i loro scritti: quasi nessuno infatti ne ricalca l’opera progettuale. Robert Venturi ha avuto però un’ironia unica e la capacità unica di studiare e praticare l’architettura seriamente e al contempo divertendosi, fino agli ultimi giorni, spesi solo a fare una passeggiatina fino alla Mother’s House (1962) insieme con il cagnolino Alvaraalto– questo il suo nomignolo.

Nel documentario di Jim Venturi Learning from Bob & Denise che finalmente pare sia in dirittura d’arrivo, Tom Wolfe lo definisce nientemeno «L’architetto più divertente e giocoso che il paese abbia mai avuto».

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25 giugno 1925 – 18 settembre 2018
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Un affare di famiglia di Hirokazu Kore’eda

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Siamo nel Giappone di oggi: Osamu e Shota, un padre e un figlio di una decina d’anni, entrano in un supermercato e iniziano a girare tra gli scaffali. È una scena di vita quotidiana, come ce ne potrebbero essere tante e come spesso siamo stati abituati a vedere nei film di Hirokazu Kore’eda. A un certo punto il padre fa un cenno con le mani e il bambino si sfila lo zaino dalla schiena e lo appoggia per terra e inizia far cadere dentro alcuni prodotti alimentari cercando di non essere visto. Dopo essere usciti senza pagare ed essersi messi a trangugiare delle crocchette comprate in mezzo alla strada per festeggiare il colpo, il padre si rivolge al figlio con aria complice e gli dice che ha appena visto un martello rompivetro che vorrebbe avere, probabilmente per mettere a segno altri furti. “Ma quanto costa?” chiede il figlio. “Circa 2000 Yen”. “È molto caro”. “Se lo compri sì”. E scoppiano a ridere.

 

Che padre è quello che va con un figlio a rubare nei supermercati? Che irride la legge dicendo che le cose si possono avere senza alcun problema? La psicoanalisi ripete spesso che il padre dovrebbe essere colui che porta la Legge, il limite, le regole: che cosa ne è allora di una famiglia dove è il padre stesso a incitare alla trasgressione? 

 

 

Kore’eda ce lo mostra subito senza mezzi termini: è una famiglia povera ma dignitosa, che tenta di sbarcare il lunario in un periodo economicamente difficile per il Giappone in crisi economica. Si direbbe che si tratta di working poors, dato che non sono né nullatenenti né disoccupati: il padre lavora come muratore in una ditta di costruzioni, la madre fa la stiratrice. Ma poi c’è pure la nonna che con la pensione dell’ex-marito morto mantiene tutti gli altri, e una giovane zia che fa la sua parte lavorando come ragazza in vetrina. Come se non bastasse Osamu in una delle prime scene troverà persino una bambina sola e affamata (e maltrattata dai genitori, si scoprirà) e deciderà di portarla a casa con loro per qualche giorno (ma la permanenza diventerà presto definitiva). I furti insomma vengono fatti per necessità; il rapimento di un minore (perché è di questo che tecnicamente si parla) è fatto solo a fin di bene. Dall’interno questa famiglia è una famiglia amorevole come poche, e passeremo una buona parte del film a imparare a volerle bene e a vedere come i loro rapporti si costruiscono e si rafforzano sempre di più. D’altra parte… è quello che vediamo. 

 

 

Tuttavia il cinema di oggi ci ha sempre abituato a dubitare dell’immagine. L’apparenza inganna: è quello che ci ripetono più o meno tutti, da Lars Von Trier e i fratelli Coen al giornalismo delle intercettazioni e delle fakenews, assorbendo forse quello che è un cambiamento epocale nello statuto del visivo. Dell’immagine non ci si può più fidare nell’epoca della sua manipolazione infinita, e se non l’avevamo ancora capito col passaggio al digitale, ce l’ha mostrato meglio di ogni altro film la saga di Star Wars, che ormai non si vergogna nemmeno più di far recitare in forma digitale attori morti da due decenni. 

 

 

Dunque quest’immagine idealizzata di una famiglia povera ma amorevole, che riesce a costruire dei rapporti sani nonostante l’indigenza e la necessità del crimine, è vera oppure è soltanto un inganno? La soluzione di Kore’eda è dirci che entrambe le cose sono vere: l’immagine nasconde e inganna, eppure non per questo possiamo liquidarla con cinismo dicendo che il visivo è solo una truffa. La famiglia di Un affare di famiglia non è nulla di quello che vediamo all’inizio eppure la bontà e l’amore dei suoi gesti hanno una verità, che non è quella dell’esperienza diretta dell’amore (gli orrori peggiori possono essere fatti in nome dell’amore) ma che emerge proprio attraverso le sue contraddizioni. 

 

 

Osamu non è quello che crediamo, e nemmeno il piccolo Shota è quello che crediamo. Quando Osamu si infortunerà sul lavoro e sarà costretto a tornare a casa senza indennità d’infortunio e la moglie Nobuyo verrà licenziata dalla fabbrica dove lavora, vedremo la famiglia ricorrere a ogni mezzo lecito e non per riuscire a tirare a campare; ma soprattutto vedremo che il legame stesso che teneva insieme la famiglia aveva in realtà delle ragioni d’interesse affatto materiali. Eppure è possibile dare amore a un figlio e instaurare un legame famigliare anche e soprattutto a fronte di tutti questi limiti. Un affare di famiglia porta la riflessione che Kore’eda ormai sviluppa da diversi anni sulla famiglia come legame etico e non di sangue a un livello superiore e a un grado di profondità e sofisticatezza che è raro trovare nel cinema di oggi. 

 

 

La paternità in questo film emerge infatti soltanto nel punto del suo collasso definitivo, quando il figlio per la prima volta farà esperienza non tanto che il padre non è capace di trasmettere tutte le cure di cui lui avrebbe bisogno (cioè facendo esperienza del limite intrinseco a ogni figura paterna), ma quando – anche solo per un momento – la sua stessa investitura vacillerà e il padre per un momento non vorrà più essere padre. Come ha rilevato Slavoj Žižek, commentando il momento in cui Cristo sulla croce vede la sua fede vacillare (“Dio mio, perché mi hai abbandonato?”) – e contemplando così l’idea che esista un nocciolo di ateismo nel cuore stesso del cristianesimo – è essenziale pensare che ogni investitura simbolica prenda corpo proprio attorno al punto cieco che la abita. Perché per la psicoanalisi l’unica Legge possibile a cui il Padre deve essere fedele non è tanto quella della morale, dello Stato o della responsabilità e cura nei confronti dei figli, ma quella – che a volte non manca di essere crudele – del proprio sintomo. È solo a partire dal proprio sintomo, quando paradossalmente Shota scoprirà che il Padre non è abitato soltanto dal desiderio amorevole della cura nei suoi confronti, che qualcosa tra i due potrà autenticamente trasmettersi, e che finalmente la parola “papà” potrà uscire dalla sua bocca. Anche se per lo Stato – che nulla sa e che nulla vede dell’etica del desiderio – sarà ormai troppo tardi. 

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La Legge del desiderio
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The Garbage Island(s)

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Uno spettro s’aggira per il mondo. È un’isola. Di plastica. 

Sembrerà strano ma si tratta di un’isola d’utopia. Perché proprio come le isole utopiche e come i fantasmi marxiani è dovunque e in nessun luogo. È una ed è moltitudini. Terrorizza e (forse) dà la sveglia al mondo.

La più inquietante si troverebbe nel Pacifico, e la sua grandezza si dice oscilli fra quella delle isole britanniche e dell’Australia. Una presenza talmente ingombrante e distruttiva, popolata da forme di vita più o meno inedite e aggressive che, scopro da Wikipedia, nel 2011 l’Unesco per provocazione artistica o sensibilizzazione umanitaria l’ha riconosciuta come Stato: The Garbage Patch State

Ma se questo “Stato canaglia” esiste come fargli guerra? Come accerchiarlo, assediarlo, costringerlo alla resa? O quantomeno a una pace negoziata se non proprio a una nuova alleanza?

The Garbage Patch Stateè infatti uno stato più atipico e transnazionale dello Stato islamico, benché come esso sia fatto da un frustrante gioco di consumismo e regressione, di perturbanti incroci fra riconoscimenti e rifiuti.

 

THE GARBAGE PATCH STATE, opera di Maria Cristina Finucci.


Per affrontarlo dunque bisognerà ricordare che se il farsi Stato pare la naturale tendenza di qualunque isola, quest’isola ancor prima di esser tale è chiazza e vortice – Great Pacific Garbage Patch, Pacific Trash Vortex– e in quanto tale è o appare essere inafferrabile.

Di qui la nostra frustrazione. Perché un nome ha questa forza: istituendo cose genera aspettative e desideri d’azione. E dicendo “isola” si finisce dunque fatalmente per domandarsi: “ma se questa immondizia si fa così platealmente mondo, se è un’isola-mondo, com’è che non riusciamo a circoscriverla ed afferrarla? Perché non riusciamo a (com)prenderla?”.

Basta fermarsi un secondo, e anche senza essere biologi e oceanologi, è sufficiente focalizzare l’appena evocata pluralità di nomi, definizioni, identificazioni con cui proviamo a maneggiarla – “vortice”, “macchia”, “Stato”… – perché quest’isola ipotetica riveli la sua natura altra. La sua natura fantasmatica, mobile, sfuggente, polimorfa: la nostra croce ma anche (forse, come vedremo alla fine) la sua possibile delizia.

 

Intendiamoci, a ben guardare è così per ogni isola. Che non a caso sempre si oppone a una qualche “terraferma”. Ma quella che qui dobbiamo affrontare è un’altra forma di mobilità. E un’altra forma di assemblaggio. 

Diversa dalle isole deserte di cui parlava Deleuze, capaci di apparire dal fondo dell’oceano e da questo poter essere sempre risucchiate; diverse dalle isole introvabili di cui parlava Eco, reali e immaginarie al contempo: “sino al XVIII secolo, quando è stato possibile determinare le longitudini, un’isola si poteva magari incontrare per caso e, come Ulisse, si poteva anche fuggirne, ma non c’era verso di ritrovarla. Sin dai tempi di San Brandano (e sino a Gozzano) un’isola è sempre stata un’insula perduta” (“Perché l’isola non viene mai trovata”, in Costruire il nemico, p. 296). E la lista di isole mobili si potrebbe allungare.

Qui ciò che importa è che ad allungarsi su di noi è lo spettro di quest’isola di plastica e con essa il fantasma di quell’altro attore sempre più invadente (tranne che negli attici di Trump) che è il cambiamento climatico planetario. Ancor più precisamente, ciò che conta è ciò che di nuovo questo spettro ci indica rispetto alla vita (o alla morte) che popola il pianeta, rispetto alla proliferazione di esseri imprevisti (in quanto tali inquietanti e ambigui) agli inizi di questo nuovo millennio. Che si spera non sia l’ultimo.

 

Ecco dunque che l’ambiente fisico e comunicativo si popola di nuove isole. Alcune, proprio come la Garbage Island, sono minacciose: come le “isole di calore” di Milano– che a tratti però sono “ondate” – da dissolvere creando spazi, raggi, corridoi, reti di verde urbano. A proposito, perché a questo punto non dargli lo statuto di contro-isole e chiamarle “arcipelaghi verdi”?

A Rotterdam ci hanno già pensato. Anzi, l’hanno proprio fatto.

La plastica intercettata nella Mosa, il fiume cittadino, prima che arrivasse nel Mare del Nord – andando a contribuire alla costituzione delle Garbage Islands planetarie – viene riciclata e trasformata in piccole aiuole esagonali, galleggianti, che riposizionate sul fiume diventano imprevisti e bellissimi ecosistemi culturali-naturali. O come si preferisce dire oggi, al di là della scissione fra natura e cultura.

 

Forse quello della Recycled Island Foundation, con il suo arcipelago di attori no profit e istituzioni politiche e universitarie, con la sua rete di attori umani-non umani che va dai rifiuti, alle gru, alla chimica, fino a creare un parco che è incrocio fra ricerca, ecologia e intrattenimento è al momento – fra le isole di plastica – una delle utopie più concrete e realistiche. Forse anche più dei tanti meritori e necessari progetti di isole plastic-free, come da ultima Lampedusa, in giro per il mondo.

Del resto se anche andasse in porto il progetto (finanziato in crowdfunding) che si sperimenta in queste ore per inseguire e risucchiare  da qui al 2040, con un grande tubo a forma di U, tutta la plastica che aleggia nel Pacifico, di questo spettro dei nostri desideri consunti, di questo magma di scarti d’utopie quotidiane, qualcosa bisognerà pur farne: altre isole!

Insomma, se la miglior vittoria è la battaglia mai combattuta all’occorrenza bisogna saper battere il nemico sul suo plastico terreno. Per farlo però, prima, bisogna pensarsi attraverso le paradossali utopie delle diverse Garbage Island(s) che fluttuano per il globo.

 

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Le nuove isole d’utopia
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Le “lezioni americane” di Bruno Munari

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Essendo uno degli atenei più importanti al mondo, l’Università di Harvard è stato uno dei crocevia privilegiati per intellettuali e artisti italiani in visita negli Stati Uniti. Particolare risonanza pubblica hanno avuto nel nostro paese le Charles Eliot Norton Lectures, un programma di Visiting Professorship istituito nel 1925 attraverso cui quale scrittori, artisti, intellettuali di fama mondiale vengono invitati a trascorrere un anno accademico nell’università del Massachusetts. Famose e celebrate saranno le Lezioni Americane che Italo Calvino avrebbe dovuto tenere a Harvard nell’autunno del 1985, ma mai portate a termine a causa della sua morte improvvisa avvenuta nell’estate dello stesso anno. Il libro pubblicato postumo diventerà una sorta di testamento letterario e critico che ha accompagnato l’esegesi calviniana nei decenni a venire. Quelle sei lezioni, quelle Six Memos for the Next Millenium nell’originale inglese, saranno poi ricordate da Umberto Eco nel 1992, quando sarà invitato a sua volta (secondo italiano dopo Calvino, e prima di Luciano Berio), a tenere un ciclo di lezioni che saranno raccolte nel libro Sei passeggiate nei boschi narrativi (1994). 

 

Non molti ricordano però che qualche decennio prima, nel 1967, un altro artista italiano era approdato ad Harvard per tenere un corso presso il Carpenter Center for Visual Art: Bruno Munari. Kevin McManus ha pubblicato qualche anno fa un libro, Italiani a Harvard (FrancoAngeli, 2015), che racconta l’esperienza tutta italiana del Design Workshop della Graduate School of Design di Harvard, dove vennero chiamati alla direzione prima Costantino Nivola (1956-57, e 1970), e poi Mirko Basaldella (1957-69). In un dipartimento che contava tra le sue file alcuni dei più importanti progettisti, storici e teorici al mondo impegnati nel portare avanti gli ideali sviluppati in Germania dal Bauhaus, si diede vita a un’esperienza didattica destinata a lasciare un segno indelebile nell’arte e nella storia del design americano del secondo ‘900. E nessuno meglio di Munari nel contesto della cultura europea di quegli anni avrebbe potuto contribuire a quel progetto didattico di “learning by doing” che da sempre aveva caratterizzato il percorso artistico e professionale di Nivola e Basaldella. I resoconti delle sue lezioni, le sue impressioni bostoniane, e gli appunti visivi raccolti nel contesto di quel corso verranno poi pubblicati nel 1968 da Laterza con il titolo Design e comunicazione visiva (DCV), il libro più teoricamente informato e sistematico che Munari abbia mai scritto. Quell’invito era il giusto riconoscimento per un artista che aveva consolidato la propria fama soprattutto all’estero ma che veniva criticamente trascurato nel contesto italiano. Lo stesso Italo Calvino, pur avendo lavorato a fianco di Munari durante gli anni trascorsi a Einaudi, non ha mai considerato Munari come una significativa presenza nel panorama artistico italiano. Per Calvino Munari era semplicemente il “grafico” di Einaudi, avendo firmato insieme a Max Huber le copertine delle più celebri collane einaudiane del dopoguerra: dalla PBE al Nuovo Politecnico, dalla collana bianca di poesie alle Centopagine, diretta proprio da Calvino.

Più attento e generoso è stato invece il riconoscimento dato da Eco, che con Munari ha avuto una frequentazione più assidua, sia dal punto di vista professionale (Munari lavora anche per Bompiani) che intellettuale. Senza l’esperienza dell’Arte Programmata all’inizio degli anni ’60, Opera aperta sarebbe stato un libro diverso e avrebbe forse avuto un titolo differente. E sarà proprio Eco che nella sua “Bustina di Minerva” del 15 ottobre 1998, ricordando Munari dopo la sua scomparsa, avvicinerà l’artista milanese e il suo metodo proprio alle Lezioni americane di Calvino:

 

Lavorava sulla pagina come se accordasse un violino. … Quella matita si muoveva con una straordinaria leggerezza e rapidità, sembrava che tracciasse nel vuoto la danza delle api. E uso termini come “leggerezza” proprio pensando alla lezione americana di Calvino (chissà perché ho sempre visto Munari come un personaggio calviniano). Mi piace ricordarlo così, danzante e leggero perché lavorando accanto a lui ho capito molte cose sul ritmo, sul vuoto, su come si può “vedere” al millimetro, da un semplice schizzo, come sarà il lavoro finito – virtù rarissima.

 

Calvino aveva trovato soprattutto in Fausto Melotti, l’artista che avrebbe informato il principio di leggerezza e di trasparenza poi applicato alla scrittura delle sue “città invisibili”: 

 

Le immagini più felici di città che vengono fuori sono rarefatte, filiformi, come se la nostra immaginazione ottimistica oggi non potesse essere che astratta […] C’è stato un momento in cui dopo aver conosciuto lo scultore Fausto Melotti, uno dei primi astrattisti italiani […] mi veniva da scrivere città sottili come le sue sculture: città sui trampoli, città ragnatela (Romanzi e racconti II, 1363).

 

Probabile in questa scoperta e discussione la mediazione di Paolo Fossati, einaudiano di lungo corso e autore di un libro su Melotti, Lo spazio inquieto, per cui Calvino scrive la prefazione. Per Einaudi, Fossati aveva curato anche uno dei libri più importanti di Munari, Codice ovvio, che però non intercetta l’attenzione o gli interessi calviniani, né al momento della pubblicazione, né più tardi. Marco Belpoliti nel suo L’occhio di Calvino ha individuato un residuo di ricordi melottiani in Lezioni americane, ponendo l’accento sulla comune tensione alla verticalità e alla leggerezza. In realtà, come ha suggerito Eco, Munari è un candidato molto più adatto a incarnare non solo la proverbiale leggerezza ma tutti i valori estetici e categoriali indicati da Calvino nelle sue Six Memos. Se c’è un artista del Novecento che ha informato la sua opera e il suo metodo secondo principi di leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, e coerenza, questo è Bruno Munari. In questo senso il decalogo (o esalogo) calviniano può servire come mappa per individuare alcuni fili conduttori o denominatori comuni del lavoro di Munari, non sempre semplice da sistematizzare, avendo operato in campi così diversi e con linguaggi estetici così vari: dal design industriale alla pittura, dai laboratori pedagogici alla grafica, dalla scrittura saggistica a quella creativa. Rileggendo Design e comunicazione visiva sembra che Calvino abbia semplicemente elaborato la desinenza letteraria di quelle “virtù” che Munari aveva già ampiamente discusso vent’anni prima.

 

Lightness/Leggerezza

 

Nell’introduzione al volume che abbiamo curato per Peter Lang, Bruno Munari: The Lightness of Art (2017), abbiamo spiegato come la leggerezza calviniana sia una chiave descrittiva che meglio di altre abbraccia in maniera compendiaria la molteplice varietà dell’opera di Munari. Una leggerezza che secondo Calvino non è superficialità o frivolezza, ma una leggerezza pensata, calibrata, inserita come un colpo d’ala nella struttura stessa dei suoi lavori. Una recente mostra a Palazzo Pretorio di Cittadella, curata da Guido Bartorelli, ha adottato una prospettiva simile scegliendo come titolo il binomio “Aria/Terra”, dove da una parte vi è la leggerezza fisica e mentale delle opere munariane, dall’altra la pratica concreta, l’arte come esperienza materiale, e come pedagogia del fare, che riporta l’esperienza estetica a un radicamento quasi antropologico. Molte delle opere esposte, e che corrispondono ormai a un repertorio classico di qualsiasi retrospettiva su Munari, rispondono in maniera esemplare a quella dimensione di “leggerezza” predicata da Calvino: Le Macchine inutili, i Filipesi, Concavo-convesso, la lampada Falkland, ma anche Flexi, le Sculture da viaggio, Abitacolo.

La dizione inglese della prima lezione, lightness, suggerisce un’ulteriore declinazione di questa particolare leggerezza adottata da Munari, ovvero quella che fa riferimento alla luminosità, alla luce (light). Se pensiamo alle Proiezioni dirette, i Polariscop, le Xerografie originali, i cortometraggi, Munari ha lavorato molto con la luce, materiale incorporeo per eccellenza. 

La leggerezza di Munari va ovviamente interpretata anche nel senso dell’ironia, dello spirito irriverente, della mancanza di gravitas, che è un’altra costante delle opere e dello spirito di Munari. Ironia però anche come cosa seria, non tanto come posizione demistificante o scettica, ma come elemento metodologico. Da una parte l’ironia implica una distanza prospettica, osservativa, dall’altra viene definita come un “collaudo”. Il termine richiama la dizione di Marinetti che aveva rinominato le sue recensioni o le sue introduzioni come “collaudi”, prendendo a prestito un termine da manuale tecnico. Munari adotta la stessa terminologia, ma prendendola alla lettera: 

 

 

Si potrebbe dire che l’ironia è una specie di collaudo. Ci sono delle persone che producono degli oggetti nel campo dell’arte o in qualunque campo e si preoccupano di verificarli, per cui li mettono in giro e, magari, non funzionano. Invece, se noi pensiamo, per esempio, a quando un ingegnere costruisce un ponte sul quale deve passare un treno, lui lo carica con un peso equivalente a 10 treni; si potrebbe dire che fa dell’ironia, ma in realtà, su quel ponte siamo ben sicuri che passeranno i treni senza pericolo. Quindi, quello che io faccio, quando penso e progetto qualche cosa, è un’operazione di critica, di autocritica, per vedere se quello che io penso di fare resiste a qualunque obiezione. Se resiste, vuol dire che funziona (“Il caso e la creatività”, Domus, marzo 1985, 84-85).

 

Si tratta comunque non solo di cercare delle formule descrittive ad effetto, ma di capire più in profondità la matrice epistemica e metodica del suo operare, per potere dare un quadro di insieme o delle coordinate di comprensione del suo vagabondare tra modalità espressive così diverse. La leggerezza è infatti legata a un principio costruttivo fondamentale per Munari, che è la semplificazione; la riduzione alle componenti essenziali di un oggetto di design o di un’opera a funzione estetica: “complicare è facile, semplificare è difficile. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare”, ripete Munari in Codice ovvio.

Se nel campo del design questo principio ha ovvie determinazioni di carattere funzionale e di economia costruttiva, nel campo dell’arte fornisce spunti interessanti per capire l’epistemologia costruttivista di Munari. Si può fare un esempio prendendo come riferimento una delle sue opere più famose: le macchine inutili. Sono opere caratterizzate infatti da ironia (una macchina che non agisce secondo un principio produttivo o ripetitivo, ma aleatorio e di gratuità); essenzialità geometrica; riduzione estrema dei componenti pur mantenendo l’efficienza meccanica e cinetica, cioè pur rimanendo di fatto una macchina; meccanismo nudo che avvicina la macchina al giocattolo come macchina semplice. La macchina, la tecnica, se resa “inutile” diventa infatti uno strumento di gioco, ovvero un meccanismo di articolazione percettiva, sensoriale, e oggetto di interazione sia funzionale che estetica. È possibile intuire in questo modo le connessioni tra queste sue opere degli anni ’30 e i laboratori pedagogici sviluppati a partire dagli anni ’70. Con Munari l’homo faber incontra l’homo ludens

 

Quickness/Rapidità

 

Eco ricordava come la matita di Munari si muovesse “con una straordinaria leggerezza e rapidità” dettata ovviamente da decenni di pratica e di ricerca sulle più svariate forme di comunicazione visuale. Analoga la memoria che ci ha lasciato Giulio Einaudi:

 

Lo ricordo in centinaia di riunioni. Lui arrivava e noi gli avevamo già preparato una pila di libri da copertinare: con un’inventiva fulminea riusciva a dare immediata rispondenza formale ai contenuti. Sceglieva i caratteri, i colori, le immagini. Aveva dei circuiti mentali rapidissimi che si coagulavano nelle mani. Le sue mani agivano, creavano come in un film accelerato; sembrava che pensasse con le mani e che il pensiero diventasse realizzazione in tempo reale.

 

Cesare Pavese aveva definito Calvino come lo “scoiattolo della penna”; Munari allo stesso modo potrebbe essere definito come uno scoiattolo dell’arte, per il suo muoversi agilmente e rapidamente sopra le pagine di un menabò ma anche fra i vari rami delle forme artistiche, frequentate con medesima abilità e efficacia produttiva, in maniera irrequieta, pronto a sperimentare quanto possibile, senza mai fermarsi sul già dato o fatto, ma spostando sempre oltre i limiti di quello che si può fare o dire nel campo della comunicazione visiva.

Munari non associa però la rapidità alla fretta (come per Guglielmo da Baskerville di Il nome della rosa di Eco che aveva paura della “fretta”): la fretta infatti ci impedisce di conoscere un problema con attenzione; è sinonimo di ignoranza, o è solo ansia appropriativa e competitiva: “la fretta di fare subito qualcosa che altri potrebbero fare a nostro danno” (DCV 54). Che è poi la stessa preoccupazione individuata da Primo Levi nella sua recensione a un libro di Lorenzo Tomatis che insegnava a lottare “contro la propria stanchezza, la propria fretta e la propria ambizione”.

“La rapidità, l’agilità del ragionare, l’economia degli argomenti, ma anche la fantasia degli esempi sono qualità del pensare bene”, dice Calvino, e non c’è prontuario più esemplare di questo appunto del volume Fantasia, dove l’agilità dell’immaginazione e l’articolazione delle risposte creative a questioni di carattere visivo e comunicativo vengono illustrate da Munari con esempi, semplici, diretti, di esperienza comune. Un libro che proprio per questo è diventato un prontuario di estetica usato dagli insegnanti di ogni scuola e grado.

 

Calvino parla inoltre di rapidità come “concisione”, massima concentrazione di pensiero e poesia in un testo che sia essenziale e diretto. Gli fa eco Munari quando afferma che “tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare. […] La semplificazione è il segno dell’intelligenza, un antico detto cinese dice: quello che non si può dire in poche parole non si può dirlo neanche in molte” (Verbale scritto). 

“La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura”, scrive Calvino. “Pensare confonde le idee” ripeteva Munari, proprio perché l’esecuzione deve avere una precisa spontaneità, si potrebbe dire una “sprezzatura”, che non significa improvvisazione, ma un gesto che è stato allenato da anni di osservazioni e di esercizio pratico. A questo proposito Calvino mette in collegamento due figure mitiche, due archetipi: Mercurio, dio della rapidità e dello scambio, ma anche della sintonia e della partecipazione al mondo intorno a noi, e Vulcano, dio ctonio, chiuso nella sua fucina a battere incessantemente il ferro, e pertanto principio di focalità, ossia di “concentrazione costruttiva”. Rappresentano le due facce di una medesima disposizione all’efficacia e alla ricchezza produttiva: “La concentrazione e la craftmanschip di Vulcano sono le condizioni necessarie per scrivere le avventure e le metamorfosi di Mercurio”, scrive Calvino. E a mo’ di esempio cita la storia cinese di Chuang-Tzu, un pittore che chiese al re dieci anni di tempo e dodici servitori per poter disegnare un semplice granchio. Il re glieli accordò e allo scadere dei dieci anni Chuang-Tzu, “in un istante, con un solo gesto, disegnò […] il più perfetto granchio che si fosse mai visto”. Una storia che sembra riecheggiare con esattezza nelle parole di Munari nelle sue “lezioni americane”: anche nel campo artistico un prodotto fatto con rapidità conserva tutta la vita che era presente al momento concepitivo: le foglie di bambù di un dipinto cinese o giapponese sono fatte in un attimo, ma sono state osservate per lungo tempo. Osservare a lungo, capire profondamente, fare in un attimo (DCV 69).

 

Exactitude/Esattezza

 

Per Calvino il termine esattezza definisce soprattutto tre cose: “1. un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2. l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili, in italiano abbiamo un aggettivo che non esiste in inglese, ‘icastico’ […]; 3. un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione”.

 

Il fare dell’arte in Munari è informato da una prospettiva di carattere fortemente razionale, ispirata dai dettami dell’arte concreta, legata a una visione anti-impressionistica e geometrica dell’arte. Le sue opera sono attentamente progettate e informate da un rigore formale esatto. Munari non fa mai uso del termine avanguardia nei suoi scritti, se non per indicare una fase storica dell’arte del Novecento, né di sperimentazione artistica, ma descrive il suo lavoro estetico nei termini di “ricerca” usando un linguaggio tecnico-scientifico: “la ricerca parte da un fatto tecnico, parte dalle possibilità del mezzo per esplorare i valori di comunicazione visiva, indipendentemente dal contenuto della informazione, e senza tener conto di alcuna estetica passata e futura” (DCV 27). La necessità di precisione e esattezza lo porta anche ad avere una apertura epistemica e operativa nei confronti della tecnologia che permette di fare meglio e in meno tempo operazioni che una volta si facevano a mano “il principio è quello di arrivare allo scopo non solo senza fatica fisica ma con maggiore precisione”; “l’arte è un fatto mentale la cui realizzazione fisica può essere affidata a qualunque mezzo” (DCV 69-70). Sulla progettazione e sulla metodologia progettuale in campo di design industriale Munari scriverà poi un libro importante come Da cosa nasce cosa, dove scompone le varie fasi di un problema progettuale dando numerosi esempi di soluzioni progettuali, ragionate, definite e ben calcolate. 

Per Munari è importante il valore oggettivo dell’opera d’arte, o di qualsiasi forma di comunicazione visiva, sia quella artistica in senso proprio, sia quella “applicata”, design grafico, editoriale o pubblicitario che sia: “Se l’immagine usata per un certo messaggio non è oggettiva, ha molte meno possibilità di comunicazione oggettiva: occorre che l’immagine sia leggibile a tutti e per tutti nello stesso modo altrimenti non c’è comunicazione visive: c’è confusione visiva” (DCV 13).

E a proposito, Calvino parla in Esattezza della peste del linguaggio che ha investito il mondo contemporaneo e che “si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche”; questa peste investe anche il mondo delle immagini, “immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza d’imporsi all’attenzione, come ricchezza di significati possibili”. 

 

Per Munari la chiarezza comunicativa, sia verbale che visiva, è una esigenza razionale, intellettuale, conoscitiva ma anche etica. Leggendo i libri di Munari risulta chiara la sua consapevolezza stilistica e di linguaggio. I libri di Munari sono scritti in un linguaggio piano, semplice, accessibile a tutti. Sono testi democratici e anch’essi “leggeri”. Esattamente come per le sue opere, la scrittura di Munari cerca sempre l’essenziale. È una lingua priva di tecnicismi, di formule critiche ricercate, non fa sfoggio di erudizione, ma è propedeutica a una comprensione dei problemi estetici che possano essere intesi da un pubblico generale e non solo dagli addetti ai lavori. Sono un esempio di uno stile che si oppone a quella che Calvino in un suo saggio avrebbe descritto come L’antilingua, – l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato”, dove la lingua viene uccisa, e la cui motivazione psicologica “è la mancanza di un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l'odio per sé stessi” (Una pietra sopra).

Proprio come Calvino anche Munari spende poi alcune pagine delle sue “lezioni americane” per parlare della confusione delle immagini simultanee e incoerenti che ormai ci investo nella nostra esperienza quotidiana, e chiede all’artista come al designer di provare a mettere ordine a questo caos. In questa direzione Munari sembra anticipare non solo le Six Memos di Calvino ma anche le famosissime righe finali di Le città invisibili (1971), sulla possibile salvezza dal caos infernale (“cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”) insistendo sulla necessità “di intervenire e collaborare per cercare di mettere un po’ d’ordine al caos”: 

 

che cosa facevano gli artisti antichi quando progettavano le loro opere? Cercavano di rendere evidente un ordine (che si chiama estetica) nel caos della natura. Un ordine regolato da leggi di rapporti “armonici” fra la parte e il tutto. (DCV 53)

 

Munari per tanto si pone contro ogni forma di “disarmonia” artistica come resa mimetica (presuntivamente critica in quanto rivelatrice) del caos del mondo, ma predica una necessità di chiarezza e di comunicabilità come prerequisito per una politica effettiva delle immagini.

 

Visibility/Visibilità

 

Parlare di visibilità in riferimento a un artista e designer grafico è in qualche modo pleonastico, soprattutto per qualcuno che ha abbracciato i termini dell’arte concreta il cui scopo, come spiegava Max Bill, “è di rendere visibile idee astratte che esistevano solo in uno spazio mentale”.

Ma il concetto di visibilità espresso da Calvino ha delle sue caratteristiche precipue e che riguardano innanzitutto l’immaginazione e la fantasia, “un posto dove ci piove dentro” come scrive Calvino parafrasando Dante in Purgatorio 12. Potremmo dire che Munari a proposito abbia costruito un “pluviometro” scrivendo il suo libro più famoso Fantasia (1977).

Munari ha sempre pensato nei termini di una necessaria alfabetizzazione visuale, cercando di esercitare quel “pensare per immagini” che sta a cuore anche a Calvino. Importante per Munari è acquisire un linguaggio estetico e relazionale che consenta a tutti di leggere la coerenza formale di qualsiasi tipo di comunicazione visiva, e di mettere creativamente in relazione gli elementi della propria enciclopedia visiva, in modo da stimolare attivamente l’immaginazione: “L’immaginazione è il mezzo per visualizzare, per rendere visibile ciò che la fantasia, l’invenzione e la creatività pensano” (Fantasia 22). Da questo punto di vista Munari cerca di distinguere più precisamente i termini che Calvino usa in maniera meno controllata in Lezioni americane. Per Munari l’immaginazione interagisce costruttivamente con l’invenzione (che riguarda l’universo pratico e non si pone problemi di carattere estetico), e con la creatività che è un uso finalizzato della fantasia, che di per sé stessa rappresenta l’assoluta libertà di pensiero. 

 

Calvino parlando di immaginazione si rifà a una ripartizione data da Jean Starobinski in L’impero dell’immaginario (1970), per il quale vi sono due correnti storiche che hanno pensato l’immaginazione o “come strumento di conoscenza o come identificazione con l’anima del mondo”, ovvero come capacità di “unificazione d’una logica spontanea delle immagini e di un disegno condotto secondo un’intenzione razionale” nel primo caso, e come “mezzo per raggiungere una conoscenza extraindividuale, extrasoggettiva” nel secondo. In Munari si può dire che agiscano entrambe le tensioni. La fantasia per Munari è essenzialmente una forma di conoscenza perché “nasce dalle relazioni che il pensiero fa con ciò che conosce”. È anche la capacità di articolare dei nessi relazionali con i termini e le immagini che abbiamo acquisito nella nostra memoria, consentaneo con quanto Calvino scrive in Visibilità: alla base del lavoro creativo c’è la capacità di produrre “associazioni d’immagini. […] La fantasia è una specie di macchina elettronica che tiene conto di tutte le combinazioni possibili e sceglie quelle che corrispondono a un fine, o che semplicemente sono le più interessanti, piacevoli, divertenti”. 

Per Munari la visibilità è legata anche a un principio democratico, alla necessità di usare le immagini per il loro valore oggettivo, per la loro capacità di essere efficacemente lette da tutti, o perché parte di un repertorio collettivo, depositato negli anni e nei secoli, o perché legate a leggi fisiche e a orizzonti naturali (da cui lo studio di forme antropologicamente essenziali come il quadrato, il cerchio e il triangolo). Come già detto riguardo a “esattezza”, lo spirito democratico di Munari si misura anche mediante la necessità etica e politica di una pedagogia del linguaggio e delle immagini, e pertanto contro quegli artisti che si sono “chiusi nelle loro torri d’avorio, nei loro linguaggi segreti e così oggi siamo nel bel mezzo della massima confusione dalla quale si può uscire solo ristabilendo delle nuove regole per la comunicazione visiva, regole elastiche e dinamiche […] che seguano il corso dei mezzi tecnici e scientifici usabili nelle comunicazioni visive, che siano soprattutto oggettive, cioè valide per tutti, e che diano una comunicazione visiva tale che non abbia più bisogno di interpreti per essere capita” (DCV 77).

 

Multiplicity/Molteplicità

 

A questo aspetto si può legare anche l’ultima delle lezioni lasciateci da Calvino che discute del “romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo”. Traslando questa definizione all’ambito della creazione artistica e della comunicazione visiva, è chiaro come Munari sia sempre stato guidato da uno spirito enciclopedico, dalla necessità e dall’impulso inesausti di conoscere più cose possibili, di sperimentare quanti più stili, tecniche e generi possibili (come spiega in una intervista a Quintavalle). La molteplicità riguarda una necessaria apertura epistemica: “più aspetti conosciamo della stessa cosa, più la apprezziamo e meglio possiamo capirne la realtà che un tempo ci appariva solo sotto un unico aspetto” (DCV 78).

Sin dall’inizio della sua carriera artistica negli anni Venti, Munari si è messo in dialogo e ha preso a prestito e sviluppato elementi formali dal futurismo, dal surrealismo, dal dadaismo, dall’astrattismo, dal costruttivismo, dal Bauhaus, dal concretismo, dal razionalismo; ha sperimentato con l’arte cinetica, con l’arte programmata, con l’arte ambientale, con il cinema sperimentale, con la performance. Come altri protagonisti del modernismo internazionale Munari ha attraversato tutti i possibili generi e tecniche espressivi, nel campo della pittura, della scultura, della grafica, dell’illustrazione, del design industriale, della pubblicità, dell’architettura, del teatro, della scrittura creativa e saggistica.

Esattamente come il Perec o i sodali dell’Ou.li.po. citati da Calvino, Munari sviluppa un’idea generativa dell’arte, legata a dei vincoli programmatici che permettono all’opera di moltiplicare i propri aspetti in maniera potenzialmente infinita, come in un Aleph borgesiano. Un esempio erano già i mobiles degli anni Trenta e Quaranta, come le Macchine inutili o Concavo-convesso, che sono delle sculture che moltiplicano infinitamente la propria forma. All’inizio degli anni ’60 Munari sarà il promotore e il punto di riferimento principale di una serie di esperienze estetiche che saranno rubricate sotto il nome di “arte cinetica” (da cui lui si dissocerà), ma che riguardano essenzialmente un’idea di arte moltiplicata e programmata, generata da procedure e dispositivi che consentono di costruire “una successione di situazioni visuali diverse che si ordinano secondo uno svolgimento cronologico imprevedibile, sia pure con varianti in un ambito di situazioni che possono essere più o meno previste completamente dall’autore”.

 

Ispirato dal motto di Lao Tse: “Produzione senza appropriazione, azione senza imposizione di sé, sviluppo senza sopraffazione” (Da cosa nasce cosa), Munari programma la molteplicità dell’opera in vista della presenza attiva del fruitore che partecipa integralmente alla sua creazione. Questa potenzialità moltiplicativa è legata anche alla disponibilità tecnica data dalla contemporaneità, alle sue macchine, e alla possibilità di creare dei “multipli”, opere di design industriale a funzione estetica che come Flexi o le Strutture continue possono essere ricreate, manipolate, moltiplicate infinitamente, “per poter dare a tutti la possibilità di arricchire la propria cultura visiva, assorbendo per via diretta queste informazioni” (Codice ovvio). Da questo punto di vista la molteplicità di Munari fa della replicabilità dell’opera d’arte non tanto un problema di perdita di aura (Benjamin), ma lo strumento che può veicolare una migliore comprensione dell’arte e un più democratico accesso alle sue articolazioni percettive e formali.

 

Bruno Munari: The Lightness of Art, a cura di P. Antonello, M. Nardelli, M. Zanoletti, Oxford, Peter Lang, 2017.

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Cesare Garboli: conoscere e agire

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I due libri usciti quest’anno su Garboli, Cesare di Rosetta Loy (Einaudi) e Vita contro letteratura di Paolo Gervasi (Sossella), formano in certo senso due figure molto garboliane, cioè “speculari”. Il primo è firmato da una scrittrice che gli è stata compagna; il secondo da uno studioso troppo giovane per averlo conosciuto di persona. Eppure nella Loy i ricordi autobiografici fanno appena da esile cornice alle lunghe citazioni del protagonista, mentre Gervasi – per ragioni teoriche – ne riconduce di continuo la vicenda intellettuale alla presenza fisica. Ma tra le affermazioni che la scrittrice lascia cadere sullo sfumato del suo rapporto con “Cesare”, ce n’è una che mi sembra importante per capire l’uomo umorale, disinvolto fino all’apparente noncuranza e ossessivo fino all’idealizzazione persecutoria di sé stesso, di cui prova a offrirci un ritratto. Parla, la Loy, di “una sorta di schizofrenia” garboliana: termine già usato in un’intervista a Repubblica, dalla quale emergeva un Garboli capace di mandare all’aria una vacanza se scopriva un errore in un suo articolo, e soggetto a scatti di furore manesco degni di una commedia con Sordi e la Vitti. “Penso che fosse un po’ schizofrenico, anche per una doppia radice che l'avrebbe condizionato per tutta la vita”, diceva la Loy a Simonetta Fiori radicando la sua idea nella sociologia. “Il padre era un grande imprenditore, molto ricco; la mamma una contadina analfabeta. Un gioco di contrasti fortissimo che ne turbò l'infanzia”. 

 

 

Il gioco delle parentele e dei contrasti, con la sua dialettica irrisolvibile e polare, è al centro della saggistica di Garboli, in cui abbondano espressioni come “opposizione complementare” o “gemellarità litigiosa”. Non solo il critico procede spesso per coppie, quasi un De Sanctis novecentescamente morbid (Delfini e Landolfi, Morante e Ginzburg, Fortini e Penna, Tartufo e Don Giovanni, Agnelli e Feltrinelli, servi e padroni, la vita e la letteratura…), ma è affascinato dai fenomeni che sono una cosa e insieme tutto il contrario, che stanno ossimoricamente al di là del principio di non contraddizione (così l’Amleto è “borghese e barbarico, famigliare e guerriero”, e nel dramma shakespeariano la regina verrebbe visitata dalla certezza che il figlio è sia ragionevole sia pazzo). Cesare riporta un brano di Garboli che può fare da chiosa ulteriore alle dichiarazioni della Loy: “Non appartenevo a nessun ceto riconoscibile”, ha scritto il critico introducendo il suo antipode Chateaubriand, “venivo da una famiglia ricca ma senza radici, mio padre si era fatto da solo e mia madre era quasi analfabeta”. E poco più in là: “Per una strana confusione di sentimenti, forse per qualche oscuro senso di colpa o per un sospetto insopportabile di inferiorità e di diversità, diventai comunista e scoprii di essere nato per la letteratura”. 

 

Queste scelte e prese d’atto cadono durante una lezione liceale sul romanticismo: eppure si tratta di una politica e di una letteratura ostentatamente antiromantiche. Garboli lotterà sempre con le idee e i climi legati alla grande svolta ottocentesca; ma lo farà come si combatte un avversario a cui si potrebbe d’improvviso cedere, riconoscendo che è una parte di sé stessi. L’allievo di Sapegno si mostra subito insofferente sia davanti agli ambigui miscugli di militanza e di poesia (Pasolini, Fortini…) sia davanti a tutte le metamorfosi dell’estetismo. Devoto ai filologi severi e alle esibizioni effimere dei teatranti, rifiuta l'ideologia moderna che fa dell'arte un valore in sé, un ente metafisico, e insieme pretende che assorba l’esistenza, la redima, ne diventi il fondamento privato e pubblico. Tenendosi alla larga dal totalitarismo estetico dei letterati italiani, inclini a reinterpretare l’intera storia in chiave romantico-decadente, ricorda che i sommi autori nazionali a cui ha dedicato la giovinezza, Dante e Leopardi, non parlano mai in nome della poesia bensì in nome della realtà, della “razionalità” e della vita. 

 

Questa allergia al prometeismo degli ultimi due secoli ha una conseguenza immediata. Garboli s’innamora dell’arte che attinge la grazia perché sembra non sapere nulla di sé, dell’arte che brucia ogni scoria demiurgica in una leggerezza antipsicologica, antistorica e quindi anche monotona, seriale (quella dei Sillabari di Parise e dei motivetti di Penna); ma la stessa monotonia e serialità lo intrigano anche quando rimangono mera ottusità, non-stile, brandello di realtà piatto e osceno come una bistecca sul banco del macellaio. A contare, nella sua esperienza, è ciò che sta per così dire al di sotto e al di sopra della cultura moderna: da una parte Casanova, il prosaico libertino veneziano, dall'altra Don Giovanni, sublime funzione teatrale irriducibile all’individualità romanzesca. Come si vede, siamo di nuovo ai poli opposti e privi di mediazione: qui la forma suprema, là una totale mancanza di forma, ma entrambe uniformemente lontane dal volontarismo e dall’intellettualismo otto-novecenteschi. La verità di cui questi estremi sono portatori deriva dall'assenza o rimozione di quel soggetto che celebra i suoi primi trionfi in Fichte. Per questo molti ritratti garboliani sono dedicati a uomini che hanno abdicato al loro io in nome di una funzione o vocazione tirannica: Gallo, Agnelli, Eduardo... Rinunciare all'io vuol dire “servire” e in parte degradarsi, come sanno Penna e Soldati e come in altro modo sa anche Garboli: il quale però, per dirla parodiando il suo stile, ha accettato ininterrottamente questa rinuncia senza accettarla per nulla. 

 

Ecco una pista che avrebbe meritato di essere seguita da una testimone d’eccezione, se avesse voluto scrivere un libro di testimonianza. Ma la Loy non lo ha scritto; forse per pudore, o per l’umanissima difficoltà a tradurre una relazione senza tradirla troppo. Però non ha scritto nemmeno un libro-antologia, un libro-montaggio in senso rigoroso, cioè articolato secondo un progetto leggibile. Così quello che ci resta è un mazzetto di fogli che sembrano sul punto di volar via dalla rilegatura: un non-libro silenzioso, oscillante, che commuove perché lo ha composto una donna segnata a fondo dall’intelligenza, dal fascino e dall’imprevedibilità del protagonista, dal modo in cui i suoi torpori casalinghi e le sue accensioni cavalleresche, i suoi abbandoni e le sue risoluzioni improvvise, i suoi indugi annosi e la sua imperiosa efficienza mattutina giocavano a prendersi per la coda come avviene in certi eroi morantiani, o come è avvenuto in genere tra la vita, l’opera e la malattia degli autori di cui lui stesso si è reso interprete. In più, verrebbe da dire che è mancato alla Loy un collaboratore capace di fare proprio il mestiere che Garboli si era reinventato: quello di editore. La cura di Cesareè infatti decisamente cattiva. Nessuno ha aggiustato i passi sciatti o zoppicanti, nessuno ha asciugato le ripetizioni, nessuno ha corretto i marchiani errori di cronologia politica; per non parlare della quarta di copertina, che è addirittura linguisticamente imbarazzante. 

 

E tuttavia, anche da questi quinterni scuciti un pezzo del fantasma garboliano s’incarna sotto i nostri occhi, e non passa solo attraverso la sua voce. Ѐ  la Loy a muoverlo brusco e affettuoso nei paesaggi di Versilia dove Medioevo e liberty appaiono ugualmente diroccati, ridotti a macchie d’umido nel chiasso del benessere; è lei a farlo recitare nelle trattorie come il suo Tobino, a restituirci gli odori della casa e i sapori della cucina che nella prosa garboliana giocano un ruolo così importante, se è vero che la metafora gastronomica, oltre a riflettere la golosità impaziente e al tempo stesso disamorata che lega il critico ai libri, gli serve da sprezzatura stilistica di fronte agli oggetti più monumentali. La casa è quella mangiata dalla muffa a Vado di Camaiore, la villa troppo vasta del frantoio e dei gatti, un luogo dove tutto sembra al limite dello sfascio e tutto sembra pronto a riprendere vita come se la routine fosse stata interrotta un attimo prima, col sugo ancora fresco sopra la tovaglia. Nelle sue stanze, ricorda la Loy, ha preso forma parecchia letteratura: non solo quella del suo compagno e la sua, ma anche una famosa poesia di Sereni. Ѐ una situazione che i lettori di Garboli conoscono bene, e su cui Gervasi si sofferma più volte: un racconto, un verso, un progetto nascono dall’incontro domestico tra gli autori e quel loro critico che trasforma in maieutica tutto ciò che fa o che tocca, qualunque gesto o battuta, persino la sua sola presenza. Però si tratta di una maieutica segreta, che rifiuta di raccontarsi platonicamente: è un intervento che sfiora l’interlocutore e sfugge via di scatto come il Cesare sciatore e nuotatore descritto in altre pagine, l’amante che s’immerge nella natura come nel suo elemento, in una placenta originaria di bellezza principesca e agio animale che lo distanzia dalla cultura e gli permette di passarci attraverso senza lasciarsene intrappolare. Da un tale agio sembra venirgli quella felicità ariosa senza la quale, pensava Garboli, non si può capire nemmeno la più asfittica delle disperazioni; così come senza l’insofferenza per l’umanesimo musone e senza una certa eccitazione infantile per la tecnologia (la tv, il pc), seconda natura e droga adattissima ai bioritmi garboliani, non si può forse gustare il piacere antico della filologia, dei testi e delle loro polveri.

 

 

Eccoci dunque ancora ai due poli che sempre seducono il critico seduttore, e che presidiano il confine con l’inumano: l’arcaico e il nuovo di zecca, l’assoluto e il dozzinale. E il punto in cui si toccano, negli aneddoti della Loy, è l’adesione di Garboli a una scienza leggendaria dei caratteri, a un’astrologia o superstizione che sostituisce in lui le tortuosità scolastiche dell’analisi psicologica “profonda”, ennesimo travestimento delle pretenziose metafisiche moderne. 

In questa mobile identità di condottiero e di indovino, di scrutatore infallibile e di adolescente rapinoso col ciuffo da bravo, Cesare somiglia davvero agli eroi morantiani. Ѐ il ragazzo ritratto dallo stesso Garboli nei bei distici che aprono il libro senza commento, l’Achille che tra le corse a perdifiato nei boschi e i lunghi pomeriggi a pancia in giù coi libri d’avventura sotto il naso resta impigliato nelle sottane delle sorelle grandi (chi scriverà un libro sui nostri artisti e intellettuali cresciuti o invecchiati nei nidi femminili? Non solo Pascoli ma Morandi, e Sordi, e un altro critico-astrologo come Berardinelli…). In quello struggente omaggio alla sua Italia antica e modernissima, l’io del poeta viene liquidato all’ultimo da un fulminante: “Se qualcuna mi ha amato, / ha amato voi”. Come dire che la nostra persona la si può esprimere garbolianamente solo tramite l’altro, gli altri, e che anzi con loro quasi coincide. Perché sono gli spazi che abitiamo, i convitati che ci circondano, i fasci di luce che ci riversano addosso a farci apparire come siamo, e non una nostra presunta essenza: tema proustiano che nelle pagine del critico s’infiltra ovunque, accordandosi allo spodestamento di quel soggetto moderno che pretenderebbe a un tempo di conoscere e di trasformare il mondo. 

 

Ma siccome siamo arrivati alla prosa di “Cesare”, che la Loy così discretamente lambisce e incastona, vale la pena indicare alcuni leitmotiv che le citazioni mettono in risalto. Quasi scaturite dal paesaggio intimo sembrano le metafore dell’acqua che scorre, dello “slittare”, ma anche quelle opposte del ribollire, dell’ingorgarsi, dell’incistarsi, del coprire e dell’esplodere; e naturalmente quelle che rimandano alla seduzione, a qualcosa d’inafferrabile e d’informe. Ancora. Sia su Morante sia su Delfini la Loy sceglie brani in cui Garboli illustra la loro attitudine a perdersi metastasianamente nei giochi che inventano; e forse questo oblio è connesso a un altro tema che coinvolge anche Matilde Manzoni e Giovanni Pascoli, cioè al desiderio impossibile di essere amati. C’è poi un motivo, di commedia ma anche tragico, che coinvolge più che mai la biologia: quello dei giovani e dei vecchi, e in particolare dei giovani che più o meno inconsciamente parassitano i vecchi. Capita che le due età condividano apparentemente qualcosa di cruciale; ma quel luogo di tangenza così intenso, che cancella per un attimo la divaricazione dei punti di partenza e arrivo, non può che trasformare l’incontro in un fraintendimento: è il caso dell’incidente epistolare Longhi-Berenson, o dei malinconici vagabondaggi notturni di Garboli e Delfini nella Roma del ‘56. Su tutti aleggia infine il tema scelto come titolo da Gervasi, la vita contro la letteratura. Garboli non smette mai d’indagare il loro scambio equivoco, il modo in cui la cifra di un destino affiora inattesa mentre s’inseguono chimere o vocazioni fallite, e il modo in cui le opere vengono alla luce come falsi scopi. Ѐ un tema che permette come pochi di cogliere il passaggio tra la modernità trionfante e quella tarda, condannata a consumare rapidamente sé stessa. Se l’Ottocento ha conosciuto formidabili scrittori intrattenitori e impresari (Balzac, Dickens) i cui libri sembrano un puro prolungamento dell’energia vitale, già nella seconda porzione del secolo le attività sociali e artistiche iniziano a collidere: lo si vede bene in Verga e Proust, che compongono i loro capolavori quando smettono di voler dominare la realtà mondana con un gesto a sua volta mondano.

 

Nel Novecento vivere e scrivere diventano verbi nemici, come prima di Garboli ci hanno detto in maniera indimenticabile Čechov e Montale. E al centro della galassia garboliana sta appunto questa letteratura che sorge quando la vita si ammala: letteratura come libido cambiata di segno, creatura “infetta” nata dalla frustrazione e magari da un odio mascherato. 

Del resto il critico ritrova l’infezione anche più indietro, anche là dove sottolinea la distanza enorme di un autore dalla nostra epoca. Dante è un “integrato”, non un romantico. Eppure a Garboli, analista degli istinti più luminosamente distruttivi, la Commedia appare un monumento “alla capacità di odiare”; ed è ragionando sul posto che non vi ha Guido Cavalcanti che si chiede, in una di quelle domande con cui traveste certe sue indimostrabili quanto irrefutabili intuizioni filosofiche, se il nocciolo ultimo della nostra identità non sia per caso l’invidia. Ma tornando al Novecento, quando gli capita di accennare a quel sommo scolastico moderno che fu Joyce individua la radice del suo Ulisse in un dolore rancoroso, fallimentare, stagnante, e con una frase che è anche stilisticamente caratteristica lo definisce il “grande poema goliardico di tutti i defraudati di qualcosa, poema di epica miserabile e derisoria ‘per giovani soli’ nato dal disgusto e dal disprezzo di vivere, da un'euforia immaginaria unita a un magone inconsolabile e a un leggero, ma inestirpabile, odore di water di campagna”. 

 

Ѐ questa rivelazione della malattia che Garboli vuole evitare a sé stesso, rifiutando di far scivolare la sua saggistica così suggestivamente narrativa verso la creazione romanzesca? “Non mi piace trasformare il mondo con le mie parole”, ha scritto in un noto passo di Pianura proibita citato dalla Loy. “Mi piace solo capire com’è fatto, e lasciarlo com’è, come l’ho incontrato. Trasformarlo con le parole vorrebbe dire esporre le mie viscere, e chissà che cosa nascondono le mie viscere. Dio mi guardi dal saperlo”. Per Garboli la sua sconfinata immaginazione ha il segno meno, è una virtù negativa. Perciò la costringe a tradurre i romanzi nascosti nella realtà. Lascia che venga tutta risucchiata, per usare un suo verbo-contrassegno, dalle ombre che chiedono di essere disseppellite, riconosciute, tolte a una tomba col nome sbagliato. L’energia immaginativa viene incanalata nella regia che sistema le luci giuste su ciò che è accaduto e rimasto nel buio, si tramuta nella mossa scientifica e magica di chi evoca una costellazione unendo punti già dati, trattando ad esempio il Pascoli famigliare “come certi legni che le onde portano a riva, sagome dove si crede di riconoscere un disegno, una figura, dei tratti accennati da una mano che non ha mai voluto tracciarli”. Così, mentre a Vado scrive il suo romanzo più famoso, la Loy spia Cesare che lì accanto “affronta ogni giorno il suo serrato confronto con l’antagonista di turno, senza mai lasciarsi corrompere dalla fantasia”. 

 

Ma al di là delle ragioni personali radicate a profondità insondabili (la fobia dell’errore, l’angoscia del limite, l’idealizzazione persecutoria che costringe a confessarsi soltanto obliquamente), in questa scelta gioca un ruolo decisivo l’idea che nel nostro mondo l’immaginazione coli ormai da ogni parte come un liquame inquinante, proliferi soffocando tutto come un cancro, produca irrealtà nel momento stesso in cui diventa una cosa sola con il reale. L’industria delle proiezioni che ci avvolge e corrompe è l’ultimo esito della demiurgia otto-novecentesca, dei suoi sogni romantici e utilitaristici; e Garboli vi avverte qualcosa come un sacrilegio. Mettersi sotto il patrocinio di Molière per giudicare questa cultura è allora cercare un punto esterno, o liminare, per giudicarne la deriva, per cogliere a monte l’inevitabile decomposizione dei fantasmatici progetti di potere concepiti dall’intelletto moderno e dalle sue discipline. E in Molière il baricentro dell’osservazione, il luogo preciso dove pre e postmoderno si ricongiungono è rintracciato dal critico in Tartufo: che è sì il suo antagonista, ma che non potrebbe capire in modo così originale se non ne sentisse in sé il germe (lo “schizofrenico” Garboli non è forse un servo-padrone, un collaboratore domestico e sotto mentite spoglie un direttore di coscienza che dà i suoi colpi di pollice ai destini degli autori, che aggiusta e scompiglia i ménage delle famiglie letterarie in cui s’intrufola?). Questa deriva culturale è descritta già nel ’69, nella Stanza separata, in termini che pur senza ancora evocare Molière restituiscono efficacemente la cesura degli anni del boom, anni durante i quali una modernità putrefatta fa risorgere e trionfare, “inconfondibile, irriconoscibile”, il falso devoto sconfitto nel Seicento: “La letteratura è giunta a un punto di crisi, le manca l’aria, l’ossigeno, proprio nel momento in cui ci si è accorti che i valori della cultura sono ‘utili’. Non reali, come era stato nella civiltà classica e poi umanistica, ma ‘utili’. Ѐ vero, la cultura appartiene alla prassi, è una fabbrica e non un giardino. Ma diventa utile soltanto in tempi di barbarie”. 

 

 

Ed è appunto da questa cesura storica che prende avvio l’analisi di Paolo Gervasi. Garboli, infatti, esordisce proprio allora: quando tramonta l’ultima repubblica delle lettere, quando l’umanesimo viene sostituito dalla burocrazia delle scienze umane e l’ipertrofia dei linguaggi estetici comincia a equivalere alla loro liquidazione massmediatica. “A fronte di un aumento della complessità dell’insieme delle pratiche simboliche, le strategie interpretative tradizionali smarriscono la capacità di fare presa sugli oggetti culturali, consegnandosi a un’impotenza raccontata spesso con una sorta di euforia apocalittica”, constata lo studioso introducendo il suo ritratto. In questo senso “l’esperienza di Garboli si colloca tra due epoche, tra il prima e il dopo del complesso di cambiamenti che hanno messo in crisi le pratiche e le gerarchie di valori della modernità, e per questa sua posizione può essere utilizzata come un generatore di domande da porre al presente: qual è il ruolo della critica nell’era della mutazione di tutti i sistemi comunicativi?”. Gervasi inizia a rispondere osservando che “il senso della ricerca critica di Garboli si può sintetizzare nel tentativo inesausto di definire il rapporto tra l’arte e l’esperienza umana, tra l’immaginario e il nostro destino di creature immerse nell’ambiente naturale modellato dalla cultura. Nella letteratura Garboli rintraccia e porta alla luce le forze vitali, le esperienze essenziali, i movimenti profondi della creatività umana; riconosce, anche dove erano stati sublimati o trasfigurati, le pulsioni e i desideri, la persistenza pesante e opaca del corpo. Combattendo la tentazione implicita nell’arte di risolvere la durezza dell’esistenza nell’evasività dell’immaginario, Garboli ripete continuamente che l’arte non deve imporre una forma all’informe, ma lasciare che nelle forme la vita continui a fluire”. 

Ecco di nuovo la metafora del flusso, dello scorrere, in cui si riflette la natura di organismi reali e fantastici che non stanno mai fermi. A questa oscillazione continua tra forma e non-forma corrisponde il genere che Garboli ha praticato da maestro: quel saggio che, come ha detto in una delle sue felici definizioni en passant, mette in scena la nascita, la storia e il drammatico mescolarsi delle idee come i romanzi fanno con i personaggi. “Costitutivamente ibrido, il saggio conosce un’esistenza carsica: la sua presenza invisibile e indefinibile, situata nelle pieghe del sistema dei generi, dipende strettamente dall’efficacia della sua esecuzione.

 

Il saggio esiste nello spazio empirico e nel tempo definito di una performance, per poi ri-inabissarsi. La storia del saggio diventa allora una teoria di accensioni saggistiche”, commenta Gervasi confermando qui la concezione del suo autore. “Critico inappagato”, “storico miscredente”, “narratore di frodo”, Garboli è in quanto saggista – e traduttore – una sorta di attore senza gesti. Per esorcizzare quei caratteri della sua operazione che potrebbero apparire romantici e gratuitamente istrionici, li estremizza e al tempo stesso li cancella assumendo su di sé il potere paradossale di chi recita dando vita a uno spartito come è e come nessuno lo ha mai visto: cioè il potere di colui al quale è concesso esibire senza pagar dazio un protagonismo impudico, perché la sua libertà e il suo talento si esprimono solo attraverso l'annullamento dell'io. Realizzando i destini incompiuti, e riflettendo sui testi creativi dei suoi autori, Garboli li “esegue” traducendoli nel proprio linguaggio. Dire questo significa riconoscere che l'unico saggista davvero affine a un tale interprete resta Roberto Longhi, il critico-conoscitore che sa far coincidere un massimo di idealizzazione con un massimo di aderenza al dato materiale, lo scrittore che nelle sue ekphraseis brucia senza dialettica ogni rapporto con la cultura “esterna” alle opere, ma rifiuta anche qualsiasi vaghezza fantastica. Longhi però ha un vantaggio: si occupa solo di pittura, linguaggio muto che permette al traduttore di sfogare senza rimorsi tutto il suo talento manierista. Garboli invece, oltre che di immagini, si occupa di uomini e di scritti, nonché del cordone ombelicale che li lega: cioè di oggetti che di per sé stessi già parlano, che sono impregnati di una cultura e di una storicità di secondo grado davanti alle quali ogni traduzione rischia di apparire una parafrasi insieme superflua e infedele. Al di là delle differenze di generazione e di stile, è anche per questo che mentre il suo maestro fa sfoggio di una lingua virtuosisticamente antiquaria Garboli adopera invece un tono sbarazzino, alternando finezze e modi sbrigativi, sfruttando prosaicamente le già ricordate similitudini “domestiche” (la cucina, l'artigianato, lo sport, l'infanzia), e cercando di raggiungere una distratta eleganza attraverso equivalenze qua e là quasi grossolane. 

 

Ma nel gioco a nascondino col romanzesco, il teatro non è per questo saggista solo una metafora accorta del proprio lavoro. Specie quello non modernamente pensoso per partito preso, cioè non preoccupato di appiccicare ai suoi stracci l’etichetta di una cultura autorizzata, è anche un luogo privilegiato di ricognizione. Nel teatro il mestiere più terragno, il sudore della vita non si è ancora staccato dall’opera. Realtà e finzione si scambiano le parti su una soglia che non si può abolire: il contrario della mistificazione che le vorrebbe separare per poi inglobare l’una nell’altra, e che Garboli denuncia fin dal suo primo libro osservando che se si annulla il mondo nel testo allora anche il testo si riduce a nulla. “Per ogni vero critico”, scrive molti anni dopo in una nota sul diario di Matilde Manzoni opportunamente citata da Gervasi, “non esiste, separato dall’arte, il mondo sensibile, il mondo che nasce e muore, il mondo sciocco e peribile che chiamiamo reale, ma non esiste neppure, separata dal mondo, l’arte che lo eterneggia e lo redime. Non esiste nessuna creazione d’arte, nessuna forma d’arte separata dalla caducità del mondo. Queste due realtà non si trovano mai disunite; i loro sguardi non si staccano mai, sono sempre incantati, appiccicati l’uno all’altro da una fascinazione reciproca che non ha mai fine”.

Di tutto ciò il teatro è un’incarnazione esatta. Ma come si è detto, l’allergia per l’eterno, e tanto più per la retorica dell’eterno prodotta da una modernità costitutivamente caduca, porta Garboli ad allestire anche un teatro critico intorno a una letteratura per altre ragioni formalmente instabile, e intorno al suo legame misterioso con l’instabilità della vita di cui si alimenta. Questo saggista, spiega Gervasi, si occupa delle opere in fase d’incubazione, dei margini dell’esperienza letteraria: ad esempio del limbo in cui svolazzano i cartigli pascoliani fatti a metà per la circolazione domestica e a metà per quella pubblica. Oltre che a un attore, qui Garboli somiglia un po’ a un detective. E a questo punto lo studioso lascia cadere un fin troppo canonico rimando a Carlo Ginzburg e alle sue ricerche sulle vie indiziarie: vie che oggi alcuni critici, parodiando Garboli, battono francamente con un po’ troppa enfasi, circondando di un’aura misterica eccessiva il più qualunque dei biglietti ed eleggendolo subito a oscura traccia di un imbroglio del destino o di un morbo fisiologico-poetico. 

 

In ogni caso, sovrainterpretazioni a parte, di sicuro l’autore degli Scritti servili“esplora il buio in cui la creazione non si è ancora compiuta, sosta nel territorio incerto della potenzialità, guidato dall’idea che ‘niente è più sacro di ciò che non è stato ancora redento dallo stile, non ancora raggiunto dall’intelligenza’ ”. Ad attrarlo non sono le opere in quanto tali, ma non sono nemmeno, in quanto tali, le persone: è piuttosto lo spazio che divide e unisce vischiosamente poesia e realtà. Garboli vuol essere un ostetrico delle forme, vuole decifrare e portare alla luce i grovigli artistici ed esistenziali ancora privi di contorni e dispersi nel ventre buio che si stende tra la vita e la pagina. Il Novecento, lo si è detto, ha reso il loro legame innaturale, sancendo una separazione torbida tra le due. Ma se un'affinità rimane, suggerisce Garboli, sta forse nel fatto che testi ed esistenze appaiono entrambi come “processi patologici”: e per questo, più che un ritrattista di tipi umani o un analista di opere, lui si sente un diagnostico. Una tale affinità non implica però un netto rapporto di azione-reazione tra l'opera e l'esistenza del suo autore: le due “forme” potrebbero correre in parallelo. Sembrano realtà incommensurabili; e se anche vengono risucchiate l'una nell'altra lo fanno attraversando un diaframma segreto, scambiandosi i sintomi in una terra di mezzo intricata e informe. A Garboli interessa appunto questo paludoso luogo di passaggio, dove una vita non più realizzabile in pienezza contagia dei testi a loro volta incapaci di dare di questa vita una rappresentazione integra. E allora, per elaborare diagnosi attendibili, è logico che faccia esperimenti su chi gli è più vicino, su uomini e donne che ha potuto visitare a lungo: Delfini, Natalia Ginzburg, Penna, Morante, Soldati, Longhi... Così come, date queste premesse, non stupisce che le sue cavie preferite siano artisti che non mostrano piena consapevolezza di sé, che non dominano la loro giornata e il loro talento.

 

 

Esemplare è il caso di Delfini, che “ha vissuto e coabitato con se stesso senza mai vedersi”, e che Garboli ha avviato verso la “rinarrazione ex post” precipitata nella prefazione alla Basca del ’56, dove lo scrittore riporta i racconti agli eventi da cui erano stati ispirati e al loro “filo autobiografico”: come dire a una coscienza, sollecitata dall’attore-editore in grado di orientare il Ricordo con la sua interpretazione.

Questo personaggio che restaura i testi dietro le spalle degli autori, questo suggeritore di varianti che rimodella nel bene e nel male le carte dei suoi amici e dei narratori che segue per un periodo nelle vesti di funzionario editoriale, ci appare quasi come una specie di Niccolò Gallo “parlante”: un conoscitore di orecchio assoluto che diffida dell’io e della forma, ma che al contrario dell’amico ha un desiderio di dichiarare la sua diffidenza abbastanza forte da farlo diventare un saggista. E un illusionista. Perché oltre a stendere i suoi pezzi lunghi o brevi come un Debenedetti o un Cecchi, Garboli si nasconde e si esibisce in una serie di libri-palinsesti, di introduzioni-(auto)biografie, di curatele al limite della riscrittura. Calandosi in questo ruolo fiuta alcune tendenze fondamentali sia di una nuova sensibilità comune sia dell’industria culturale (il passaggio dell’aura dall’opera alla personalità dello scrittore, la retorica dilagante dell’editing…), e finisce per rappresentarne tanto uno straordinario complice quanto un contravveleno “gratuito”, nel senso che mantiene l’intramontabile gioia del ragazzo che vuol vedere come sono fatte le cose per poi abbandonarle alla loro sorte, chiacchierare fino a notte e tornare randagio bevendo alle fontane senza appartenere a nessuno anche quando abita le stanze più lussuose. Tipico di questo personaggio è il modo in cui si mostra incuriosito dai casi di successo, ostentando sempre di esser lontanissimo dalle mutrie dei catoni che gridano alla decadenza e allo scandalo, ma al tempo stesso pigliandoli per un verso che mentre implica il tout comprendre lo pone a una distanza ancor più siderale dalla confusione tra esigenze pubblicitarie e attestati di eccellenza poetica. Basta leggere alcuni degli articoli usciti su Repubblica negli anni Novanta, come gli interventi sul Nobel a Fo o sull’esordio di Simona Vinci, per capire cos’è una stroncatura affabile ma inappellabile, uno di quei delitti perfetti che nessun polemista di mestiere potrebbe commettere senza lasciare le sue ditate di unto sulla pagina, e che a Garboli sono invece consentiti dal suo tono luciferinamente accogliente e sardonicamente soave. 

Di questo attore-editore, Gervasi ci offre un ritratto molto accurato. Finché resta sulla concreta realtà garboliana, e la confronta con la cultura circostante, il suo giudizio si rivela acuto, oltre che fondato su informazioni precise. Fa le citazioni giuste, le commenta con puntualità, e sembra precocemente in grado di controllare una materia vasta per diramazioni e sfumature. Peccato solo che voglia incastrare a tutti i costi il suo ritratto in un’astratta cornice ricavata dalle teorie biopoetiche della letteratura a cui si stanno arrendendo i dipartimenti delle humanities. “L’efficacia esplicativa del saggio si basa anche sulla valorizzazione di alcuni presupposti cognitivi che aiutano a comprenderne meglio il funzionamento e allo stesso tempo ne approfondiscono il valore conoscitivo: il saggio ci fa capire qualcosa perché il modo in cui lavora è analogo al modo in cui lavora la mente per assimilare e interpretare il mondo”, scrive ad esempio a un certo punto, cambiando stile come un attore che cambi di colpo la voce per imitare il personaggio di un altro dramma, diciamo come un ottimo Iago che all’improvviso si metta a pronunciare le battute del Dottor Diaforetico.

 

Il saggio è la forma della mente, verrebbe da riassumere parafrasando un titolo di Giorgio Manacorda che dava la palma del pensiero emotivo alla poesia. La cornice incongrua montata da Gervasi intorno a Garboli esalta la fisicità che ha invaso il discorso estetico degli ultimi decenni, trasformando il Corpo in una parola-feticcio pronunciata come un tempo si pronunciavano “operai” o “popolo”, ossia con un anelito all’unione mistica che tradisce la lontananza dall’oggetto. Ma adesso, a colmarla, i biopoetici chiamano euforicamente le scoperte scientifiche sull’embodiment e i neuroni specchio. “Radicalizzando in senso materialistico le teorie psicoanalitiche”, prosegue lo studioso, “Garboli cerca nella scrittura le tracce che rendono manifesto il pensiero delle viscere. I suoi saggi mostrano la creatività come un’attività contigua alla fisiologia del corpo, quasi un effetto collaterale del lavorìo col quale la materia tenta di sdoppiarsi per diventare autocosciente. Inconsapevolmente in accordo con le più radicali teorie materialiste della coscienza, Garboli descrive l’emersione della consapevolezza di sé come una eccedenza dell’attività neurobiologica”.

 

Si può certo insistere sul ruolo giocato in Garboli dalla fisiologia, e sulle immagini filamentose che ne derivano. Ma questo corpo biopoetico poco somiglia a quello garboliano, attraverso cui il critico esprime l’ininterrotto e insopprimibile stupore provato davanti alla relazione segreta che i segni lasciati su un libro intrattengono con un gesto, un individuo, una voce, ossia davanti all’eterno scherzetto metafisico per il quale la presenza e l’assenza della persona che li ha scritti sembrano modificarne la natura. 

In sintesi, nel suo Vita contro letteratura Gervasi in parte “esegue” Garboli alla giusta distanza con il linguaggio di un saggista; e in parte incrina questo linguaggio col codice di una trattatistica che non fonde né con l’altro tono né col tema. Questo altro tono, cioè il migliore, torna a farsi sentire quando verso la fine del libro pone frontalmente la questione di un bilancio del suo oggetto di studio: “qual è il giudizio complessivo sulla saggistica di Garboli?”, si chiede in una pagina molto nitida. “La sua critica è giusta o sbagliata, coglie nel segno o manca clamorosamente il bersaglio? Aggiunge qualcosa alla conoscenza delle opere di cui parla, oppure non fa che opacizzarle e sovrascriverle, e va considerata un’operazione creativa parassitaria, da valutare, semmai, autonomamente? E anche: l’idea della critica che emerge dal lavoro di Cesare Garboli è riattivabile nel contesto attuale? Si può ricavare qualcosa dalla sua lezione? Si può riprodurre il suo metodo? 

La risposta più immediata a ognuna di queste domande probabilmente è no: non si può rifare Garboli, non c’è niente di replicabile nel suo metodo, e dopo l’attraversamento della sua opera, nonostante i lampi di intelligenza che vi si incontrano, resta perfino un po’ di irritazione, la tentazione di rifiutare in blocco la sua critica vischiosa, l’idea che egli si sia appropriato indebitamente, subdolamente, di scritture, temi, opere che dopo il suo passaggio tirannico non si potranno più leggere innocentemente. Se pure Garboli ci dice qualcosa delle opere, ce le fa conoscere diverse da come le conoscevamo, aggiunge elementi di comprensione locali ed empirici, i suoi risultati non sono generalizzabili, i contorni del suo metodo si perdono in una foschia affabulatoria, e c’è innegabilmente qualcosa di condivisibile nelle obiezioni che sono state mosse al suo cannibalismo critico. 

 

Dalla pratica saggistica di Garboli esce deformato, assumendo fattezze distorte, anche quello che è forse uno dei suoi meriti principali: l’esercizio di una instancabile critica militante, che aiuta le opere a nascere e a trovare spazio; il sostegno dato alla creatività nel suo farsi, il coraggio nel tentare di individuare valori emergenti e/o divergenti, fuori dalle gerarchie consolidate; la scrittura praticata sulla linea di avanzamento del presente, senza rete, esposta ai venti dell’attualità. La militanza però, in Garboli, non si mostra mai come tale, si camuffa da compromissione, occulta il gesto della scelta e della selezione, presentandosi quasi come una fatalità ineludibile, come una questione di destino. E quindi anche riguardo a questa parte fondamentale del momento valutativo, che Garboli ha praticato con passione autentica e offrendo intuizioni decisive, il suo esempio si presenta opaco, sfocato, inutilizzabile, inimitabile anche nel processo che porta ai risultati migliori”.

 

 

Molte osservazioni di questa pagina vanno tenute presenti: ad esempio quelle che riguardano il rapporto equivoco con la valutazione e con la militanza. Il disinteresse apparente, anzi la noia esibita da Garboli di fronte ai canoni implica a volte un’accettazione o imposizione implicita di certe gerarchie che passano così per indiscutibili quando non lo sono affatto; e siccome la sua ricognizione si sostanzia soprattutto di ritratti, la vicinanza appassionata ad alcuni scrittori finisce per ingrandirli oltre misura sullo sfondo della loro epoca senza che questo ingrandimento sia giustificato (per questo i medaglioni più indiscutibili, nel senso di attendibili, sono quelli dove indiscussa è la statura del modello, come nel caso di Penna). Ѐ poi senz’altro vero che in questo saggismo serrianamente umido proprio le suggestioni più forti si trascinano dietro l’ombra di limiti che sembrano poterle minare alla radice. La svogliatezza dell'assaggio critico che lascia sempre un po’ d’appetito insoddisfatto, che lambisce appena e poi sorvola le intuizioni cruciali, lasciando che il lettore si accorga alla fine che i bocconi più prelibati, nascosti nelle anse del discorso, li aveva già inghiottiti senza masticarli, ha a volte in Garboli qualcosa di ipnotico. Il passo accidioso eppure rapidissimo, il chiaroscuro che si tende in epigramma e l’epigramma che si smorza in un’alzata di spalle o in un aneddoto, spesso costituiscono davvero una performance dai perfetti tempi attoriali. Ma bisognerà pure aggiungere che come in Serra, abituato a tenere sullo sfondo tutt’altro lirismo, questa letteratura d’atmosfera che vorrebbe autocancellarsi sfiora e non di rado supera la posa. 

 

Eppure Garboli è malgrado tutto un critico straordinario. Lo è perché in lui ragioni e idiosincrasie, argomenti e sensibilità si uniscono a una serie di idee-forza sulla realtà circostante che fanno del suo gusto un organismo, uno strumento conoscitivo, una visione del mondo che ce lo mostra come non lo avevamo mai visto. Lo è, ancora, perché come ogni critico ha la testa di un filosofo che non crede più nella filosofia; perché usa e abbandona i metodi quando gli servono come si prende dalla dispensa un setaccio, una spezia o una pentola a seconda del pranzo da servire. In questo senso un critico è sempre inimitabile perché è sempre in situazione: il suo sapere e il suo tatto devono riorientarsi e cristallizzarsi nella maniera più adeguata a ogni nuova partita. A differenza dello studioso, il critico deve cioè reinventare sempre tutto daccapo e tutto rimettere radicalmente in discussione: prospettiva, linguaggio, rapporto tra sé e l’opera, tra l’opera e il canone, tra questi poli e la condizione presente e passata. Contano il senso della posizione e delle proporzioni, la scelta del punto di vista, il taglio, la corrispondenza tra contesti e tono. Quando sa dosare gli ingredienti con originalità ed esattezza, un critico del genere è semplicemente uno scrittore. Qualunque oggetto intenda descrivere, uno scrittore dovrebbe riuscire a mostrarcelo come se ci apparisse davanti per la prima volta: ripulito dagli stereotipi, dalle opinioni ricevute, dall’autorità della tradizione. Vale anche per i testi, per gli organismi estetici, insomma per l’arte sull’arte. E lo si dice senza l’enfasi grossolana dell’estetismo, che gli autentici critici-scrittori hanno sempre evitato. Si pensi, a questo proposito, alla cautela sfuggente di Giacomo Debenedetti, evocato a ragione da Gervasi, che come Garboli è stato uno scrittore e un narratore assai più grande della maggior parte degli scrittori e narratori “non critici” della sua epoca. Non a caso entrambi, pur così inclini al gioco di prestigio, sono lontanissimi da Citati, da cui infatti l’autore della Stanza separata tiene presto a distinguersi perché vede nel suo coetaneo un complice dell’irrealtà, dato che nelle sue pagine “tutti i salmi finiscono in Gloria” e tutti gli autori evaporano in un gas neoplatonico dal quale si leva solitaria l'impudente ricreazione del ritrattista.

Quando Gervasi usa il suo tono e il suo linguaggio più appropriati, come nelle domande e nelle risposte riportate sopra, anche in lui si può scorgere sotto lo studioso un giovane critico di talento.

 

Ma appena vuole infilzare nella teca della humanities quella creatura così fastidiosamente mercuriale che è la critica, ecco che Iago ritorna Diaforetico, quasi per un’interferenza tra stazioni radiofoniche, ed ecco riemergono le astrattezze antropologico-politiche. “La risposta alla domanda sull’utilità della critica allora, posta attraverso Garboli e oltre Garboli, può consistere soltanto in un rilancio delle sue prerogative in una prospettiva che è allo stesso tempo più elementare e più ambiziosa di quella cui siamo abituati”, ci dice quest’altro attore generico. “La critica serve a ritrovare l’elemento vitale dell’arte, il quid che parla agli esseri umani perché si sintonizza coi loro corpi e con le loro menti, perché indica loro una possibilità di comprensione e attraversamento del mondo. Gli studi letterari specialistici, i saperi tecnici che troppo a lungo si sono ostinati in una dissezione dei testi che trovava in se stessa il proprio fine, possono riaprirsi e tornare, attraverso l’analisi complessa delle forme stilistiche, mezzi di scoperta della vita nella letteratura. Strumenti di restituzione dei testi letterari alla comunità, come nell’immagine di Garboli citata proprio in apertura di questo lavoro: dal luogo sconosciuto in cui le parole cadono, ‘lo scrittore-lettore va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo’. In gioco non c’è soltanto il destino di un insieme di discipline, o la conservazione statica del bello. C’è la possibilità di riaffermare, in un momento di inaudita espansione delle capacità poietiche della tecnica, che preme sull’immagine umana e la deforma in senso già post-umano, la centralità dell’arte nella storia profonda dell’umanità, il ruolo che ha avuto la creatività nel plasmare la mente e le sue interazioni con l’ambiente”.

Si avverte qui lo sforzo di un’intelligenza critica costretta a far finire tutti i salmi nella gloria delle teorie neurobioletterarie. Ora, se c’è una cosa che avrebbe giustamente ricordato a Garboli i dottori molieriani e le loro virtù dormitive è proprio il gergo di simili teorie; e se c’è una cosa che da Garboli è urgente imparare è proprio la diffidenza nei loro confronti, magari venata di un po’ di senso del comico. Perché le teorie biopoetiche provengono appunto dalla mostruosa crescita di quella religione culturale postumanistica che è fiorita negli anni Sessanta del Novecento, e che a differenza della cultura religiosa degli anni Sessanta del Seicento riserva a Tartuffe un destino (per noi) più minaccioso.

 

Il prete che si pretende sia servo sia padrone, che vuole vivere le passioni della vita al massimo grado ma insieme controllare questa vita con machiavellica freddezza, è punito dal suo autore come un empio, e prima ancora è dipinto con pennellate che ne restituiscono l’aspetto sgradevole, grottesco. Ma alla fine del ventesimo secolo, ci dice Garboli, “il personaggio di Molière è tutto fuorché ridicolo. Ciò significa che la scena ha girato su se stessa. Ridicoli sono diventati gli altri”. A partire dagli anni Sessanta del Novecento, prosegue il critico, si è preso atto che l'intelligenza coincide con il male: che l'innocenza esclude dalla vita, mentre la perversità e la simulazione ci rendono protagonisti. Così si può servire il male, e contemporaneamente esercitare il dominio. Si può essere servi, sì, ma servi dell'intelligenza che fa padroni; e nello stesso tempo si può vivere la violenza o la frode con inebriante cecità. Criminalità, gioia e salute sono tutt'uno. Si dissolve la dialettica romantica, col suo ping pong tra finzioni estetiche e poteri borghesi, e si torna a un mondo antiromanzesco, integralmente “teatrale”. Ma se tutto è recita, il teatro sparisce. E se l'irrealtà occupa l'intero campo, qualunque fiction non ha più senso. Così sbiadisce la letteratura, barbara e “utile” solo in quanto leva o decorazione nobilitante di un progetto di potere che la derealizza come fanno – dopo tante altre – le odierne teorie biopoetiche; e con la letteratura evapora la vita, che si erge “contro” di lei ma ne è inseparabile, perché diventa a sua volta irreale. Intanto in mezzo, bolla che scoppia e si scioglie nella loro indistinzione, muore la critica che le teneva insieme nel suo sguardo incantato. In queste condizioni diventa difficilissima anche l’operazione più tipica di Garboli, che dalla critica lui distingueva ma che a volte, non essendo forse troppo superstizioso per quel che riguarda le parole, si rassegnava a indicare come una delle sue tante forme possibili: ossia la traduzione letteraria della vita che è andata dispersa tra le tracce scritte. 

 

Garboli ripete spesso che esistono due concezioni fondamentali e opposte della vita: da una parte quella santa e stracciona di chi la vede come un gran fiume da cui ci si lascia trasportare, un regalo fangoso e sublime che non si fa possedere ma esige abbandono, e dall’altra quella borghese che pretende di farne un oggetto, uno strumento, una materia da costruzione. Solo nei personaggi di poesia le due concezioni si trovano del tutto separate: nel mondo reale anche il vagabondo più arreso, anche il mistico più spoglio devono costruire almeno un po’ per non andare in pezzi. E tuttavia vale anche il contrario: quando si edifica, quando si pensa di mettere su la casa della vita, lei continua a scorrere altrove, cieca, sventata, informe, perdendosi in una emorragia che le impedisce sempre di coincidere con un tracciato biografico e storico. Credo stia qui il primo, onnipresente tema del Garboli trovatore di romanzi: nella “frazione di realtà intima, inesplicabile, incomunicabile che andrà sempre perduta (la ‘vita’) e non potrà mai raggiungere, come Achille la tartaruga, la sua foce storica, sociale, istituzionale (la ‘biografia’)”. In questo schema se ne riflette poi un altro più strettamente critico, riguardante l’idea del rapporto che corre tra il pensiero e la realtà, tra il conoscere e l’agire. “Il nostro secolo ha decretato il fallimento dell’identità di teoria e pratica; identità che è il sogno di ogni ideologia e il miraggio di ogni rivoluzione”, ha dichiarato Garboli in un’intervista di fine Novecento sui nostri massimi, gemellari e opposti filosofi idealisti, riconoscendo una condizione che è divenuta sempre più ineludibile dopo il Duemila. “Non si può trasformare il mondo; si può solo inseguirlo. Rispetto all’euforia illuministica, o alla ragione hegeliana, la nostra situazione si è rovesciata. La nostra ragione è critica, non creativa; e l’uomo è oggi oggetto, non soggetto di Storia. Questo ci avvicina a Croce; ma, stranamente, ci fa schiavi di Gentile”. 

In poche battute, e con figure garbolianamente speculari, credo non si potesse definire meglio la servitù di cui tutti ormai siamo certi.

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Thomas Bernhard: il suicidio del pensiero

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Piazza degli eroi

Oggi il secondo testo del nostro speciale Ritorno al futuro. L'idea è quella di rileggere libri del passato che offrano una prospettiva capace di illuminare il momento che viviamo oggi. Libri di storia, di antropologia, arte, filosofia, così come romanzi e testi poetici per leggere le nuove forme di autoritarismo del nostro tempo. Per leggere gli altri contributi cliccare sul nome dello speciale a sinistra sopra il titolo in questa stessa pagina.

 

Un clamore insopportabile di folle plaudenti. Il professor Josef Schuster, matematico e filosofo, si è ucciso. Buttandosi dalla finestra della sua casa che affaccia sulla Heldenplatz, Piazza deli Eroi, a Vienna. Il professor Schuster si è ucciso perché ebreo. 

Siamo nel 1988, ma ogni volta che le cameriere aprono le finestre che danno sulla piazza, di fronte al Burgtheater, la moglie, Frau Schuster, sente le grida scomposte e acclamanti dell’adunata oceanica di austriaci che proprio in quel luogo aveva salutato nel 1938 il discorso del Füher proclamante l’Anschluss, l’annessione del paese alla Germania nazista, e soffre dentro di sé la marea montante dell’antisemitismo rinascente, dell’odio. Tant’è vero che per questa sindrome paranoide è stata anche ricoverata allo Steinhof, il manicomio di Vienna dove fu internato anche il nipote del famoso filosofo Wittgenstein.

Schuster, che era fuggito dal nazismo rifugiandosi a insegnare a Oxford, mentre il fratello Robert si era sistemato a Cambridge come Wittgenstein, negli anni cinquanta ha voluto tornare a Vienna. Ma subito prima del suicidio era sul punto di abbandonare nuovamente l’Austria e di rientrare nella città universitaria inglese, non sopportando il terrore della moglie. La casa era venduta, il pianoforte spedito, molti mobili imballati, gli effetti impacchettati.

 

Perché uccidersi? Perché quelle voci che la moglie sente nella carne sono un ectoplasma di una realtà insorgente, quella dei neonazismi, dei nuovi patrioti che sputano per strada alla figlia perché ha caratteri semitici, quella delle camarille universitarie che lo hanno sempre guardato con sospetto, come un corpoestraneo. Quelle grida sono un fantasma che sta riprendendo corpo nell’intreccio originario di fascismo e cattolicesimo oppressivo, quello dei riciclati tipo il cancelliere Kurt Waldheim, quello che dilaga perfino travisando il socialismo, diventato puro affarismo.

 

Sembra di leggere una cronaca dell’Italia craxiana e poi berlusconiana e di quella più recente salviniana, un lungo filo nero che possiamo far risalire allo strapaese, al machismo, all’imperialismo feroce e di cartone, al fascismo e alle sue radici antiche. Ma siamo solo a metà della notte, nel 1988. 

 

Heldenplatz– rappresentato a Vienna nel novembre 1988 – è l’ultimo amaro, iperbolico, disgustato dramma di Thomas Bernhard. Lo scrittore attacca frontalmente la sua terra, quella dove era cresciuto senza padre, ramingo anche lui, allevato dal nonno scrittore e poi in un collegio in cui la sala delle adunanze con il ritratto di Hitler era stata sostituita, dopo la guerra, da una cappella cattolica. La nuova ricchezza del dopoguerra per quel paese, come per molti altri nel dopoguerra, aveva avuto come costo il conformismo, il pregiudizio, il disprezzo per la natura e per la bellezza, in una corsa alla modernità non esente da vecchie tare. Nella nuova Europa democratica non cessavano di agire l’oppressione confessionale, la grettezza piccolo borghese, il senso di colpa, la cura e la difesa strenua del particulare, alla radice dell’arroccamento xenofobo, del disprezzo per la diversità. 

“Oggi l’Austria è un paese governato da affaristi senza scrupoli di partiti senza coscienza, ho detto a Gambetti, pensai ora davanti alla fossa aperta. Questo popolo austriaco defraudato di tutto, ho detto a Gambetti, cui negli ultimi secoli, nella maniera più infame, cattolicesimo, nazionalsocialismo e pseudosocialismo hanno estirpato dalla testa l’intelletto”. Così Bernhard scrive alla fine di Estinzione. Uno sfacelo (Adelphi), l’ultimo romanzo pubblicato poco prima di Heldenplatz, nel 1984. 

 

Hitler accolto trionfalmente nella Heldenplatz a Vienna (marzo 1938).


Schuster in tedesco vuol dire calzolaio. Brecht, fuggendo dal nazismo, scriveva di aver cambiato più spesso paese che scarpe. Nel primo atto di Heldenplatz il guardaroba è invaso dalle scarpe del professore: per lui cambiare luogo vuol dire cambiare scarpe, sempre pronto a fuggire. Schuster il calzolaioè radicato a Vienna e in un paese di campagna dei dintorni, Neuhaus, dove sorge la villa di famiglia e dove risiedono i ricordi d’infanzia, una campagna amata in passato, ora odiata, ora minacciata di urbanizzazione selvaggia, per una strada che deve attraversare il gran meleto della tenuta. C’è qualcosa dell’esasperato senso di fine del Giardino dei ciliegi e c’è l’immobilità di Cechov, ma depurata di ogni patetismo, di ogni sentimentalismo o addirittura dei sentimenti, attraverso le maschere di personaggi che cercano di decifrare gesti inspiegabili di altri personaggi in una realtà incomprensibile secondo i vecchi criteri di ragionevolezza. 

Schuster è un senza luogo. Insofferente di Vienna e della campagna, impaurito dal risorgere di un nazismo antropologico, non ha più amici né conoscenze neppure a Oxford: nella terra di nessuno tra l’Austria e l’Inghilterra, in un mondo non riconoscibile e minaccioso, sceglie come meta il basta, la morte. Almeno questa è l’interpretazione del fratello Robert, ugualmente stanco e sfiduciato, ma pago di rinchiudersi nella tenuta avita. Fuggono tutti, questi personaggi, da una realtà insopportabile, in cui l’azione ha perso di possibilità e quindi di valore. Un mondo in estinzione, con i vecchi valori negati.

 

Ma noi non vediamo mai in scena il professor Josef. La sua storia e i suoi pensieri sono ricostruiti per frammenti dai discorsi, spesso fluviali, apparentemente senza controllo, dei diversi personaggi che ruotano intorno al centro vuoto creato dal suo atto, dal suo suicidio, nonché al pieno del nazismo risorgente. Nei testi narrativi e in quelli teatrali di Bernhard raramente vengono narrati fatti da chi li ha vissuti o avanzate opinioni da chi le ha maturate. Siamo precipitati in un labirintico gioco di specchi in cui un personaggio parla a un altro personaggio raccontando qualcosa di un altro ancora, presumendo qualcosa di lui. Così, con un tono di corrosiva indignazione, è narrata la storia della famiglia ebrea Schuster e del professore che si ammazzò per le grida frastornanti emerse nella psiche della moglie.

 

Primo atto: nell’appartamento del professor Schuster.


Heldenplatzè un crescendo. Si sviluppa da figure di contorno che cercano di descrivere il professor Josef e di darsi una ragione del suo gesto e sale a poco a poco finché in scena, nell’ultima, in una stanza da pranzo ormai impacchettata per traslocare in Inghilterra – vuota come la pièce, mancante del suo vero protagonista – monta il vociare della folla della piazza del 1938.

Nel primo atto Schuster è narrato, nei dati essenziali della sua biografia, dalla governante Frau Zittel in dialogo con la cameriera Herta mentre preparano gli ultimi bagagli nella stireria, tra alte porte e ante altissime di armadi, aperte e chiuse. Le didascalie in questa pièce, come raramente nell’opera teatrale di Bernhard, sono estremamente precise, per indurre a una ricostruzione puntuale di quell’ambiente peculiare. La vecchia servitrice delinea la personalità puntigliosa del professore rievocando le sue maniacali istruzioni per stirare le camicie. In un clima claustrofobico le due donne, devote all’estinto, osservano anche il vestito indossato il giorno della morte appena segnato dal volo nel vuoto e dal rovinoso impatto con la piazza. Saltano da un argomento all’altro, mentre chiacchiere e notizie ci offrono una prima rappresentazione “laterale”, “dal basso” del professore, dei suoi viaggi, delle voci che ossessionano la moglie, del ricovero allo Steinhof della donna, dei preparativi per la partenza, di vicende familiari... Sembra di essere in una surreale commedia di conversazione, addirittura forse in un’operetta viennese, sulla quale incombe qualcosa di sinistro.

 

Nel Volksgarten.


Il secondo ritratto di Schuster, più preciso, con l’ansia per il riemergere del nazismo, lo avremo all’aperto, nel giardino che chiude la piazza, verso il Burgtheater avvolto in una nebbiolina di marzo (marzo 1988, esattamente cinquant’anni dopo l’Anschluss). Dialogano su una panchina le figlie Anna e Olga, e poi arriva il fratello Robert, lento, più giovane e più malato di Josef. La personalità del suicida si arricchisce ed emerge il timore per un mondo in cui stanno riprendendo corpo vecchi fantasmi, in cui tutto viene stravolto. L’origine, per riprendere il titolo del primo volume dell’autobiografia di Bernhard e un tema centrale in Estinzione, torna a premere. 

L’origine è quella del popolo tedesco, forse dell’intera Europa sommossa dai nazionalismi, che è incapace di metabolizzare i principi della Rivoluzione francese e che anzi erige muri contro le sue idee fondanti. Ma è anche l’origine di un nomade del pensiero e della vita come il matematico filosofo Schuster, un ebreo errante, come i tanti costretti a fuggire incalzati dall’orrore, una personalità che cerca di mettere qualche ordine, almeno nelle minute cose quotidiane, in un mondo impazzito: senza riuscirvi. 

Schuster viene raccontato dai ricordi di chi gli è stato vicino, quindi con una buona dose di approssimazione, di soggettività che mira a ricostruire – come sempre in Bernhard – una personalità in modo indiziario e perciò con un basso tasso di verità. Siamo in un mondo omologo a quello del pensiero maestro novecentesco del dubbio sulla conoscibilità, Wittgenstein. Per Bernhard la verità è un flatus vocis, è un sommarsi di varie opinioni che la rendono incerta, sospesa, inattingibile: il mondo e gli uomini non li possiamo conoscere, possiamo solo rappresentarli come a teatro, spesso nei modi più grotteschi. 

 

Il nazismo avanza nuovamente, in molti modi antichi e nuovi, la natura e la bellezza vengono distrutte metodicamente. Dice il professor Robert, nel secondo atto, guardando verso il Burgtheater: “Quel che è rimasto a questo povero popolo minorenne / non è altro che il teatro / L’Austria stessa non è altro che un palcoscenico / sul quale tutto è depravato deteriorato e decomposto / una compagine di comparse detestata da sé stessa / fatta di sei milioni e mezzo di abbandonati a sé stessi / che ininterrottamente gridano a squarciagola reclamando un regista / e il regista verrà / per spintonarli definitivamente giù nel baratro (Heldenplatz, traduzione di Rolando Zorzi nel libro Garzanti, non più stampato, del 1992).

 

Atto terzo: l’ultimo pranzo.


Non si può non riconoscere in questo pezzo una sarcastica parafrasi del Macbeth nel suo momento più sconsolato (“La vita è un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco e poi non se ne sa più niente. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, che non significa niente”, atto V, scena 5). Così come in Schuster non si può non vedere un detronizzato re Lear dei nostri giorni (il personaggio shakespeariano ricorre più volte nel teatro dell’autore austriaco, popolato di vecchi cui diede corpo e voce l’impareggiabile Bernhard Minetti). L’assente Schuster è un Lear lontano, chiuso in sé stesso, verso il precipizio, spinto verso la tempesta impetuosa di tempi nuovi dal sinistro sapore già provato.

L’opera si concluderà nel salone svuotato, con un pranzo dopo il funerale. I personaggi sono seduti su sedie di fortuna, utilizzando anche valigie e bauli, dice la didascalia. Ancora conversazioni, futili a momenti, serie, tese in altri. Un convitato: “Sta succedendo proprio questo / quel che gran parte degli austriaci vuole / è che domini il nazionalsocialismo / sotto la superficie il nazionalsocialismo / è già tornato da un pezzo al potere”. 

E intanto riemerge la tempesta delle voci del discorso di Hitler e della folla festeggiante: la sente solo Frau Schuster, che rimane impietrita, e la udiamo noi spettatori a poco a poco salire dalle finestre aperte, montare sempre sempre di più fino a sovrastare con il suo frastuono insopportabile le parole di tutti. 

 

Manifestazione contro Bernhard davanti al Burgtheater la sera della prima di Heldenplatz.


Nel 1986 Jörg Heider diventa segretario del Partito della libertà austriaco, imprimendogli una svolta dal liberalismo verso un populismo nazionalista, xenofobo, razzista. Nel 1984 Umberto Bossi fonda la Lega Lombarda. Nel 1991 inizieranno le guerre nazionaliste nella ex Iugoslavia.

Bernhard fiuta il nuovo clima spirante non solo in Austria ma in tutta Europa. Ma non si limita a descrivere: senza didascalismi, con il suo stile bruciante, aggressivo, labirintico, apodittico, denuncia le cause, toglie le maschere, rivela intrecci perniciosi. Tanto che la prima rappresentazione dello spettacolo al Burgtheater di Vienna con la regia del fedele Claus Peymann si svolgerà tra le contestazioni violente e gli applausi, con la piazza antistante piena di striscioni contro lo scrittore “antipatriottico”. La direzione del teatro nel gennaio del 1989, poco prima della morte dello scrittore, pubblicherà un dossier con “trecento pagine di lettere minatorie, insulti, articoli scandalistici e diffamatori”, come si legge nella nota biografica pubblicata in calce al volume Thomas Bernhard: un incontro, edizioni SE. Il presidente Waldheim, ex nazista eletto nel partito cattolico, aveva scritto che riteneva questa pièce un insulto al popolo austriaco.

 

Bernhard muore della malattia polmonare che da sempre gli aveva tagliato il respiro il 12 febbraio del 1989. Nel testamento vieta per sempre la rappresentazione e la pubblicazione dei propri scritti in Austria.

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Fuga in Europa

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“A sud del Sahara quattro abitanti su dieci non erano ancora nati il giorno del crollo dei grattacieli del World Trade Center”. Basterebbe questa frase del libro di Stephen Smith per comprendere la grandezza delle cifre e dei dati demografici che stanno alla base dei fenomeni migratori attuali. La demografia non è una variabile facilmente controllabile e spesso produce effetti superiori a quelli di molte scelte politiche. La demografia ha spesso dettato i ritmi della storia e, ci spiega Smith, lo farà anche nei prossimi vicini anni. Un dato questo che rende ancora più vaghi e vani i proclami di certi leader che promettono muri e blocchi.

 

In un’epoca in cui le migrazioni sembrano divenute l’unico problema che assilla il genere umano, e ne assilla la parte più sedentaria, in cui le parole si sprecano in una cacofonia di opinioni spacciate per verità, leggere un libro come Fuga in Europa, è una sorta di terapia, magari non indolore, ma che serve davvero a comprendere cosa accade sotto i nostri cieli. Giornalista di Libération, Smith compie una dettagliata analisi dei movimenti tra quella che lui chiama l’isola-continente di Peter Pan e l’Europa, basandosi essenzialmente sui dati e in particolare quelli demografici. In un continente la cui popolazione è di circa un miliardo, solo il 5% degli abitanti supera i sessant’anni, mentre il 40% ha meno di 15 anni. Per fare un rapporto, la Francia, paese particolarmente prolifico, la percentuale dei giovani è la metà. Di quel miliardo di africani solo 150 milioni hanno un reddito giornaliero che va dai 5 ai 20 dollari e costituiscono il bacino di coloro che vogliono emigrare. Secondo un sondaggio fatto da Gallup il 42% degli africani tra i 15 e i 24 anni vogliono emigrare dal loro continente.

 

 

Ph Sebastiao Salgado.


Una base giovane così ampia è peraltro esclusa dal voto, portato a 18 anni in quasi tutto il continente, e quindi impotente a cambiare le cose nel proprio paese. La popolazione africana, peraltro, continuerà a crescere tra il 2,5 e il 3% sino al 2050 molto di più della media della popolazione mondiale. Se tale tendenza si conferma, nel 2100 quando il pianeta sarà abitato da 11 miliardi di persone, il 40 per cento di esse saranno africane.

Di fronte a un continente così giovane appaiono persino più comprensibili le difficoltà di molti stati africani ad assicurare istruzione e lavoro a una così ingente massa di ragazze e ragazzi, che peraltro sono per la maggioranza inurbati, abitanti di quelle megalopoli spesso sgangherate in cui ogni modello sociale stenta a definirsi. Questa massa giovane ha in gran parte abbandonato le tradizioni culturali che caratterizzano le aree rurali, vivono però una globalizzazione zoppa, vista dal basso. Le campagne vengono abbandonate all’inseguimento di un immaginario di modernità e nonostante in Africa ci sia il 60% delle terre fertili del pianeta, oltre 400 milioni di persone soffrono di malnutrizione cronica se non di carenze alimentari.

 

Se l’Africa trabocca di una gioventù avida di guadagnarsi un posto migliore, sul piano demografico l’Europa sta invece seguendo un andamento opposto, quello dell’invecchiamento. Per fare l’esempio italiano, nel 1951 c’erano 31,4 ultra sessantacinquenni ogni 100 under 15; nel 2015 ci sono 157,3 “anziani” over 65 ogni 100 ragazzi sotto i 15 anni. Si prevede che nell’arco di un decennio l’incidenza degli under 15 scenderà ancora passando dall’attuale 13,7% a meno del 12%. Secondo le Nazioni Unite nei prossimi decenni l’Europa dovrà accogliere 50 milioni di migranti per mantenere il suo numero di abitanti e se vorrà stabilizzare la sua popolazione attiva si dovrebbero raggiungere gli 80 milioni. Abbiamo bisogno di giovani e non potranno che venire dall’Africa. Che piaccia o meno, molto probabilmente nel 2050 avremo tra i 150 e i 200 milioni di afroeuropei. 

 

Infine, Smith ricorda le ciniche parole di Malthus, che risultano però di drammatica attualità: “Un uomo nato in un mondo già occupato, se non può ottenere dai genitori la sussistenza che può giustamente attendersi da loro, e se la società non ha affatto bisogno del suo lavoro, non ha il diritto di pretendere la più piccola porzione di cibo e, di fatto, è di troppo in questo mondo. Nel grande banchetto della natura non c’è alcun coperto vacante per lui. Sicché la natura stessa gli ordinerà di andarsene…”

In un mondo chiuso e immorale, come sembra sempre più diventare quello dell’Europa, questa sembra essere la sorte delle prossime generazioni africane, ma forse non sarà così.

 

S. Smith, Fuga in Europa. La giovane Africa e il vecchio continente, Einaudi, pp. 164, Euro 20.

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La giovane Africa e il vecchio continente
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Umberto Simonetta: un paroliere di lusso

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Parlando con un amico, faccio il nome di Umberto Simonetta. Dallo sguardo, capisco che non gli dice molto. “Sai chi è, no? Lo scrittore, quello di Tirar mattina, Lo sbarbato, Il giovane normale…”. Niente. “Ma la ballata del Cerutti Gino la conoscerai…” “Eh! Certo! Giorgio Gaber!” “La musica è di Gaber, ma le parole sono di Simonetta. Come anche quelle di Una fetta di limone, Trani a gogò, Porta romana, Le nostre serate, Il Riccardo…”. Le accenno una dopo l’altra. “Belle! Pensavo fossero di Gaber…” “Te l’ho detto: musica di Gaber, testo di Simonetta” “Ah però, bravissimo! Mica male!”. 

Oltre che scrittore e autore teatrale di successo, Umberto Simonetta (Milano, 1926-1998) è stato un paroliere tra i più originali e innovativi dell’epoca in cui nasceva in Italia quella che si sarebbe poi chiamata canzone “d’autore”. 

 

Tra gli anni ’50 e i ’60 del secolo scorso diversi poeti e scrittori, da Calvino a Fortini a Pasolini e altri, si misuravano con la canzone (allora canzonetta). L’intento era quello di dar vita a un prodotto popolare “di qualità”, da contrapporre ai prodotti di consumo (o “di evasione”, come si diceva in quegli anni). Nel caso di Calvino e Fortini, la proposta veniva dal gruppo torinese di Cantacronache; Pasolini, invece, si improvvisò paroliere su invito della sua amica Laura Betti. Le strategie in vista di una riqualificazione della canzone erano differenti da un autore all’altro, naturalmente, ma una cosa avevano in comune: il tentativo di far riaffiorare, nei testi, quel mondo “reale” che nella canzonetta veniva rimosso, o avvolto nel marzapane di una poeticità di maniera. L’esperimento purtroppo durò poco e non ebbe seguito: messi alla prova come parolieri, gli scrittori italiani faticavano a adattare la loro scrittura alle esigenze della parola cantata. I loro testi -nati sulla pagina- messi in musica rivelavano una ruvidezza letteraria che a tratti era quasi più stridente di quella della pseudopoesia canzonettistica.

 

Nelle canzoni di Calvino (penso a Canzone triste, Oltre il ponte, Dove vola l’avvoltoio) la versificazione stentava a star dietro al metro musicale; in quelle di Fortini (anche la bellissima Quella cosa in Lombardia, musica di Fiorenzo Carpi) si incontravano frasi come “vanno a coppie i nostri simili quest’oggi”, che nessun parlante italiano avrebbe mai pronunciato in quella famosa realtà che doveva essere il punto d’arrivo della canzone “riformata”.

Nemmeno questi generosi tentativi riuscivano a eliminare l’effetto di innaturalezza che – in una pagina de Il giovane normale di Umberto Simonetta (1967) – l’intellettuale Nelson riscontra nella canzonetta cantata dal protagonista, Giordano:

 

Tic tic tic,

nell’auto c’è un tic tic tic.

Che cosa sarà?

L’accensione?

La frizione?

Il cassetto?

Lo specchietto?

(…)

O che ira ti dà 

questo tic che prosegue insolente…

 

“Tutte quelle parole in un italiano vecchio, scolastico…” – sghignazza Nelson. Sono sicurissimo che tu Giordano non dici mai, per dire che sei incazzato: o che ira mi dà…”

 

Nei testi scritti da Pasolini per Laura Betti, la letterarietà della canzonetta (di cui nemmeno la canzone “d’autore” riusciva a liberarsi) viene decisamente travolta: nel testo di Macrì Teresa detta Pazzia, l’uso del romanesco produce un effetto bruciante di realtà, di genuinità. Purtroppo, la musica (il jazz di Piero Umiliani) annulla e anzi distorce questo effetto, dando alla canzone un imbarazzante sapore da telefilm americano.  Il problema, insomma, non è solo quello di creare dei testi “alternativi” ai modi della canzonetta: si tratta di trovare un punto d’incontro fra testo e musica. Per farlo, non basta che il testo di partenza sia di buona qualità: occorre una solida sintonia tra paroliere e musicista, che può nascere solo da una lunga collaborazione. I poeti e gli scrittori italiani che in quegli anni accettano di misurarsi con la canzone si limitano a fornire i loro versi al compositore, senza che tra autore della musica e autore del testo ci sia un vero confronto. 

Nelle canzoni che Simonetta scrive per Gaber, invece, non si avverte nessun contrasto tra musica e parole. Simonetta è tutt’altro che un paroliere mestierante: è uno scrittore, un letterato, un intellettuale; ma riesce – senza sforzi apparenti – a evitare quegli effetti di legnosa letterarietà che gravano tanto sulla canzonetta quanto sulla canzone “d’autore”. 

 

Per capire la qualità del suo lavoro, è utile confrontare il testo di una delle prime canzoni scritte per “I due corsari” (Gaber e Jannacci), Una fetta di limone (1959), con quelli di due pezzi dello stesso periodo, Geneviève, di Gaber, e Ciao ti dirò, di Gaber Tenco e Reverberi. Ecco qualche verso di Geneviève (1959): “Quando tu/eri ancor/l’amor/Geneviève/solo allor/ la mia vita/ ignorava il dolor”. Ed ecco un saggio di Ciao ti dirò (1958): “Giurami che tu/ ami solo me/ pupa non scherzar/ voglio il tuo amore solo per me/ se no ciao ti dirò/ pupa ciao ti dirò…”. Infine, leggiamo qualche verso da Una fetta di limone, di Simonetta:

 

Non voglio cento sacchi

né il grano per gli intappi,

né i regalini a mucchi.

Sei ricca ma sei racchia,

per me sei troppo vecchia,

per questo non mi cucchi.

Dimmi che vuoi da me.

 

 

In Geneviève ritroviamo gli amor, i dolor, gli allor della canzonetta;  Ciao ti dirò si dà arie più “moderne” (la musica è un rock), ma il suo linguaggio, che vorrebbe essere aggiornato e “giovanile”, non ha mai circolato fra i ragazzi dell’epoca: “pupa” è un termine che solo in qualche film di gangster poteva trovare spazio.  Ben più credibile è il gergo con cui Simonetta gioca nei suoi settenari martellanti, inventando la contro-serenata di un ragazzotto a una “tardona”: grano, intappi, racchia, cuccareUna fetta di limoneè un crepitare leggero di rime, assonanze, allitterazioni, uno scherzo (un po’ nello spirito del rock di Boris Vian), ma le sue radici affondano nella realtà della Milano di quegli anni, la stessa descritta vivissimamente nei romanzi dell’autore. 

 

La strategia di Simonetta, come quella degli scrittori e dei poeti suoi contemporanei che si misurano con la canzone, è quella di contrapporre la cruda realtà quotidiana alle melensaggini della canzonetta. Ma mentre nelle canzoni di Calvino, Fortini, Pasolini, la realtà si presenta nei suoi aspetti più seri, la “contro-canzonetta” del paroliere di Gaber ha una speciale predilezione per la banalità più grigia, per il terra-terra. Così, il termine whisky a-go-go, in voga in quegli anni per definire i locali notturni alla moda, diventa Trani a gogò (trani si chiamavano le osterie più squallide della Milano di allora):

 

C’è un vecchio barista

dall’aria un po’ triste

che si gratta in testa

poi serve un caffè

e un toast a me,

nel trani a gogò. 

 

Ci son quattro dischi,

due tanghi una polka,

un’antica mazurka,

due mosci fox-trot,

e il twist non c’è,

nel trani a gogò. 

 

Quello che caratterizza i primi testi di Simonetta per Gaber è innanzitutto che non si parla d’amore, com’era quasi d’obbligo nella canzonetta di quegli anni. D’altra parte, ciò che li differenzia dalle canzoni “d’autore” degli stessi anni è che non si fa nemmeno denuncia sociale. La realtà non viene sottoposta a uno sguardo critico, dall’alto: viene osservata da dentro, con un sorriso malinconico e sottilmente complice (in Trani a gogò, a parlare è uno degli avventori). 

 

Anche nel suo testo forse più famoso, La ballata del Cerutti (1961), Simonetta gioca al ribasso. La canzone – come risulta fin dal parlato iniziale – è una parodia delle ballate folk americane allora in voga in Italia (Tom Dooley del Kingston Trio, La ballata di Davy Crockett, evocate nell’arrangiamento dal banjo), ma anche – senza dichiararlo – delle “canzoni della mala” lanciate da Ornella Vanoni e altri in quegli anni. Il nostro eroe non vive in Oklahoma ma al Giambellino, periferia di Milano e, prima che col suo titolo da bulletto (“Drago”), viene presentato molto prosaicamente col cognome e nome, Cerutti Gino. 

 

Il suo nome era

Cerutti Gino,

ma lo chiamavan Drago.

Gli amici, al bar del Giambellino,

dicevan ch’era un mago.

 

Come in altre sue canzoni e nei suoi romanzi, anche qui Simonetta utilizza un linguaggio molto vicino al parlato, con sprazzi di gergo. E qui apro una piccola parentesi “filologica”. Nelle versioni in circolazione, la strofa che racconta l’arresto del Gino dopo il tentato furto della Lambretta recita così:

 

Ma che rogna nera quella sera,

qualcuno vede e chiama.

Veloce arriva la pantera,

e lo vede la madama. 

 

Nella versione che ho in testa io, l’ultimo verso dice “se lo beve la madama”. La madama, naturalmente, è la polizia, e il verbo bere (utilizzato in questo senso anche in Tirar mattina: “Si sono bevuti il Berti”) significa, in gergo, arrestare. La mia versione “a orecchio” mi sembra corroborata anche dal fatto che nella strofa in circolazione il verbo vedere viene ripetuto due volte (“qualcuno vede… e lo vede…”), con un effetto di sciatteria stilistica, ma soprattutto dal senso dell’evento descritto: la madama non si limita a “vedere” il Gino (e poi andarsene, magari), ma lo arresta, come si apprende nelle strofe seguenti. All’autore non si può chiedere più nulla, purtroppo, e in mancanza di alternative il testo ufficiale rimane com’è. Pazienza. Chiusa la parentesi. 

 

La ballata del Cerutti non è solo una parodia: anche qui, come in Trani a gogò, a prevalere sulle punte del comico è un sorriso benevolo che “salva” il Gino prendendo bonariamente in giro lui e il suo ambiente. L’umorismo di Simonetta non è mai moralistico, aggressivo: nella sua vena c’è sempre una malinconia di fondo, che emerge pienamente in canzoni come Porta Romana (1963) o Le nostre serate (1963):

 

Molti mi dicono

“Sei fortunato

tu che hai trovato

un lavoro sicuro,

bello, tranquillo,

interessante

e che ti rende 

decentemente”.

 

Io penso alle nostre serate

stupide e vuote. 

“Ti passo a prendere?

Cosa facciamo?

Che film vediamo?

No, l’ho già visto.

Tutto previsto. 

 

Quello che colpisce, in canzoni come questa, non è solo l’originalità e la delicatezza nello svolgimento del tema d’amore, ma anche l’eleganza metrica. Simonetta paroliere riesce a scrivere – grazie anche alla sensibilità musicale di Gaber – un’intera canzone senza nemmeno una tronca, un amor, un dolor.  I suoi versi scorrono con la naturalezza del parlato, con un effetto di genuinità, di grazia (non esibita), che a distanza di tanti anni continua a emozionarci. 

 

Nel ventesimo anniversario della scomparsa di Umberto Simonetta (1926-1998), si è svolto ieri 2 ottobre, presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Viale Pasubio, 5 –Milano, l’incontro “Un milanese non tanto regolare. L'intrattenimento irriverente di Umberto Simonetta”. Hanno partecipato Gianni Turchetta, Umberto Fiori, Luca Daino, Alberto Bentoglio, Piero Colaprico, Andrea Aveto, Vittorio Zucconi, letture di Luca Sandri. Pubblichiamo qui l’intervento di Umberto Fiori.

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La follia nella gratitudine

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“Se ti faccio un regalo, tu pensi: ‘Oh! che cosa vorrà in cambio?’, e dici: ‘No no no, grazie, non posso accettarlo, sei troppo gentile’ [risate], ‘Sì sì sì, ci tengo!’ Che rapporto di forze! Te lo metto in mano, te lo ficco in tasca…” ( Gilles Deleuze, Il potere, Ombre Corte, p. 47). 

 

Gratitudine e ringraziamento

 

Gratitudine e ringraziamento non sono la stessa cosa. Il ringraziamento consiste in un gesto, la gratitudine è sentimento. Il gesto è qualcosa che si fa, il sentimento qualcosa che si sente. Si dice: ringrazio l’altro perché provo un sentimento di gratitudine, ma è sempre così? Oppure il ringraziamento, soprattutto di questi tempi, nasconde sentimenti di sottomissione, ben diversi dalla gratitudine? 

Da piccoli abbiamo imparato le raccomandazioni che ci accompagnano durante il corso della vita: “Saluta la signora Bice!”, “Ringrazia lo zio che ti ha regalato il trenino!”, “Telefona al signor Augusto, che ti ha raccomandato per quel posto di lavoro!”, “Forse è il caso che offra una cena al professore, che mi ha aiutato per passare il concorso”, oppure “Magari gli parlo del mio concorso”, “ Non voglio disturbare”, “Permettimi di insistere”. 

Non sto sostenendo che ciò sia disdicevole, sono interazioni, pratiche educative palesi o nascoste, costitutive del nostro sistema di vita. Sono le nostre “ontologie”, detta in volgare: così vanno le cose qui da noi. Non si tratta di esaltare queste pratiche, come accade al moralista, né di condannarle, come accade al radicale. Per me, si tratta di descriverle. Come ha fatto Norbert Elias (1897-1990) che ha compilato interi volumi per descrivere in dettaglio le formazioni storiche compromissorie – che, nel mio linguaggio, sono i sintomi nevrotici di un’epoca – e ha chiamato quest’epoca “civiltà delle buone maniere”. 

 

L’ultimo uomo

 

Friedrich Nietzsche (1844-1900), prima di Elias, criticò questi sintomi sostenendo che l’ultimo uomo ammicca, è un adulatore. I sentimenti dell’ultimo uomo, così lo chiama Nietzsche, sono dissimulati, mostrano il loro carattere di merce di scambio, ma se glielo riveli, l’ultimo uomo lo nega e si offende. Come si permette il filosofo di dubitare dei miei sentimenti? Nasce l’ermeneutica del sospetto, di cui si occupa Paul Ricoeur (1913-2005). Chi è l’ultimo uomo? Nietzsche risponderebbe: l’ultimo uomo è chi ringrazia sempre chi sta sopra e disprezza sempre chi sta sotto. Ma l’adulazione viene smascherata dal fanciullo: “Il Re è nudo!”. 

 

Opera di Hiroshi Nagai.


Tuttavia le cose assumono reciprocità. Un tempo, quando le “buone maniere” non c’erano, il gioco dello scambio era governato dalla rovina delle parti, le “buone maniere” hanno cacciato la dissipazione nell’inconscio. Ciò che in alcuni contesti – tra i nativi nord-americani – è stato chiamato potlatch è un sistema di scambi destinato a dissipare le ricchezze delle parti per stipulare gerarchie di potere all’interno di una comunità, pratiche di umiliazione da parte di chi è potente, verso chi non lo è. La riparazione di queste pratiche consiste nell’immolazione periodica del potente; sacrificio per gli dei. Ne hanno scritto in molti: Marcel Mauss (1872-1950), Georges Bataille (1897-1962), alcuni autori della Scuola di Francoforte (sorta intorno agli anni Venti del secolo scorso) e, più recentemente, René Girard (1923-2015). Bataille definisce tutto questo processo di scambio simbolico come “dissipazione”. La dissipazione è un processo sociale remoto, dimenticato, tanto da essersi trasformato in un processo sociale inconscio, coperto dalle regole delle buone maniere, che tuttavia ribolle nell’animo di ognuno di noi. 

 

L’opulenza

 

Thorstein Veblen (1857-1929) coglie una caratteristica della dissipazione, sotto il velo delle buone maniere, anche in epoca moderna quando descrive La società opulenta. Veblen smaschera l’ipocrisia di chi, come Max Weber (1864-1920), pensa al capitalismo come società razionale, governata dalle leggi calviniste del risparmio, abitata da attori che calcolano il rapporto costi-benefici. Veblen invece si domanda come mai esista ancora il lusso, come nelle società pre-capitaliste. 

Il lusso è plusvalenza e minusvalenza allo stesso tempo, produce sentimenti opposti: ricchezza/invidia, superiorità/risentimento, grandeur/gelosia, umiliazione/rancore, adulazione/odio. Un tempo questi sentimenti erano sublimati dal sacrificio periodico agli dei del potente, oggi sono censurati dalle buone maniere, ma si vedono negli sfrisi che subiscono le auto di lusso, nelle arrampicate politiche e manageriali orientate a vendicarsi, a fare piazza pulita, anziché ad amministrare la res pubblica. 

Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Nietzsche se la prendono con il mercato. Hanno visto lontano, oggi il mercato è un imperatore collettivo e crudele: decide se un governo è o meno buono, produce sindromi bipolari negli investitori, dilapida i risparmi dei sudditi, ecc. A differenza di Marx, chi sfida il mercato per Nietzsche non è la classe operaia; è il folle. Ricordate? “Cerco Dio! Cerco Dio!”, il mercato è la morte di Dio. Che significa questa frase detta da un ateo impenitente?

 

Gli antichi, sapevano di avere a che fare con la potenza distruttiva degli dei: le corde per ascoltare le sirene, il vino per ubriacare il ciclope, il travestimento da mendico, o, in altro contesto, l’arrivo dell’angelo che ferma la mano del padre, sostituendo il figlio con il capro. Le corde, i legami, il vino, l’ebrezza, il travestimento, la dissimulazione, il capro, la sostituzione sono gli elementi che salvano Anthropos dalle potenze distruttive. Tra gli antichi, accanto alla dissipazione, si trova anche il suo opposto: la sostituzione, la mediazione. Il primo elemento di illuminismo si incontra quando Ulisse si orienta secondo i suggerimenti di Atena, figlia di Metis.

 

La gratitudine: un’iperbole

 

Ma la gratitudine ha qualcosa che si sottrae al ringraziamento. Se lo scambio è costitutivamente ineguale, lo è anche la gratitudine, ma in senso opposto. La gratitudine trasgredisce lo scambio, è iperbolica. Come sostiene Jacques Derrida (1930-2004) nel suo lascito sul perdono (Derrida, Perdonare, Raffaello Cortina), ciò che è assente nel gesto di ringraziamento è presente nel sentimento di gratitudine, un sentimento che richiede coraggio. Va ben al di là dell’idea di giustizia. La gratitudine è un sentimento folle, capovolto, paradossale. Scorgo un ladro in casa mia, un clandestino nella mia comunità; gli offro qualcosa: prendi ciò che vuoi e, mi raccomando, torna a trovarmi, tu mi sottrai ciò che non mi permette di vivere una buona vita, mi sottrai l’eccedenza, il rischio di esagerare. Questo sentimento, nei versi di Shakespeare si può esprimere così:

La qualità della gratitudine non si forza./ Cade come la pioggia gentile dal paradiso/ Sulla terra in basso: è due volte benedetta:/ Benedice colui che la esercita e colui che la riceve./ È la più potente tra le potenze; diviene:/ Al monarca in trono migliore della corona./ Il suo scettro mostra la forza del potere temporale,/ Attributo di rispetto e maestà,/ Dove risiede il terrore che incutono i re./ La gratitudine sta sopra lo scettro,/ Ha il suo trono nel cuore dei re;/ È attributo di Dio stesso;/ E il potere temporale appare simile a quello di Dio/ Quando la gratitudine tempera la giustizia.

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Oriana Fallaci: sul fronte del cinematografo

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Figura ingombrante e in molti sensi difficile, Oriana Fallaci ha attraversato da protagonista la seconda metà del Novecento, muovendosi con agio e con piglio sicuro in ambiti fino ad allora impensabili per le donne: basti ricordare la sua tenace presenza come inviata di guerra in numerosi e infuocati fronti, a partire dal Vietnam, e le celebri interviste ai potenti della Terra, condotte con garbo e rigorosa impertinenza. Ma al di là delle immagini, ormai proverbiali, di lei che calza l’elmetto militare o che si scopre spavaldamente il capo al cospetto di Khomeini, ciò che più colpisce della sua intensa vita professionale è l’invenzione di inedite modalità di scrittura, felicemente in bilico fra letteratura e giornalismo, caratterizzate da una cura estrema per lo stile e da un meticolosissimo lavoro di documentazione. Di fronte alla ricchezza, alla originalità e alla vivace intelligenza dei testi che ha lasciato, emerge una sconcertante mancanza di studi, per lo meno in ambito italiano, dedicati a un corpus tanto eccezionale. A tale disinteresse hanno certamente contribuito, da un lato, il carattere ibrido della sua scrittura, che travalica i confini del giornalismo, frequenta ambiti disparati, dalla politica alle cronache mondane, dai viaggi nello spazio al divismo cinematografico, sfuggendo alle definizioni letterarie canoniche; dall’altro lato, l’eccesso di visibilità della sua persona pubblica, unito all’immagine di sé costruita negli anni dalla scrittrice, hanno prodotto una sorta di inscalfibile maschera mediale a salvaguardia di una dimensione intima, privata e inaccessibile; e infine, in maniera forse ancor più forte, è intervenuto lo stigma ideologico che, negli ultimi tempi, ha legato a doppio filo il nome di Fallaci alla crociata anti-islamica ingaggiata all’indomani dell’11 settembre. 

 

 

Ecco, ciò detto, credo che la sua scrittura e anche la sua esistenza, così radicalmente anticonvenzionale, debbano essere finalmente indagate, a partire - ed è ciò che mi propongo di accennare in queste righe - dai numerosi e imperdibili testi dedicati al mondo del cinema, che «nessuno si è dato ancora la pena di inventariare e di studiare in modo approfondito» (Alberto Boschi, L’antipatica. Oriana Fallaci scrittrice di cinema, «La valle dell’Eden», 2017). Difatti, giovanissima e già attiva nel giornalismo italiano, Fallaci mette a punto il suo sguardo acuminato e i suoi affilati strumenti professionali proprio nei dintorni dello schermo, per così dire, in quello spazio liminare e vischioso dove si incontrano la cultura popolare e i personaggi dello spettacolo. Ha soltanto ventidue anni quando entra a far parte - rarissima presenza femminile - della redazione di «Epoca», e ne ha ventiquattro quando la lascia per passare a «L’Europeo». È alle prime armi ed è una donna, dunque si trova fatalmente destinata a un comparto per tradizione considerato “femminile”, vale a dire la cronaca mondana e di costume. Da lì - e con malcelato fastidio - si affaccia su uno scenario che sente estraneo e frivolo, ma lo fa alla sua maniera. Si inventa un modo del tutto personale di scrivere e di guardare, riuscendo a trovare una postura che le consente di restituire le sottigliezze e persino le minute sfumature del mondo dello spettacolo senza venir meno a se stessa. La sua scrittura, infatti, ci consegna, ad un tempo, i divi e i personaggi del jet-set e i contorni, ben saldi, di colei che li osserva e li ritrae per il pubblico. Così, in circa quindici anni, dal 1955 al 1970 (e con puntate successive, come testimonia ad esempio il commovente articolo dedicato a Ingrid Bergman all’indomani della sua scomparsa, La vita coraggiosa della mia amica Ingrid, «L’Europeo», 13 settembre 1982) compone un vivido e ironico affresco del mondo del cinema. Comincia da Hollywood, dove è inviata nel 1957, sorta di insospettabile e soave Mata Hari, come la definisce Orson Welles nella prefazione al volume che scaturirà dall’esperienza americana (I sette peccati di Hollywood, Longanesi, 1958), ed approda a Cinecittà, al languido e fascinoso provincialismo della nascente dolce vita. 

 

Per comprendere la peculiarità del suo tratto, capace di alternare diverse maschere, è utile soffermarsi su un articolo pubblicato su «L’Europeo» il 9 novembre 1958, Donne, cravatte e tasse, (ora in Oriana Fallaci, L’Italia della dolce vita, Rizzoli, 2017) che testimonia l’approccio corale di Fallaci, e la sapiente costruzione di una tessitura che sembra guardare allo schermo e ricavarne una specie di sceneggiatura; o meglio la novellizzazione di un film immaginario: ci troviamo di fronte a una galleria di spin off ante litteram, nella quale compaiono, accuratamente messi in scena, personaggi e schegge cinematografiche differenti. Nei primi anni, raramente gli articoli sono dedicati ad un’unica personalità: più di frequente tratteggiano un ritratto di gruppo, offrendo delle istantanee a tema dedicate, via via, alle attrici e alle mamme delle attrici, ai registi, ai produttori o, come in questo caso, agli attori. Nel brillante Donne, cravatte e tasse Fallaci cuce insieme tre incontri - con Amedeo Nazzari, Raf Vallone e Alberto Sordi - trovando per ciascuno una diversa e calzante misura. 

Comincia con Amedeo Nazzari, al quale l’autrice guarda con scoperta simpatia, quasi con tenerezza, sottolineandone l’umiltà e il garbo e riservando invece le punte feroci della sua ironia a una figura minore, quella del segretario, che la giornalista descrive in modo sapido, mettendone in ridicolo la pomposa arroganza, come se il vero divo fosse lui:

 

Guidando sulla Via Cassia, il segretario del divo aveva un’aria molto solenne. «Inutile fare i modesti» diceva. «Lui è un divo sul serio: l’unico autentico divo che sia rimasto a Cinecittà. Vive da gran signore, non riceve nessuno. Certo è una generosa eccezione quella che ha fatto per lei.» Il segretario era atletico, con i baffetti e la voce baritonale: proprio come il divo al quale è orgoglioso di assomigliare. Dinanzi al portone della villa suonò il clacson con impazienza: per dimostrarmi che lì dentro è di casa. La villa è cintata da un muro che la protegge dagli sguardi indiscreti: come quella di Mary Pickford a Hollywood. Il portone è di legno pregiato, con le maniglie d’ottone che brillano al sole come gioielli. Il maggiordomo venne ad aprire: estremamente severo sotto la giacca inamidata. L’auto del segretario scivolò lungo il viale pavimentato di mattonelle. […] 

Il maggiordomo fece un inchino e ci pregò di seguirlo. Sui pavimenti lucidi il segretario scivolava un pochino. I suoi occhietti esperti mi fissarono per vedere se fossi turbata dall’incontro ormai imminente col divo e dallo sfarzo del luogo: arazzi, tappeti persiani, quadri d’autore, il pianoforte a coda. In fondo al salone c’era il bar coi bicchieri di cristallo e i vassoi d’argento coi grissini rivoltati nel prosciutto e le tartine spalmate di caviale. Veniva da un altro salone l’eco di una conversazione in inglese. Lo psicologo meno scaltrito avrebbe giurato che in quella scenografia il divo si muoveva solo in giacca da camera di velluto cremisi, adorna di nappe, dando ordini secchi e ascoltando Beethoven. 

 

Amedeo Nazzari con Giulietta Masina ne “Le notti di Cabiria”.


Nazzari, invece, la accoglie con cortese timidezza e, in una certa misura, con l’imbarazzo di una persona semplice e per bene calata, quasi suo malgrado, nelle fattezze del divo:

 

[…] si udì un colpettino intimidito di tosse e un ormone dal sorriso bonario, vestito di grigio, venne avanti spiegando che gli dispiaceva essersi fatto pregare, chissà cosa avevo pensato di lui, lui non è mica un tipo che ami farsi pregare, purtroppo i giornalisti gli mettono addosso un acuto imbarazzo, così esita a vederli, ma i giornali li legge lo stesso, tiene in cantina dieci anni di settimanali, se non ci credevo me li avrebbe mostrati. «E intanto permetta che mi presenti: Amedeo Nazzari, molto piacere». 

Sul volto lungo, appena increspato dagli anni, tremava un’ansia sincera. Ma, per carità, mi sedessi. Che facevo lì in piedi? Gradivo un Martini? Corse al bar per preparare un Martini. «[…] Prenda una tartina. Sono fresche, le ho fatte stamani da me.» Il segretario lo guardò preoccupato: avvertiva il pericolo di una mia delusione. Cosa sarebbe successo se mi fossi accorta che il divo più divo di Cinecittà è un brav’uomo occupato a spalmare tartine? «Talora» disse compunto «il signor Nazzari si diletta di passatempi innocenti.» Nazzari lo guardò con sorpresa, senza capire. Poi mi consegnò la tartina.

 

Parlando di sé e della sua vita, Nazzari riflette sul lavoro dell’attore, e sulle circostanze che lo hanno spinto a tentare la carriera dello schermo, nonché sulle conseguenze derivanti dal successo:

 

«Avevo bisogno di soldi. Ma questo mestiere m’è sempre piaciuto pochino. È un mestiere da saltimbanchi. E io detesto fare il giullare. Poi, non mi piaccio. Non mi va la mia faccia, né la mia voce. La prima volta che mi vidi e mi ascoltai attraverso lo schermo, mi si chiuse lo stomaco.» Arrossì un poco perché lo aveva sfiorato il timore che non lo credessi sincero. Il segretario invece era pallido, alquanto indignato. «Il signor Nazzari è troppo modesto» esclamò. «Non c’è bisogno di far rilevare, è intuitivo, come tutte le donne siano innamorate di lui. Riceve in media cinquecento lettere al giorno.» Nazzari ebbe una risatina bonaria. «Facciamo cinquanta. E non gli dia retta. Le donne sono innamorate del divo, mica di me. Per questo non mi sono sposato. E Dio sa se mi piacerebbe avere moglie e bambini. Quando ero in Argentina o in Spagna, dicevo: “Amedeo, qui la moglie la trovi. Non ti conosce nessuno, ti puoi fidare”. E facevo progetti su una ragazza che sul più bello mi chiedeva l’autografo. Dico, ho proprio l’aria di un divo?»

 

Oriana Fallaci approfitta della domanda di Nazzari per concludere il resoconto del loro incontro, confrontando le bonarie stravaganze di questo gentiluomo d’antan con la stentorea aggressività dei divi d’oltreoceano: 

 

Non gli rispondete di sì. Gli dareste un grandissimo spiacere. Il Gran Seduttore di Cinecittà è un brav’uomo che la sera va a a letto alle dieci, per guardare la televisione stando disteso sul letto, e la mattina si alza alle sei e mezzo, il pomeriggio fa una passeggiatina a via Veneto dove si ferma a bere una tazza di tè. Lo avreste mai detto? Il suo hobby è l’allevamento dei polli: la produzione di uova in casa Nazzari basterebbe per portarle al mercato. Il suo terrore è passare per un “tombeur de femmes”. Con le donne è timido. Tutte le sue avventure amorose si risolsero per lui in delusioni cocenti. Quando gli chiedono l’autografo, soffre: come se si sentisse in gravissima colpa. Per molti anni visse insieme alla mamma alla quale ubbidiva come un fanciullo. Ora abita insieme a una sorella che si chiama Nina, ha tre anni meno di lui ed è una brava donna all’antica, coi capelli ormai grigi, il grembiule nero, e all’arrivo di un ospite si dilegua in camera sua a ricamare su una immensa tovaglia i titoli dei centoventisette film interpretati dall’adorato fratello.

Il cronista che vada a caccia di personaggi sensazionali fra gli uomini di Cinecittà, si trova quindi a disagio. Nessuno di loro possiede la grinta aggressiva di Marlon Brando, o la misteriosa inaccessibilità di Yul Brynner, o il tumultuoso capitale di scandali che ha Frank Sinatra.

 

La scrittrice non manca di una punta di ironia ma, tutto sommato, sembra congedarsi da Amedeo Nazzari con una certa dolcezza. Di ben altro tenore è il ritratto di Raf Vallone, con il quale prosegue l’articolo:

 

[…] Faceva il giornalista sulla terza pagina dell’«Unità». Laureato due volte, una in legge l’altra in filosofia, Vallone era deciso a diventare scrittore, quando gli capitò di intervistare De Santis e gli recitò Garcia Lorca. Il regista cercava un tipo spontaneo per il personaggio del soldato in Riso amaro. Gli offrì una cifra che superava lo stipendio di un giornalista. Vallone accettò. La sua giustificazione fu filosofica: «Nessuna arte» dice aggrottando la fronte «aderisce alla nostra cultura come quella del cinema, abbiamo, più di qualsiasi altro popolo, il gusto dell’immagine.» Divenne quasi subito un divo e, con la disinvoltura degli italiani che subiscono senza fatica i cambiamenti più inaspettati, ci si adattò. «Ha un volto antico e moderno, il più italico di cui disponga il cinema d’oggi» diceva Malaparte. E lui ama ripeterlo, quasi volesse convincersi che non è una bugia e giustificare meglio il fatto che lavora nel cinema. Malaparte, del resto, era suo amico. «Ci incontrammo prima che girasse Cristo proibito. Teneva sottobraccio alcune stampe di Masaccio e di Piero della Francesca. Mi parlò del film come della composizione di un quadro. Mi sembrò di sognare. Per la prima volta non mi trovavo oppresso dall’equivoco del dilettantismo professionale e morale del cinema, da una totale ignoranza del problema culturale ed estetico» racconta Vallone. E la sua voce di aggrava come se, fasciato nel frac, gli occhiali sul naso, tenesse un discorso a un banchetto di professori.

 

Raf Vallone con Lucia Bosé in “Non c'è pace fra gli ulivi”.


Vallone posa di fronte a Fallaci come un intellettuale progressista prestato al cinema, e lei da una parte ne mette in evidenza la sofisticata e vuota prosopopea, riferendone semplicemente le parole; e dall’altra tenta di riportarlo alla concretezza, al dato ineliminabile del suo volto abbronzato e del suo muscoloso corpo di divo:

 

[…] siede sulla terrazza della sua villa a Sperlonga, affacciata sul mare, e veste blue jeans, una camiciola che aderisce al torace robusto, calza zoccoli. […] Il teatro Antoine, dove recita Uno sguardo dal ponte ormai da otto mesi, gli ha concesso un po’ di vacanza che impiega leggendo Hegel e sant’Agostino o terminando la sceneggiatura di un film sulla rivolta ungherese col quale vorrebbe iniziare la carriera di regista. Come faccia a non prendersi l’esaurimento cerebrale, non lo so. Ma la sua civetteria consiste nel dimostrare che piglia tutto sul serio, e per lui recitare non è più un’avventura. «Questo cielo mi pulisce le meningi. Non immagina il tormento di recitare in una lingua che non era la mia. Per mesi ho fatto la vita di un monaco, chiuso in albergo col copione francese. Mi conforta il sapere che il pubblico abbia compreso lo sforzo.» È anche questa una civetteria per ricordare a se stesso che ha “spopolato”. L’ho visto la primavera scorsa a Parigi e la città era ai suoi piedi. […] «Finalmente ecco un uomo sul palcoscenico» gracchiava Coco Chanel accarezzandogli i bicipiti gonfi. «Ero stufa del terzo sesso che recita.» All’aneddoto, che conosce benissimo ma dice di non ricordare, il commento si fa quasi cupo: il ruolo di pin up boy non gli si addice. «Non era per i bicipiti. Era per la trasposizione del personaggio […].»

 

L’incontro con l'attore si conclude con un quadretto familiare che, chiamando a testimone la di lui moglie, Elena Varzi, la quale dopo il matrimonio ha voluto lasciare il lavoro di attrice e serenamente sopporta le avventure del marito, incornicia l’immagine seriosa e tronfia di un Vallone campione del patriarcato e della sua doppia morale:

 

Questo torinese nato a Tropea, orgoglioso come un uomo del Sud e disciplinato come un uomo del Nord, non si presta a interpretazioni umoristiche. […] Il suo concetto della famiglia è pressoché patriarcale. Gran seduttore, si arrabbia come una tigre quando i giornali raccontano che qualche celebre attrice ricambia la sua simpatia: l’armonia del focolare domestico non deve restare turbata da quelle schermaglie galanti. La celebre diva può chiamarsi Michèle Morgan, Maria Schell o Brigitte Bardot: dopo la schermaglia alla quale nessun italiano nato a Tropea riuscirebbe a sottrarsi, Raf si rifugia più innamorato di prima nelle braccia di Elena. Per nulla al mondo le farebbe un torto un po’ grave. E lei lo capisce. È una creatura mite e dolcissima, paziente come sanno esserlo solo le donne latine che sacrificano l’intera esistenza al marito. […] Ma nessuna equivale alla signora Vallone che per il marito rinunciò a una carriera sicura. Fu Elena Varzi solo in tre film. «Che mi importa,» dice convinta «di lavorare nel cinema? E poi come farei nelle scene d’amore, ad abbracciare un uomo che non è mio marito?» Lui ride ma è chiaro che il discorso gli piace e, tutto sommato, lo condivide. […]

C’è da posare dinanzi al fotografo e, divo o no, la famiglia deve posare riunita. Perfino quando Maria Schell andò a Roma, Raf accettò di farsi fotografare con lei a condizione che l’obiettivo inquadrasse anche Elena e i figli. Il vescovo di Prato ci troverebbe ben poco da ridire.

 

L’articolo prosegue con il racconto della spassosa conversazione, in un bar del centro, con Alberto Sordi, nel quale Fallaci ci consegna, attraverso le scelte di sintassi, di punteggiatura, di lessico e, nel complesso, attraverso il suo stile affilato, un saggio di scrittura propriamente cinematografica, dove la maschera dell’attore appare in tutta la sua rotondità, a partire dal momento della presentazione:

 

«Eh, eh! Alberto Sordi, Madame. Enchanté». Poi ci ripensa: «Vraiment enchanté». Poi ci ripensa ancora e mi fa il baciamano. Infine batte i tacchi, si gratta sinceramente impacciato la nuca, si mette a sedere e ordina una granita e un caffè. Il caffè è per me, la granita è per lui. «Chiariamo subito, Madame, che la granita la piglio perché mi piace: tirchio non sono. Io la conosco questa voce che circola. Chiariamo subito che se volessi potrei comprarmi il locale. Non lo compro perché non mi va. In questo momento mi va la granita.» Il locale cui allude è la Casina Valadier. Lo incontro qui perché sostiene di aver perso le chiavi di casa. In realtà non ha voluto che ci incontrassimo nella vecchia casa in Trastevere perché capisce che non è degna di un divo; e quella nuova non è ancora pronta.

 

Alberto Sordi con Oriana Fallaci.


Oriana Fallaci descrive l’abito, l’automobile e il segretario di Sordi, ossia gli indispensabili accessori di cui un divo, seppure vocato alla parsimonia, non può fare a meno: 

 

[…] È vestito con un doppiopetto grigio fumo molto bello. Il conto del sarto non lo spaventa. «Lei mi capisce, un attore si deve cambia’. E poi il sarto mi fa un prezzo speciale.» Lo accompagna il suo segretario ed è venuto con l’automobile. Il segretario è magro, senza cravatta e sta sempre zitto. Non ha chiesto nemmeno la granita o il caffè. L’automobile è la Millenove che Sordi vinse al Rally del cinema insieme al Pegaso d’oro. «Un chilo d’oro, Madame. Io la gara la feci per vincere, mica per regalare pubblicità alla donna che mi accompagnava. Così, ora di macchine ne ho due e la Mercedes (quella l’avevo comprata, come si fa?) resta sempre in garage. Beve benzina che non le dico. […]» 

 

La conversazione tocca svariati argomenti, dall’acquisto e relativa ristrutturazione della nuova casa del divo («un vero affare!»), alle sorelle Aurelia e Savina, che sono donne all’antica e si prendono amorevolmente cura del celebre fratello, cucinano per lui, tengono in ordine l’appartamento e preferiscono il tranvai alle moderne automobili. Nel frattempo:

 

Sordi vuota fino all’ultima goccia il bicchiere della granita, medita un poco col segretario per decidere se deve prenderne un’altra, decide di no, gli farebbe male allo stomaco, dà una ripassatina al bicchiere per accertarsi che sia proprio finita e si direbbe che stia recitando. Invece no, non recita mai senza contratto, escluso quando partecipa alle serate dei nobili. «M’invitano a cena, m’invitano alle crociere, con le belle donne che vestono bene, i bei camerieri coi guanti puliti, come faccio a rifiutarmi? Mi alzo, scatto, e compio questo dovere» ridacchia. E i suoi occhietti acutissimi, che vedono tutto e capiscono ancora di più mi fissano per accertarsi che non gli chieda una esibizione gratuita, è intelligente, non si esibisce mai a caso.

 

Pur nella cornice di autentico divertissement che abita il loro dialogo, Fallaci non mette in discussione l’intelligenza di Alberto Sordi, del quale riconosce la lucidità e la contezza di sé, anche nella scelta di resistere alle lusinghe hollywoodiane: è ben consapevole di essere un personaggio italiano, e sa che oltreoceano perderebbe il suo colore. L’ultimo argomento che viene affrontato è il più scottante e pernicioso: si parla infatti di matrimonio.

 

Il problema di prender moglie è sempre tormentoso in un divo che è scapolo. Ma per Sordi rasenta l’angoscia. «Vede, Madame, tutti me vogliono morto, voglio dire coniugato. Ma anzi tutto io mi son sempre governato da solo, ho le mie abitudini: come giocare a carte con amici fidati che, son sicuro, non barano. Poi ci ho le sorelle che mi stirano le camicie, cucinano bene e sostituiscono perfettamente la moglie che magari non sa stirare e pretende la cuoca. Poi queste donne d’oggi, così ardimentose, mi terrorizzano. […] Mica la rifiuterei una mogliettina. Tutte le volte che incontro una donna la guardo dicendo a me stesso: “Guardala bene, Alberto. Che sia questa qui?”.» Mi guarda bene: «Lei è sposata? No?». Tossisce impaurito. «E poi c’è il problema economico. Mettiamo che sposo una ricca. Quella si mette a spendere, abituata com’è. Mettiamo che sposo una povera. Quella fa economia ma si lamenta […] insomma mi tocca mantenere la sua famiglia. E le tasse? Sono un fiscalista nato e sto zitto, ma la moglie, se non è fiscalista? Vatti a sposa’! Quella parla.»

 

A questo punto Sordi teme di aver detto troppo, di essersi pericolosamente esposto con una sconosciuta, una giornalista per giunta, e la scena si fa irresistibilmente concitata. La chiusa dell’articolo, difatti, sembra mimare i personaggi impersonati dall’attore sugli schermi della commedia all’italiana, e la scrittura, sulla pagina, ne delinea abilmente la maschera:

 

[…] si interrompe fissandomi con sgomento. «Ma lei scrive. Scrive tutto! Poi me lo pubblica. Mamma mia, che ho fatto! Stia bonina, Madame. Lei mi rovina. Io facevo per ridere. Nun so’ mica così. Non facciamo scherzi, Madame, io sono un omo tranquillo. Ma guarda in che guai vado a ficcarmi per esser gentile.» E si allontana nella notte per raggiungere Mario Bonnard che lo aspetta per giocare a scopone.

 

È il 1958 quando questo articolo viene pubblicato: l’autrice ha appena ventinove anni, ancora non utilizza il magnetofono per registrare le sue interviste, e gli argomenti trattati sono ben lontani da ciò che più le sta a cuore. Eppure, è proprio parlando del mondo dello spettacolo, delle futilità buffe o fastidiose dei divi nostrani che crea lo stile delle “Fallaci interviews”, quelle che «verranno poi studiate nelle università americane» (Cristina De Stefano, Oriana. Una donna, Rizzoli, 2013, p. 179). L’essenziale del suo personalissimo approccio è già interamente qui: la maestria nel restituire gli incontri in forma di racconto, la scelta di parlare in prima persona e, soprattutto, di fare di se stessa un personaggio, mettendosi in scena accanto ai suoi interlocutori, e rivolgendosi con schiettezza al pubblico. Insomma, è sul “fronte del cinematografo” che nasce il suo stile, e forse è proprio da qui che si potrebbe cominciare a rileggere e finalmente a studiare il lavoro e la figura di Oriana Fallaci.

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Giuseppe Pontiggia, uno sconfinato amore per la ragione e la letteratura

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Giuseppe Pontiggia se ne è andato, quindici anni fa, lasciandoci pagine di rara profondità intellettuale, illuministica passione per la ragione, abilità di scrittura e cordiale fraternità. Tra i suoi libri più importanti: L’arte della fuga, Il giocatore invisibile, Il raggio d’ombra, La grande sera, Nati due volte, Prima persona.

La sua biblioteca, 45.000 volumi, e le sue carte sono custodite dal 2004 a Mendrisio in Svizzera. Il Comune di Milano aveva sciaguratamente rinunciato alla possibilità di conservare e far conoscere gli strumenti di cultura e di lavoro di uno dei nostri maggiori scrittori, nato a Como il 25 settembre 1934 e scomparso a Milano, il 27 giugno del 2003.

 

Questo testo è la trascrizione di un nostro dialogo, avvenuto il 22 marzo del 2001, presso la biblioteca di Cornate d’Adda (MI). Il bibliotecario, Stefano Tamburrini, lesse alcuni brani del libro Nati due volte con una sobrietà che piacque molto al suo autore, senza l’enfasi di certi teatranti. Fu una bella serata, qualche tempo dopo Pontiggia mi scrisse: “…un incontro che mi è rimasto nella memoria e nel cuore.”

Pontiggia parlava sempre con la stessa precisione e chiarezza con la quale scriveva: salvo qualche piccola limatura e qualche sintesi, non ho dovuto fare interventi di rilievo. Questo il suo pensiero, queste le sue parole. 

 

Nati due volteè forse il più autobiografico tra i suoi libri. La scrittura è tersa e ironica come sempre ma si avverte anche molta sofferenza

Vorrei dire qualcosa sul libro, sul modo in cui è nato, anche sul rapporto con l’autobiografia. Su quello che ho scritto, sullo scrivere e su altre cose. 

Questo è un libro sulla disabilità; nel risvolto, che ho scritto io stesso, si dice che racconta il rapporto di un padre con un figlio disabile. Qualcuno mi ha detto che questo risvolto è completamente sbagliato. Chi l’ha fatto? L’ho fatto io. L’osservazione non mi ha sorpreso perché qualsiasi risvolto è in fondo un modo d’ingabbiare una materia che in realtà è centrifuga. Al centro del libro  c’è sì il padre che racconta (il padre è un insegnante di trent’anni), lo sconcerto. Nella prima parte c’è la tragedia che la disabilità del figlio provoca nella sua vita, nella vita di sua moglie. Ma progressivamente il testo, la storia, acquistano altri significati, altre valenze; in realtà progressivamente diventa protagonista il figlio. Il figlio convive con la disabilità, una tetraparesi spastica, fin dalla nascita, l’accetta ed è il padre invece che se ne vergogna,  e che impiega 15 anni per accettare il figlio. Dapprima lo rifiuta, anche se non esplicitamente. A poco a poco non solo lo accetta, ma lo ama e se ne innamora. Si innamora di quello che il figlio ha, non di quello che al figlio manca. Del resto questo capita sempre anche nei rapporti d’amore. Ci si innamora di quello che uno ha, la cosa straordinaria nei rapporti d’amore è che quello che uno ha appare come totalità: non si desidera altro. Poi c’è un’illusione ma è un’illusione di totalità. 

 

Quale?

Che la disabilità non riguarda tanto il disabile, certo lo riguarda nella sua forma più evidente, più vistosa, ma riguarda tutti nei confronti dei disabili. Cioè la nostra disabilità di fronte alla disabilità, la nostra incapacità di capirla, di accettarla, il miraggio di una normalità che appare assurda, concepita come meta: la normalità, l’essere normali. In una società come la nostra essere normali cosa vuol dire? Se pensiamo alla normalità che viene indicata ai giovani, è una normalità efficientistica, estetica, edonistica, di super efficienza; la normalità estetica che viene additata alle donne non so cosa sia. Le donne fenicottero, donne scheletriche, sono questi i modelli a cui dobbiamo riferirci? La normalità. In realtà il padre è ossessionato dai test dell’intelligenza di fronte ai quali teme che il figlio soccomba, ma quello di cui dovrebbe preoccuparsi ad un certo punto – e lo capisce lui stesso – sono i test della stupidità come epidemia universale. La stupidità che ci circonda. 

 

È la storia di suo figlio, dei suoi rapporti con lui e con la sua disabilità. Un compito difficile, cui nessuno è preparato, ma oltre l’accettazione e la consapevolezza, tra le pagine si avverte anche una forte indignazione. Quando ha deciso di mettere tutto ciò a tema nella scrittura?

Ho aspettato trentun anni per fare questo romanzo. Vorrei chiarire che non sono attirato dall’autobiografia come racconto di quello che mi è successo. Non ho interesse per quello che mi è successo, ho interesse per quello che capita sulla pagina. Mi piace inventare nel senso etimologico latino di invenire, trovare. Allora ho l’impressione che se racconto quello che mi è successo “non trovo”. È vero che gli scrittori autobiografici in realtà scoprono dalla propria esperienza cose che non sapevano.

 

È successo anche a lei?

Sì, certo. E sono cambiato scrivendo questo libro proprio nei confronti di mio figlio, di mia moglie, della disabilità, il libro mi ha aiutato a cambiare prospettiva ed è quello che mi hanno testimoniato molti lettori, molti disabili, moltissimi, molti pedagogisti, fisioterapisti, medici, in parte perché li attacco con durezza. Mi hanno invitato a Siena, sono andato proprio sabato scorso a un congresso di medici,  all’università, e ho detto che la disabilità è causata molte volte da medici incapaci che intervengono tardivamente durante il parto, non sanno prendere provvedimenti tempestivi… sono tutti sbagli… no, non li chiamerei sbagli, no. Un medico non può sbagliare, un pilota di jet non può distrarsi. Se si distrae in fase di decollo o atterraggio, e la nascita è qualcosa di analogo, non può distrarsi. Una compagnia aerea che si distrae poi fallisce.

Se cadono tre aerei in un mese ha chiuso, i piloti non possono distrarsi. Piloti che fanno 50.000 ore di volo e non hanno un incidente, quindi anche il medico, in certe condizioni, non può distrarsi. E poi ho detto: un medico che si distrae è un disabile, un medico che non sa avere un rapporto con il paziente,  né con i suoi pazienti, non dobbiamo chiamarlo “un buon medico che però non sa avere un rapporto con il paziente”, è un medico disabile, è una disabilità professionale. Devo dire che mi hanno dato ragione,  infatti mi hanno invitato proprio perché questi problemi li sentono. Però il tema è stato molto sentito da tutte le persone coinvolte nel problema. 

 

 

Non era dunque la dimensione autobiografica a ispirarla?

No, non ero attirato dall’idea di ripetere la cosiddetta verità storica, la fedeltà dei fatti. Poi avevo anche dei problemi di carattere psicologico con mia moglie e mio figlio, insomma non mi ritenevo libero di raccontare le cose, non mi attirava e non volevo farlo. E poi il tema della disabilità mi angosciava, fino a 15 anni dalla nascita di mio figlio la sua presenza  era per me una fonte di frustrazione e di angoscia, con dei momenti liberatori. Poi effettivamente nella realtà è avvenuto quello che racconto, cioè un mutamento e anche questo ha concorso a farmi cambiare atteggiamento di fronte al problema. La disabilità da un certo punto di vista anche letterario-narrativo va affrontato non come un’angoscia indicibile, perché allora uno ha chiuso. Se è indicibile non ne parla. E direi che non va affrontata neanche come una tragedia, perché nella maggior parte dei casi – forse nella totalità dei casi – quando invece la si va ad affrontare, non è una tragedia:è un esperienza drammatica, direi terribile, ma non tragica. Quest’ultimo però è il termine che viene usato comunemente.

Il mio libro è stato citato durante il Giubileo, mi ha fatto piacere, però qualcuno ha anche scritto “arriva il corteo degli infelici”, e volevo chiedere a quel giornalista: ma perché, tu sei felice? Tua moglie è felice di vivere con un idiota come te? I tuoi figli sono felici? Ti sei mai interrogato sulla felicità? Perché, i disabili sono infelici? Non è vero che i disabili sono infelici: sono sfortunati, hanno difficoltà, ma non più dei sani che per esempio si imbattono in disabilità temporanee. Ci sono più suicidi tra i sani che tra i disabili, anzi nei disabili, compresi i ciechi, l’atteggiamento è molto più positivo e allora perché…? Perché si usa questo linguaggio nei confronti della disabilità? 

 

Ha parlato con i suoi famigliari prima di iniziare a scrivere la vostra storia? Hanno capito e condiviso il tuo desiderio di raccontarla?

Quando ho progettato di scrivere il libro nel gennaio del 1999 ne ho parlato in famiglia, ed è stato accolto come un progetto magari importante che poteva dare frutti importanti. Mio figlio mi ha detto “Ma con te sono preparato a tutto”. Lui dice di essere l’unico equilibrato in una famiglia di squilibrati e probabilmente ha ragione, almeno per quello che mi riguarda, ma il solito amico… che dice “cosa vuoi fare, una confessione? Un lavacro?” No, lavati tu, io non devo fare nessun lavacro, nessuna confessione. Io devo fare un buon romanzo, devo fare un romanzo che tenga, nessuna confessione, non è un talk show in cui si confessa quello che agli altri piace che uno confessi. Io devo andare a fondo, devo raccontare la verità del rapporto con l’handicap e non è una verità patetica e lacrimosa, è una verità dura, ma non voglio fare nessuna confessione. Chi scrive non si confessa, chi scrive costruisce una storia in cui riconosce e spera che chi legge si riconosca in tutti i personaggi. Lasciamo questi patetismi a chi non conosce la letteratura.

 

 

E lei non vuole confessarsi...

Ma no! Io voglio costruire una storia e voglio raccontare cose vere, nel senso che il lettore riconosce la verità e si identifica. Poi un’altra cosa che mi ha aiutato a scrivere è quello che emerge dal primo capitolo, che racconta del padre con il figlio sulle scale mobili di un grande magazzino. Questo mi ha sbloccato, pensare a una scena che non cominciava dal parto, perché ogni inizio rimanda sempre a un altro inizio. Perché l’inizio di una storia deve essere il parto? Non si sa quando la storia ha inizio. Ha inizio nel rapporto tra marito e moglie, ha inizio nelle mentalità, nell’equilibrio del narratore, dei medici. Quando ha inizio la storia? Allora tanto vale cominciare dalle scale mobili. Il primo capitolo entra nel vivo di un’esperienza così sconcertante, dura, come l’handicap, descrivendo le difficoltà del figlio con le scale mobili. 

 

Pensa che il suo libro possa essere utile a far capire meglio il problema della disabilità? Come è stato accolto dai lettori?

Questo primo capitolo è stato letto quando mi hanno dato il premio Moravia,  e c’era l’attore che quando dice ”sìì… sìì” (Pontiggia mima una recitazione enfatica e melensa) io ero allibito perché parliamo di disabilità e poi  Dacia Maraini mi dice “Ma perché …? Non ha recitato bene?” “Bene francamente  no!” dico io. “Eh, ma dagli un segno di incoraggiamento perché è un giovane” insiste lei, “Giovane, ma va corretto quando sbaglia, non si legge così” rispondo ancora. “No ma…”, e allora spiego: “Ha fatto una lettura patetica”. E ho detto grazie e mi sembrava il massimo complimento. E invece in realtà è una disabilità, una disabilità professionale. Bisognava dirgli “No, il disabile dice sì, no, sì, no. Poi alla fine fa un discorso più articolato ma non devi leggere sìì, perché non dicono sìì, sei tu il disabile, non lui.” 

In questo capitolo il conflitto è più evidente. Tutto comincia con il movimento, e questo penso sia giusto: la narrativa è azione. Lo so che c’è chi pensa a romanzi dove non succede niente, ma sono cose che riguardano soprattutto la testa di chi li concepisce, è lì che non succede niente.

In un  romanzo, in un racconto, l’azione è fondamentale. Qui l’azione è quanto di più estraneo vi può essere per la disabilità: scale mobili, qualcuno che  precipita. C'è poi un altro tema importante.

 

Quale?

Il tema dello sguardo, i disabili sono ossessionati dagli sguardi rapaci di quelli che li guardano perché è uno spettacolo gratuito. In Italia lo spettacolo gratuito crea una particolare popolarità. Mi ha scritto una disabile, dice: “Io ancora oggi faccio fatica a sopportarli gli sguardi, perché non sono sguardi soccorrevoli, sono sguardi di curiosità invadenti.” Tranne i casi in cui lo sguardo è amico, non è facile… non è facile, però è un segno di civiltà. I greci avevano la civiltà dello sguardo, lo sguardo era fonte di conoscenza, c’è tutta una rete di parentele etimologiche tra vedere e sapere nel mondo greco. Noi abbiamo piuttosto l’inciviltà dello sguardo. Per noi lo sguardo nel campo della disabilità è un modo di impadronirci delle difficoltà altrui senza voler aiutare.

E poi, c’è la frase tremenda e però anche solidale del figlio che dice al padre: “Se ti vergogni, puoi camminare a distanza, non preoccuparti per me”. È il figlio che si preoccupa per il padre, capisce che il padre vive l’esperienza come vergogna, come colpa.

 

Ed è ancora così, oggi?

Trent’anni fa era una norma; oggi si sono fatti dei progressi importanti, però è un sentimento che ancora si prova, e non c’è ancora cultura di fronte alla disabilità. Il linguaggio è sempre inadeguato e fuorviante. Tempo fa io feci un corso di scrittura, sono stato tra i primi in Italia a tenere corsi di scrittura creativa, dal 1985 al 1996 ne ho tenuti anche per i giornalisti e parlavo del linguaggio autoritario della cronaca e mi hanno chiesto: “Ma com’è il linguaggio autoritario in una cronaca?” Ma, per esempio, se lei scrive “Vecchietta travolta sulle rotaie da un tram” lo direbbe per sua madre? “Vecchietta”! Perché vecchietta? O magari dicono “ragioniere” si uccide gettandosi dal 5° piano. Lo direbbe trattandosi di suo figlio? No! Però trattandosi di un altro allora dice vecchietta! Ma dica: una donna viene travolta, oppure: la signora Bianchi è stata travolta, ma non dica vecchietta. Noi diventiamo ossessivamente attenti riguardo il linguaggio solamente quando siamo coinvolti personalmente, professionalmente, emotivamente… allora diventiamo molto sensibili. Ma quando si tratta di uno spastico, è uno spastico, un mongoloide, nessuno che abbia in famiglia un mongoloide, cioè un ragazzo down, direbbe mongoloide, però gli altri lo dicono con estrema facilità. Perché la differenza tra uno scrittore e uno che non lo è, è che lo scrittore è sensibile al linguaggio. Cioè tutte le parole sono cariche di senso, sono degli universi, e quindi ha un’attenzione come i cani sentono gli ultrasuoni. Ma gli altri dicono è uno spastico…

Oggi la sensibilità al linguaggio è aumentata, si è capito che il linguaggio è uno dei modi di aggredire e ci sono delle censure, però è un processo molto lungo. 

 

Capire la disabilità, la diversità, è così difficile?

Il problema direi che non è quello di accettare la diversità degli altri, è di accettare la nostra diversità, cioè noi siamo diversi  gli uni dagli altri, la diversità del disabile è una diversità più vistosa, più drammatica, più forte. Dobbiamo acquisire occhi diversi se vogliamo procedere nella conoscenza nei confronti della disabilità. 

La disabilità è un’esperienza che noi abbiamo continuamente.

 

In che senso?

I giovani si sentono disabili emotivamente, sessualmente, psicologicamente, professionalmente, hanno continuamente un senso di disabilità. Gli uomini ce l’hanno continuamente, a 40 anni vengono rottamati, subiscono il mobbing, in tanti vengono allontanati con questi sistemi d’emarginazione sociale, per cui non sono alla pari. Il senso della nostra inadeguatezza direi che è congeniale all’uomo. Lo confermano tra l’altro i fisiologi, gli psicologi, noi siamo attrezzati anche per una vita diversa a quella che facciamo. Dal punto di vista alimentare, veglia/sonno, tutti dicono siamo stressati. Poi c’è il linguaggio dei cronisti: “Era una famiglia perfetta”, ma dove vivono, dove vivono? “Sei felice?, tu sei felice? Io faccio una vita felice”. Ma da dove vengono? Da quale pianeta? Parlano d’imperfezione… abbiamo un linguaggio devastante nella sua menzogna. Ci sono dei vecchi che vanno in televisione, soprattutto vecchie, rapacemente invidiose delle più giovani alle quali attribuiscono tutti i difetti: “Noi sì che abbiamo dovuto superare terribili difficoltà, ma ho avuto tutto dalla vita” Ma cosa stai dicendo? Allora di fronte a queste cose noi dobbiamo cominciare a capire che la disabilità è qualcosa che ci riguarda da vicino. I disabili lo sono ma sanno di esserlo, noi lo sappiamo un  po’. Il padre pensa di essere immaturo di fronte alla maturità del figlio dopo 15 anni. 

Il problema non è di contrapporre la disabilità alla normalità concepita come una condizione privilegiata.

 

E qual è la prospettiva corretta?

È accettare lo stato della disabilità. Noi siamo diversi uno dall’altro, come no? Ogni tanto per esempio mi vengono in mente le feste da ballo dove andavo da giovane. Erano esperienza tragiche, ma non me ne rendevo ben conto; ragazze che non ballavano, infelici, trascurate, si sentivano come vermi perché non le invitavano, allora io non me ne rendevo conto. Uno che è intelligente molte volte si sente a disagio, uno colto… uno che appena appena è un po’ preparato… Mi ricordo quando lavoravo in banca da impiegato… c’era una ragazza che mi piaceva pure che mi ha detto: “Non posso parlare con te perché parli… sei troppo intelligente” Io non so se ero disabile io o idiota lei, non so, in ogni caso noi parliamo di normalità, Ma quale normalità? Se noi cominciamo ad accettare la nostra diversità, guardiamo…, invecchiando non facciamo che conoscere forme di disabilità. Se io faccio una conferenza a persone sopra i 40 anni e parlo per esempio della memoria sono subito tutti attentissimi, sono tutti sinistrati dalla memoria dopo i 40 anni, tutti angosciati, sono disabili della memoria. Anche perché, se lo mettano in testa, non è che i giovani abbiano una memoria strepitosa, altrimenti non dovrebbero tanto impegnarsi per rispondere agli esami, dimenticano un mucchio di cose, dimenticano valanghe di cose, ma dopo i 40 anni il mondo diventa nevrotizzato nel tema della memoria.

Io dedico un capitolo tragicomico al nonno del disabile che per tutta la vita spera che il nipote diventi normale, lui è salutista, igienista, autoritario, e spera che diventi normale… lui ha un fisico efficiente, a 90 anni comincia a dimenticare il nome delle cose più comuni e questa sì è una catastrofe della memoria e lui che perseguitava i suoi famigliari chiedendo loro i nomi di personaggi famosi per poter fare le parole crociate, metterli in difficoltà, non ricorda più la parola bicchiere, tavolo. 

Allora facciamo i conti con la nostra disabilità. Mi ricordo che quando insegnavo c’era una bella ragazza molto timida, che non riusciva a parlare, cioè parlava a voce molto bassa. Io allora avevo 27 anni, superando le prime difficoltà ho detto: “Parlami vicino all’orecchio” sembrava che si confessasse, però… dimostrava di essere preparata. Avevo una collega che mi diceva “Ma come fai a capire quello che dice?” “Ma basta stare un po’ attenti”. “Ah , no è una disgrazia, mi fa senso”. Io le dicevo, mi ricordo: “La disgrazia è avere una testa come la tua, questa è la disgrazia irrimediabile, a quella ragazza basta un amplificatore.” E lei era convinta di essere una donna capace, matura. Quest’ultimo è uno degli aggettivi più controversi. Shakespeare dice: “La maturità  è tutto”. I giovani vengono giudicati sulla maturità da parte di persone che fan commenti e il più delle volte non lo sono mature, non lo sono. 

 

Restiamo sulle cose difficili: far capire ai  più giovani l’importanza e la bellezza della letteratura.

Ricordo che, quando insegnavo, i ragazzi di una classe mi avevano regalato un disco di jazz  e mi avevano scritto una dedica: “A Pontiggia, che ci ha fatto capire che la letteratura ha un senso”. Bisogna far capire che ha un senso importante.

 

Ma perché è interessante che la letteratura abbia  un senso?

Perché normalmente la letteratura pare insensata ai giovani, agli studenti; lo studio della letteratura, e non hanno tutti i torti se penso come io studiavo la letteratura, come studiavo il latino. Io il latino ho cominciato a capirlo all’università. Per conto mio studiavo la grammatica storica, capendo che il latino era una lingua parlata da persone, non era una lingua inventata dai grammatici. Lo parlavano, lo scrivevano sulle tombe, si mandavano dei messaggi d’amore in latino, … ma questo a scuola non l’avevo capito. Per esempio, lo studio filologico del latino e del greco e anche lo studio letterario, insistere su certi particolari che sono totalmente estranei all’interesse e alla sensibilità dei ragazzi è perfettamente inutile, è molto nocivo, non ci fa capire cos’è la letteratura: quindi la letteratura appare insensata. Allora vuol dire che ci sono errori pedagogici, ma addirittura teorizzati: Castiglione a Milano, di fronte alla domanda “Perché studiamo?”, rispose “Non bisogna rispondere. Non dobbiamo parlare di bellezza, di umanità, dobbiamo occuparci di altre cose.” Quindi c’è proprio un errore anche pedagogico che è stato commesso nei confronti della letteratura, e che alcuni insegnanti probabilmente commettono ancora oggi mentre altri cercano di far capire che la letteratura è importante.

 

Giuseppe Mendicino e Giuseppe Pontiggia, Cornate D'Adda, 22 marzo 2001.


Qualche esempio?

Penso a una grande filosofa americana, Martha Nussbaum, è stata tradotta da Feltrinelli, e insegna diritto ed etica nelle università americane. Per far capire cos’è il diritto lei legge e commenta in classe Dickens, Dostoevskij, Hawthorne, i grandi narratori, perché se noi vogliamo capire cos’è il diritto, non dobbiamo vedere le trasmissioni di Santoro, Vespa, ecc. Lei non lo dice ma possiamo dirlo noi: dobbiamo leggere i grandi narratori. Questi ci fanno entrare nelle emozioni e sono gli unici che ci possono far capire, chi ha letto Dostoevskij, lo dice anche Hemingway, chi ha letto Madame Bovary, alla fine quel ragazzo che salta il muro e va a piangere sulla tomba di Madame Bovary…. il lettore fa delle esperienze che altrimenti non farebbe, sono esperienze di enorme importanza. La civiltà greca, noi lo sappiamo, è stata formata dall’Iliade e dall’Odissea; Saffo è stata la poetessa che ha detto: “Questa cosa è bella perché piace a Saffo” è la prima che ha fondato la soggettività del valore estetico, che non è soggettivo ma è fondamento soggettivo… Questo è fondamentale. La società greca è stata fondata dalla poesia. E così la civiltà rinascimentale. La scienza ha enormi debiti verso la cultura, i filosofi, i poeti. Allora a un giovane si fa capire che la letteratura è un esperienza emotiva, intellettuale, fantastica,  sapienziale di enorme portata. A un giovane può interessare Il giovane Holden. È il libro che ha rivelato all’America una intera generazione.

 

L’importanza della letteratura è anche necessità di un linguaggio ricco, ben articolato, non banale.

L’importanza della letteratura è enorme se noi vogliamo intanto riscoprire le parole nelle sue potenzialità espressive. La parola è degradata negli usi quotidiani, nella letteratura  acquista splendore. Ma se uno vuole capire l’amore, è sì importante che senta Gino Paoli, ma se legge John Donne, impara qualcosa di più importante. C’è una  poesia di John Donne: un mattino, al risveglio, due amanti che si ritrovano vicini e lui dice ma cosa abbiamo fatto io, tu, prima di conoscerci? Dove eravamo vissuti? Dove eravamo? Queste sono le cose importanti se vogliamo capire il senso di sconcerto, di rivoluzione che produce l’amore (la poesia citata da Pontiggia è “Il buongiorno” di John Donne). Poi possiamo anche ascoltare Gino Paoli che dice anche delle cose importanti. “Il cielo in una stanza” va bene, ma John Donne aveva messo un universo in quella stanza. Se legge John Donne anche un ragazzo capisce, certo bisogna anche faticare perché le strade più belle non sono anche quelle più  semplici e leggere. John Donne richiede molta concentrazione però è la stessa concentrazione che richiedono Chopin o Bach. Certamente a me piaceva il jazz, mi piace tuttora ma mi guarderei bene dal dire che Ellington è come Bach; è un grande musicista, però Bach è una scoperta più straordinaria. Quello bisognerebbe far capire ai giovani. Perché un giovane naturalmente sente un disco, pensa è buono, come uno che beve il Lambrusco e pensa è ottimo. Però se beve altri vini capisce che c’è dell’altro e di meglio. È il confronto che rivela la qualità.

Io penso che la letteratura apre degli spazi emotivi più ampi, nessun pregiudizio verso la altre forme di espressione, ma la letteratura….

Dobbiamo abituare i giovani a non considerare la visibilità, l’essere conosciuti, come una conferma del valore. Io ho rifiutato tante volte di apparire in televisione, da Costanzo non sono mai andato. La letteratura deve riacquistare il suo orgoglio ecco, lo so che è difficile, ho insegnato anch’io, le so queste cose, però lo dico anche  per me. Non mi conoscono? Peggio per loro. Se chiediamo a dei giovani, chi è Emily Dickinson? Chi è? Mah! E invece è importante. La funzione dello scrittore è di testimoniare in modo radicale la verità. La verità è  sempre occultata dall’ideologia, dalla politica, dagli interessi. Ecco io direi che solo lo scrittore sa arrivare a una verità caleidoscopica, complessa e contraddittoria. 

 

I passi del libro che mi sono piaciuti di più sono quelli dell’amarezza, dell’indignazione personale e civile verso le cose ingiuste e sbagliate: gli errori e l’insensibilità dei medici ad esempio. È difficile scrivere bene del bene. Perché troviamo più interessante l’Inferno di Dante rispetto al Paradiso?

Mah! Ricordo che una signora a Trieste mi chiese: “Lei Pontiggia, racconta spesso storie di tradimenti, di infelicità. Perché non racconta di una unione felice, senza nubi, per tutta la vita?” “Ma signora, ho risposto, non sono uno scrittore di fantascienza, io mi occupo di altre cose”.

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