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“Roma”, autobiografia di un ricordo

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Romaè ambientato nel 1971 ed è il film attraverso il quale Alfonso Cuarón ha ricostruito e messo in scena quella che potremo definire la “casa madre” del suo cinema. “Roma”, difatti, è in origine il nome del quartiere borghese di Città del Messico dove si trovava l’abitazione in cui il regista, nato nel 1961, ha trascorso l’infanzia: assieme ai fratelli, la madre (Sofía: Marina de Tavira), la nonna e la bambinaia indigena – la “Libo” (Liboria Rodríguez) a cui è dedicato il film, interpretata da Yalitza Aparicio:

 

 

Guardando, o riguardando, Roma, rimangono addosso a lungo tre aspetti: il primo è l’energia cinematografica di Cleo, la protagonista, che entra in scena lavando il pavimento del cortile di casa e man mano conquista una potenza di racconto quasi magica. Il secondo consiste nell’esperienza piena di cosa sia il cinema come linguaggio, dalla fotografia (un bianco e nero via via tagliato dal controluce o abbacinato dai raggi del sole) al lavoro della macchina da presa: carrelli laterali, riprese dal basso (come se a girare fosse un bambino inginocchiato), uso narrativo della profondità di campo.

 

In Roma trionfa il cinema come scrittura delle immagini, dei suoni e perfino del silenzio – si canticchia spesso in Roma, ma non c’è una colonna sonora extradiegetica, eppure riusciamo a udire il rumore dell’acqua buttata a scroscio da un secchio, o dentro i cavalloni di un mare agitato, quasi lo udissimo per la prima volta. Infine, combinato coi primi due, il terzo aspetto che ci impressiona riguarda la forza visiva dei dettagli: un aereo riflesso in una pozza d’acqua, una maglietta con un decoro alla moda negli anni Settanta (i due innamorati di “Love is”), una camera disordinatissima, un bicchiere di latte sul pavimento, dentro il perimetro di una pista giocattolo, i calcinacci di una scossa di terremoto sopra un’incubatrice, teste di cani montate a parete come si usa per i trofei di caccia, e, soprattutto, merde: merde di cane ovunque, continuamente, disposte e raccontate con un’esagerazione quasi umoristica, a creare un effetto di surrealtà. 

 

 

Possiamo partire proprio da qui, da questo singolo dettaglio che in un certo senso funziona da Leitmotiv, per cominciare a capire perché Roma è un film straordinario, e cosa metta in scena. C’è la vicenda di Cleo, «una sguattera del cazzo», come la definisce il suo amante, dopo averla sedotta e abbandonata; c’è la storia della famiglia borghese in cui lavora la donna (formata da madre, nonna e quattro bambini) e con la quale Cleo stabilisce una relazione speciale; e c’è la storia pubblica delle repressioni degli studenti negli anni Settanta, a Città del Messico. Ma, soprattutto, c’è, accanto a queste tre vicende, la maniera in cui, attraverso Roma, il film ricompone questi distinti piani in una visione unica, formando una nuova storia: questa, in un certo senso, è la sostanza più vera, e quella a cui allude un dettaglio apparentemente mimetico, come la merda di un cane, ma che invece opera come tema simbolico. Perché un cane, Barras, che fa sempre la cacca nel cortile di casa, esiste realmente, ma la moltiplicazione e la focalizzazione di quel motivo, se ci pensiamo, non dialoga con il dato referenziale, bensì con le frasi dure pronunciate dal padre, in un altro punto, mentre sta andando via: «Questa casa è sempre in disordine, c’è il frigorifero pieno di confezioni vuote, e cacca di cane dappertutto».

 

Sembrava, sul momento, che stesse solo andando a prendere un aereo per un viaggio di lavoro in Canada; ma non tornerà più, come i bambini sapranno dalla madre, più avanti; e allora quel dettaglio, ripreso e mostrato più volte, mentre Cleo, lava, lava, lava, non vale come contenuto di realtà, ma come metafora dolorosa di una mente bambina che, anche da adulta, ha associato il sentimento inspiegabile di quell’abbandono a cause letterali, o colpe possibili; è la medesima mente, viva tanto nel passato quanto nel presente della memoria, che per Natale scrive una lettera al padre per chiedergli di tornare, disegnando un aereo. Ecco, dunque, come lavora, catturandoci, la trama di Roma: combinando il racconto del mondo “realmente” vissuto, con il mondo vissuto dalle emozioni e dai ricordi; e usando, come punto di salvataggio dalla corrente agitata degli eventi, lo sguardo di una tata e lo sguardo su una tata indigena, Cleo, il filo a cui tutta la famiglia appende la propria sicurezza affettiva.

 

 

Un presagio di Cleo, e di Roma, era già in una scena di Y tu mamá también (2001), quando durante l’avventuroso viaggio in macchina dei tre protagonisti, la voce off del narratore interrompe il flusso dei dialoghi per raccontarci che uno dei due ragazzi, Tenoch, mentre l’auto sfila nei pressi di Tepelmeme, il villaggio natale della sua tata “Leo” (e, nella realtà, di “Libo” Rodrìguez), pensa di non averlo mai visitato: di non essersi mai incuriosito per lo spazio e la storia da cui proveniva la donna che per anni aveva chiamato “mamma”. L’ultimo film di Cuarón trasforma quella cellula di racconto in un intero, usando il personaggio come matrice narrativa e visuale degli eventi. Tutte le volte che il racconto esce dall’interno della casa lo fa proprio seguendo Cleo, mostrandoci il cinema, per esempio, o i luoghi periferici di solito ignorati dalla modernità cittadina. Cleo fa da filtro anche in un altro senso: la sua condizione di intermediaria, di presenza non neutra fra  macchina da presa e realtà, è continuamente evocata da situazioni che sono rese visibili non direttamente, ma attraverso un vetro o una superficie riflettente: con il riflesso di un aereo, all’inizio, che si rispecchia in una pozza d’acqua; più avanti con lo schermo di una tv, o con il pannello di vetro attraverso il quale, quando è incinta, Cleo guarda i neonati della Nursery all’ospedale; o ancora, in una delle scene più straordinarie, nel racconto della repressione dei moti studenteschi (si tratta del noto massacro del Corpus Christi, il 10 giugno 1971), quando buona parte della vicenda è mostrata attraverso i vetri di un mobilificio.  

 

 

«Alcune cose cambieranno, ma noi resteremo insieme», dice la madre ai figli, per rassicurarli, dopo la scomparsa traumatica del padre. Roma svolge e rifonda questa promessa di serenità, trasformandola in mito di rinascita. 

 

«Shanti Shanti Shanti»: queste sono le ultime parole (tratte da una preghiera indiana) apparse sullo schermo, dopo i titoli di coda, al termine del film di Cuarón. Già sui titoli di chiusura di I figli degli uomini (Children of Men, 2006) si leggeva questa parola, pronunciata anche nel corso del film. Pace (“Shanti”), ripetuto tre volte: è l’invocazione buddhista del mantra della pace (per noi, per gli altri, per il mondo intero), ma è anche la parola, anche lì in triplice scansione, con cui si chiude La Terra Desolata (The Waste Land, 1922), di T. S. Eliot, una delle più importanti opere del Novecento. La terra desolata è per Eliot il paesaggio devastato che devono attraversare i cavalieri medievali per raggiungere il Sacro Graal; ma la terra desolata è pure – con torsione temporale tipicamente modernista, fatta di movimenti continui di avvicinamento e allontanamento – il mondo occidentale contemporaneo, dentro il quale la poesia, con un andirivieni continuo (tra passato e presente, tra ciò che è sepolto ma può risorgere, e ciò che è presente eppure sterile) può, però, paradossalmente, ricostruire un senso, immaginare una pace: «Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine» («These fragments I have shored against my ruins») scrive Eliot alla fine della sua opera. Questo lavoro di ricostruzione dalle rovine è, precisamente, la mossa del film di Cuarón. 

 

Come a comporre una figura circolare, il film comincia e finisce con una rima visuale, man mano che la macchina da presa allarga il campo su una pozza d’acqua su un pavimento dove si riflette un aereo di passaggio. Siamo nella corte interna di una casa, e l’acqua (che come in Eliot ricorre di continuo come elemento che lava e purifica) è quella con cui una Cleo sta lavando il pavimento. L’immagine di quell’aereo che appare e scompare promettendo altri mondi è già un momento di cinema nel cinema: ci parla degli spazi di sconfinamento del cinema di Cuarón, e ci parla anche di una distanza vertiginosa tra alto e basso, tra passato e presente, che il gioco di riflessi può rimettere in comunicazione e far scoprire: «quando ero grande facevo…» ripete spesso, giocando, uno dei bambini. 

 

 

Roma non è però semplicemente un’autobiografia, il ritratto dell’artista da giovane. Piuttosto Roma fa vivere, e nel medesimo tempo fa osservare ai propri spettatori, l’autobiografia di un ricordo, nel senso che è la realizzazione cinematografica di come la memoria di fatti legati a un passato remoto viva, in un certo senso, di vita propria, perché lavora non solo come materia di narrazione, come contenuto, ma come sguardo, fuoco emotivo sui dettagli, poesia: poesia sulle macerie. These fragments I have shored against my ruins. D’altra parte, Roma, e qui torna il rimando alla grande tradizione modernista, non ci fa stare solo dentro il ricordo, ma ci chiede anche una messa a distanza da esso, per vedere come la memoria possa, al tempo stesso, esistere come processo dinamico, fatto di evoluzioni, spostamenti, restituzioni. E così le scene che via via si susseguono in Roma, in un bianco e nero che costruisce bene anche il senso di una lontananza, parlano continuamente di una casa fantasmatica, abbracciata dalla macchina da presa con ampie panoramiche e piani sequenza, descritta con dettagli che non raccontano la realtà, in maniera trasparente, nel senso che non sono soltanto la fotografia di un mondo di quando si era bambini; e non sono investiti dal pathos della distanza con cui lavora la nostalgia. I dettagli, piuttosto, gli elementi di arredo come i particolari che ritornano, le scene tra ragazzini, le gite in famiglia senza il papà costruiscono il romanzo d’infanzia di una memoria che si reimpossessa del mondo da cui è nata, per guardare di nuovo e sistemare la storia di una famiglia che ha vissuto un abbandono e che, anche grazie alla ricomposizione narrativa, ce l’ha fatta, ha raggiunto il proprio Graal. 

 

Questo lavoro di restituzione di una forma ai frammenti è il primo aspetto speciale del film; assieme ad esso lavora, in sinergia creativa, la scelta di restituire identità, anche linguistica, a una vita, quella di Cleo, la tata, la nana, che da cameriera e aiutante della madre dei bambini, è rimessa invece al centro del racconto: è attraverso di lei, attraverso il suo lavoro, le sue delusioni d’amore, che viene fatto esistere il mondo di Roma. E così il film ci consegna anche la madre più vera di tutti: Cleo, che non ha potuto avere figli propri perché ha abortito (un’emorragia scatenata dallo choc del massacro del Corpus Christi); così alleva, cura i bambini della sua datrice di lavoro. Roma, in questo senso, ci parla, e in maniera rara, di un “Terzo Mondo” guardato, finalmente, senza esotismi o filtri patetici, ma con uno sguardo che restituisce dignità e gratitudine a un’umanità subalterna e invisibile che continuamente ha nutrito e curato l’Occidente.

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Due forchettate di pasta

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È il 26 luglio 1860. Camillo Benso conte di Cavour così scrive in una lettera un po’ in codice e un po’ in ironia: “Nous seconderons pour ce qui regarde le continent, puisque les macaroni ne sont encore cuits, mais quant aux oranges, qui sont déjà sur notre table, nous sommes bien décidés à les manger”. Il conte che sta cercando di portare avanti l’operazione “Unità d’Italia”, comunica in francese che non è ancora arrivato il momento di tentare l’annessione di Napoli (les macaroni), capitale del Regno delle due Sicilie, ma che i tempi sono invece più che maturi per l’impresa garibaldina in Sicilia (les oranges).

Come si vede, uno degli artefici dell’unità politica della penisola ragionava (in francese!) in termini alimentari più che pittoreschi. Analizzato meglio, il suo ragionamento lascia trasparire una visione precisa del Bel Paese d’allora: una Italia in frammenti, anche dal punto di vista alimentare. Chi riporta la citazione è Alfredo Panzini, autore, un secolo dopo, nel 1963, di un Dizionario moderno delle parole che non si trovano nei dizionari comuni. La citazione completa corrisponde alla voce “Maccheroni”: “I maccheroni sono comunissimi a Napoli e costituiscono, con le verdure, l’alimento preferito dal popolo, così che spesso il nome suona come equivalente di napoletano”.

 

Ancora cento anni dopo Cavour, il termine maccheroni sembrava più gergale che italiano, ma era segno di “modernità” annetterlo ufficialmente nella lingua. Dalla lettera di Cavour in poi si compirà quell’opera di modernizzazione della penisola che dal punto di vista politico vedrà sorgere lo stato unitario e dal punto di vista culturale corrisponderà ad una lenta costruzione di punti di riferimento comuni per il mosaico frammentato che era stata la penisola fino a quel momento. Un puzzle da ricostruire o forse da inventare a partire da nuove basi unificanti.

Parte di questo lavoro di ricomposizione e di invenzione dell’Italia e dell’italianità sarà l’invenzione di un cibo comune a tutti gli italiani. Infatti, e questo Cavour lo sapeva, l’Italia tutta non mangiava pasta nel 1860 e sarà solo dopo qualche decennio che la pasta (insieme alla pizza, anche se con caratteristiche simboliche diverse) diventerà il logo, l’immagine coordinata, la bandiera e lo stereotipo in base al quale riconoscere gli italiani.

 

La pasta prima degli italiani

Ma prima che ciò accada il quadro è abbastanza diverso. Qual era la situazione alimentare italiana nella seconda metà dell’800?

Trent’anni dopo la lettera di Cavour un’Inchiesta agraria riferiva ai membri del nuovo Parlamento nazionale quali fossero le condizioni di alcune province rurali. A fine dell’Ottocento la pasta non vi risultava essere uno dei cibi più diffusi. Negli stessi anni nel circondario di Gaeta, zona non particolarmente depressa, si legge nella stessa Inchiesta, “raramente sono usate le paste e molto più raramente la carne”. Nella provincia di Trapani ne viene registrato il consumo solo nei giorni di festa.

Cosa mangiavano a quel tempo gli italiani, che non dimentichiamolo erano per lo più italiani “di campagna”?

Cose ben diverse da zona a zona e perfino al Sud cose diverse dalla pasta. “Polente, zuppe, minestre del paiuolo, lente e lunghe, hanno costituito da sempre l’alimento dei contadini, l’eterna polenta bianchiccia o cinerina di cereali inferiori (come quella bigia di grano saraceno) che soltanto nel corso del XVIII secolo verrà a poco a poco soppiantata dalla polenta gialla di formentone”.

Il tutto era accompagnato dal pane, l’elemento primario, essenziale, fondamentale fatto con tutte le farine possibili, e in periodi di magra e di carestia fatto con succedanei che finivano per essere erbe, radici, foglie. Solo nel Sud e nemmeno dappertutto si trovava la farina di grano.

Nel 1877, Sidney Sonnino, inviato a redigere una inchiesta agraria sulle condizioni dei contadini del Sud, dichiara: “Il villano in Sicilia mangia pane di farina di grano, e salvo i casi di miseria, si nutre a sufficienza, mentre il contadino lombardo mangia quasi esclusivamente granoturco e soffre di fame fisiologica, anche quando abbia il corpo pieno”.

 

Illustrazione di Nontira Kigle.


Emilio Sereni ricorda che la frammentazione era un fatto abbastanza antico se, alla fine del ‘600, il Fasano nel suo Tasso napoletano, elencava gli epiteti con cui venivano chiamati in base alle abitudini alimentari i vari popoli d’Italia, “mangiarape” i lombardi, “mazza marroni” gli abitanti dell’Appennino tosco–emiliano, “mangiafagioli” i cremonesi, “pane unto” gli abruzzesi, “cacafagioli” i fiorentini, “cacafoglie” o “mangiafoglie” i napoletani.

Massimo Montanari, nella sua storia dell’alimentazione in Europa, ricorda che fino al ‘600 la carne e le verdure erano uno dei cibi principali, anche se in quantità e qualità diverse, alla tavola dei ricchi e a quella dei poveri. Una svolta significativa si ha nel ‘600, quando l’Europa diventa più povera di carne, per la distruzione delle foreste e per l’affollamento demografico.

A questo punto le carni vengono sostituite dai cereali. Anche a Napoli si determina una situazione analoga. 

 

Sono solo i siciliani nel XVI secolo a meritare l’epiteto “mangiamaccheroni”, e tale epiteto è indicativo di una situazione inconsueta e diversa dalla norma. A Napoli (dove sembra si sia cominciato ad importare pasta dalla Sicilia solo verso la fine del ‘400) un bando del 1509 proibiva la fabbricazione di “taralli, susamelli, ceppule, Maccarune, Trii vermicelli ne altra cosa de pasta excepto in caso di necessità de malati” nei periodi in cui “la farina saglie (di prezzo) per guerra, carestia e o per indisposizione della stagione”.

Il Basile nel suo Cunto de’ li cunti (Ecloga IV), che viene pubblicato postumo nel 1636 dice che

 

tre so le cose che la casa strudeno,

zeppole, pane caudo e maccarune

 

riferendosi a questi tre cibi come un genere voluttuario che poteva mandare in rovina una casa. 

I napoletani mangiavano molta carne, ortaggi e cavolo. Ed erano denominati “mangiafoglie” a dispetto di Cavour, ma a sollazzo di Benedetto Croce che recuperò in una commedia del 1569 un succulento alterco tra un soldato siciliano, Fiacavento ed un gentiluomo napoletano, Cola Francisco che si insultano pesantemente dandosi rispettivamente del mangiamaccheroni e del mangiafoglie.

Insomma la pasta in Italia c’era, ma non era un cibo così diffuso e così a buon mercato. Era considerato una stranezza o un lusso. Massimo Montanari, nel volume sopradetto, introduce una distinzione che ci tornerà essenziale da questo momento in poi: quella tra pasta fresca e pasta secca. La prima, un semplice impasto di farina con acqua o uova, confezionato per uso domestico e da consumare subito, la seconda una pasta essiccata subito dopo la sua fabbricazione al fine di renderla conservabile nel tempo. “Il primo, dice ancora Montanari, è un uso alimentare antico, diffuso presso molte popolazioni dell’area mediterranea e di altre regioni del mondo (Cina). Assai più recente è l’origine della pasta secca, la cui invenzione si suole attribuire agli arabi, che avrebbero escogitato la tecnica dell’essicazione onde potersi rifornire di scorte alimentari durante gli spostamenti nel deserto”.

 

Qualcuno ha fatto osservare che la nozione o il termine stesso di pasta sembra essere assente dal mondo arabo (anche oggi per dire pasta si dice makkaroni). Ma è probabile che questa invenzione sia dovuta piuttosto agli arabi che si trovavano in Sicilia, se la presenza di pasta secca è testimoniata dal geografo Edrisi nel XII secolo. Una vera e propria piccola industria di pasta secca, di ittrija viene da lui localizzata nei pressi di Palermo, a Trabia. Edrisi dice : “Si fabbrica tanta pasta che se ne esporta da tutte le parti, nella Calabria e in altri paesi musulmani e cristiani; e se ne spediscono moltissimi carichi di navi”.

Ma già due secoli prima un lessicografo siriaco, Bar Alì, usa il termine itriya; “L’itriya è un manufatto di semola, che vien preparato come il tessuto del fabbricante di stuoie, e che viene poi seccato e cotto”.

 

Franco La Cecla, in La pasta e la pizza, Il Mulino 2002.

 

* * * *

 

Pasta, pomodori, olio. Tre prodotti chiave, tre icone della gastronomia italiana. Tre compagni di viaggio che troviamo spesso assieme, abbracciati e rimescolati in un piatto che rappresenta nel modo più semplice e profondo la nostra identità alimentare. Ma questi compagni non si conoscono da sempre. Per la verità, neppure da molto. Le loro storie sono intricate, si sono svolte in luoghi lontani e in tempi diversi, e hanno finito per incontrarsi dopo lunghe peripezie, frutto di scelte e di casualità. In questo incontro non c’è nulla di ovvio, nulla di scontato.

La presenza più antica è quella dell’olio, vero simbolo – assieme al pane e al vino – della civiltà mediterranea.

È attorno a questa triade che il mondo greco, e poi quello romano, disegnarono la propria identità culturale, fondata sull’idea dell’uomo «creatore», che non si limita a mangiare e bere quanto trova in natura, ma costruisce, inventa il suo cibo e la sua bevanda: in natura, pane e vino non esistono. Quanto alla terza invenzione, l’olio, dovremo precisare che gli antichi lo usarono, sì, per condire minestre e verdure, ma soprattutto lo pensarono come unguento del corpo, come cosmetico. «Cospargersi d’olio fuori, di vino dentro» erano, secondo i medici antichi, due segreti essenziali per la conservazione della salute.

 

Anche Greci e Romani sapevano impastare la farina con l’acqua e realizzare qualcosa di simile a ciò che oggi chiamiamo pasta. Ma nella loro cucina la pasta non c’era: fra le centinaia di ricette attribuite ad Apicio (il solo libro di cucina di età romana che ci sia arrivato integro) nessuna ha la pasta come protagonista, anche se ogni tanto compare, magari a pezzetti o sbriciolata, un ingrediente fra i tanti. Bisogna aspettare il Medioevo perché una vera «cultura della pasta» si affermi in Europa e, col tempo, soprattutto in Italia. Dapprima sono i ricettari di provenienza araba o ebraica a farle posto a tavola. Da quelle regioni medio-orientali si diffuse la pratica di seccare la pasta, che favoriva, oltre alla lunga conservazione, la commercializzazione del prodotto. Dalla Sicilia del XII secolo arriva la prima notizia di un’industria di pasta che esporta e vende in tutto il Mediterraneo, sia nelle regioni cristiane, sia in quelle islamiche. Da allora, la vocazione industriale del prodotto si affianca al suo uso domestico, mentre cominciano ad apparire, nei libri di cucina tre-quattrocenteschi, ricette di esperienza del quotidiano

maccheroni, vermicelli e compagnia. Poco più tardi, i ricettari rinascimentali dedicheranno alle «vivande di pasta» appositi capitoli: la pasta si è ormai conquistato uno spazio autonomo, è diventata un «genere» gastronomico. Nella prima metà del Seicento questo spazio si allarga, in qualche luogo (Napoli in primis) diviene preponderante, complice una crisi economica che rende sempre più difficile ai ceti popolari il reperimento di carne e verdura. Nasce qui lo stereotipo dell’italiano «mangiamaccheroni», che inizialmente riguarda solo i napoletani. Anche perché sono loro a inventare l’idea della pasta come piatto. Nel Medioevo e nel Rinascimento essa appariva piuttosto come contorno, ad accompagnare vivande di carne: esattamente come si continua a fare oggi in molti Paesi d’Oltralpe. In Italia, a Napoli e poi altrove, le cose cambiano: il resto scarseggia, la pasta tende a rimanere sola. E come si condisce? Fin dal Medioevo, l’accompagnamento è d’obbligo: burro e formaggio, eventualmente accompagnati da spezie, per chi può permettersele. Oppure lardo. Solo agli inizi dell’Ottocento compaiono sperimentazioni nuove, che cambieranno sapore e colore alla pasta. La salsa di pomodoro è suggerita come condimento, la prima volta, in un ricettario napoletano del 1839. È il terzo protagonista del nostro viaggio, partito dall’America nel Cinquecento.

 

Il pomodoro faticò parecchio ad arrivare sulla tavola degli europei. Vi riuscì davvero solo quando assunse una forma nota e conosciuta da secoli: quella – appunto – di una salsa, che si diceva «spagnola» perché lì, in Spagna, l’avevano provata per primi. Così la chiamano i ricettari italiani del Sei-Settecento, consigliandola per guarnire le carni. Più tardi arriva il fortunato abbinamento con la pasta. Nel corso dell’Ottocento questo diventerà vieppiù la regola, e Pellegrino Artusi alla fine del secolo lo promuoverà in modo definitivo. In quegli stessi decenni, gli emigranti italiani (soprattutto quelli del Sud) diffonderanno nel mondo la loro immagine di «mangiamaccheroni», che, a questo punto, diventa un cliché nazionale.

In questa pasta al pomodoro mancava ancora l’olio, conosciuto da secoli ma raro, costoso, prezioso. Usato in cucina quasi solo nei giorni di «magro» (seguendo le regole del calendario liturgico) come alternativa ai grassi animali, proibiti in quei giorni. Fino al XX secolo, i condimenti più consueti della pasta restarono il burro (concesso anche nei giorni di osservanza meno stretta) o il più popolare lardo. La citata ricetta napoletana del 1839 condisce la pasta con lo strutto...

Il successo dell’olio, negli ultimi decenni del Novecento, è legato non solo alla comparsa di un nuovo modello dietetico che siamo soliti chiamare «mediterraneo», ma anche alla moltiplicazione delle aziende produttrici, che, in tutta Italia, al Nord come al Sud, rendono oggi possibile il reperimento del prodotto a prezzi accessibili. È una conquista recente, presto assunta a nuovo paradigma identitario della cucina nazionale.

 

Pasta, pomodoro, olio. Storie antiche e recenti che si incrociano. Tempi e luoghi diversi. Usi alimentari che si rincorrono e mutano nel tempo. Identità in costante evoluzione. Simboli, oggi, di un modello gastronomico «italiano» che infine si è radicato nell’esperienza del quotidiano a cui è dedicata questa sezione della mostra. Fino a quando durerà questa esperienza? Finché qualcuno, come Coop o come chiunque di noi, si occuperà di preservarla e presidiarla come parte essenziale della propria vita.

 

Massimo Montanari nel catalogo della mostra Coop 70. Valori in scatola (16 nov 2018 - 13 gen 2019). Palazzo della Triennale. Ingresso libero.

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Mario Merz. Igloos

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La stagione espositiva dell’Hangar Bicocca di Milano si chiude con una mostra di grande rilievo, dedicata alla figura di Mario Merz. Igloos, aperta fino al 24 febbraio 2019, a cura di Vicente Todolì in collaborazione con la Fondazione Merz di Torino, raccoglie trentuno installazioni di Mario Merz, figura centrale dell’Arte Povera, il più importante movimento artistico che l’Italia abbia prodotto nel dopoguerra. Frutto di importanti prestiti museali, tra cui il Reina Sofía di Madrid, la Tate di Londra e la Nationalgalerie di Berlino, la mostra si sviluppa nello spettacolare spazio industriale delle navate e ha un precedente nell’antologica voluta da Harold Szeemann nel 1985, presso la Kunsthaus di Zurigo, dove trovarono spazio una ventina di igloo. Todolì aveva già avuto modo di lavorare con Merz nel 1999, quando chiamò l’artista a sviluppare il tema della “Casa Fibonacci” per la Fundação Serralves di Porto e propone ora una spettacolare operazione di raccolta degli igloo, forse le opere più note dell’artista.

 

Mario Merz Schaffhausen (CH) © Mario Merz, by SIAE 2018.


La faccia di Mario Merz è una faccia tragica, antica. Guardando le sue foto, si possono facilmente rintracciare in quei lineamenti rocciosi l’energia che corre nelle sue opere, una forza originaria che ha a che fare con l’acqua, il fulmine, la zolla di terra che si spacca. È il viso di uno scienziato che ha scelto l’arte come forma di interpretazione del mondo, pur mantenendo un approccio fenomenologico all’esistente. Figlio di un ingegnere e di una insegnante di musica, Merz è un artista votato al fare, se vogliamo di ascendenza leonardesca, che costruisce una piattaforma linguistica attraverso la quale far incontrare lo spazio antropologico e lo spazio architettonico.

Di primo acchito, l’insieme degli igloo disseminati nell’Hangar appare come un insediamento abitativo, un luogo fuori dal tempo segnato da una precarietà che non è solo forma della mancanza, ma anche possibilità dinamica dell’esistere. Sono forme che hanno molto da dire al nostro presente, e pur avendo una chiara connotazione legata a un gusto formale specificamente ascrivibile agli anni ‘70, sono al contempo estremamente attuali, come se potessero vivere in più dimensioni temporali senza incorrere in contraddizione alcuna. 

 

Per inquadrare il frame in cui gli igloo vengono alla luce, torniamo al novembre del 1967, quando Germano Celant pubblica su Flash Art un articolo dal titolo Arte povera, appunti per una guerriglia: due mesi prima, il 27 settembre, ha dato vita alla prima mostra del movimento, Arte povera – Im Spazio, alla Galleria La Bertesca di Genova, mentre nel ‘68 della contestazione consolida il perimetro della riflessione con esposizioni come Arte Povera alla Galleria De’ Foscherari a Bologna e Arte Povera + Azioni Povere, presso gli Arsenali dell’Antica Repubblica di Amalfi (fortemente voluta dal mecenate Marcello Rumma). Segnali di una nuova, nascente sensibilità sono già arrivati da Roma, ad esempio con Fuoco Immagine Acqua Terra presso la galleria l’Attico di Piazza di Spagna, intercettati da Celant che assumerà, con tempismo rapace, la paternità del movimento. Ne consegue che Torino, con la galleria di Gian Enzo Sperone e di Christian Stein, Il Punto di Remo Pastori e la galleria Notizie, si attesterà come scena primaria del teatro poverista, tallonata da Roma, attiva attraverso il lavoro di gallerie come la già menzionata L’Attico (dove Kounellis esporrà i suoi dodici cavalli vivi), La Salita, La Tartaruga; fondamentale l’apporto di Carla Lonzi, a cui va il merito, attraverso una rigogliosa produzione intellettuale, di aver contribuito a far dialogare le due città del poverismo. Il 1969 sarà anche l’anno di due mostre essenziali per la ricognizione della scena dei nuovi artisti e del poverismo: When attitude become form, disegnata da Harold Szeemann, Op Losse Schroeven situaties en cryptostructuren allo Stedelijk Museum Amsterdam, a cura di Wim Beeren, a cui si aggiunge Conceptual Art Arte Povera Land Art curata da Celant alla Galleria d’Arte Moderna di Torino nel 1970.

 

Mario Merz Senza titolo, 1991 Veduta dell’installazione, Fondazione Merz, Torino, 2005 Courtesy Fondazione Merz, Torino Foto: © Paolo Pellion © Mario Merz, by SIAE 2018.


L’Arte Povera si concretizza agli inizi dei ‘60 e ha la forza di un’onda che si ingrossa di colpo per schiantarsi sulla battigia, ma nasce in mare aperto, come frutto della sedimentazione di esperienze lontane – la tradizione italiana della grande pittura fino agli “irregolari” Burri e Fontana – innestate in un complesso quadro storico e politico postbellico. Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto, Giuseppe Penone, Jannis Kounellis, Giovanni Anselmo, Gilberto Zorio, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Pierpaolo Calzolari, Pino Pascali, Emilio Prini, Gianni Piacentino, Marisa Merz (moglie di Mario) sono figure eterogenee le cui pratiche muovono dalla progressiva perdita di mordente delle istanze dell’Informale verso una ricerca orientata alla relazione con la realtà contingente, tendenzialmente refrattaria alla nostalgia, e per questo volta a recuperare gli archetipi e la loro propria forza primigenia. In quest'ottica si è parlato di una tendenza “francescana”, una forma di “decultura” che si oppone all’egemonia di gusto e pensiero di area statunitense, e che ricorre a soluzioni che implicano la scelta di una materia fragile, incerta, organica, l’impiego di tecniche desunte dall'artigianato, la contaminazione tra linguaggi differenti, per rivendicare uno spazio sulla scena internazionale che, nel tempo, è andato sempre più assottigliandosi. Critici verso una società tecnocratica e improntata a un capitalismo disumanizzante, i poveristi inseriscono nella propria produzione riferimenti alla natura, lavorano sul tema dell’origine, ragionano sulla materia, segnano il passo con azzardi concettuali e performativi, risultando in realtà sovente recalcitranti ad essere assimilati a quell’agonismo politico agitato da Celant, e accomunati da una “povertà” che è attitudine al primitivo, rigore, “aspirazione a uno sguardo radicalmente diverso” (Stefano Chiodi, Politica dell’Arte Povera, in Flash Art.

 

Si veda anche l’articolo di Nicholas Cullinan from Vietnam to Fiat-Nam. The Politics of Arte Povera, uscito su October 124, 2008). Lo scenario che segue il dopoguerra, con il boom economico e lo gnommero delle relazioni tra Stati Uniti e Italia, è il terreno dove si combatte una vera guerriglia, dove “tentare una decomposizione del regime culturale imposto” e sfidare l’egemonia culturale atlantica. Gli Stati Uniti, rei di aver ingaggiato il sanguinoso conflitto in Vietnam, esportano intanto i campioni dell’Action Painting e della Pop Art, con un Robert Rauschenberg glorificato dalla Biennale del 1964. Il cono d’ombra in cui si trova l’Italia ospita un humus in grado di fertilizzare ricerche eterogenee, che vengono intercettate e raccolte sotto il cappello dell’Arte Povera: un contenitore che oggi, maliziosamente, possiamo dire essere stato funzionale al marketing dell’arte e che, a distanza di cinquant’anni, è stato rimesso in discussione, superando l’ortodossia critica che per lungo tempo ne ha indirizzato la lettura in maniera pressoché univoca (si veda in merito Michele Dantini su Artribune) e ridimensionandone il coinvolgimento politico (con buona pace dello stesso Celant). 

 

Mario Merz, “Igloos”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2018. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano Foto: Renato Ghiazza © Mario Merz, by SIAE 2018


Nel vortice che investe il mondo culturale a metà degli anni ‘60, Mario Merz è l’autore più anziano e una delle figure di spicco della koinè dei poveristi (prendo a prestito una felice definizione di Bruno Corà). Merz arriva a Torino da Milano per studiare medicina ed entra nel gruppo antifascista Giustizia e Libertà nel 1945, alimentando la sua visione politica attraverso la lettura di Gramsci e Marx: partigiano, verrà condannato a un anno di detenzione nelle Carceri Nuove, un evento che segnerà un momento cruciale nella la sua esperienza artistica. Lì incontrerà Luciano Pistoi (che aprirà poi la galleria Notizie) e sfrutterà la parentesi carceraria per sperimentare disegni con la tecnica del tratto continuo, già approcciati durante la prima giovinezza. Si forma da autodidatta, concentrandosi in prima battuta sul disegno e aprendosi alla pittura anche grazie al confronto con Mattia Moreni e Luigi Spazzapan, due “outsider” della scena artistica dell’epoca, guardando poi all’informale, a Jackson Pollock, ma anche a Jean Dubuffet e Ben Fautrier. La sua pratica artistica è segnata da una visione critica della società consumistica contemporanea, ed è influenzata dal Situazionismo, presente nell’area torinese nella figura carismatica di Pinot Gallizio, ma anche dalla tradizione pittorica che arriva fino a Francis Bacon. Nel suo lavoro si rinvengono le impronte degli interessi scientifici che lo accompagneranno durante il corso di tutta la vita: si impegna in una ricerca approfondita sulle forme organiche della natura, affidandosi a una linea labirintica che compone composizioni dense e caotiche, una ricerca che si evolverà fino ad approdare da un lato alla tridimensionalità dell’installazione, e dall’altra a una pittura mai realista e mai pacificata. “Merz, using himself as a sensitive needle, tries to draw a map in which the archetypes of the individual’s feeling and living solidify as they move through differentiated territories.” (G. Celant, Mario Merz, catalogo della mostra, Solomon R. Guggenheim Museum, 1989, pag 19)

 

Nel suo tentativo di tracciare una “cartografia nomade”, Merz si imbatterà nella forma ancestrale dell’igloo, in cui individuerà il paradigma dell’abitare, la “casa archetipica”, secondo la sua stessa definizione, un forma primaria di assoluto interesse, un modulo su cui continuerà a investigare nel corso dei decenni; in pittura, porterà avanti una figurazione caratterizzata da un simbolismo selvaggio, dove animali, piante, oggetti, figure si susseguiranno in una vertigine metamorfica. Un flusso continuo la sua produzione, animata da una pulsione che nel lavoro installativo trova una regola e che nella pittura sfocia invece in un dramma rappresentativo che la rende esasperata e, in alcuni passaggi, titanica. 

 

Mario Merz, “Igloos”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2018. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano Foto: Renato Ghiazza © Mario Merz, by SIAE 2018


Il complesso dei trentuno igloo installati presso l’Hangar Bicocca può essere letto a posteriori come un efficace compendio della ricerca di Merz. Pur non esaurendo la sua vasta produzione, ne rappresenta una porzione significativa, sia dal punto di vista contenutistico che formale. Come nel caso della mostra dedicata agli ambienti spaziali di Lucio Fontana, con cui mantiene un filo rosso. Del resto Merz guarda a Fontana e ne spinge alle estreme conseguenze alcuni portati, facendone propria l’intuizione dinamica, reinventando il neon che da gesto di luce si trasforma in una forza che attraversa la materia, la anima e agisce come un connettore tra le parti, riavvicinandola alla sua natura fenomenica. Due idee di luce diverse, quelle dei due artisti, una relazione con il tempo dissimile: Fontana proteso su un vuoto metafisico, spalancato oltre la materia, Merz signore di “due tempi che si incrociano”, oscillante tra una presenza arcaica, pre-umana e un alter-reale, una contingenza che si offre allo spettatore come ipotesi strettamente legata al presente ma ad esso affiancata, come un vita parallela: più astratta, carica di simboli, asciugata da ciò che è superfluo, è percorsa da una forza primordiale che la rende nevrile eppure includente, tesa ad accogliere piuttosto che a discriminare, germinale.

 

L’albero m’è penetrato nelle mani,

La sua linfa m’è ascesa nelle braccia,

L’albero m’è cresciuto nel seno

Profondo,

I rami spuntano da me come braccia.

 

Ezra Pound

 

Mario Merz, “Igloos”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2018. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano Foto: Renato Ghiazza © Mario Merz, by SIAE 2018.


Il percorso espositivo si apre con Igloo di Giap, rifacimento del 1970 di un’opera concepita nel 1968. Si tratta di una variante del primo igloo realizzato dall’artista, che riecheggia nel nome quel Giap, icona dei movimenti studenteschi rivoluzionari, che proprio nel marzo del 1968 ingaggiavano gli scontri di Valle Giulia. La struttura metallica è ricoperta direttamente con argilla, sopra la quale campeggia la scritta al neon che riporta la celebre frase del generale vietnamita Võ Nguyên Giáp “Se il nemico si concentra perde terreno se si disperde perde forza Giap”. 

L’igloo apre una strada nuova, in cui finalmente concretizzare un’arte fatta di relazione con lo spazio, dove la provvisorietà diviene utopia tradotta in materia. Le forme spiraleggianti, che trovano corrispondenza nella morfologia naturale, abitano  l’immaginario di Merz e lo guidano dalla carta all’installazione, traghettando la sua ricerca verso un territorio di opportunità inesplorate. La spirale, che contiene in sé la progressione numerica di Fibonacci (oggetto di indagine che verrà introdotta nelle opere a partire dal 1970), si traduce nella circolarità dell’igloo, una forma abitativa che vive di una felice coincidenza degli opposti:“L’igloo stesso è una situazione in sospeso, in quanto come oggetto è in sospeso, i materiali stessi sono in sospeso” (G. Celant, Intervista, Genova, 10 marzo 1971, in Mario Merz, Mazzotta, Milano, 1983). Igloo come luogo che ripara ma si apre all’esterno, riparo stabile ma anche abitazione mobile, forma “leggera” ma architettonicamente perfetta e autoportante, monumento effimero. La scritta al neon, realizzata riproducendo la grafia dell’artista, invita lo spettatore a girare attorno all’asse dell’igloo, un esercizio di attenzione che richiama pratiche meditative e suggestioni orientali, un immaginario che dagli anni ‘60 aveva investito la cultura e la controcultura europee. 

 

Mario Merz, “Igloos”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2018. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano Foto: Renato Ghiazza © Mario Merz, by SIAE 2018.


In questo primo igloo si rileva un’attitudine esistenziale più che politica, una cifra che investe tutta l’opera di Merz, intimamente legata alla relazione con l’umano. Non a caso la misura della scritta apposta sull’igloo è il passo, la forma quella della poesia visiva, un conclamato interesse di Merz, visibile ad esempio nell’igloo che riporta i versi dell’Ezra Pound dei Canti Pisani,Canto LXXXIV: If the hoar frost grip thy tent / Thou wilt give thanks when night is spentSe la brina afferra la tua tenda / Renderai grazie che la notte è consumata, e ancora nell’igloo del 1983 intitolato Hoarded centuries to pull up a mass of algae and pearlsSecoli ammucchiati per tirare su una massa di alghe e perle. L’invito rivolto allo spettatore è di fare esperienza di una parola che si materializza e partecipa a un processo di compenetrazione tra piani fisici diversi, dove l’idea diventa oggetto, poi azione, poi memoria e ancora oltre, in una concatenazione incessante. Dello stesso anno è anche Object cache-toi, dove Merz utilizza un altro slogan, stavolta proveniente dalle contestazioni studentesche della Sorbona, e utilizza dei “panetti” per ricoprire la struttura dell’igloo, come fossero mattoni.

 

Qui comincia a essere evidente quel tentativo di astrazione che è rintracciabile in gran parte del suo lavoro installativo e plastico, una tendenza a ragionare in termini di scomposizione rispetto alle forme e a mettere in dialogo forze antitetiche: “la pietra diventa più o meno pietra, il piombo diventa più meno piombo, la scrittura diventa elettricità”.

Si badi bene, Merz non è un’artista (puramente) concettuale, né indugia nel perseguimento di una linea analitica: la sua ricchezza risiede nel collocarsi in una posizione intermedia, tra figurazione e astrazione, dalla quale governa il caos agendolo attraverso la formulazione di un pensiero sintetico, nell’abbracciare la complessità, la molteplicità, l’impermanenza e la proliferazione cercando di inscriverle in un ordine generale. Pur essendo affascinato dai numeri, dalle leggi auree e dalle matrici, ne interpreta il senso alla luce di una cultura umanistica, trasformando il dato in uno strumento di indagine poetica della realtà, rifiutando la sublimazione dell’oggetto e la devozione al processo perseguita dal minimalismo con volontà eidetica. Un processo visibile in Igloo di Marisa (1972), dedicato alla moglie artista e presentato a documenta 5 a Kassel, dove all’igloo vengono apposte sette scatole di plexiglass, disposte a spirale, contenenti la sequenza di Fibonacci, ma anche in Auf dem Tisch, der hineinstösst in das Herz des Iglu (1974), in cui inserisce il tavolo, altro elemento che dal 1973 diverrà parte della sua poetica, sia in qualità di oggetto domestico e relazionale, sia per le sue qualità formali, elemento in grado di evidenziare le dinamiche spaziali delle opere, sfruttando l’evidenza bidimensionale e le traiettorie di penetrazione del piano per interrogare la sfericità della cupola e lo spazio architettonico in cui l’igloo è situato. 

 

Il tavolo, come il neon negli attraversamenti, e come la lancia, rompe gli equilibri e ingenera ulteriori processi dinamici in relazione agli igloo. Come nella pittura, nelle installazioni di Merz non esiste una condizione di stasi: tutto è in transito, in perenne movimento. Ecco allora la Tenda di Gheddafi (1981), una tenda “ventosa”, dipinta, dove la struttura regge la pittura e viceversa, dando vita a un vero e proprio dipinto tridimensionale, ma anche La casa del giardiniere (1983-84 + 1985), in cui le parti vengono modificate a seconda dell’esposizione. Un’opera alchemica quindi, dove trovano posto i numeri ma anche gli objects trouvés, le fascine, i rami, i giornali, la frutta, vetri rotti, sportelli di automobili, pietre: la natura di Merz è sempre culturale ed entra con prepotenza nelle opere, assecondando il tentativo di creare un teatro permanente, dove esterno e interno siano in continuo scambio e dove gli elementi provengano dal contesto in cui l’artista opera.

 

Mario Merz Senza titolo, 1985 Veduta dell’installazione, Fondazione Merz, Torino, 2009 Courtesy Fondazione Merz, Torino Foto: © Claudio Cravero © Mario Merz, by SIAE 2018


Sul rapporto tra Merz e l’architettura è stato scritto molto, ed è evidente, osservando la distesa degli igloo che punteggiano le navate altissime, quasi ecclesiali dell’Hangar, come il punto del suo operare non sia mai una riflessione sul linguaggio in sé, quanto piuttosto ciò che sta dentro un’architettura, un tentativo di porre di nuovo attenzione al contenuto rispetto al contenitore, come nel caso dell’installazione della serie di Fibonacci presso l’interno elicoidale del Guggenheim Museum di New York in occasione della mostra del 1971. Ventre, cupola celeste, struttura autoreferenziale, l’igloo è sempre significante, sia quando è in rapporto osmotico con l’ambiente in cui viene collocato, come nel caso dell’opera conclusiva della mostra La goccia d’acqua (datato 1987, è l’igloo più grande mai realizzato, esposto originariamente presso gli imponenti spazi del CAPC di Bordeaux), sia quando si chiude in sé, forma di separazione e raccoglimento, moltiplicandosi e compenetrandosi come in Spostamenti della terra e della luna su un asse (2003).

 

Oggi come non mai, la vista di questa “città irreale” ci riguarda da vicino, oggi che il nomadismo torna a noi non più in veste di sogno anarchico di un‘esistenza slegata dalle costrizioni borghesi, com’era nel decennio del ‘70, né come provocazione legata ai primi cybernauti di un web ancora agli albori, quei nuovi situazionisti che teorizzarono le TAZ (le zone temporaneamente autonome) degli ‘anni 90, sulla scia della cultura rave e di uno nuovo tribalismo tecnologico, ma piuttosto come evoluzione del nomadismo intrinseco alla società globale del nuovo millennio. Oggi è declinato nell’accezione di emergenza abitativa, e segna come un marchio di infamia le vite di chi è costretto alla precarietà, sia esso un migrante, un homeless, o semplicemente un individuo che si colloca sotto la soglia di povertà, incapace di soddisfare le richieste di un sistema economico che considera la casa un bene di lusso, contenitore dello status sociale più che dei bisogni essenziali dell’individuo.

 

Gli igloo di Merz sono architetture fondate nel tempo che sfondano il tempo e ci inducono a riflettere sui cambiamenti che hanno investito il nostro concetto di famiglia, di relazione, il rapporto con la natura e con la società, a partire dal nostro modo di abitare. Il cervo che si erge sulla cupola del maestoso Senza titolo (doppio igloo di Porto, 1998) sembra richiamarci a qualcosa che appare perduto, una coscienza di noi come parte di ecosistema in cui natura e cultura sono compenetrate e le cui leggi sembrano non appartenerci più. In questa smemoratezza, lo sguardo dell’animale, la sua tensione, raccontano una condizione di attenzione vigile, una capacità di essere nel flusso del vivere che l’opera di Merz ha indagato senza sosta, operando una mirabile sintesi fra linguaggi differenti, affidandosi con fede inscalfibile al potere dell’immaginazione. “Io devo fare delle operazioni per esistere”, dichiarava, e nella sua ostinata volontà di agire attraverso l’arte torna alla mente l’opera Che fare? (1968-73), composta da una scritta al neon che cita una frase di Lenin, inserita in una bacinella di metallo per cuocere il pesce. Forse lì, come negli igloo, è possibile rintracciare una domanda – non ha una risposta, attenzione – che può riportarci a qualcosa che si è offuscato e che è pienamente espresso nel lavoro di Merz: il valore della complessità, che scaturisce da qualcosa di piccolo e molto concreto. Una foglia, un animale, un gesto quotidiano come il sedersi a tavola e condividere il cibo, la scelta di un luogo dove abitare. Forme della concretezza che contengono spirali di senso, che ciclicamente dobbiamo tornare a interrogare. 

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Sarah Sze. Sovrapposizioni e opposti

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Ogni intervento di Sarah Sze (Boston, 1969) si colloca costantemente su una linea di confine, in perfetto equilibrio tra opposti. Anche nei lavori apparentemente più statici (come Blueprint for a Landscape, 2017, l’installazione realizzata nella stazione metropolitana 96th Street & 2nd Avenue di New York, dove sono presenti interventi anche di Vik Muniz, Chuck Close e Jaen Shin), simmetricamente coesistono le dicotomie interno-esterno, fragile-solido, effimero-permanente, leggerezza-consistenza. Nel 2003, Carolyn Christov-Bakargiev, per la collettiva “I Moderni” (Castello di Rivoli), individuò un gruppo di artisti delle ultime generazioni, tra cui Sarah Sze, perché accumunati dalla rimarcata sperimentazione formale, nonché dalla condivisione di quello stesso slancio che animò i Modernisti nella realizzazione di un’opera totale, e da uno sguardo rivolto sempre verso il futuro, per superare la disillusione del post-modernismo.

 

Sarah Sze.


Nel ricorrente tentativo di rispondere alle intime domande: “che cos’è una scultura? che cos’è un dipinto?”, le sue opere si collocano equamente tra scultura, pittura e architettura. L’artista costruisce le sue complicate installazioni, fondendo semplici elementi prelevati dalla vita quotidiana con oggetti industriali e urbani, attraverso la ponderata combinazione di diversi media. Costruzioni intricate, di cui ha dato titanica prova con Triple Point nel Padiglione Stati Uniti della 55^ Biennale di Venezia (2013), che ha occupato ogni ambiente, ogni angolo, travalicando i confini strutturali dell’architettura stessa, invadendo perfino lo spazio antistante il Padiglione. Un’apparente e ingannevole casualità camuffava il chirurgico rigore nella disposizione di oggetti diversi tra loro, quali libri, bottiglie, cartoline, foglie, sgabelli, decostruendo lo spazio per organizzare un ordinato microcosmo. Come lei stessa ha raccontato, nel corso di una conferenza, si è spesso domandata: “quale valore rimettiamo negli oggetti? Come possono questi accumulare valore? Come li valutiamo nelle nostre vite?”. Così, agli inizi della sua attività artistica, ha realizzato “cose” di uso comune con un rotolo di carta igienica: ciò ha definitivamente segnato il suo passaggio dall’architettura alla scultura. Perfino quando si confronta con la bidimensionalità di un quadro, per Sarah Sze esso non è mai una semplice stesura di colore, bensì un’attenta stratificazione di materiali e piani. Pratica adeguatamente replicata nei lavori presentati nella personale da Gagosian Gallery Roma. Composta da due distinte sezioni, tuttavia interdipendenti e l’una propedeutica all’altra. La prima con quadri, inondati di luce; l’altra con una grandiosa installazione, avvolta nel buio. Entrambe riferiscono non solo della ricerca d Sarah Sze, ma anche della sua attività artistica, nonché della sua consueta metodologia creativa. 

 

Opera di Sarah Sze.


Come abitudine della galleria, già all’ingresso è posto un lavoro Ghost Print (Half-life) che offre da subito le coordinate dell’intera esposizione. Un eccezionale “quadro” - le virgolette sono d’obbligo perché la stratificazione, anzi la concrezione di materiali (olio, acrilico, carta d’archivio, stabilizzatori UV, adesivo, nastro adesivo, inchiostro e polimeri acrilici, gommalacca, vernice ad acqua su legno), costruiscono una scultura a parete, che supera il collage tout court. Attraverso la giustapposizione di queste eterogenee materie, l’artista sembra attuare un procedimento simile e vicino ai Divisionisti e contrario agli Spazialisti. Solo una visione arretrata consente di vedere l’immagine completa, mentre, quella ravvicinata, fa cogliere solamente il singolo tratto, il singolo elemento; anziché scavare nella tela, per suggerire lo spazio che ingloba, compone uno spessore e una profondità che conquista lo spazio antistante. Un’intricata costruzione di cui è difficile identificare la successione, ma solo intuirne il passaggio temporale, seppure nella fissità di un’immagine astratta suggerita, cristallizzata, evocativa. Come per una scultura, anche per le sue sculture a parete, è necessaria l’osservazione pressoché circolare: la disposizione di più piani, invita a una visione non solo frontale, affinché si possano comprendere lo spessore e gli elementi aggettanti, per rintracciare e individuare i differenti strati e le varie modulazioni. Tecnica che si ripete anche negli altri quadri (White Light-Half life; First Time- Half life; Half Light- Half life; Pot of Fire- Half life e Dews Drews-Half life) allestiti negli ambienti del primo piano che precedono l’ampia sala ovale. È proprio questa forma che ha profondamente influenzato Flash Point (Timekeeper), l’estesa installazione immersiva che riempie completamente il vasto ambiente. Più che una lanterna magica, Sarah Sze crea un articolato daguerriano diorama, con il quale, come un suonatore di flauto, incanta e trattiene il visitatore.

 

Opera di Sarah Sze.


Delle tracce di vernice bianca gocciolata sul pavimento, fanno da cerniera tra i due spazi e segnano il passaggio tra le due dimensioni. Attraverso la sua forma, la larga sala immediatamente richiama alla mente dell’artista la struttura del Colosseo, organismo che per lei sorprendente perché presenta, nello stesso momento, sia l’interno che l’esterno. Al suo interno una delicatissima macchina crea un mondo fantastico, realizzato attraverso la somma di diversi piccoli microcosmi, una fantasmagoria di materiali e suggestioni. Una sapiente e raffinata meticolosità caratterizza le minuscole costruzioni che ricordano delicate sculture giapponesi, in parte illuminate da luci. Sono per l’appunto dei cenni, dei frammenti che costruiscono l’insieme, un insieme composto da elementi attinti dall’esterno fusi con quelli prelevati dalla sua vita privata, per un racconto generale e personale. Una macchina, simile a una giostra, gira su sé stessa illuminando di volta in volta particolari diversi, alcuni dei quali riflettono la propria sagoma sulle pareti, intrecciandosi con le immagini in movimento (come la superficie dell’acqua increspata o un volo di uccello), anche loro ruotanti sulle pareti. Quell’apparente caos è anche qui ordinato con estremo rigore, in cui ogni gerarchia è annullata con la creazione di diversi punti focali.

 

Opera di Sarah Sze.


Una relazione si instaura tra il visitatore e l’installazione, come parti di un ingranaggio, entrambi compiono una rotazione, o all’unisono o nel senso opposto: l’installazione, che ha definitivamente abbandonato la sua natura statica, avvicinandosi alle macchin’azioni tinguelyane, per compiere il suo giro temporale; il visitatore che, come un satellite, ruota per mirare la miriade di dettagli, offerti dai più disparati materiali (legno, acciaio, stampe a pigmento, ceramica, nastro adesivo) che, assemblati, danno vita a inediti marchingegni, in un apparente precario equilibrio che sfida costantemente la gravità, nel continuo tentativo di rendere eterno un istante. Almeno nel ricordo e nelle emozioni. Intento rintracciabile anche in Split Stone (7:34), l’opera esposta nella Crypta Balbi (fino al 27 gennaio 2019) dove, sulle superfici di un blocco di granito diviso a metà, simulando materialmente la fitta rete dei pixel, gli stessi che compongono la foto scattata col suo cellulare. Attraverso la sovrapposizione di strati di pigmenti, ha trasposto e fissato i colori di un tramonto, rendendo perenne un momento fuggevole.

 

La mostra di Sarah Sze resterà aperta fino al 12 gennaio 2019 presso la galleria Gagosian, Via Francesco Crispi, 16, Roma.

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Friedrich Glauser, Dada, Ascona e altri ricordi

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Friedrich Glauser è stato certamente uno dei più intensi, poliedrici e raffinati scrittori di lingua tedesca del Novecento. Conosciuto soprattutto per i suoi romanzi polizieschi, giunti in Italia a distanza di più di cinquanta anni dalla stesura e grazie a un interesse “di ritorno”, è autore di moltissimi racconti, di un romanzo della legione straniera, di testi autobiografici e critici, sparsi su riviste e giornali, altri del tutto inediti. In Italia una prima pubblicazione della raccolta Dada, Ascona e altri ricordi [Dada, Ascona und andere Erinnerungen] avviene negli anni Ottanta, quando Sellerio, meritevolmente, sceglie di presentare al pubblico italiano gli affreschi qui raccolti di una Svizzera degli intellettuali: tra le pagine spuntano Hugo Ball, Hemmy Hennings, Tristan Tzara e il Dada, Ascona e della “fiera dello spirito”, tutto per denunciare l’ipocrisia di chi si ritrae dal mondo parlando per il mondo. E ancora: la legione straniera, cui in seguito Glauser dedicherà il grande romanzo, Gourrama e alcuni racconti anche polizieschi, qui presente nel lungo racconto Nella rocciosa valle africana. L’edizione di Casagrande ripropone ora questi testi dello scrittore che giocano sul sottile limine tra reportage e autofiction, per essere e restare pertinacemente testi di impegno ed eversione sia nell’espressione più evidente, sia negli intenti talvolta parodici o nell’ironia tagliente e nel disincanto rispetto alla crudezza e alla disumanità della condizione umana, ma ha inoltre il grande pregio di inserire nel volume il racconto Sul fondo, che fa da perfetto raccordo cronologico e tematico e conduce il lettore al testo di chiusura Tra le classi, un resoconto del periodo passato in Belgio come turnista non qualificato in miniera, in cui anche la locuzione stessa “lotta di classe” si infrange sulla stanchezza, i conflitti latenti, le piccole manipolazioni giornaliere del microcosmo operaio. 

 

La scuola dell’ipocrisia

 

Il percorso dunque, partendo dagli anni dell’adolescenza, racconta la biografia intellettuale di uno scrittore, poeta, giornalista e critico letterario che arriva all’idea di impegno politico a seguito di un proprio conquistato equilibrio dinamico di sensi e situazioni di vita. 

 

“La sola cosa durevole che conserviamo della nostra giovinezza sono le immagini, sopite in noi. A volte non è che un odore, una canzone, un sapore a destarle. Ma poi d’un tratto le vediamo con una chiarezza quasi accecante, incomparabilmente limpide e distinte, e solo tramite loro, tramite quelle immagini rivivono le sensazioni di un tempo. Allora è possibile che a poco a poco ci torni alla mente l’evento legato a un’immagine, non con la stessa forza di allora, perché è stato sepolto dagli anni; eppure ci resta il ricordo del timore impaziente che avevamo provato a quel tempo. È dolce e amaro, come un forte caffè turco. A volte può essere bello andare «alla ricerca del tempo perduto».” (p. 11)

 

Il collegio rurale da uno spunto autobiografico racconta di uno dei collegi rurali che si dicevano dedicati all’educazione armonica della persona, in contrasto con la tanto criticata scuola di impianto autoritario. Glauser, nato a Vienna nel 1896, fu inviato a quattordici anni nel collegio di Glarisegg, nella speranza che un’impostazione pedagogica moderna e attenta ai bisogni dell’individuo lo aiutasse a mitigare e gestire la fragilità caratteriale che il padre, in particolare, leggeva in lui. Frequentò per tre anni, per poi essere espulso nel 1913, ufficialmente per “debiti”. In realtà alcune testimonianze e lo studio biografico di Gerhard Saner riportano come causa dell’espulsione un tentativo di suicidio, il primo di molti. A sua volta questo atto di autolesionismo, afferma Saner (Friedrich Glauser. Eine Biographie, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1981), era legato all’imbarazzo provocato dalla denuncia, da parte di un insegnante, di una presunta relazione omoerotica tra Glauser e un compagno. Di fatto segnava il riconoscimento della difficile condizione psicologica del giovane Glauser, già dotato di una sensibilità artistica e umana fuori dal comune, e l’avvio di una travagliata vicenda di ricoveri e marginalizzazioni, di una vita da outsider e di ripetuti tentativi di conciliare la percezione pungente della violenza della società e la propria continua sensazione di inadeguatezza.

 

 

Poiché la vicenda biografica, inclusi i suoi protagonisti, è molto ben delineata e riconoscibile, l’azione di protesta di Glauser è estremamente netta e incisiva, oltre che sfacciata. I collegi rurali erano istituzioni che si vantavano di proporre sistemi educativi e pedagogici di grande modernità e attenzione all’individuo. Il racconto di Glauser contraddice dalle fondamenta l’immagine che la scuola dava di sé nello specifico, e critica l’ipocrisia delle istituzioni scolastiche “moderne”. Non bisogna dimenticare che il racconto è ambientato in quegli anni in cui il sistema educativo ispirato ai principi guglielmini è oggetto di critica da parte degli intellettuali, e diventa un topos letterario. Il professor Unrat di Heinrich Mann (da noi L’angelo azzurro), Sotto la ruota di Hermann Hesse, L’origine del male di Leonhard Frank, sono solo alcuni romanzi in cui gli insegnanti interpretano l’educazione come violenta repressione delle pulsioni piuttosto che come stimolo alla realizzazione delle inclinazioni individuali. Rovesciando dunque il cliché della pedagogia “moderna”, Glauser inserisce chiaramente in questo filone il suo racconto “Conoscete I turbamenti del giovane Törless di Musil? Se desiderate saperne di più sulla vita nei collegi, vi consiglio di leggere questo libro.” (p.28).

 

Né però possiamo dimenticare che, sebbene ambientato all’inizio del Novecento, il racconto esce nel 1935, anno in cui i nazionalsocialisti sono ormai al potere e divulgano la disciplina della classe dirigente nelle famigerate NAPOLA, i collegi di impostazione autoritaria hitleriana, in cui umiliazione, disciplina e dosata autonomia sono veri e propri strumenti di ricondizionamento psicologico. Glauser dunque, sempre molto critico nei confronti non tanto del sistema sociale quanto dell’ipocrisia ad esso sottesa, lavora non sullo stereotipo del professore cattivo o violento, ma decostruendo lo stereotipo positivo della scuola libertaria, di fatto inadatta e non ancora davvero svincolata da dinamiche educative categorizzanti e manipolatorie, non esenti anche da punizioni corporali. Nell’anno in cui il racconto viene pubblicato un ex-studente della scuola, Rudolph Guhl, studente di medicina, scrisse una lettera espressa a Friedrich Glauser. La lettera raggiunse Glauser, che all’epoca aveva appena terminato il suo primo romanzo con protagonista il Sergente Studer, mentre risiedeva nella “colonia” Anna Müller, nel cantone di Berna, un istituto psichiatrico di avanzate vedute. Lo spunto per la lettera di Guhl era appunto il racconto Il collegio rurale, pubblicato sullo “Schweizer Spiegel” nel 1935: “Sarà però forse che “lei e i suoi compagni” siete stati una “banda singolare” così che gli insegnanti di allora si sono trovati costretti a misure particolari”, ma niente, secondo Guhl, era “così terribile come lei lo descrive nel suo articolo.” In un impeto di rivalsa lo studente compie un gesto di critica letteraria inconsapevole, ma efficacissimo: “Lei semplicemente non ha raccontato i lati buoni… così che questo articolo sia screditante” (J. Oelkers, Quo vadis Reformpedagogik. Discorso tenuto al congresso Arche Nova, 15. Oktober 2011).” Glauser risponde con grande semplicità di aver frequentato il collegio per tre anni e di aver scelto un punto di vista specifico, personale. Giocando infatti tra il tono diaristico e alcune riprese a focalizzazione apparentemente esterna, il racconto scorre limpido, asciutto, decostruendo anche stilisticamente la “retorica della bontà dei collegi rurali”, e comunicando senza appello le sensazioni inascoltate e l’inadeguatezza della scuola. 

 

Da-da

 

Allo stesso modo, il gioco tra memoir e racconto nel testo seguente, in cui la nascita del DaDa viene fissata nel momento in cui Tristan Tzara si volle dichiarare inabile alla leva mimando una crisi psicotica, apre al lettore il livello della critica sociale solo nel rapporto con il disagio mentale, la fragilità di cui Glauser aveva sofferto e soffriva veramente, tanto che passò la vita entrando e uscendo dalla dipendenza. All’epoca, sia per la consuetudine con la morfina, sia per gli sviluppi ancora minimi della scienza psichiatrica, era difficile riconoscere che la dipendenza arrivava dopo l’insorgere di una sindrome di disagio relazionale grave. Oggi è più facile riconoscere in trasparenza nei racconti e nel genio dello scrittore una situazione di estrema fragilità mentale, forse non una “dementia praecox” come gli fu diagnosticato, ma una complessa sindrome maniaco depressiva o un disturbo borderline di personalità. 

 

 

 

La grande paura

 

Proprio il racconto che in questo volume di Casagrande rappresenta l’aggiunta rispetto al volume Sellerio dallo stesso titolo degli anni Ottanta, su questo dice molto. Sul fondo narra, come gli altri testi, un episodio dallo spunto autobiografico. Per sfuggire alle condanne, Glauser si convinse a entrare nella Legione straniera. Furono anni duri, di grande apatia affettiva e isolamento, che Glauser racconta in molti testi brevi (18 solo quelli pubblicati in vita!) e nel suo grande affresco, il romanzo Gourrama.

 

Al ritorno dalla Legione, il reinserimento fu difficile, tornare alla carriera giornalistica sembrava impossibile, recuperare uno status di intellettuale ancor di più. Sul fondo mette in scena un’esperienza di “lavapiatti” di Glauser, un lavoro sottopagato, duro. Un suo primo momento di contatto con il mondo europeo, e un accenno di una nuova amicizia che, così ci viene detto, si conclude brutalmente perché non riesce a resistere a un furto. Il senso di colpa e di inadeguatezza si innestano in un complessissimo tessuto letterario, apparentemente limpido, ma in realtà talmente ricco di richiami intertestuali e citazioni da farne quasi un pastiche. Glauser fa il plongeur, cita dunque Rimbaud e insieme Orwell e il suo Down and out in Paris and London (Trad. it. di Senza un soldo a Parigi e a Londra, Mondadori, trad. Isabella Leonetti), in cui leggiamo: “Sto cercando di considerare il significato sociale della vita del plongeur. Penso si debba cominciare col dire che il plongeur è uno degli schiavi del mondo moderno. Non che ci sia bisogno di versare lacrime su di lui, perché economicamente sta meglio di molti altri lavori manuali, ma comunque non è più libero di quanto lo sarebbe un uomo che viene comprato e venduto”. C’è di più. Glauser descrive l’albergo di lusso come se si trattasse di una nave passeggeri: in sala macchine o nella stiva, stanno i disperati, e sopra si balla, quindi non manca di ricordare la letteratura d’avventura che era tipica del suo periodo, primo fra tutti Bruno Traven, che in La nave morta fa di questa differenza tra sopra e sottocoperta un simbolo della propria posizione politica, della reificazione della persona, della riduzione dell’individuo ai suoi documenti di identità, proprio come ricorda anche Glauser ripetutamente nel racconto: 

 

“Gli «ospiti», disse, erano andati a letto da un pezzo; se volevo dormire lì, dovevo «essere a disposizione» non più tardi delle sei, o non avrei avuto alcuna speranza di trovare alloggio. Ma quando gli mostrai il libretto militare, parve che un’ombra di entusiasmo patriottico sfiorasse anche lui.” (p. 92)

 

“Presentai i miei documenti, il libretto militare dell’esercito francese, il passaporto; per due anni avevo vissuto senza documenti, ero stato solo un numero, 22595; ora quei due documenti stampati, scritti, timbrati mi restituivano la sensazione di una certa individualità, che stranamente mi riempiva di orgoglio.” (p. 97)

 

Glauser letterato, lavapiatti intellettuale, fa ammenda per le sue mancanze. Mentre Orwell rende esplicito in molti passaggi il rapporto tra “onestà” e disonestà indotta dalla povertà – “Onesto! onesto! Si è mai sentito che un plongeur sia onesto?” D’un tratto mi prese per il bavero della giacca e mi parlò con grande serietà: “Mon ami, hai lavorato lì dentro tutto il giorno. Hai visto cos’è il lavoro d’albergo. Credi che un plongeur possa permettersi di avere un onore?” – Glauser, a differenza che in altri suoi testi, non imposta un discorso legato alle difficoltà economiche, e non cerca nessun capro espiatorio, né vuole farsi in alcun modo portatore di una morale. Arriva con chiarezza dove deve arrivare, cioè al suo compiere scelte indotte ed eterodirette: è un’eterodirezione reale, ma che nessuno può localizzare perché è nella sua angoscia, che cerca di trovare la forza di “attendre d’autres jours” come recita la poesia di Maeterlinck che il lavapiatti legge nel suo giorno libero, mentre invece non può che rituffarsi nella paura, la sua condizione esistenziale “staccandola” anche dalla denuncia della povertà. Il furto è un pretesto narrativo per raccontare ciò che è proprio del malessere di Glauser, ma anche di tutti: la tentazione continua di “scegliere” la paura e quindi, una tranquillità effimera al posto del benessere. 

 

 

 

“Ad alcuni può sembrare esagerato, una futile scusa, un eufemismo per un atto che non ne ha bisogno. Eri pigro, si dirà, avevi lavorato fin troppo, non c’era modo di fare abbastanza soldi onestamente per assecondare quell’indolenza, quel vizio, come lo definiscono molti. Per questo hai rubato, sei un ladro. Ma io sono convinto che, nel momento del furto, molti dei cosiddetti ladri occasionali non pensano ai vantaggi che ne trarranno, non pensano di agire solo «d’impulso», come si suol dire, ma sospinti dalla grande paura annidata in ciascuno di noi, sempre pronta a balzare fuori, alimentata dal desiderio profondo di un motivo per crescere, di un’azione che la nutra.” (p. 105)

 

Con questa autodenuncia della sua condizione l’autore chiede dunque un riconoscimento senza appelli né giustificazioni, e che quindi vada al di là della vicenda personale. Un riconoscimento per tutti i drop out, ma anche per chi, pur non essendo “scacciato”, condivide la sensibilità per il mondo e l’umano, e per chi sente che mitigare la gravità e la falsità di certe condizioni non solo non aiuta a uscire dalle brutture, ma affossa la possibilità di percepire ciò che di grande c’è nell’esistenza. Per Glauser, ciò che davvero c’è di grande e potente e vero è il coraggio di riconoscere la fragilità e la resa alla paura e di accoglierle nel novero delle possibili declinazioni umane. Al pari di altre. 

 

E su questo imposterà i romanzi polizieschi che lo hanno reso così famoso, creando un personaggio indimenticabile, il sergente Studer, che non a caso legge Freud e tenta in tutti i modi di portare l’esercizio della giustizia alla connessione tra l’umano e la necessità delle norme sociali. Non un suo alter ego, ma un ideale, qualcuno che Glauser avrebbe voluto incontrare sulla sua strada perché lo fermasse e lo riconducesse a sé, cosa che nessun medico fino in fondo seppe fare. Se cerchiamo precedenti letterari del più importante sergente del Novecento, senza cui tutto il poliziesco contemporaneo – almeno svizzero e tedesco – non si sarebbe sviluppato, ne individuiamo uno proprio nello chef di questo Sul fondo, un racconto più silente e forse meno famoso e discusso, finalmente parte di questa splendida raccolta. 

 

Friedrich Glauser, Dada, Ascona e altri ricordi, Casagrande, 2018, pp. 148. Traduzione di Gabriella de’ Grandi, postfazione di Christa Baumberger. 

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1958 – 2018. Il Saggiatore compie 60 anni

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Il Saggiatore ha compiuto 60 anni e li sta celebrando con una serie di eventi, promossi dalla Fondazione Mondadori, che conserva e cataloga la Biblioteca Storica e l’Archivio della casa editrice: una mostra, la riedizione del catalogo storico, una serie di incontri, una megafesta a Milano, a chiusura di Bookcity 2018, di cui la Fondazione Mondadori è tra i patrocinanti, insieme ad altre iniziative in alcune città europee, come Bruxelles, ad esempio.

 

Conservare il fuoco, il Saggiatore 1958-2018è il titolo dell’esposizione allestita presso il Laboratorio Formentini, in Brera, che documenta il primo decennio e quello attuale dell’avventura editoriale della casa editrice, nata con l’intento di “divulgare in Italia una cultura diversa da quella dominante”, come ha dichiarato in un'intervista Luca Formenton, il dominus di Il Saggiatore. Fondata nel 1958 da suo zio Alberto Mondadori, figlio di Armando, Luca Formenton, insieme a suo fratello Mattia, l'ha rilevata nel 1993 dal gruppo di Segrate riportandola in famiglia. Nata quale costola d'Adamo della Mondadori, si è connotata fin da subito con un côté spiccatamente colto.

Così, in proposito, Alberto Mondadori quando annunciò la fondazione di questa casa editrice indipendente che si prefiggeva “come suo principale impegno quello di diffondere libri di grande importanza nella storia della cultura, delle arti, delle dottrine e del costume”. (Alberto Mondadori, Ho sognato il vostro tempo, Milano, il Saggiatore, 2014)

 

Nella mostra Conservare il fuoco, il curatore Giovanni Baule ha scelto di narrare la storia di Il Saggiatore facendo parlare le copertine dei suoi libri. E così quelle delle mitiche collane degli esordi, come la Biblioteca delle Silerchie, I Gabbiani e i Maestri dell’architettura contemporanea, progettate dal genio di Anita Klinz (o da lei supervisionate nella sua qualità di art-director editoriale ante litteram della Mondadori prima e di Il Saggiatore poi) si susseguono sulle pareti della sala che ospita la rassegna, in una serrata conversazione, quasi un testa a testa, con quelle più recenti, concepite invece da FG Confalonieri, cui spetta pure, unitamente alla rivisitazione del logo aziendale (inizialmente creato da Giovanni Balilla Magistri e in seguito rivisto da Anita Klinz), l’allestimento dell’esposizione. 

 

Laboratorio Formentini, Milano, mostra Conservare il fuoco, la parete della mostra con alcune delle copertine storiche delle collane di Il Saggiatore.


 “La prima stagione si muove sul filo delle collane. La collana come strategia di sistema dichiara un’intenzione programmatica, offre al lettore percorsi-sequenza dotati di una linea chiaramente riconoscibile. La collana è anche una piattaforma comunicativa, con una propria regia e un coordinamento d’immagine” scrive Giovanni Baule nella presentazione della mostra.

 

Una parete della mostra con alcune delle copertine dell’ultimo decennio, progettate da FG Confalonieri, suddivise per tematiche; qui: Iperoggetti.


In merito alle copertine più recenti, così Baule: “L’ultimo decennio della comunicazione editoriale segna, con una necessaria discontinuità di strategia comunicativa, l’assoluto protagonismo del singolo titolo e della sua immagine di copertina. Il libro analogico si riposiziona come oggetto unico e mediatico: la copertina, medium tra i media, abbandona la funzione illustrativa per comunicare al lettore lo spirito del libro.”

 

Come regalo per il proprio sessantesimo anniversario, Il Saggiatore ha ristampato il suo catalogo storico in versione aggiornata. Con il titolo il Saggiatore 1958-2018, contiene testi di Luca Formenton, che è, tra l'altro, presidente della Fondazione Mondadori, sotto la cui egida è nata l'iniziativa, e del direttore editoriale Andrea Gentile. Il nuovo catalogo è consultabile in formato digitale anche sul sito della Fondazione Mondadori, arricchito, per di più  da allegati iconografici. 

 

Presso il Laboratorio Formentini si sono poi tenuti seminari e incontri di approfondimento sul tema della storia della casa editrice,  con interventi di Mariarosa Bricchi, di Roberta Cesana, Giovanni Baule, Andrea Gentile e Giorgio Vasta, moderati da Mauro Novelli.

 

Il Saggiatore è una casa editrice moderna e dinamica che ha chiamato a raccolta i propri lettori convocandoli dai social, da Facebook e da Twitter, ad una megafesta presso la Santeria Socialclub a Milano per la chiusura di Bookcity 2018 (qui l'apporto di Doppiozero a Bookcity2018).

 

 

Anita Klinz, una pioniera della grafica editoriale

 

Questa dei sessant’anni di Il Saggiatore è l’occasione perfetta per rendere omaggio ad Anita Klinz (1925 – 2013), una delle pioniere del Graphic design europeo, unica donna, insieme a Lora Lamm, nel panorama italiano di questa nascente disciplina. 

 

Tre ritratti di Anita Klinz; 1947, al suo tavolo da lavoro; 1957, alla guida della sua automobile; anni sessanta, in barca sull’isola di Giannutri.


La sua figura di artista è poco conosciuta e purtroppo ancora scarsamente studiata, quando invece merita di essere annoverata tra i maestri della grafica editoriale europea. Le notizie sulla sua vita e sul suo lavoro sono rare e sporadiche, ma soprattutto è ancora tutto da scrivere un resoconto critico della sua poetica e del suo poliforme linguaggio progettuale, (una prima indagine sulla sua vicenda, a firma di Anty Pansera, è in Angelica e Bradamante: le donne del design, Il Poligrafo, 2017).

 

L’epoca dei suoi esordi professionali sono gli anni cinquanta e il luogo è la Milano appena risorta dalle ceneri della guerra, che sta ricostruendo se stessa e l'Italia tutta con grande fervore, capacità imprenditoriale e creatività, inclusa quella della Klinz.

Istriana di nascita, a causa delle tumultuose vicende politiche della sua patria, Anita studia in Cecoslovacchia, che però abbandonerà nel 1945, a seguito dell’avvenuta occupazione tedesca di quel paese, per trovare rifugio nella città meneghina, in cui approda insieme alla madre e alla sorella. Dopo disparate esperienze lavorative, nel 1951 viene assunta alla Mondadori, dapprima con un ruolo secondario, ma in un decennio la sua bravura la porterà ad assumere la carica di direttore dell’ufficio artistico (unica donna a quei tempi, ma questo incarico al femminile è raro anche ai nostri), e quando, nel 1958, Alberto Mondadori la chiamerà a dirigere i progetti grafici di Il Saggiatore, Anita vi lavorerà con la passione e la sbalorditiva competenza che la connotavano.

 

La cifra della sua poetica progettuale, almeno riferita alle copertine e alle sovraccoperte da lei concepite per alcune collane di Il Saggiatore, consiste, a mio avviso, nell’aver trasformato il lettering in immagine e la forma in lettering. Questo procedimento creativo rovesciato appare evidente nelle copertine di I Gabbiani e nelle copertine e nelle sovraccoperte dei 16 volumi di I Maestri dell’architettura contemporanea.

 

Alcune copertine progettate da Anita Klinz per la collana di Il Saggiatore I Gabbiani: Jean Piaget, Lo Strutturalismo, 1967; Franco Fortini, Ventiquattro voci, 1968; Jean Rostand, L’uomo artificiale, 1971; Erich Fromm, L’arte di amare, 1979.


Nel primo caso sono infatti le lettere tipografiche ad assumere prerogative formali. A seguito dell’impiego della loro variazione di scala, di due diverse font (una con grazie e una senza) e del colore, esse assumono connotazioni iconiche, ovvero si tramutano in forma, se non addirittura in volume, diventando quasi, oserei dire, esse stesse delle microarchitetture.

Su queste copertine, veri must nella storia della grafica editoriale, tutto è forma-informazione, forma-comunicazione, il nome dell'autore, il titolo, il sottotitolo, la denominazione di collana, l’editore e persino il prezzo.

Un altro cesempio del procedimento inversivo della Klinz, in cui ad essere invertito è l’ordine sintattico usuale della grammatica visiva – dove cioè le parole divengono forma – è il volume nr. 29 della mitica collana Biblioteca delle Silerchie. Dedicato a Umberto Saba, qui è la scrittura del testo con la grafia del poeta a farsi immagine. Resa in bianco, il fondo blu cobalto le conferisce profondità (alla stregua del blu di Picasso nelle Demoiselles d'Avignon). 

Uscito nel 1959, per la presenza del testo poetico in copertina, sembra anticipare la collana Collezione di Poesia di Einaudi che sarà disegnata da Bruno Munari in collaborazione con Max Huber a far data dal 1964. La scelta del corsivo autografo, poi, e la sua scala la imparentano con le ricerche verbo-visuali portate avanti dalla coeva neoavanguardia della Poesia Visiva che, proprio nella seconda metà degli anni cinquanta, stava segnando le sue tappe fondamentali.

 

Progetti di copertine di Anita Klinz: il n. 29 della collana Biblioteca delle Silerchie, dedicato ad Umberto Saba, 1959. H.L.C. Jaffé, De Stijl, 1964. Jacques Sauvageot, Alan Geismar, Daniel Cohn-Bendit, Jean-Pierre Duteuil, La rivolta degli student, 1968.


Per converso, nelle sovraccoperte dei Maestri dell’architettura contemporanea, progettate dalla Klinz tra gli anni sessanta e settanta, a subire una variazione di campo sono invece le forme, in ciascun caso desunte da un progetto del maestro cui il libro è dedicato. Isolate e ingrandite, esse si mutano in grafemi, in segni di un codice di scrittura nuovo, o meglio in notazioni ideogrammatiche, non astruse ma leggibili, riconoscibili e identificative del lessico dell'architetto in oggetto. Nel loro aspetto definitivo, queste sovraccoperte risultano essere molto vicine alle coetanee ricerche dell'arte concettuale, ma, ancor più mi paiono prossime alle elaborazioni geometrico-spaziali del MAC (Movimento di Arte Concreta), che aveva avuto in Gillo Dorfles e in Bruno Munari i propri aedi, e che la Klinz mostra di conoscere, apprezzandone i principi, in particolare quello che attribuisce il valore della concretezza alla “forma in sé", al di là di ogni sua mimesi del reale e oltre ogni lirismo o simbolismo. La Klinz, insomma, in queste sovraccoperte dà vita a forme geometriche capaci di esistere e di significare in quanto tali, per il valore “segnico" che racchiudono in sé, così come aveva postulato il MAC.

 

 

Anita Klinz, progetto grafico delle sovraccoperte della collana Maestri dell’architettura contemporanea: Ludwig Mies van der Rohe, 1960; Frank Lloyd Wright, 1960; Alvar Aalto, 1960; Le Corbusier, 1960; Pier Luigi Nervi, 1960; Antonio Gaudì, 1961; Oscar Niemeyer, 1961; Richard Neutra, 1961.


Sia le copertine, dove su un fondo monocromatico si traccia il disegno di un progetto del maestro cui il volume è dedicato, come le sovraccoperte sono delle vere e proprie opere d'arte della grafica internazionale, capolavori di questa disciplina, non più nascente ma oramai nata e cresciuta, anche per merito di Anita Klinz.

 

Anita Klinz, progetto grafico delle copertine della collana Maestri dell’architettura contemporanea: Eric Mendelshon, 1961; Oscar Niemeyer, 1961. Sul dorso, in basso, è visibile il bellissimo logo di Il Saggiatore da lei riprogettato, con l’arco su cui si incoccano due frecce.


Anita Klinz, progetto grafico delle sovraccoperte della collana Maestri dell’architettura contemporanea: Eric Mendelshon, 1961; Walter Gropius, 1961; Louis Sullivan, 1961; Kenzo Tange, 1963; Louis I. Kahn, 1963; Philip Johnson, 1963; R. Buckmister Fuller, 1964; Eero Saarinen, 1964.


Nella collana Uomo e Mito (57 titoli, pubblicati dal 1958 al 1979), la scelta progettuale della Klinz ha contemplato invece il ricorso all’immagine fotografica (lei stessa era un’appassionata e brava fotografa), sulla quale tuttavia ha operato alcune elaborazioni – l’ha isolata dal suo contesto originario, ne ha silhouettato i contorni e l’ha inserita al centro di un campo bianco – che le hanno conferito il valore di immagine totemica dall'elevata carica simbolica, allusiva al contenuto proposto dal libro sulla cui copertina è apposta: un elmo vichingo, il guerriero di Capestrano, un moscoforo villanoviano, una statuetta votiva cartaginese, una punta di selce a forma di lama di lancia, un danzatore etrusco, così, tanto per citarne alcune. Il titolo sovrapposto all’immagine, a caratteri cubitali colorati, san serif e su fondo nero, completa l'informazione, cui si aggiungono, flottanti sul campo bianco e con un corpo quasi piccolo, il nome dell’autore e quello della casa editrice, in Garamond corsivo. Anche queste copertine sono dei capolavori che rappresentano delle pietre miliari ineludibili lungo il cammino storico della grafica editoriale.

 

Alcune delle 58 copertine progettate da Anita Klinz per la collana Uomo e Mito: Ole Klindt-Jensen, La Danimarca dei Vichinghi, 1960; Raymond Bloch, Le origini di Roma, 1961; G.A. Mansuelli - R. Scarani, L’Emilia prima dei romani, 1961; Gilbert e Colette Charles-Picard, I cartaginesi al tempo di Annibale, 1962; G.H.R. von Koenigswald, Incontri con l’uomo preistorico,1967; Raymond Bloch, Gli Etruschi, 1972. Tratte dal sito di AIAP:


Chi desiderasse ammirare una piccola ma significativa collezione delle copertine progettate da Anita Klinz potrebbe farlo visitando il sito di AIAP che nel 2012, un anno prima della sua morte, in occasione della prima edizione del Premio Aiap Women in Design Award, le ha conferito la Menzione d'Onore alla Carriera.

 

È però ormai giunto il tempo di dedicarle anche uno studio monografico che raccolga i suoi progetti, sia quelli frutto della sua esperienza professionale in Mondadori-Il Saggiatore, sia quelli riferibili ad altre realtà professionali che sono state parte del suo curriculum, dagli esordi alla Vispa Teresa, a Grazia, a Duepiù, alle sue pubblicità per la Cynar, per la Singer e per una nutrita schiera di imprenditori minori. Sarebbe necessario che la monografia trattasse anche della sua poetica progettuale, declinandone i riferimenti culturali, e che raccontasse pure del suo lavoro nel campo della fotografia, cui Anita ha atteso nell’ultima parte della sua vita, quando isolatasi dal mondo, divideva il proprio tempo tra Milano e l’isola di Giannutri, dove aveva la sua casa-rifugio.

 

Intanto la mostra che celebra i 60 anni di Il Saggiatore, ci ha offerto una bella occasione per rendere questo piccolo omaggio alla Signora delle copertine, così come Anita Klinz è stata definita e di ricordarla, a cinque anni dalla sua scomparsa.

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James C. Scott: Contro il grano

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All’inizio degli anni ’70, Pierre Clastres scriveva nel suo libro più noto – La società contro lo Stato– che “la storia dei popoli che hanno una storia è, si dice, la storia della lotta di classe. La storia dei popoli senza storia è, potremmo dire con almeno altrettanta verità, la storia della loro lotta contro lo Stato”. L’opera di James C. Scott, in parte scienziato politico in parte antropologo e ambientalista “a titolo amichevole”, e a lungo docente all’università di Yale, si iscrive nella traccia aperta dall’antropologo francese e dai suoi studi sugli indiani Aché (o Guayaki) dell’est del Paraguay. 

 

Il terreno prediletto da Scott è da oltre quarant’anni quello delle società agrarie marginali e senza stato del sud-est asiatico, in particolare Birmania e Malesia, delle quali ha studiato i modelli politici di auto-organizzazione. La sua insistenza nel cercare di comprendere la logica del potere dello stato moderno – per esempio ne Lo sguardo dello stato (in uscita da elèuthera, a cui va il merito di aver riproposto il suo lavoro, dopo la lontana pubblicazione da Liguori del suo I contadini tra sopravvivenza e rivolta (1981) – va infatti di pari passo con la sua volontà di delineare una storia delle pratiche di resistenza e di insubordinazione – le forme di “infra-politica dei senza potere” al centro de Il dominio e l’arte della resistenza  (elèuthera, 2006) - che queste società relativamente egalitarie, e spesso dimenticate, hanno elaborato fino a poco tempo fa nel tentativo di sottrarsi al controllo dello stato o, quanto meno, di tenerlo a debita distanza (The Art of Not Being Governed, non tradotto). C’è vita fuori dello stato, ci dice Scott, e in fondo c’è sempre stata – forse perché spesso, fuori, si stava meglio? Si può facilmente riconoscere in questo approccio un dialogo con la tradizione anarchica, anche se per lui il punto non è tanto quello dell’abolizione dello stato – a cui riconosce, “in certe circostanze”, un ruolo emancipatore – quanto, piuttosto, quello di provare a limitarne e contrastarne il potere di assoggettamento (Elogio dell’anarchismo, elèuthera, 2014).

 

Nel suo saggio più recente, intitolato Against the Grain. A Deep History of the Earliest States– titolo “normalizzato” da Einaudi in Le origini della civiltà. Una controstoria– Scott ritorna su questi temi, questa volta interrogando la genealogia dei rapporti che esistono tra domesticazione, sedentarizzazione e l’emergenza dello stato nella regione mesopotamica del basso corso del Tigri e dell’Eufrate, nel periodo compreso tra il VII-II millennio a.C.. Per farlo Scott assume, divertito, la postura e la libertà, dell’“ingenuo intruso” che rilegge questi rapporti a partire da quanto “già esiste” e da un punto di vista che situa “ai confini tra preistoria, archeologia, storia antica e antropologia”, con il duplice obiettivo di sintetizzare le conoscenze oggi disponibili su questi aspetti, e di interpretarle per formulare una serie di ipotesi, più o meno provocatorie. 

 

Il punto è: come siamo arrivati ad essere dei coltivatori e degli allevatori stanziali governati da quell’istituzione che ora chiamiamo stato? Cosa possiamo scoprire sulle sue “origini, struttura e conseguenze”, se la consideriamo come un “complesso ecologico” essenzialmente agricolo? Ritorniamo al titolo originale. Porsi “contro il grano” significa per Scott reinterrogare alla radice la teoria classica (la dottrina?) che vede nella domesticazione dei cereali, e nella mitologia incentrata sulla presunta superiorità dell’agricoltura rispetto alla raccolta e alla caccia, una precondizione fondamentale della nascita della civiltà: quella sedentaria che si concretizza nella forma stato, e nella particolare “concentrazione di piante, animali domestici e persone” che la caratterizza. Per poterlo fare bisogna però ridimensionare il potenziale “ipnotico” che un certo tipo di tracce (in senso archeologico) ha avuto, e in generale ancora ha, nell’orientare e dare sostanza al modo di costruire un racconto della storia umana.

 

 

Opera di Vincent Van Gogh.


Un problema di percezione connesso al disequilibrio generato dal peso che hanno i reperti più resistenti, più “monumentali”, tipici delle fasi di fondazione, rispetto a quelli più deperibili e difficilmente, o per o nulla, documentabili perché relativi a materiali e/o supporti deperibili, oppure riconducibile a processi lenti, insidiosi, temporanei, simbolicamente minacciosi, etc. In questo senso, quindi: se è possibile accumulare scorte e vivere in una società stratificata – schiavi compresi – pur essendo dei cacciatori-raccoglitori (che non smettono di esserlo anche se ogni tanto coltivano qualcosa); se si può essere sedentari – per l’abbondanza di risorse della regione – senza per questo dedicarsi all’agricoltura (che per un lungo periodo non appare come una “prima scelta”); se dei centri agrari possono sorgere e esistere su base volontaria, in assenza di un potere centralizzato che ne prenda il controllo; se nella stabilità dei primi stati, fragili anche per ragioni “agro-ecologiche” e “epidemiologiche”, la coercizione gioca un ruolo più rilevante rispetto alle opportunità che essi hanno da offrire, cosa resta del canone che fin qui ha retto il racconto della nostra storia? Non molto, e l’archeologia ha mostrato da tempo sul piano cronologico le sfasature esistenti tra il momento in cui compaiono le prime forme di stanzialità, si sperimentano i primi tentativi di domesticazione di piante e animali e, molti millenni più tardi, si formano i primi stati.

 

Pur se a volte in chiave un po’ troppo “dimostrativa”, nel suo dover mettere all’angolo lo stato, Scott descrive e analizza in profondità le anomalie di questo canone, i motivi per cui a lungo si è evitato che l’agricoltura e l’allevamento diventassero pratiche dominanti (per la quantità di lavoro necessaria per difendere un territorio artificiale, per il rischio di epidemie legato alle specie domestiche), e quelli che invece progressivamente hanno fatto sì che l’agro-ecologia dei cereali prendesse forma (grazie anche al fatto di essere allo stesso tempo “visibili, divisibili, calcolabili, conservabili, trasportabili e «razionabili»”) contribuendo assieme ad altri, fattori – la coercizione, il cambiamento climatico – a creare le condizioni per la formazione dei primi stati. In questo lungo processo un ruolo particolare spetta alla domesticazione intesa come una modalità di “controllo sulla riproduzione” – del fuoco, di piante e animali, di noi stessi (chi/cosa addomestica cosa/chi?) – e che opera come una riorganizzazione qualitativa del mondo – della domus– intorno a sé. Con effetti non sempre prevedibili (epidemie). La domesticazione, provocatoriamente, viene letta come un “processo di dequalificazione”, una “contrazione dell’attenzione e della conoscenza pratica”, e anche rituale, del mondo portatrice di possibili ricadute politiche: un’unica autorità centrale ha per Scott più facilità ad imporsi in presenza di una risorsa dominante (il grano), che in un sistema ecologico complesso, come a lungo è stato quello delle terre umide della bassa Mesopotamia. In fondo, è là dove “finiscono le tasse e i cereali” che i barbari cominciano.

 

Per finire, riveniamo a noi. Una delle intuizioni più significative dell’archeologia, scrive Scott, è stata quella di interpretare l’idea di “caduta” (collapse) degli stati antichi come “lo smantellamento di unità politiche più grandi ma più fragili, nei loro componenti più piccoli ma spesso più stabili”, e in questo modo di considerarla non sotto l’aspetto tragico ma come “l’inizio di una riformulazione periodica, e forse anche salutare, dell’ordine politico”. In tempi come i nostri di diffusa (italica) isteria verso il ruolo da attribuire allo stato o a quella che viene presentata come la sua nemesi mitica, e che altro non è che uno stato ancora più grande, uno sguardo alla nostra preistoria può aiutare ad allargare la prospettiva. Perché al di là di qualunque idealizzazione, tanto dello stato che della sua assenza, quello che i nostri antenati ci mostrano sono pur sempre, per dirla con le parole di uno studioso della democrazia come Castoriadis, degli “indizi di possibilità”. Non è poca cosa, a volerli prendere sul serio. Perché rispetto alle società tradizionali, ai cacciatori-raccoglitori del Neolitico o a quei pochi che ancora sopravvivono in giro per il mondo, non c’è alcun dubbio che noi non abbiamo più nessuna idea sull’origine della nostra cultura materiale e, soprattutto, nessuna capacità di saperla riprodurre, se necessario.

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E anche contro una certa idea di civiltà
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Lino Guanciale: utopie praticabili

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È uno degli attori più amati dell’ultimo decennio, una figura singolare che attraversa teatro, cinema e televisione con la leggerezza degli attori bravi e belli a cui riesce tutto bene e il peso specifico di un artista, attore-autore, che macina chilometri su e giù per l’Italia, tra tournée, reading e incontri, perché nel suo mestiere insegue una visione del mondo. Rappresentante d’istituto ribelle e militante già ai tempi del liceo scientifico ad Avezzano, dov’è nato, studente di lettere alla Sapienza di Roma prima, e diplomato all’Accademia Silvio d’Amico di Roma poi, Lino Guanciale ha recitato per Luca Ronconi e per Gigi Proietti, per Woody Allen e Pappi Corsicato, Renato De Maria e i fratelli Taviani, mentre allenava il gusto per la dialettica politica e per la grande letteratura, per le domande sul passato e sul presente che interrogano il futuro. Negli ultimi quindici anni lo abbiamo visto omaggiare Edoardo Sanguineti, portare in scena Bernard-Marie Koltès, parlare di Bertolt Brecht nelle scuole, attraversare città, biblioteche e piazze, carceri e circoli sociali, con cene-spettacoli, laboratori e letture di grandi romanzi, a caccia, con i compagni del gruppo di attori di Emilia Romagna Teatro diretto da Claudio Longhi, di un teatro che dalla periferia del discorso culturale potesse riscoprirsi cuore di un umanesimo nuovo, riconvocare la gente intorno alle idee, alla conoscenza, a una concezione moderna di libertà.

 

Alla ricerca, insomma, di una rinnovata fiducia nella radicale trasformabilità di un mondo in piena epidemia di realismo capitalista. Nell’ultimo anno, nelle stesse sere in cui sui Rai Uno andava in onda come protagonista di fiction seguitissime accanto a figure nazional popolari come Vanessa Incontrada, Alessandra Mastronardi e Gabriella Pession, calcava i grandi palcoscenici italiani, per interpretare il Lulù Massa del famoso film di Elio Petri e ragionare di lavoro e alienazione; festeggiava l’avvio della stagione dell’Arena del Sole di Bologna leggendo Camus, Borges e Sciascia per parlare di fantasia e libertà con Loredana Lipperini; raccontava storie di mare, di porti e di speranza al Castello di Santa Severa per Racconti in blu. Massimamente appartato e massimamente esposto, Guanciale rappresenta oggi un ponte raro, forse unico, tra la tv generalista (e il suo pubblico) e la ricerca teatrale. La sua parabola colpisce perché si colloca lontano anni luce da quella ben più ricorrente dell’attore televisivo che per vanità si tuffa in improbabili esperimenti di prosa trombonesca, ma soprattutto perché non trasforma mai le sue letture, le sue ricerche, il suo talento intellettuale, in decorazione esotica di una carriera pop. Semmai il contrario, con insolita intelligenza. Lo abbiamo intervistato in occasione della consegna a Roma del Premio che l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro gli ha appena assegnato per la sua interpretazione di Lulù Massa ne La classe operaia va in paradiso prodotto da Ert per la regia di Longhi, in attesa di conoscere, il 7 gennaio, l’esito dei Premi Ubu, ai quali è candidato come miglior attore per lo stesso spettacolo, ancora in tournée a partire dalla prossima primavera. 

 

Che Dio ci aiuti, fiction Rai.


Che effetto fa essere premiato dai critici di teatro e più in generale esaltato dal mondo della ricerca teatrale proprio mentre sei al massimo della tua popolarità televisiva? 

Mi commuove, perché casa mia è il teatro, tutto quello che è venuto dopo era uno strumento, non un fine, e se l’ho cercato è anche perché mi sembrava ci fosse dell’utile da trarne nell’ottica di erodere steccati e attirare nelle maglie del teatro un pubblico più ampio. Il fatto che le istituzioni che incarnano e rappresentano il mondo teatrale e ne raccontano la storia e ne tramandano la memoria riconoscano il percorso che io e miei compagni abbiamo fatto ha un significato importante per me. Premiando il mio lavoro per La classe operaia premiano un percorso fatto con altre persone, riconoscono non solo una performance, e nello specifico la mia, ma un’idea di teatro che si fa carico di un’enorme responsabilità politica e sociale. 

 

Credi davvero che il teatro possa incidere ancora sulla realtà?

Certo che ci credo. Il teatro può veramente cambiare il mondo perché è un posto dove si costruisce apprendimento radicale. Forse l’unico. Lo sapevano bene quelli che hanno utilizzato questo linguaggio all’interno di metodi educativi particolarmente coercitivi, come i gesuiti. È l’unico luogo dove si può costruire ascolto vero, integrato, in cui nessuno dei canali con cui ci rapportiamo all’esistente rimane escluso. Frequentando ambiti diversi e linguaggi vari, dal cinema alla televisione, quello che testo quasi ogni giorno è che solo attraverso il contatto fisico e diretto con le persone si può sfruttare fino in fondo il potenziale della recitazione. 

 

Non tutto il teatro, però, si può permettere di rivendicare questo potenziale. 

Naturalmente. Il teatro cambia il mondo a patto che uno faccia teatro per cambiare il mondo. Non si può prescindere dall’intenzione. Con chi calca il palcoscenico per nobilitare altri percorsi, o con i più moderni tromboni, la cui genìa sembra destinata a non morire mai, non succede niente. Il teatro agisce sulle strutture umane e sociali solo se elabora le sue forme e la gerarchizzazione dei suoi contenuti in funzione di un fine, magari parziale, ma che rientra in un obiettivo più grande: modificare lo stato delle cose.

 

La classe operaia va in Paradiso, regia di Claudio Longhi, produzione Ert, 2018.


Modificare lo stato delle cose attraverso un teatro che allena lo spettatore a osservare e capire, a perseguire la libertà all’interno di un orizzonte materiale considerato modificabile, come diceva Bertolt Brecht. L’autore tedesco è uno dei drammaturghi e dei teorici che hanno segnato maggiormente il novecento e che tu stesso hai frequentato di più. È ancora valido ciò che ha scritto? È ancora possibile avere fiducia nella dialettica, nella possibilità di un processo di comprensione e crescita basato su un confronto logico e razionale tra forze diverse, mentre linguaggi di tutt’altra natura colonizzano il nostro immaginario in modo ben più pervasivo? Insomma, come la mettiamo con il fatto che una puntata di Black Mirror produce effetti sull’immaginario collettivo oggettivamente più intensi rispetto a uno spettacolo teatrale o a un libro, anche se magari attingono allo stesso archetipo? 

Non basta uno spettacolo. La mia visione, a cui sono fedele da anni, sia che si tratti di lavorare con il gruppo storico con cui questa visione è stata elaborata, cioè Claudio Longhi e i compagni che intorno a noi si sono raccolti nel tempo, sia che io faccia spettacoli con altri, ma portandomi addosso la mia prassi, è che attorno a uno spettacolo deve esserci altro, altri pensieri, altre attività. Il teatro non può esimersi dall’investirsi di una missione culturale, e se da ateo uso la parola ‘missione’ non lo faccio a caso. È finito da un pezzo il tempo in cui gli artisti potevano permettersi di aspettare che spettatori per i quali il teatro significava già di per sé qualcosa arrivassero a sedersi in platea certi di trovarvi un valore, perché questo nesso è disperso. Se Umberto Orsini poteva ancora dire che a trent’anni si augurava di starsene all’Eliseo aspettando che di sera il pubblico andasse a vedere le cose belle che avrebbe fatto, noi non ce lo possiamo nemmeno sognare. Oggi il teatro è chiamato a uscire dalle proprie mura, ad andare incontro a una comunità dispersa di cui si trova però ad essere potenziale centro, ancora ignorato. Ogni epoca storica ha caratteristiche specifiche, nessuna prassi ha un valore assoluto, quindi quello che dico riguarda specificamente il presente, e io penso che oggi il teatro debba assumersi pienamente la responsabilità di essere uno dei polmoni educativi delle nuove generazioni. Deve impegnarsi a stabilire rapporti con le scuole della città in cui sorge e mandare nelle classi i propri attori. I quali, naturalmente, devono essere intellettuali di valore, organizzatori di sé stessi e del proprio percorso, per sostenere la grossa responsabilità di contribuire alla formazione di persone che non solo vadano a teatro, ma che ci vadano in un certo modo, e non per mangiarsi uno spettacolo come si mangia qualunque cosa in questo nostro tempo segnato da una matrice culturale compiutamente capitalistica. Insomma, se il teatro non incontra le persone, o meglio, se non va a cercare chi non lo stava cercando, ha già perso. 

 

E la nostra generazione, nel nostro occidente, sta perdendo? 

Negli ultimi trent’anni abbiamo camminato come i ciechi di Bruegel, mano sulla spalla dell’altro, ciechi che guidavano altri ciechi, in fila verso quello che neppure si riconosceva come catastrofico destino e che invece lo era. Eppure io vedo segni di un’inversione di tendenza, o almeno li vedo nelle città in cui questo lavoro ho avuto modo di farlo. E vedo che lo stesso lavoro lo fanno sempre di più, in modo sensato, anche altri artisti e teatri in tutta Italia e in Europa. 

 

La porta rossa, fiction Rai.


Il filosofo anglosassone Mark Fisher ha scritto che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Come facciamo i conti con un orizzonte così?

Quando mi pongo questo problema respiro, e penso a certe parole di Antonio Gramsci e ad altre di Marc Augé. Del primo rievoco quei passi in cui dice che la via della rivoluzione è fatta di tanta pazienza, del cammino di numerose generazioni che vanno in una stessa direzione e che erodono pian piano i sistemi, possibilmente utilizzando le vie più democratiche, quelle che pagano di più in prospettiva. Ed è vero, perché la società non è come il palinsesto televisivo, non cambia di anno in anno. I cambiamenti veri sono più simili alle erosioni delle ere geologiche. Certamente accadono delle rotture antropologiche subitanee come la rivoluzione francese o quella digitale, tanto per fare esempi illustri, ma questi stravolgimenti celano una storia di infiniti smottamenti e di processi lentissimi. Ogni cambiamento richiede pazienza e gradualità, non c’è niente da fare, bisogna insistere, guardando lontano. In questo senso Marc Augé mi convince abbastanza quando dice che se esiste un’utopia ancora praticabile è quella dell’educazione per tutti e dell’educazione all’educazione. Sono convinto anch’io che finché vivremo in un mondo in cui l’accesso all’istruzione e a sistemi di riflessione sull’educazione più complessi (come imparo a giudicare anche chi mi ha insegnato?) – ecco, finché queste cose rimarranno marginali e nelle mani di pochissimi, non è possibile aspettarsi un cambiamento radicale come la fine del capitalismo. L’unica utopia praticabile è quella che investe su cambiamenti sostanziali anche lontani nel tempo, è la lotta per rendere accessibile a tutti la strumentazione pedagogica che consente di imparare a leggere la realtà, a vedere come ti frega chi ti frega, avrebbe detto Don Milani. È questa la sfida della mia generazione. Dobbiamo farci carico di essere insegnanti, noi ultimi di un mondo e primi di un altro. Ci dobbiamo investire di un ruolo che peraltro è bivalente. Per me infatti non ci sono stati maestri migliori dei ragazzi a cui m’è capitato di insegnare qualcosa. Il circuito didattico è il più virtuoso che esista, a patto che chi insegna cerchi di mantenersi il meno dogmatico e apodittico possibile.

 

La resistibile ascesa di Arturo Ui, regia di Claudio Longhi, produzione Ert, 2011.


Cosa significa questo se lo trasliamo nel teatro, e lo riferiamo alla relazione tra attore e regista?  Il futuro è nella regia debole? Te lo chiedo con scetticismo ma anche con curiosità. Grotowski diceva che la sollecitudine per la libertà dell’attore può essere generata solo dalla pienezza della guida e non dalla sua carenza di pienezza, perché tale carenza presupporrebbe dittatura e ammaestramento superficiale. 

Tu citi Grotowski, io rilancio con un altro maestro. Proprio rispetto alla questione che poni, credo che l’esperienza più significativa e preziosa capitata in Italia dal dopoguerra a oggi sia stato il Laboratorio di Prato di Luca Ronconi, un’avventura fondamentale e purtroppo, come spesso è accaduto con quanto fatto da Ronconi, poco tesaurizzata, in parte anche per lo scarso interesse che lui stesso aveva a che si trasformasse in tradizione la sua pratica. Tutto ciò che puzzava di metodo lo irritava. Naturalmente penso soprattutto alle Baccanti, che Ronconi costruì con Marisa Fabbri, ma anche ad altri spettacoli in cui il regista ha lavorato con attori consapevoli non solo dei loro mezzi espressivi ma anche della propria funzione politica. Quello che veniva fuori dal rapporto tra quegli attori e un regista disposto a costruire un dialogo laboratoriale pur mantenendo la propria forza mi sembra una via decisamente praticabile per il futuro, quella che io auspico di più. Non dico che la regia debole o la post-regia siano chiacchiere o teorie astratte, perché sono dati di fatto, sono vie percorse concretamente, e non ritengo neppure che siano poco interessanti, penso però che siano poco potenti rispetto alle possibilità del linguaggio teatrale. Sono convinto che succeda qualcosa di molto più efficace quando s’incontrano in scena un regista forte che si assume appieno la responsabilità della costruzione globale dell’opera e attori estremamente forti anche loro, politicamente e intellettualmente, oltre che espressivamente appunto, quando cioè quel regista sottopone i gangli del meccanismo e della struttura interpretativa che ha in testa all’intervento diretto degli attori. E lo trovo potente perché lì il teatro non solo conosce vertici estetici, ma dice anche qualcosa al mondo su come potrebbero configurarsi idealmente i rapporti gerarchici. 

 

L’indicazione più urgente di questi anni, direi. E cosa suggerisce esattamente?

Che la verticalità fine a sé stessa, oltre a essere sempre matrice di un’ingiustizia fortissima, è sostanzialmente improduttiva. Il teatro è stato e può ancora essere un posto dove si sperimentano delle alternative al sistema di potere che già conosciamo, dove si elaborano teorie nuove su cosa significhi essere autore di qualcosa, detenerne la paternità, metterci una firma, su dove finisca il contributo di uno e cominci quello di un altro. A me non piace la regia tirannica perché implica sempre un furto. L’aneddotica teatrale delle cene di compagnia è piena di racconti su come questo o quel regista famoso abbia rubato idee a questo o a quell’attore. Ma so bene che la parità assembleare, cenacolare, non paga quando bisogna prendere una direzione di senso, perché si dà quel fenomeno che si studia anche in matematica per cui se c’è un’eccessiva densità entropica ci si ferma, non si va più avanti. Perciò serve un sistema in cui si procede nella direzione indicata da chi ha il compito di guardare tutto dall’esterno, il regista appunto, ma gli obiettivi del progetto, il suo senso ultimo, la storia che si vuole raccontare, l’interpretazione che si dà di un testo è condiviso con chi quel regista l’ha legittimato, ovvero gli attori. Se queste cose accadono, il coefficiente di sperequazione necessario perché le cose procedano è compensato dal fatto che chi partecipa a un processo condivide le forme, gli obiettivi e le prassi, o le mette in discussione nel setting di prove. In altre parole, il regista è legittimato da tutti noi a guardarci da fuori e a indicarci una direzione, ma quella direzione è dove tutti quanti vogliamo andare. Tutta questa dinamica, che è un fatto concreto e artigianale, insegna al mondo come può funzionare la leadership, la democrazia, come per incanto uno schema anarchico possa generare non solo caos, ma arrivare a veicolare davvero la volontà di tutti. 

 

Ragazzi di vita, regia di Massimo Popolizio, produzione Teatro di Roma, 2016.


Cosa stai facendo in questo momento? A cosa lavori? Cosa stai leggendo?

Molta narrativa contemporanea. Ho scoperto di recente Luciano Funetta e tra le varie altre cose sto leggendo tutti suoi romanzi. E poi sono molto interessato alla drammaturgia europea. Sono stato conquistato dalla scrittura del portoghese Tiago Rodrigues, la trovo fulminante, mi interessa il suo discorso sui diversi livelli di realtà, e poi mi piace perché dietro le sue parole si sente forte e chiara un’idea di teatro. Gli darò la caccia nei prossimi mesi, ho per le mani un suo testo in particolare, una meditazione su Madame Bovary… 

 

Quindi non ci dobbiamo aspettare una terza stagione dell’Allieva e della Porta rossa?
Vedremo. Ho un dialogo aperto con la Rai in questo momento, perché ci sono progetti, anche con produzioni internazionali, che mi interessa portare avanti con loro. Le cose che abbiamo fatto insieme hanno avuto molto successo e mi rendo conto che per l’azienda e il pubblico si crei un’aspettativa del tutto giustificata rispetto al futuro, ma adesso ho bisogno di lavorare immaginando una transizione verso progetti televisivi che rappresentino anche il momento in cui mi trovo io, sia come uomo che come artista.  

 

L’ultima fotografia raffigura un momento di La classe operaia va in paradiso, regia di Claudio Longhi, produzione Ert.

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Conversazione con un divo diverso
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Antonella Anedda. Historiae

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Antonella Anedda, una delle poetesse più rappresentative e profonde degli ultimi anni sin dal suo esordio avvenuto nel 1992 con Residenze Invernali (Crocetti), conferma con l’ultimo libro dal titolo Historiae (Einaudi, 2018) quella rara capacità di dare alla parola un’accensione che illumina non solo lo spazio circostante ma anche le profondità del tempo; lì opera la sua scrittura, che da sempre cerca di riportare alla luce i segni e le relazioni in esso svaniti. “Non esistono nomi, autrici, autori,/volano soltanto le parole, si mischiano/alla pelle che cade sui divani, quella/che ogni giorno perdiamo…/…/Questo resta, la polvere e i suoi atomi sparsi,/cateti e ipotenusa per il teorema che chiamiamo poesia/”. Historiae, titolo latino della raccolta con desinenza al plurale, ci dice già molto, traducendolo, sul lavoro di Antonella Anedda, che è appunto attività di ricerca su quello che è il senso di una comunità, sulle sue relazioni sempre in bilico e sul punto di disgregarsi, ma al tempo stesso Historiaeè anche cronistoria, resoconto, narrazione dei fatti più strettamente intimi che nel loro ricomporsi in parola poetica assumono però un significato tutto da decifrare; difatti quegli accadimenti non sono sepolti dal tempo e nel tempo ma attraverso i versi s’increspano di vita come onde sempre in movimento. 

 

La vividezza dunque della pagina, la sua forza, è quella di innalzare l’attimo del quotidiano, con i suoi sacri e prosaici sussulti, i suoi abissi e glorificarlo laicamente, dando ad esso pari dignità rispetto ai tempi lunghi e indefiniti della storia che sono poi il computo astratto degli attimi stessi: “Oggi penso ai due dei tanti morti affogati/a pochi metri da queste coste soleggiate/trovati sotto lo scafo, stretti, abbracciati./Mi chiedo se sulle ossa crescerà il corallo/e cosa ne sarà del sangue dentro il sale./…”. Il libro pur avendo al suo interno cinque capitoli molto differenti quali Osservatorio, Historiae, Occidente, Animalia, Anatomie, Futuro anteriore, in verità obbedisce a una costruzione di pensiero unitaria, che indaga non solo la cognizione del dolore, tanto per essere adiacenti ad uno dei titoli più alti del nostro novecento, ma anche il senso di precarietà di ogni cosa, attraverso una ricognizione intima della poetessa che risale dai tempi più fondi dell’esperienza. Difatti le lacerazioni private è come se fossero macerate a lungo con un sistema di sopraffini filtraggi di parola, per poi esser distillate in immagini crude e asciutte, che in talune pagine paiono muovono assumendo la posa esistenziale e visionaria di L’Homme qui marche di Giacometti. 

 

 

Nella parte centrale del libro si susseguono le sequenze toccanti di un corpo morto, quello della madre della poetessa, che pare invece nella pagina rianimarsi e ripetere i gesti quotidiani di un tempo, quasi  sovrapponendosi a colei che scrive, al punto che non si intuisce più chi sia davvero il corpo vivo che ausculta l’altro trapassato nei contatti fugaci: “Era lei nel vapore salito dai cespugli?/La chiamai pur sapendo anche io come tanti/che la risposta sarebbe stata il silenzio,/…/Due volte strinsi a vuoto il suo nulla/due volte mi abbracciai/finché mi vinse il freddo…/…”. Fugacità appunto, non solo delle ombre private ma come dicevo delle comunità tutte che, fatte per durare, non resistono che alcune generazioni, infette dal germe multiforme della violenza, con gli equilibri sociali sempre esposti e vacillanti per il modus operandi delle società del consumo avanzato. 

 

E queste variegate diapositive di vita intima e collettiva riescono a essere sempre così lievi, avere quasi una saggezza distillata; mai un senso di pesantezza permea lo stile di Anedda, pur scrivendo appunto di cose finali e fondamentali per ogni donna e uomo. Nella pagina difatti il suo individuo si avvicina a quello rinascimentale che guarda rapito ma anche dolente, per la consapevolezza di esser frammento, i bagliori dell’universo, ma è anche l’uomo della società di massa, come già il filosofo tedesco Georg Simmel a inizio novecento teorizzò, schiacciato nella triade metropoli, modernità, capitale, che di quei suoi meccanismi assurdi e oramai usurati di avidità, scaltrezza, si sente oramai parte dolente: “…//Resto ferma a guardare, penso a quanto/siamo alti e miopi e assordati./A nord delle baracche sfrecciano i treni/verso Fiumicino, lo splendente aeroporto della capitale/i vagoni sfiorano la Magliana,/i palazzi affollati di lenzuoli,/i supermercati con le merci scontate./….”. 

 

Ecco, l’amo della parola di Antonella Anedda sembra perforare le tante profondità storico-filosofiche e raccordarsi alla grande tradizione della lingua poetica che ci ha preceduto, entrando in essa ed umilmente chiedendole di tornare, per aiutarla a tratteggiare i foschi contorni delle storie del mondo. E così l’aderenza della poetessa alla voce dei grandi, da Tacito a Mandel’stam, da Dante a Auden, non solo avviene nell’alto gioco stilistico dei rimandi ma anche nella pura dimensione contenutistico-esistenziale, che sembra per osmosi migrare dai loro libri e metabolizzarsi nella pagina di Historiae. Antonella Anedda, col suo linguaggio mite ma implacabile, ecco che illumina un colore, un dolore, uno strappo livido del viso, una pena che scende giù definitiva dagli occhi; eccola indagare le parti più buie del quadro-mondo quasi rischiarandole. E così la sua parola-fiamma non s’arrende, cerca nella tela delle esistenze, da cima a fondo il chiaroscuro di ogni vita: “Qualcuno a quest’ora avrà appena finito di sognare/mentre i popoli migrano,/qualcuno si sarà di nuovo messo a letto,/per qualcuno il mattino non diverrà mai sera,/…”.

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La leggenda del santo frontman

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Bohemian Rhapsody, il biopic di Bryan Singer sul compianto e fiammeggiante leader dei Queen, rispecchia senza troppa fantasia il modello delle vite dei santi: umili natali, vocazione, illuminazione divina, miracoli, traversata del deserto, tentazione dei diavoli, pentimento, morte e risurrezione. Ogni tappa è scandita in modo didascalico. Il dialogo con la redentrice che lo salva dal suo lato più sinistro avviene in modo canonico, sotto una pioggia scrosciante. I diavoli che lo tentano sono più esterni che interni e, come quelli di Sant’Antonio, si presentano in forme esteticamente ripugnanti: la loro guida, Paul (Pender, manager personale di Mercury, interpretato da Allen Leech), è sufficientemente viscido. Mary (Austin, la prima fidanzata, nel film Lucy Boynton) ha le fattezze di una santa. Taylor, Deacon e May, suoi compagni nella band, assomigliano di più ai quattro evangelisti (con il manager Jim Beach nel ruolo del quarto) che non ad altrettanti artisti rock: anche i numeri contano. Mai si videro quattro rockstar più pudiche, pudibonde e moderate nei loro comportamenti. 

 


Il film ignora completamente il percorso artistico di Freddie e il contesto musicale-culturale nel quale la musica dei Queen si è sviluppata. Il talento di Freddie non ha origine. È come il raggio di luce azzurra che annuncia a John Belushi, alias “Joliet Jake” Blues dei Blues Brothers, la sua missione per conto di Dio. Freddie passa da una gioventù spesa come facchino all’aeroporto di Heathrow al ruolo di grande interprete senza soluzione di continuità. Nemmeno Peter Parker morso dal ragno è altrettanto rapido nel padroneggiare i propri superpoteri. Qui, invece, Farrokh Bulsara nasce già Freddie Mercury: molto più simile a un supereroe dotato di poteri straordinari (e inspiegabili) che a un artista che esprime e sviluppa il proprio talento. Oltretutto, si mostra olimpicamente disinteressato a quello che dovrà cantare. Quando Brian May (Gwilym Lee) gli propone il ritmo di We Will Rock You, non batte ciglio. Quando i membri del gruppo discutono sul genere di musica che devono fare, lui esce a passeggiare. La musica è solo una coreografia di lusso per il suo percorso di santificazione.

 

Dal Sacro all’Arte e ritorno. Un percorso evidente nella scelta dell’attore, Rami Malek, molto più sofferto ed emaciato (in senso estetico) del sanguigno e solido cantante (almeno fino a prima della malattia che l’avrebbe indebolito e ucciso). Laddove l’originale si compiaceva della propria immagine di macho palestrato, la sua rappresentazione cinematografica ha decisamente virato sull’immagine di una persona dal fisico ectomorfo, il cui corpo lasciava già intravvedere, per consunzione prima spirituale che infettiva, l’anima sottostante. Se a qualcuno la metafora fosse sfuggita, quando Mary/Boynton lo raggiunge per ravvederlo, a mo’ di angelo custode che le forze del male avevano tenuto lontano, gli dice: “Ti stai consumando come una fiamma”. E Freddie/Malek : “Sì, ma con quale intenso bagliore”. Manca solo l’aureola.

 

Da sinistra: Freddie Mercury, Rami Malek.


Rami Malek in questo caso è bravissimo ad esprimere questa lotta interiore con finezze espressive che l’originale forse non esprimeva con altrettanto tremore e inquietudine. Peccato che il cliché del ragazzo impaurito che vuole essere amato non corrisponda affatto al narcisismo titanico del vero Freddie. Ma le analogie con la beatificazione non si esauriscono. Il nostro Freddie è casto e puro, almeno a guardare il contenuto letterale della finzione cinematografica. La sua vita privata è accennata ma mai mostrata. Non lo vediamo fare niente di più che scambiarsi un bacio, piuttosto casto, con il futuro fidanzato “serio”. Non lo vediamo mai a letto con nessuno, né uomo né donna, se non un attimo prima di donare un anello e di giurare eterno amore.

 

Anche i genitori di Freddie ricalcano lo schema del processo di santificazione: prima non lo comprendono, come Giuseppe e Maria di fronte a Gesù nel tempio, e poi, di fronte alla folla dei fedeli e alla promessa di fare del bene con spirito giusto, riconoscono la luce divina che, sulla soglia della morte, il cantante sembra irradiare tutto intorno. 

Come il santo bevitore di Joseph Roth, Freddie è intrinsecamente buono: qualsiasi cosa farà nel corso della sua vita non potrà che sospingerlo verso la beatificazione. È un predestinato. Anche se il suo percorso esistenziale è tortuoso, non potrà che redimersi. Anzi, è proprio la sua debolezza che lo rende ancora più meritevole di salvezza. Perdonato dagli amici e purificato dalla malattia che lui vive come un martirio, potrà così salire le ultime scale che lo innalzeranno per sempre nel paradiso degli artisti. Una promessa di redenzione e resurrezione, sia pure attraverso il riconoscimento artistico dei posteri, dove la scala finale prima di salire sul palco del Live Aid è metafora fin troppo evidente. L’artista non sale i gradini, ma ascende a una condizione superiore. Amen. 

 

Il caso di Freddie e della sua beatificazione cinematografica, peraltro già percorsa in molti altri biopic recenti, è interessante perché ci permette di fare qualche considerazione sul rapporto tra arte e religione. Non si tratta soltanto di un limite creativo degli sceneggiatori né di una serie di vincoli imposti dai produttori. Si tratta piuttosto dell’espressione di un rapporto canonico tra arte e sacralità, ovviamente nascosto e negato, ma nei fatti onnipresente. 

L’artista, almeno fino all’era dei Talent Show che hanno messo la pietra tombale sull’arte popolare, incarnava la figura del santo laico, manifestazione di un ordine estetico superiore, votato al sacrificio personale in nome di un bene più alto, ma non necessariamente collegato a nessuna religione positiva. Da Vincent Van Gogh a Jim Morrison, l’artista percorre una via crucis dove si consuma nel tentativo di liberare la sua vera natura che dovrà, una volta manifestatasi e irradiatasi intorno come nel roveto ardente, risplendere sui fedeli – anzi no, sui suoi fan e ammiratori. L’arte ha riempito quel luogo rassicurante che la morte di Dio aveva reso vuoto e abissale. 

 


D’altronde, l’arte moderna nasce con la narrazione di Giorgio Vasari, che quattro secoli fa inventò la figura dell’artista basandosi proprio sul modello delle vite dei santi. Il suo Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, pubblicato per la prima volta nel 1550, sembra un testo religioso, tanto l’analogia è evidente. L’artista è il santo laico e le sue opere sono i suoi miracoli, compiuti in parte per impegno personale e in parte per manifestazione diretta dell’Arte. In fondo, anche oggi, se andiamo a Londra alla Tate Gallery – o in qualunque altro grande museo – l’atmosfera e l’architettura ricordano molto quelle delle grandi cattedrali prerinascimentali: un ampio spazio monumentale, una imponente struttura architettonica, un flusso di fedeli alla ricerca della propria edificazione e salvezza, una efficiente organizzazione economica, qualche santo, qualche reliquia e, tutt’intorno, le bancarelle con salamelle e birrette. La raccolta delle offerte è praticamente identica, come la possibilità di sponsorizzare panche, altari, stanze e borse di studio.

 

L’arte risponde a quel bisogno di trovare una dimensione superiore ma collettiva, che altre forme di svago non riescono a soddisfare. Si fa carico di una serie di valori etico-sociali che promettono una edificazione facilmente raggiungibile, è sufficiente guadagnarsi l’appartenenza a quel mondo. Se una volta si doveva recitare un Credo, oggi è spesso sufficiente riconoscersi in una certa corrente estetica e manifestare la condivisione nel gusto di qualche opera. In fondo, è molto più facile e gradevole apprezzare Van Gogh o Mercury che non dichiarare la propria adesione a qualche astrusa formula teologica. 

 

Con questo non voglio né parlare di religione né criticare la musica dei Queen (che adoro), ma credo sia interessante vedere come queste analogie, tra arte e sacro, si siano accumulate e concentrate in un film che ne è rimasto letteralmente schiacciato. Quanto a Mercury, preferisco ricordarlo con le parole della sua canzone The Golden Boy che compose per duettare, in modo sfacciatamente smisurato, insieme al soprano Montserrat Caballé: “I love you for your passion/I love you for your fire/The violent desire that burns me in its flame/A love I dare not name”. Non un santo, ma forse un angelo caduto.

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B. Synger, “Bohemian Rhapsody”
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La fragilità della bellezza

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Oltre a una Venere esiste anche una pesca callipigia, aggettivo che significa “dalle belle natiche”. La prima è una scultura di epoca romana, la seconda è un emoji osé usato nei messaggi WhatsApp.

 

Veduta della seconda sala con Statua di Venere Callipigia (metà del II secolo d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale) in primo piano e in secondo piano Affresco con pittura di giardino (fine I secolo a.C. – prima metà I secolo d.C. Pompei, Parco Archeologico) – Emoji pesca.


Gli emoji svolgono la funzione paralinguistica di rafforzare il senso di una comunicazione scritta come potrebbero farlo l’intonazione nel dire, i gesti e le espressioni del corpo nella comunicazione orale: un pollice alzato o una faccia sorridente. Lo studio di queste immagini, il cui flusso nella comunicazione attraverso i social media ha dilavato ed eroso la lingua scritta contribuendo a modificare il suo corso (la faccina che piange per la felicità è stata eletta “parola dell’anno 2015” dall’Oxford Dictionary), potrebbe trovare un sostegno nella tesi del filosofo Giorgio Fano sull’origine pittografica e mimetica del linguaggio (Origini e natura del linguaggio, Einaudi, Torino 1973).

 

Parola dell’anno 2015. Oxford Dictionary.


Il loro uso rafforzativo è prevalente ma non esclusivo. Questi simboli raffiguranti oggetti, animali e faccine non rappresentano solo emozioni ma anche idee combinandosi a contrazioni testuali (“cmq” - comunque, “xò” - però, “xké”- perché), allungamenti vocalici (“ahhhh”, “siiiii”, “noooo”) e a una varietà di altri simboli non linguistici (%&$/^#()@>) presenti nella tastiera dei dispositivi mobili.

Ebbene, che rapporto hanno queste immagini con la scultura di Venere Callipigia esposta nella mostra Ovidio. Amori, miti e altre storie alle Scuderie del Quirinale (fino al 20 gennaio 2019)? Sono tutte in relazione con un testo scritto, le prime lo rafforzano o lo integrano, la seconda lo illustra. 

“Per illustrarli [i temi della mostra] sono esposti più di duecento manufatti, della più diversa specie e cronologia” scrive la curatrice Francesca Ghedini nel saggio Le ragioni di una mostra. Bimillenario ma non solo, aggiungendo che questi manufatti “mostrano come la parola di Ovidio si era fatta immagine e aveva saputo condizionare anche il repertorio a lui successivo” (catalogo della mostra, L’Erma di Bretschneider, Roma 2018, p. 16). 

 

Affresco con Io, Argo e Mercurio, 69-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


L’Affresco con Io, Argo e Mercurio esposto nella quinta sala, ad esempio, mette in scena il momento in cui Mercurio porge ad Argo una syrinx, che nel racconto di Ovidio diviene l’espediente con il quale il dio addormenta Argo (Metamorfosi I, 668-688).

Sul progetto espositivo pesa certamente il fatto che Ovidio sia considerato il più ecfrastico dei poeti antichi, in grado cioè di creare immagini “non con il pennello o lo scalpello, ma grazie al suo dominio sulla parola e alla musicalità del suo verso”. Questo approccio letterario all’immagine artistica riflette il fatto che la storia dell’arte nasce come specifico genere o sotto-genere letterario, o ambito del discorso nel quale il giudizio sull’arte deve molto al linguaggio retorico (Salvatore Settis, La nascita (in Grecia) della storia dell’arte, in Vitruvio e l’archeologia a cura di Paolo Clini, Marsilio, Venezia 2014). L’idea che l’immagine scolpita, dipinta o incisa sia subordinata a una narrazione, trova la sua matrice nella storiografia ellenistica dell’arte trasmessa da citazioni e compendi di epoca successiva. 

 

Veduta della quarta sala con Statua di Afrodite pudica, II secolo d.C. Firenze, Gallerie degli Uffizi accostata alla Venere pudica di Alessandro Filipepi detto Sandro Botticelli, 1485-1490 circa, Torino, Musei Reali – Galleria Sabauda.


Se per un verso il progetto espositivo insiste sul ruolo sussidiario e complementare delle immagini figurative, per altro verso non si nega che queste stesse immagini potessero essere dotate di una forza evocativa tale da “non farci dubitare che il poeta, mentre scriveva, avesse in mente proprio quella specifica statua, o pittura, o gemma” (Francesca Ghedini e Monica Salvadori, Ovidio e le arti figurative, p.65). Anche ammettendo che la scrittura di Ovidio potesse essere direttamente ispirata all’Afrodite Pudica: “Venere stessa, quando depone le sue vesti, si protegge il pube, a metà ripiegata, con la mano sinistra” (Ars amatoria 2, 613-14), o al tipo scultoreo dell’Eros con l’arco di Lisippo: “piegato il ginocchio, curvò il flessibile corno e colse Dite nel cuore col missile alato” (Metamorfosi V, 383-384), non sono queste stesse immagini raffigurazioni di un racconto mitologico? 

 

Veduta della seconda sala con Statua di Eros con l’arco (copia del I secolo d.C. da un originale del IV secolo a.C., Venezia, Museo Archeologico Nazionale) in primo piano e in secondo piano Affresco con pittura di giardino (fine I secolo a.C. – prima metà I secolo d.C. Pompei, Parco Archeologico).


L’immagine non si libera dal viluppo delle parole.

Mi fermo davanti alla Statua di Eros con l’arco  pensando agli studi di Gottfried Boehm, secondo il quale l’attenzione che la filosofia ha dedicato al logos le ha impedito di dedicare all’immagine la stessa attenzione concessa al linguaggio, relegandola di conseguenza a un ruolo subalterno. Boehm è il teorico dell’iconic turn, della svolta visuale che ha lasciato alle spalle la precedente svolta linguistica teorizzata da Richard Rorty. Da qui l’idea che la nostra sia una cultura prevalentemente visuale, per lo studio della quale è necessario adottare un nuovo approccio all’immagine, che è dotata di un senso proprio, indipendente dal linguaggio.

I miei pensieri vengono interrotti da un messaggio WhatsApp inviatomi da mia figlia: “ciao papi cmv? qui ttbn” rafforzato dall’emoji che rappresenta un pollice in su. Il messaggio include anche un audio, che non ascolto per evitare di disturbare. Possiamo veramente credere di essere giunti a una svolta iconica se in un testo contratto da abbreviazioni inseriamo un emoji rafforzativo del senso della comunicazione testuale e un audio? No, non possiamo certo dire di essere in una cultura prevalentemente visuale che con una rapida svolta ha lasciato alle spalle quella linguistica, ma neppure possiamo considerare le opere figurative in mostra il corredo di un testo, se non un testo vero e proprio come l’opera Maxima Proposito (Ovidio) dell’artista contemporaneo Joseph Kosuth esposta nella prima sala della mostra. 

 

Veduta della prima sala con in primo piano l’opera Maxima Proposito (Ovidio) dell’artista contemporaneo Joseph Kosuth, 2017, collezione Alessadro Maccaferri, Bologna e collezione Donatelli, Pescara.


Se è vero che i modelli linguistici si rivelano inadeguati per comprendere il modo in cui l’uso dell’immagine ha modificato la società, è anche vero che il linguaggio parlato e scritto compenetra i processi di produzione e ricezione delle immagini. Per esempio, che ne è dell’immagine visiva nell’epoca in cui la sua produzione e ricezione avviene attraverso la tecnologia Multi-Touch? L’immagine è letteralmente esplosa diventando esperienza tattile che sconfina nella scrittura.

Mentre rifletto sul complicato rapporto tra immagine e parola, non smetto di ammirare l’incredibile invenzione plastica di Eros che afferra l’arco come potrebbe afferrare un serpente: con la mano destra impugna saldamente l’attacco della testa al corpo mentre il rettile si contorce formando delle curve, che sono anche quelle dell’arco. La postura assunta dal dio per contrastare e dominare una forza è valida sia per il gesto d’incordare l’arco, sia per quello di tenere a debita distanza la testa del rettile, qui inteso non più come animale ma come simbolo d’insidia e pericolo. La passione erotica suscitata dalle frecce scagliate dall’arco di Eros è infatti insidiosa e pericolosa quanto la serpe il cui dente velenoso il dio sembra tener sotto controllo con la mano destra. Davanti alla scultura assisto a una doppia metamorfosi: quella dell’arco in un serpente e del serpente in un segno. Questi segni sono dei traslati che rappresentano un determinato oggetto per richiamare alla mente un’idea tramite un’associazione spontanea anziché convenuta. Il loro uso è comune in tutte le culture come sono comuni le metafore in tutte le lingue. 

 

Nel suo saggio sulle origini del linguaggio, Giorgio Fano sostiene che nei sistemi di scrittura che usano i traslati “il segno viene creato di volta in volta insieme all’immagine, come nella creazione artistica” (op. cit., p. 34) e che nei primi stadi del suo sviluppo la scrittura non solo ha “un valore semiologico ma anche uno estetico” (op. cit. p. 20). Chissà se Ovidio, ispirandosi al tipo scultoreo dell’Eros con l’arco mentre scriveva, aveva “colto nel segno”. Se abbandoniamo l'idea logocentrica che la scrittura sia solo un mezzo per fissare il linguaggio possiamo esaminare da un nuovo punto di vista le opere che il progetto espositivo ha posto in rapporto al testo di Ovidio, nel quale l’interpretazione letteraria del mito fa cortocircuito con quella figurativa. L’adozione di questo nuovo punto di vista ci consente anche di comprendere meglio la funzione degli emoji, che possono essere usati come traslati oltre che come rafforzativi. Spesso non è possibile comprendere veramente il proprio tempo se non interpolandolo anacronisticamente con altri tempi.

 

Sticker disegnato da Silvia De Lotto “x” doppiozero. 


Ho raggiunto l’ultima sala della mostra con l’impressione di aver perso qualcosa. Torno indietro passando in rassegna tutte le opere in senso contrario a quello di visita. Giunto nella quinta sala ritrovo l’Affresco con Io, Argo e Mercurio nel quale il tempo ha reso evanescente la testa di Io, come in alcuni ritratti fotografici di fine Ottocento stampati su ceramica. 

 

Affresco con Io, Argo e Mercurio (particolate della testa di Io), 69-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale – Ritratto in fotoceramica applicato a una lapide del cimitero di Orta San Giulio. Fotografia scattata da Mauro Zanchi.


Il ritratto mi emoziona con la stessa intensità con la quale mi ha emozionato l’Eros con l’arco. Torno nella sala dove la scultura è esposta per ammirare ancora una volta lo scorrere della luce sulla superficie del marmo e il suo lampeggiare sui cristalli a fior di pelle… polvere di marmo e di stelle, galassie, pulviscolo, sali fotografici che svaniscono come l’impronta evanescente di Io, ombre stampate sui muri da esplosioni atomiche, pixel che si disgregano e si ricompongono su display e monitor. “Tutto muta, nulla muore. Lo spirito [il termine latino spiritus usato da Ovidio traduce il termine greco pnệuma] è errabondo” (Ovidio, Metamorfosi XV, 165-170).

Questa attività pneumatica sembra avere un rapporto con il moto ondivago della psiche scatenato dalle emozioni che gli emoji portano dentro la scrittura: mi vien da pensare che la prosa dei messaggi WhatsApp sia “scossa e nervosa” quanto quella di Charles Baudelaire, che Roberto Calasso in La folie Baudelaire (Adelphi, Milano 2008) riferisce all’agitazione che si fa strada nel moderno attraverso le immagini pubblicitarie, attraverso la réclame. A questa attività non bastano le immagini e le parole che alle immagini si combinano nella scrittura di Ovidio. Serve anche la luce che scorre e lampeggia sulla superficie del marmo lavorato ad arte. Serve anche la bellezza che possiamo facilmente perdere, come nel Ritratto femminile scalpellato (Plautilla?) conservato presso l’Antiquarium Palatino, il cui viso è stato abraso per damnatio memoriae

“La bellezza è un bene fragile” (Ovidio, Ars Amatoria II, 113).

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Le Lezioni di letteratura di Vladimir Nabokov

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“La letteratura non ha alcuna valenza pratica, salvo nel caso specialissimo di uno che voglia diventare, per quanto incredibile sembri, professore di letteratura”, scrive a pag. 197 di Lezioni di letteratura (recentemente riedito da Adelphi dopo la prima edizione Garzanti del 1992), Vladimir Nabokov che, forse sorprendendo se stesso, professore per amore o per necessità a un certo punto della sua vita lo è davvero diventato. E di certo, a dispetto del suo innegabile snobismo, non un professore qualunque, ma un ottimo insegnante, come stanno a dimostrare gli appunti che sono poi stati riuniti per comporre queste postume Lezioni (nonché quelle sulla letteratura russa, Garzanti, 1987 e quelle sul Don Chisciotte, Garzanti, 1989). E come testimonia anche, a dispetto del disprezzo per i critici (che, di nuovo con raffinata arte della contraddizione, non gli ha impedito di annoverare per un lungo periodo tra i suoi migliori amici americani il grande critico Edmund Wilson, quello tra l’altro di La ferita e l’arco e di Il castello di Axel per intenderci, per cui si veda la corrispondenza inedita in Italia), tutta la parte critica perfettamente funzionale alla narrazione contenuta nei suoi libri, nel commento alla sua traduzione di Puškin e, sia pure ribaltata in parodia, in Fuoco pallido.

 

Alla vigilia della sua ennesima partenza in seguito all’emigrazione forzata dalla patria a causa della Rivoluzione del 1917, stavolta verso l’America dopo l’Inghilterra la Germania e la Francia, l’ultima prima del ritorno in Europa, in Svizzera, nella vecchiaia, Nabokov prepara la sua sopravvivenza in terra straniera sotto forma di un centinaio di lezioni sulla patria invece che porta sempre con sé e che non lo abbandonerà mai, la letteratura. Sono abbozzi già abbastanza rifiniti e tarati sui 50 minuti dell’ora accademica, che gli serviranno per il lavoro di insegnante che gli verrà offerto prima al college femminile di Wellensley e poi alla Cornell University, dove avrà tra i suoi studenti Thomas Pynchon (uno tra i pochi ad averlo visto, quindi, per quanto allora questi fosse un giovanotto tra gli altri, magari un po’ più bruttino a giudicare dalle pochissime foto note, che però è bello immaginare aver tratto lo spunto del suo futuro personaggio invisibile proprio dal contatto con il grande mistificatore russo), tra il 1941 e il 1957, a parte la parentesi ad Harvard, dove, mettendo a frutto una delle passioni della sua vita, è stato curatore della collezione di farfalle nel museo di zoologia comparata.

 

 

Pertanto il lettore di queste Lezioni non deve mai dimenticare che, nonostante la loro grande leggibilità, si tratta di appunti, quasi mai sistemati (a parte quelli che confluiranno nella monografia Nikolaj Gogol' (bellissima; Adelphi, 2014), né sviluppati in riflessioni critico-teoriche approfondite come in molti suoi libri, ad esempio nel capolavoro del periodo “russo” Il dono, dove la dimensione metanarrativa ha un ruolo di primaria importanza. Come per tutti i grandi scrittori, però, per quanto valida possa essere quella esercitata direttamente, la vera e decisiva critica letteraria è quella non contenuta, ma costituita dai loro libri stessi. E non mi riferisco all’intertestualità, in Nabokov quasi onnipresente, quanto alla struttura, lingua e forma delle loro opere “creative”, al di là spesso delle loro stesse intenzioni e elaborazioni esplicite, comunque di grande spessore nello scrittore russo. 

Ma in queste lezioni Nabokov parla a un uditorio di studentesse e studenti in genere non molto attrezzati dal punto di vista teorico e anzi probabilmente già guastati dai pregiudizi del lettore comune o, peggio, dalla chiacchiera giornalistica e scolastica (quasi tutta, esclusa la sua). Con questa base chissà che magnifiche lezioni, tenuto conto dei commenti e degli sviluppi orali che nelle lezioni non mancano mai e che è improbabile che un uomo mordace e competitivo più o meno con tutti (si veda anche il suo côté sportivo), ma anche “magnetico” e “appassionato” (Updike) come Nabokov si sarà negato.  Lo immagino, e non è difficile anche senza aver visto sue immagini né letto le interviste di Intransigenze (Adelphi, 1994), che parla con distaccata benevolenza, effetto collaterale dello snobismo e del desiderio di comunque piacere e affascinare, elargendo giudizi sferzanti e digressioni divertite e maligne senza darlo a vedere, per i pochi in grado di capire, sebbene senza disprezzo per chi non ci arrivava (erano giovani, erano innocenti, erano belli). 

 

Questo a dispetto del fatto che nella sua ultima intervista (riportata nel numero monografico che gli ha dedicato “Riga” a cura di M. Sebregondi e E. Porfiri, n. 16, Marcos y Marcos, 1999), per giustificare il fatto che le concedeva solo scritte, aveva detto (scritto): “Io non parlo in modo fiacco, parlo decisamente male, parlo in modo disastroso. […] penso come un genio, scrivo come un autore eminente e parlo come un bambino”. Affermazioni di cui è doveroso dubitare. A Nabokov è opportuno non credere mai. Le testimonianze dei suoi studenti che parlano del silenzio assoluto e dell’atmosfera tesa e quasi magica in cui il grande incantatore si esibiva, stanno a dimostrarlo.

 

 

Il titolo originale di Intransigenze suona Strong Opinions, e forti (e speziate) le interviste e dichiarazioni in esso contenute lo sono eccome, contro la cultura di massa e i colleghi, in particolare. Colleghi… Insomma, gente così. Divertentissimo e irritante, il suo discorso è spesso intriso di una malignità che sfiora l’astio e talvolta lo raggiunge e oltrepassa, ritorcendosi contro di lui con cantonate anche gigantesche, come quella su Molière, ridotto a un commediante di terza categoria, o Faulkner per esempio (la sua idiosincrasia per Dostoevskij meriterebbe un discorso a parte, soprattutto alla luce dei tratti e delle influenze dell’aborrito scrittore che gli attribuisce in Nabokov e la sua Lolita, Passigli 2002, Nina Berberova, che lo aveva conosciuto).  D’altra parte, grande visione, grande cecità. La cecità dei grandi non è la nemesi della loro grandezza, il suo rovescio o necessario corrispettivo, bensì una sua componente fondamentale. Per vedere e mostrare il mondo in modo nuovo occorre gettare su di esso un fascio di luce di qualità e direzione mai vista, intensa quanto il buio attraverso cui si fa strada; occorre distorcere quello consueto, rivoltarlo e svuotarlo, e molte cose sotto gli occhi di tutti vederle male o non vederle affatto, salvo poi accorgersi che sono ancora lì con un altro volto, un’altra forma e spessore. Con forza però. Facendo sì errori, ma grandi, tanto che al loro stesso interno luccicano scaglie di verità insospettata. O indizi, imbocchi di sentieri, che verso essa, con un supplemento di distorsione e cecità da parte del lettore, possono far cenno e orientare.

 

Non ha, Nabokov, verso i concorrenti (verso gli adepti della stessa religione) nessuna condiscendenza o tenerezza (se poni il tuo ideale a un certo livello, o sei intransigente o non sei nulla), come non ne ha per quasi tutti i suoi personaggi, specie femminili (a meno che non siano le balie e le istitutrici della favolosa infanzia o, con riserva, qualche ninfetta o giovinetta che non ha perso tutta la sua innocenza, cosa che di solito arriva a grande velocità), quasi tutti “only a pawn in [his] game”, per dirla con Bob Dylan, un gioco che curiosamente dovrebbe avere per scopo di suscitare emozioni estetiche nel lettore mentre a lui, in apparenza, ne suscitano molto meno degli organi genitali delle farfalle (stupefacenti e affascianti, per carità…), che studia per anni con grande passione.

Come si distendono invece il discorso e la sintassi e la lingua, che diventa morbida, affettuosa e ricca (fiorita) di osservazioni precise e spiazzanti buttate lì in un inciso o in alcune secondarie impreviste, quando parla di coloro che ama e illustra i momenti che per lui incarnano la “vera” arte! In particolare nelle pagine su Proust con il quale molto Nabokov si è confrontato, se non addirittura ispirato (non sia mai!) in vari suoi libri, come per esempio Ada o le originali memorie (per la forma) Parla, ricordo. Nessuno si ispira a nessuno. Ogni libro fa da sé. Legami, fili e parentele si tracciano per comodità e gusto personale, ma niente aggiungono (né tolgono, allora) a un’opera di valore. Ogni capolavoro è un mondo a sé, autonomo, compiuto, perfetto. Il resto non è niente. Quasi tutta spazzatura. 

 

Le lezioni partono da Jane Austen, scelta su insistenza di Wilson dopo una certa resistenza sulle leziosità della signorina inglese, e si chiudono con Joyce (l’inarrivabile: quello dell’Ulisse però, che reputa il libro più grande del ‘900,  non del Finnegan’s Wake), passando per Dickens, Flaubert (uno dei modelli supremi della prosa nabokoviana: della memorabile descrizione del berretto del giovane studente Charles Bovary farà persino il disegno…), Stevenson (a sorpresa), e poi Proust e Kafka, con la dimostrazione che quello della “Metamorfosi” non è uno scarafaggio, che “naturalmente non ha senso” al suo esame di esperto entomologo, ma un coleottero dotato di “ali sotto la corazza del dorso”: cosa che ha dimenticato, con il suo autore, anche lui, come molti di noi del resto quanto alle nostre, altrimenti magari sarebbe volato via…

 

 

Le lezioni sono composte perlopiù di riassunti, fatti con grande arte, leggibilissimi (essi stessi, come tutti i riassunti, già esercizi critici in sé: basta confrontarli con altri possibili delle medesime opere), con indicazioni “tecniche” di stampo didattico per far notare allo sprovveduto auditorio alcuni puntuali aspetti di metodo, stile e struttura, temi e figure, come delle istruzioni per l’uso, seguite poi da un’ampia sintesi basata sull’antologizzazione dei passaggi più significativi, in pratica eccellenti reader’s digest, che a volte precipita incontro al finale, che gli interessa poco in quanto convenzionale (come per Jane Austen).

 

Molte delle categorie usate nell’interpretazione delle opere sono datate, anche se in buona parte possono essere trasposte nel lessico narratologico (si vedano le definizioni con definizioni di stile, intreccio, tema, struttura a p. 55), o del “new criticism” diffuso in quei decenni, come segnalato da Updike nell’Introduzione a queste lezioni, o meglio ancora dei suoi coetanei formalisti russi che certo avrà almeno sfiorato per quanto nelle lezioni non li citi mai, pur essendo uno dei suoi migliori amici in America Roman Jakobson: con i suoi capisaldi di ‘arte come atto individuale, non impegnato, autonomia del testo ecc.’, e dicono almeno altrettanto, se non più, sul suo modo di intendere la letteratura che sugli autori che illustra per la gioia di giovani e inesperte studentesse (e studenti) americane, tra le quali qualche Lolita appena un po’ cresciuta da incantare, sol da lungi beninteso, ci sarà pure stata; ma essendo Nabokov un grande scrittore e non un teorico che ci tiene a essere aggiornato, va bene anche così. Poi si può fare anche un passo ulteriore e adottare questo o quello dei suoi strumenti per applicarlo alla sua opera, tanto più che egli ambiva a un controllo totale delle sue creazioni, fino a definire i suoi personaggi “galeotti condannati ai remi”, e talvolta, appunto per questo, a rischio di apparire più simili a figurine bidimensionali asservite al volere tirannico del narratore che dotate di spessore e vita (narrativa) autonoma: burattini dai movimenti un po’ meccanici e, una volta capito il meccanismo e nonostante la cura dell’autore di predisporre trappole e sorprese come franchi tiratori dietro l’angolo, non di rado prevedibili, incanalati in vie discendenti, gravitazionali, tracciate secondo una logica narrativa prefissata e inaggirabile. La volontà di costruzione e coerenza è nel progetto e, poi, nella sartoria e negli aggiustamenti a posteriori, raramente quando si scrive. La scrittura, dice Nabokov, non deve sorprendere chi scrive, ma andare a comporre e incastrare alla perfezione i frammenti da cui è composta (Nabokov lavorava anche ai romanzi per schede autonome); non deve condurre per mano, o peggio: travolgere l’autore, ma essere maneggiata con perizia, strategicamente, in un gioco di specchi, finzioni, mise en abyme, false piste, rimandi, spostamenti, in uno spazio e tempo che è solo quello della finzione, l’unica realtà che per Nabokov conta, l’unica cioè che costruisce l’immagine di una realtà che poi, se si vuole, qualcuno può anche ritrovare fuori, sebbene non egli specifichi mai dove (perché non gli importa).

 

La sua prima preoccupazione era di impedire, smontandone i presupposti e irridendone le modalità, tutte le letture ingenue, sentimentali, realistiche, contenutistico-ideologiche e via di questo passo, fino a restare con l’unico vero nucleo e valore, quello estetico, basato sulla percezione sensoriale, sempre personale, imperniata sul dettaglio e sulla memoria, e sulla sempre sensoriale risposta: il brivido lungo la spina dorsale (il vecchio, tenero frisson) come principale, e forse unico criterio di giudizio. Criterio totalizzante che condensa in sé tutto ciò che la lettura può e deve dare, e tutto ciò che un lettore dovrebbe pretendere. Assoluto, per Nabokov; meno, per altri.

 

C’è uno speciale accanimento nel definire cosa nonè questo o quel libro, o il romanzo o l’arte in generale. Per tutta la vita, a quanto pare, prima in Europa e ora in America (e per fortuna non nella Russia sovietica, dove a regnare nell’arte erano “aspirazioni fondamentalmente e compiutamente borghesi. […] la cortina di pizzo dietro la cortina di ferro”), aveva dovuto scontrarsi con tutta una serie di pregiudizi e equivoci critici, sia nel pubblico e nell’industria culturale che tra i cosiddetti addetti ai lavori di ogni livello e categoria, come capita a tutti del resto; solo che lui, che dell’arte, e in particolare della sua, aveva un’altissima considerazione, se ne irritava ogni volta. Proprio non ce la faceva a passarci sopra, a dover sempre spiegare il perché e il percome, come certo è tenuto a fare il bravo insegnante, ma non lo scrittore. Troppo aveva dovuto combattere per la propria arte contro le idee imperanti, e ogni sospetto di stupidità lo infiammava immediatamente con forza irresistibile. Amava la vita, ma preferibilmente senza i viventi. Quelli umani quanto meno. Quasi tutti.

(Eppure “Bellezza più compassione– questo è il concetto che maggiormente si avvicina a definire l’arte” ha scritto, e stavolta gli crediamo, perché quando parlava dell’arte abbassava ogni difesa. “Dove c’è bellezza c’è compassione, per il semplice motivo che la bellezza è destinata a perire: la bellezza muore sempre, la forma muore con il contenuto, il mondo muore con l’individuo”).

 

 

Date le peraltro comprensibili urgenze tra gli esuli dell’emigrazione europea per i quali la politica ricopriva ovviamente un ruolo fondamentale, per tacere delle direttive di regime in patria, e la forte incidenza anche tra i suoi ospiti statunitensi (Nabokov era convinto che in ogni abitante di quel paese ci fosse qualche goccia di sangue marxista o comunista, che nel frattempo deve essere in gran parte evaporato però), non sorprende che il suo bersaglio principale fosse l’importanza attribuita, in letteratura, alle idee e a tutta la varietà di implicazioni socio-politiche (e di mercato). Qualsiasi forma di impegno che esuli da quello linguistico e formale gli suonava posticcia e ridicola. Anche in uno scrittore come Proust, da cui si è spremuto tutto e il contrario di tutto (descrizione degli ambienti sociali, riflessioni filosofico-estetiche, ecc.)  Nabokov si focalizza principalmente sulla memoria e sulla “letteratura dei sensi, la vera arte”, contrapposta alla “letteratura delle idee, che non produce vera arte a meno che non origini dai sensi” (per questo, mentre ammirava senza riserve la prima metà della Recherche, ne aveva sulla seconda, sulle idee a suo parere troppo basata).  E infatti molti tra gli esempi che sceglie nelle ampie citazioni che costituiscono l’ossatura delle lezioni, in Proust e in quasi tutti gli autori affrontati, sono quelli dove la dettagliatissima capacità di percezione, di cose, espressioni, paesaggi e gesti, legata alla memoria fiorisce in pagine meravigliose, profumatissime.

 

A volte tali giudizi vertono su passaggi di tale accuratezza nella descrizione e analisi delle percezioni e delle sensazioni, che potrebbero risultare a certi sguardi (il mio per esempio) un po’ indisponenti, o sull’abile ricamo dei dettagli e della sintassi con derive che, come accade anche nei suoi romanzi, si prolungano rizomaticamente all’infinito senza che, a maggiore provocazione del lettore frettoloso e apprensivo a cui sembrano di proposito indirizzate, ci sia una vera necessità di chiudere dove chiudono e non prima, o dopo, a dispetto che poi la superiore abilità di Nabokov riesca a riportare tutto nell’alveo di un accuratissimo equilibrio interno e narrativo. Come in Gogol', i cui “personaggi [scrive con un’osservazione che a me pare straordinaria] vengono generati dalle proposizioni subordinate delle varie metafore, similitudini ed esplosioni liriche in esse contenute”.  (Cionondimeno a me è capitato in varie occasioni, in Lolita per esempio, di continuare da solo alcune frasi per qualche pagina mentale sull’abbrivio di quelle appena lette, a metà tra il divertito e l’irritato.)

 

Per Nabokov la letteratura è fatta solo di opere, sempre singolari, con poche e poco rilevanti relazioni con le altre opere dello stesso autore, e ancor di più con l’autore stesso, inteso come persona, e con il suo tempo e ambiente. Le informazioni storiche e socio-culturali negate come funzione (e attrattiva) primaria del romanzo, e per questo sistematicamente elise dai suoi nei quali il tempo tende a ergersi in una propria dimensione assoluta che interseca la storia solo per errore (o parodia, spesso denegata comunque), vengono recuperate come interesse e delizia secondari, finché il loro ruolo assolve anche ad altri scopi (caratterizzazione dei personaggi, momento e /o innesco dell’intreccio per far progredire il racconto…).

Le opere hanno però un grande e molteplice commercio tra di loro, come dimostrano i suoi stessi libri. Ogni opera è assoluta, ma gli assoluti, in quello strano universo che è la letteratura, non vivono senza comunicare tra di loro, nella mente di chi scrive e anche in quella di chi legge (in quella di Nabokov a maglie fittissime e a velocità vertiginose). Quelle di cui parla Nabokov, le uniche di cui mette conto di parlare, sono sempre opere di “geni” (parola ricorrente nel suo lessico, anche in relazione a se stesso, come già visto: mica ci abbasseremo alle manfrine della falsa modestia?), o semi- o quasi-geni, per i quali i rapporti con la tradizione e i contemporanei hanno scarsa o nulla rilevanza. Forse perché, ipotizziamo sulla scia di Borges, sono loro a creare il tempo da esse stesse confutato, e di conseguenza la relativa tradizione, il presente e il suo passato. Per la verità questo è ciò che fa anche il lettore, a modo suo. Nel suo piccolo. Come io nel mio. Ma questo nelle Lezioni non c’è. O meglio, c’è se adattiamo a questo contesto la splendida annotazione contenuta nelle Lezioni sulla letteratura russa, che “in realtà, di tutti i personaggi creati da un grande artista, i più belli sono i suoi lettori”. Ogni scrittore crea il proprio lettore; tutti, e non solo i grandi. I cattivi scrittori creano cattivi lettori, anche se nessun lettore sarà mai cattivo come un cattivo scrittore. Spesso i lettori sono migliori dei cattivi scrittori che vorrebbero crearli a propria immagine; raramente sono all’altezza dei grandi scrittori che pure li creano; sempre sono migliori di quando hanno cominciato a leggere però. Lo capiscono anche loro, per quanto non sappiano darne la misura. Un indizio irrefutabile è che li leggeranno ancora.

 

Nabokov ha tutto per dispiacere agli odierni alfieri del cosiddetto “ritorno alla realtà”, dell’“impegno” magari sotto forma di noir, o di letteratura “storica”, "biografica" o "documentaria", a volte degnissimi e interessanti per più di un aspetto, ma scritti non di rado “come se” (come se niente fosse, come se fosse una sceneggiatura o un reportage, come se non ci fosse una storia del romanzo, come se la lingua fosse plastilina, come se il lettore fosse...), e può mostrare anche un po’ di corda per un eccesso di sensibilità e di raffinatezza e estetizzazione, di attenzione al dettaglio, quasi assolutizzato, e insieme di immaginazione, di sintassi, di sottaciuto, di articolazioni e connessioni, di artificio e gioco, di maschere, di ironia e parodia e intertestualità, di abilità costruttiva, di minuzia, e infine per “un’eccessiva fiducia nelle parole” (come confessa il protagonista di Il dono). Ma per chi pensa che la letteratura consiste soprattutto in queste cose; che la realtà in letteratura non è un dato ma una costruzione di parole (“la realtà è una maschera”, scrive nel libro su Gogol') ma che proprio per questa via anche lo sguardo sulla realtà sia quotidiana che storica può essere più acuto, senza bisogno di essere sbandierato; che intelligenza e sensibilità (entrambe formidabili nel nostro autore) non solo non vadano per forza disgiunte ma possano anzi rafforzarsi a vicenda, e che solo da esse può venire il brivido lungo la schiena che garantisce la qualità di un’opera, e poi tutti i supplementi che ciascuno vorrà e potrà aggiungere, per costoro Nabokov era e resta insuperato, e leggere queste lezioni è un ottimo modo per conoscerlo meglio e entrare indirettamente e in modo gradevolissimo (credo che mi avrebbe fucilato per questo aggettivo…) nel suo laboratorio. Anche se, come sempre capita ai grandi scrittori, le sue idee, quelle che le Lezioni eplicitamente dichiarano o implicitamente tradiscono, sono talvolta meno innovative e brillanti di quelle espresse dalle sue opere.

 

 

Su Nabokov in doppiozero si possono vedere anche questi articoli, rispettivamente di Daniela Brogi, Claudia Zunino e Laura Beani.

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Capitalism without capital

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Dalle fabbriche di General Motors ai programmi Windows di Microsoft, dalle piattaforme petrolifere di Standard Oil all’algoritmo PageRank di Google. Rispetto a 50 anni fa, non soltanto sono cambiate le aziende in cima alle classifiche di Forbes sulla capitalizzazione di mercato, ma è avvenuta una trasformazione strutturale dell’economia mondiale: il capitale produttivo non è più costituito solamente da impianti, macchinari e infrastrutture fisiche, ma anche – e in misura crescente – da software, brevetti, know-how, in breve “il capitale intangibile”. Questa trasformazione dal capitale tangibile a quello intangibile è l’oggetto del libro di Haskel e Westlake, che ne analizzano in dettaglio le implicazioni sull’economia, sulla società e sulle politiche pubbliche. Va precisato subito che non si tratta di una trasformazione che accadrà nel futuro, ma di qualcosa che è già molto “tangibile” (scusate il gioco di parole) nel presente. Da diversi anni in alcune economie avanzate (anche se non in Italia) gli investimenti intangibili hanno infatti già superato quelli tangibili, nonostante siano più difficili da misurare (sia nella contabilità aziendale sia nelle statistiche ufficiali).


In cosa si distinguono le attività intangibili da quelle tangibili? Gli autori mettono in evidenza quattro proprietà (le quattro S: scalability, sunkenness, synergies e spillovers). La prima S (“scalability”) indica le fortissime economie di scala: a differenza di un macchinario, che può produrre soltanto una determinata quantità in un determinato luogo, un brevetto può essere utilizzato contemporaneamente in molteplici unità produttive; le economie di scala sono spesso amplificate dagli “effetti rete” che caratterizzano alcune attività intangibili. La seconda S (“sunkenness”) è legata al fatto che alcune attività intangibili sono molto specifiche all’impresa che le ha prodotte e, a differenza di un macchinario o di un edificio, hanno pertanto un valore di rivendita più basso. La terza S (“synergies”) sottolinea gli enormi vantaggi che spesso possono essere utilizzati con la combinazione di diverse attività intangibili. La quarta S (“spillovers”) riflette la facilità con cui le attività intangibili possono essere utilizzate da soggetti diversi dal proprietario (è più semplice copiare un software rispetto a un macchinario complesso). Queste proprietà delle attività intangibili hanno effetti pervasivi sulle imprese, sull’economia e più in generale sulla società attuale. Un punto di forza del volume consiste nel cogliere tali effetti nella loro ampiezza, utilizzando prospettive di volta in volta differenti (dalla macroeconomia all’economia industriale, dall’economia regionale alle teorie sull’organizzazione delle imprese).

 

Una prima trasformazione è quella della struttura di mercato, che mostra in diversi settori una tendenza verso la concentrazione, al fine di beneficiare di economie di scala e sinergie. Aumenta anche l’incertezza e la rischiosità degli investimenti, sia perché le economie di scala danno vita a effetti “winner-take-all” sia per il rischio di spillover a favore dei concorrenti. Tali sviluppi hanno conseguenze macro, contribuendo a spiegare la debolezza degli investimenti nell’ultimo decennio. Si modifica l’organizzazione dell’impresa, favorendo da un lato strutture aziendali più flessibili e creative ma dall’altro anche, grazie alle nuove tecnologie, un monitoraggio più intenso dei lavoratori e un’azione di coordinamento più efficace dai vertici manageriali. Cambia anche la distribuzione geografica delle attività economiche, con il ritorno delle agglomerazioni urbane come centri in cui si conduce innovazione e più ampi sono i possibili spillover. In alcuni momenti forse gli autori cedono alla tentazione di spiegare troppi fenomeni come causati dagli investimenti intangibili: è questo il caso della stagnazione secolare e della crescita della disuguaglianza, per i quali il legame causale con il capitalismo intangibile è più tenue e possono aver giocato altri fattori (si pensi alla demografia per la stagnazione secolare). La crescita degli investimenti intangibili comporta infine una sfida per il sistema finanziario, in quanto la loro maggiore opacità e incertezza li rende più difficili da finanziarie con il solo credito bancario, mentre il modello del venture capital non sembra applicabile su larga scala.

 

Foto di Alex Prager.


A fronte dell’ampia ricchezza e documentazione dell’analisi, il lavoro adotta una prospettiva più limitata nel discutere le implicazioni del capitale intangibile sulle politiche pubbliche. Gli autori suggeriscono di ridurre l’incertezza sui diritti di proprietà intellettuale, potenziare le infrastrutture “virtuali” (ad esempio le tecnologie di comunicazione), investire nella ricerca pubblica e nell’istruzione, prestare attenzione alla pianificazione urbana. Se tali indicazioni sono in larga parte condivisibili, si possono riscontrare tre temi sui quali sarebbero state desiderabili discussioni più approfondite e forse anche posizioni più decise da parte degli autori.

 

Il primo è il tema della regolamentazione della proprietà intellettuale, sul quale gli autori suggeriscono un approccio conservativo: il legislatore dovrebbe soprattutto ridurre l'incertezza sulle modalità con cui vengono assegnati e tutelati i diritti di proprietà intellettuale, lasciando sostanzialmente il livello di protezione previsto dalla legislazione vigente. In questo ambito gli autori avrebbero potuto domandarsi se la regolamentazione attuale non sia già eccessivamente restrittiva, rischiando di tutelare rendite di posizione (come nel caso del provvedimento noto come Mickey Mouse Protection Act, che a ridosso della scadenza del copyright di Topolino aveva esteso la tutela del diritto di autore sulle opere registrate negli Stati Uniti dopo il 1923) e soprattutto di impedire quella combinazione di diverse tecnologie che spesso è alla base delle grandi innovazioni. La questione è molto dibattuta, con alcuni autori (ad esempio Boldrin e Levine) che arrivano a paragonare la battaglia per ridurre (se non abolire) la proprietà intellettuale a quella in favore del libero commercio del XIX secolo.

 

Il secondo tema riguarda le politiche antitrust. Se il capitale intangibile è caratterizzato da grandi economie di scala, effetti di rete e “winner-take-all”, la questione di come tutelare la concorrenza e prevenire l'abuso di posizioni dominanti diventa chiaramente cruciale, eppure è solamente accennata nel volume (e, si potrebbe aggiungere, anche nel dibattito corrente). Un confronto con le politiche antitrust intraprese nella Old economy (si pensi alle lotte di Theodore Roosevelt contro i monopoli del petrolio o del tabacco negli Stati Uniti all'inizio del XX secolo) e un’analisi dei problemi specifici che contraddistinguono la tutela della concorrenza nei settori intangibili sarebbero di grande aiuto per il policymaker.

 

Il terzo tema è relativo alla tassazione delle multinazionali. Per fare un esempio molto personale, ho acquistato il libro su Kindle e la ricevuta della mia carta di credito riporta un conto bancario lussemburghese come beneficiario del pagamento. Per quanto riguarda il caso specifico, Amazon ha stipulato di recente accordi con le autorità fiscali dei vari paesi europei per le modalità di pagamento delle imposte sui beni venduti in Italia, quindi questa recensione non dovrebbe aver contribuito a gonfiare i profitti “offhsore”. Il punto più generale è che con le attività intangibili è diventato molto più facile eludere il sistema fiscale: è sufficiente andare in uno studio legale e spostare la proprietà di tali attività in una “scatola vuota” residente in un paradiso fiscale. L’attuale approccio di contrasto all’elusione fiscale si basa sul confronto dei prezzi applicati in transazioni infragruppo con quelli di mercato per transazioni analoghe (“transfer pricing”). Come dimostrato ad esempio dall’economista Zucman, si tratta di un approccio largamente insufficiente: a differenza di beni tangibili, per quelli intangibili spesso è ben più difficile, se non impossibile, individuare prezzi di mercato. Il dibattito su strumenti alternativi di contrasto all’elusione fiscale è aperto. Di sicuro il capitalismo intangibile rischia di essere anche un capitalismo meno tracciabile per il fisco.  

 

Leggi anche:

Roberto Ciccarelli. Quando il capitalismo è senza capitali

 

Capitalism without capital: the rise of the intangible economy (Jonathan Haskel e Stian Westlake, Princeton University Press, 2018; ed. italiana: Capitalismo senza capitale. L'ascesa dell'economia intangibile, FrancoAngeli). 

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La crescita dell'economia intangibile
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Lo spettacolo dell'anno

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Il teatro sembra di nuovo nudo, inefficace, inattuale sulla soglia di anni segnati dalla paura, dal razzismo, dalla violenza contro i più deboli. Forse è arrivato alla sfida definitiva (ma quante ne ha affrontate in ventisei secoli?), tra il trovare un senso nei tempi o sopravvivere come un oggetto da museo.

Per la terza volta come redazione teatro di doppiozero abbiamo voluto proporre un sondaggio sulla stagione passata, rinunciando questa volta ai collaboratori soliti e interrogando altri osservatori, critici, artisti, scrittori, curatori, organizzatori. Abbiamo chiesto di eleggere o di raccontare lo spettacolo o il tema teatrale dell’anno, oppure di inviare un augurio al teatro del 2019. Ne è venuto fuori un caleidoscopio di visioni, una piccola enciclopedia scenica del 2018, delle creazioni, degli umori e dei discordi, un testo da gustare poco alla volta, da centellinare.

Buona avventura (e buon 2019) anche ai nostri lettori, con Stefano Massini, scrittore e consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano, Dario Marconcini, attore a Pontedera e Buti di lunga esperienza e rigore, Alessandro Berti, scrittore e attore d’impegno etico e formale che fa teatro in casa propria (ma anche altrove), Michele Sciancalepore, attento osservatore del teatro come responsabile del settore spettacoli di TV2000 e critico di “Avvenire”, Giancarlo De Cataldo, scrittore e sceneggiatore, uno dei padri del noir italiano, Alessandro Toppi, sguardo acuto sulla scena napoletana (e non solo) sul “Pickwick”, Elisabetta Cosci, addetta stampa e una delle anime di Armunia e del festival Inequilibrio, Fausto Malcovati, slavista e studioso di teatro, curatore di libri dei maestri russi dei primi del Novecento, Nadia Terranova, scrittrice, collaboratrice di varie testate giornalistiche, autrice del bellissimo romanzo Addio fantasmi, Silvia Rampelli, coreografa, regista, filosofa, Claudio Longhi, regista, studioso, direttore artistico di Ert, Silvia Bottiroli, curatrice e ricercatrice, già direttrice artistica di Santarcangelo ora di DAS Theatre (DasArts) di Amsterdam, Giuliano Scabia, poeta e maestro, l’unica voce che ritorna dagli anni precedenti. (Ma. Ma.)

 

Una scena di Tous des oiseaux di Wajdi Mouawad, ph. Simon Gosselin.


Un occhio aperto sul mondo (Stefano Massini)

Mentre la sempre più sguaiata politica nostrana ingorga di video le bacheche di facebook, e il presidente degli Stati Uniti ci inonda di tweet, puoi scoprire che è invece il teatro a dischiuderci uno sguardo minimamente argomentato sul mondo, sulla realtà, sul fluire apparentemente sconnesso di ciò che chiamiamo presente. Certo: se andiamo alla ricerca di slogan a effetto (della serie: concetti sintetici, meglio se declinati sempre contro qualcuno o qualcosa), non sarà il teatro la sede in cui cercare, essendo per definizione il laboratorio di un logos naturalmente più complesso, in cui il chiaroscuro annulla le contrapposizioni rassicuranti, e si apre finalmente lo spazio della biopsia più dettagliata. Dovendo indicare, allora, qualche linea di tendenza con il pretesto di un trofeo teatrale del 2018, mi sentirei di cercare l’eccellenza in una drammaturgia straniera ampia e complessa, se vogliamo antitetica alla sbrigativa sintassi ermetica dei nostri social. Penso a Tous des oiseaux, l’importante spettacolo francese di Wajdi Mouawad, una delle voci più impressionanti del teatro europeo: Mouawad è di origini libanesi, ma ha lavorato nel Canada francofono, per poi trasferirsi a Parigi. Il suo è dunque un punto di vista diverso, intriso di culture altre, e dunque capace di dirci qualcosa di inatteso rispetto alle nostre geremiadi sull’occidente decaduto o decadente. E infatti: premiato con il Grand Prix de la critique (meilleur spectacle théâtral de l’année), il lavoro di Mouawad è di fatto un trattato sulla diversità, sul nemico, sulla necessità di avere sempre un’entità cui contrapporsi, fondando solo e sempre sulla trincea la nostra pretesa identità. E non ci confonda il fatto che tutto si svolge in un contesto israeliano, dopo un attentato che ha ridotto il protagonista in coma: il nucleo di fondo dello spettacolo è universalmente tragico, e saltando a più pari ogni finta modestia, osa rimandarci ai modelli delle trilogie eschilee, al loro afflato politico, epico, monumentale. Altrettanto memorabile, in questo senso, mi è parso The inheritance di Matthew Lopez all’Young Vic di Londra: sette ore di spettacolo in due parti, portate in scena da Stephen Daldry con un cast assai nutrito fra cui spicca Vanessa Redgrave. Qui, a lasciare ammirati è la possanza dell’edificio drammaturgico, il suo coraggio nel farsi specchio di un’intera epoca (la nostra), di cui si pone quasi come un sismografo. Anche in questo caso, tutto parte da un perimetro ben delineato (un po’ come in Angels in America, è un affresco sui drammi della comunità omosessuale negli anni del presunto post-Aids), ma la forza sta nella marcia in cui la scrittura teatrale sa obbedire a una vocazione più alta, facendosi vera cassa di risonanza delle pulsioni del suo tempo. Ecco: non so se una linea di pensiero possa essere tratta da queste due eccellenze teatrali parigine e londinesi nell’anno appena concluso. Io per parte mia vi ho trovato i sintomi di un comune percepire la drammaturgia come occhio aperto sul mondo, sui suoi equilibri, sui suoi baratri. In entrambi i casi ho trovato una coscienza imponente – importante – della propria missione, intendendo per tale la vera funzione politica del nostro narrare, il suo cromosoma distintivo, il nucleo fondante che fa del teatro il centro propulsore di ogni sistema culturale. O se vogliamo: il più laico sguardo su ciò che abbiamo intorno. Niente di più auspicabile, nei prossimi dodici mesi di teatro.

 

Una scena di O pesce palla di Ventriglia/Garbuggino.


Gran Teatro dell’Oklaoma (Dario Marconcini)

Non ho visto molti spettacoli quest'anno e mi rimane difficile pensare ad uno che rassomigli, anche se da lontano, a quelli che nel passato hanno segnato il mio percorso, ma i tempi sono cambiati, quei maestri non ci sono più, c'è però una gran vivacità di proposte teatrali spesso interessanti ma che a fatica riescono a toccarti. Eppure non tutto è perduto, perché, ogni volta che a teatro si spegne la luce e resti in quell'attimo di silenzio e di buio, ritorna la voglia e la speranza, all'accendersi delle luci sulla scena, di essere sorpresi e portati in altri mondi dove si possa ancora interrogarsi, piangere, ridere e ritrovarsi alla fine cambiati. Mi piacerebbe che lo spettacolo dell'anno fosse là, al Gran Teatro di Oklahoma, dove "tutti sono i benvenuti" e dove ti accolgono angeli su trampoli che suonano le trombe. Ma come sappiamo bene, con Kafka, quelle atmosfere, quei sogni sono inarrivabili e destinati a sfuggirti sempre, e così è per quel teatro che si ama e che non si riesce ad afferrare ma che dobbiamo in qualche maniera cercare.

Ecco allora darsi questo compito che non è più “ou sont les neiges...?" e non è nemmeno nelle proposte che circolano per i canali ufficiali, ma è quello di ritrovare quei luoghi nascosti, difficili, lontani, dove devi bussare (e chissà se ti aprono) e dove, come in riunioni di una nuova carboneria, puoi di nuovo vedere quella fiamma che pensavi spenta.

Credo di aver trovato il mio spettacolo dell'anno in uno di questi posti o di questi luoghi dell'anima ed è O pesce palla, l'omaggio a Don Chisciotte della compagnia Ventriglia/Garbuggino, due artisti scomodi, irregolari, coraggiosi, generosi, colti, ruvidi. Il loro cammino, lontano da sentieri già battuti, ci porta a condividere paesaggi, visioni, poetiche apparizioni, squarci improvvisi e onirici, che sono in questo caso, sì, di Cervantes, ma che appartengono alla realtà dell'uomo di oggi, alle periferie dove si è costretti a vivere per realizzare forse i propri sogni. Siamo di fronte ad una esperienza umana e spirituale che sulla scena nuda si offre facendo dono di sé. Con questo lavoro, attraverso le parole scelte e la loro incarnazione, con antica sapienza, nobiltà e delicatezza, sono riusciti a farci"andare oltre" e a ridarci un po' dell'essenza del teatro, la sua purezza.

Ps: Ma se invece di uno solo fossero stati tre gli spettacoli, avrei aggiunto l'ultimo di Punzo, Beatitudo, e l'ultimo delle Ariette, Attorno a un tavolo.

 

Alessandro Berti, Black Dick, ph. Daniela Neri.


Dieci auguri al teatro che verrà (Alessandro Berti)

Nel diciannove il teatro potrebbe:

1) chinarsi con più pietà sulle macerie del mondo (a partire dalle proprie ma allargando lo sguardo);

2) essere meno conformista (si è conformi a un fantasma, ormai, comunque, tanto vale emanciparsi, essere liberi);

3) rinunciare alla triste pratica dei bandi, all'equivoco meritocratico, al gelo, alla continua ridefinizione di sé;

4) trasformare la natura dei premi, non premiare un lavoro (l'etica del lavoro rende ciechi) ma un modo d'essere in rapporto: una postura, uno stile, un'attitudine;

5) semplificare in modo drastico, pensato, la relazione con la tecnologia;

6) combattere l'entropia con la lentezza, radicalmente, programmaticamente: stare fermi;

7) riflettere sul rapporto tra crisi sociali, natura del potere politico e portata del cambiamento climatico;

8) abbandonare nostalgia e assertività, fratelli opposti e invece: dare voce al presente, accettarlo, illuminandone le pieghe ancora umane, ancora riconoscibili;

9) esercitare l'autoanalisi, lo scavo, l'esame di coscienza, il dubbio, il riso;

10) coltivare con impegno relazioni: con altri umani, con animali, piante, con i luoghi, con il tempo, con il proprio pensiero e quello d'altri, con l'altrui voce, essere presenti, essere attenti, dire no. Buon anno.

 

Una scena di L’abisso di e con Davide Enia, ph. Futura Tittaferrante.


Parola che si fa carne (Michele Sciancalepore)

Idiosincrasia. È la parola e il sentimento che scaturiscono davanti all’ineluttabile richiesta del dodicesimo mese: quale il momento più fulgido e quello più tenebroso dell’anno che tramonta? Il memorabile e l’obliabile? Quesiti sempre evasi, elusi, fugati. Ma poi capita che giunga una richiesta più specifica e professionale: lo spettacolo del 2018? E lì per una strana, imperscrutabile alchimia l’idiosincrasia si tramuta in empatia. Davanti all’invito a rivivere le emozioni dionisiache accumulate in 365 giorni le difese cedono, l’innato rifiuto di ansiogeni bilanci si ribalta in alacre caccia mnemonica all’esperienza teatrale indelebile. La mente si attiva e si ripercorrono a ritroso incontri, prove, eventi, performance… La pallina della roulette della memoria gira vorticosamente e si affastellano frammenti di visioni, ognuna portatrice di una sua significativa epifania: dal labirintico e ipnotico Freud o l'interpretazione dei sogni di Stefano Massini, con Fabrizio Gifuni nei panni del padre della psicanalisi, all’orwelliano 1984 in versione thriller-distopico secondo l’acuta regia del britannico Matthew Lenton, dal floreale e struggente La gioia dell’anticonvenzionale Pippo Delbono alla polifonica, corale denuncia di Va pensiero del Teatro delle Albe, dall’Odissea in Valsamoggia, riuscito esperimento di teatro corale delle Ariette, all’indicibile dolore dell’Eracle al femminile della spiazzante Emma Dante… Ma la pallina conosce la sua meta e percorre l’ultimo giro della ruota fino a quasi adagiarsi sul rosso evocando la messinscena corale, fantasmagorica di Beatitudo, l'ultimo lavoro della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo. Ma poi la pallina scavalla il rosso e si ferma definitivamente sul nero, su L’Abisso di Davide Enia. C’è un atemporale attimo di sospensione e indecisione fra l’opera immaginifica e polisemica dell’architetto dell'impossibile e il monologo asciutto, crudo e crudele dell’affabulatore palermitano. Ma alla fine la scelta cade su una parola che si fa carne. Concreta, viva, insostituibile. Lo sa bene Davide Enia, il drammaturgo, attore, narratore che fa attraversare il verbo su ogni fibra del suo corpo. Stavolta però si tratta davvero di un “Verbo caro factum est” perché protagonisti della sua narrazione sono i Gesù di oggi, gli stranieri in cerca di accoglienza, i naufraghi con il loro disumano calvario, la loro atroce "Passio". Al centro del racconto di Davide Enia, che a Lampedusa ha trascorso un anno per intervistare, assistere agli sbarchi, conoscere e vivere sulla sua pelle e dentro il suo cuore un suo personale vertiginoso e quasi ineffabile naufragio, c'è il ‘rescue swimmer’. È un eroe ignoto, non sotto i riflettori della scena, fuori da risonanze mediatiche. È il sommozzatore che sulla motovedetta calza muta arancione e si tuffa senza tentennamenti durante le operazioni di soccorso: “Si aiuta chi ha bisogno, è la legge del mare. Stop”. A guidare la traiettoria della pallina, dunque, non era il caso né il caos, ma l’esigenza di un teatro necessario.

 

Una scena di Tango glaciale reloaded, da Mario Martone, riallestimento di Raffaele De Florio e Anna Redi.


Inno al corpo (Giancarlo De Cataldo)

Racconta Mario Martone che Tango Glaciale “scoppiò la sera della prima tra i vicoli di Napoli dove si trovava il teatro e dove la gente s’era accalcata superando i muri di legno e cemento che chiudevano le strade”. Strade devastate dal terremoto: e lo spettacolo era scena che ballava dove aveva ballato la terra. Sorpresa, felicità, lacrime, emozione. Esserci dev’essere stata un’esperienza imperdibile. Generazionale. Trentasei anni dopo, affidato a giovani interpreti – ma più corretto: re-interpreti, ri-costruttori – l’allestimento di Raffaele Di Florio e Anna Redi per Tango Glaciale Reloaded è tutt’altro che un’operazione nostalgia. Sicuramente non lo è per chi a quel tempo non era nemmeno ancora venuto al mondo. Ma anche per chi appartiene (più o meno) alla stessa epoca sarebbe improprio evocare la categoria del rimpianto. Semmai, si potrebbe discutere di tradizione, persino di classicità: l’intersezione di linguaggi, il video, le sonorità martellanti, i flash psichedelici appartengono a un mood rappresentativo ormai consolidato. Non si possono né devono più leggere come segnali della rottura di una qualche gabbia ideologica né come augurio di provocazione. Ma ecco un classico che, proprio in virtù del suo essere tale, si de-classicizza, e fa riemergere il proprio tessuto fatto di vitalità, energia, corporeità. Carne e fibre e umori e scariche elettriche: primo merito, in un panorama nel quale, troppo spesso, ‘glaciali’, se non decisamente congelate, sono le fissità fisiche e le rigidità concettuali di messe in scena asettiche, respingenti. Tango Glaciale Reloaded è, nella mia personale lettura, la sublimazione di quell’inno al corpo che scandisce le migliori creazioni di Martone. Il luogo nel quale il gioco sensuale di cadenze frenetiche (fra musica e moto tellurico) perverte i canoni delle armonie trascinandoli a forza nel gorgo umido della seduzione. E questi corpi hanno già dentro di sé l’erotismo dell’Amore Molesto, il viluppo di membra del Teatro di guerra, le lacerazioni delle Bassaridi e l’impossibile riscatto apollineo di Capri-Revolution. Ricorda sempre Martone che mentre i quartieri Spagnoli festeggiavano Tango ‘the original’, i camorristi si portarono via tutto, ma “dopo l’ultima replica: un segno, in fondo, anche questo, dell’amore per lo spettacolo”. I camorristi non si sono fatti vivi, nei pressi del Teatro Vascello, dove a presentare lo spettacolo era il Romaeuropa Festival (a proposito: cartellone sempre più stimolante, chapeau!). In compenso, c’erano tanti giovani, molti di più di quelli che siamo abituati a vedere alle prime. Tango reloaded continua dunque a parlare al loro cuore e al loro cervello. E loro se ne appropriano. Rubano, metaforicamente.  E questo, direi, è il segno di amore che ci deve confortare.

 

Una scena di La cupa di Mimmo Borrelli.


La cupa (Alessandro Toppi)

L'aria annebbiata, domina la penombra, d'intorno terriccio; una pedana taglia nel mezzo la platea unendo la cavea con il palco: richiama le cupe, le stradine che portano alle miniere di tufo, ma commemora anche l'ultimo tratto della Cumana, treno locale che giunge alla spiaggia di Torregaveta: lì dove Borrelli – ascoltando lo sciabordio del mare – trovò il verso con cui scrivere: “'Nzomma… 'nzomma… 'nzomma...”. In un angolo giacciono una rete da pesca, un drappo sfrangiato, un ex voto, un candelabro; giace – chissà dove – il cumulo dei morti che precede questa storia: madri, padri e figli di cui torna la memoria: come fosse una condanna, a dire di un destino. Una luce fende il buio, come venissero dall'oblio anime ritornanti occupano l'assito, suoni sorgono dalla postazione del musico, uno stridore – simile a quello dei maiali quando vengono sgozzati – tocca l'udito. Si comincia. Vedremo amanti per i quali amarsi è impossibile, padri che tradiscono i figli, mariti che uccidono le mogli; vedremo inganni e delazioni, lotte, agnizioni, vendette, un'infilata di duelli dialogici; vedremo una strada, una selva, il pallore della luna; vedremo una ragazza piccola come un canarino, come un canarino accecata perché canti: la vedremo ingannata, stuprata, indotta al suicidio. E animali che parlano, massi che crollano, processioni battenti e un sopravvissuto a cui tocca serbare l'accaduto. La cupa di Borrelli è un'avvenenza poderosa: dura tre ore, durante le quali – in quest'altro luogo chiamato ‘teatro’ – sorge un altrove che non esisteva. Sorge riconnettendoci alla pratica memorial-kantoriana e alle corporeografie da Teatro Nō; riprendendo il rapporto col primordiale che ha la tragedia ellenica rimandando però a Viviani: sono gli ultimi della Terra a farsi male, mostrandoci la brutta piega che sta prendendo il mondo.

La cupa, dunque: tuttavia non solo per quel che appare in scena, poiché gestazione dell'opera e sua vicenda a posteriori raccontano il morbo che affligge parte dell'assetto teatrale italiano: prodotta da un Nazionale, a La cupaè stato concesso un numero insufficiente di prove – fatte in una sala distorta, umida e inadeguata – mentre, finite le repliche, non ne è stata prevista la ripresa: non ancora, almeno. Così Borrelli, per andare in scena con dignità, ha dovuto lavorare in una palestra e lì per mesi – con gli attori – ha cercato di dare senso e forma alla visione, rispettando la sua necessità di dire, i tremila versi selezionati (parte dei venticinquemila che compongono l'intero testo) mentre ora si deve accontentare di promesse in formato mail, per il 2019/2020: dove – Torino, Roma, Milano, chissà – e quando, e in che modo, tornerà La cupa? Conseguenze d'un sistema tarato sul consumismo accumulativo e la sostituibilità immediata del prodotto: tempi di studio ridotti, dunque; bene offerto in promozione; smaltimento subitaneo del titolo per fare spazio a un altro titolo.

Già, ma che c'entra tutto ciò con il Teatro ed i suoi artisti?

 

Castello Pasquini a Castiglioncello, luogo di residenze artistiche.


Le residenze artistiche (Elisabetta Cosci)

Tanti spettacoli importanti hanno attraversato questo anno che si sta concludendo, lasciando tracce e sentieri nella memoria e nello sguardo, ma se cerco una modalità che possa aprire prospettive al teatro in questi tempi e in quelli a venire, una formula che possa essere veicolo per coinvolgere un pubblico esterno alle dinamiche teatrali, non posso che pensare ad un progetto ambizioso, quello delle residenze artistiche. Le residenze artistiche sono uno spazio libero dove le poetiche diventano confronto e il tempo non è più nella tirannica condizione che lo lega alla produzione. Sono un sistema teatrale che sostiene e promuove la diffusione della cultura, delle arti e dello spettacolo prendendo forza dai piccoli spazi. In Toscana, in particolare il progetto è un esempio virtuoso di collaborazione tra vari soggetti sparsi nei diversi territori, ed è un valido strumento per creare occasioni di incontro tra l'offerta culturale e la pluralità di istanze che sono rappresentate da ogni singola comunità. Piccoli presidi culturali e sociali, diffusi capillarmente in tutta la Toscana, in grado di creare comunità tra gli artisti in residenza e gli abitanti dei luoghi che grazie alla stanzialità possono creare occasioni d‘interazione e di condivisione. La capacità di dare sostanza alle differenti vocazioni, non solo artistiche, sono espresse al meglio da un progetto diffuso e differente che allo stesso tempo è in grado di stabilire solide forme di cooperazione tra i soggetti che perseguono obiettivi comuni. A ogni artista è dato uno spazio nel quale ha tempo di stare, di lavorare, di creare, di confrontarsi generando altro valore. In questo tempo di gemmazione le sale prove possono aprirsi e trasformarsi in laboratori. Nel corso del triennio che si è appena concluso, le Residenze toscane hanno programmato nei loro teatri oltre 5400 spettacoli ma è stata soprattutto l’organizzazione di laboratori e di progetti con gli artisti in residenza che hanno interessato cittadini di ogni genere ed età: anziani, adolescenti, bambini, genitori e insegnanti. Per molti di loro questi momenti hanno rappresentato il primo approccio con il mondo del teatro. Mai avevano visto uno spettacolo, la frequentazione laboratoriale li ha resi curiosi nei confronti di un mondo che credevano a loro estraneo, si sono avvicinati e in molti casi sono divenuti pubblico consapevole. Penso per esempio all’esperienza che dal 2011 si rinnova grazie alle residenze – laboratori, non solo in Toscana, della coreografa Silvia Gribaudi con signore over 60. Un progetto che negli anni è cresciuto raggiungendo una qualità e un impatto sociale straordinario. Quelle signore si sono avvicinate alla performing art con curiosità, ne sono divenute protagoniste e oggi sono anche pubblico esperto che non disdegna la visione di lavori che prima sarebbero stati loro ostici. Esperienze preziose di inclusione e di confronto collettivo che testimoniano quanto sia importante soprattutto per le istituzioni, investire in cultura.

 

Una scena di Elena da Santa Estasi di Antonio Latella, ph. Brunella Giolivo

 

Dieci ore di felicità (Fausto Malcovati)

Adrenalina pura. Estasiato da Santa Estasi. Emozionato come non mi capitava da anni. Inchiodato alla poltrona per quasi dieci ore di spettacolo. E non avevo voglia di uscire. La grande saga degli Atridi rivisitata da un gruppo di giovani drammaturghi e attori, sotto la direzione di Antonio Latella, sommo mentore, coordinatore superlativo. Un groviglio di violenza, aggressività, impeto, passione, smania, voluttà, disperazione. Una storia che conosco benissimo e invece l’ho ascoltata come se fosse la prima volta. Passo dopo passo, episodio dopo episodio, l’ho riscoperta in tutta la sua potenza. Parole antichissime totalmente rigenerate. Storie che si scuotono di dosso secoli di incrostazioni: reinventate. Con una furia, un’urgenza straordinarie. Un’eruzione incontenibile di energia, una colata di lava incandescente. Una drammaturgia magistrale, capace di ripensare senza alterare, di asciugare senza impoverire, di attualizzare senza banalizzare, di collegare senza manipolare. Seneca e Eschilo, Sofocle e Euripide. E poi, alla fine, Linda Dalisi, che conclude, oggi, le storie di secoli fa. Chi sono per noi Agamennone e Menelao, Elena e Ifigenia, Elettra e Oreste? Ci riguardano le loro vicende? Accidente se ci riguardano. In fondo ha già risposto Amleto, parlando di Ecuba. Corsi e ricorsi vichiani, Ma una drammaturgia pur perfetta come questa non avrebbe retto senza la presenza, la collaborazione, l’immersione nel testo di un gruppo di giovanissimi attori, tutti formidabili. Parlavo prima di adrenalina. Non ce n’è uno che non la trasmetta. Tutti insieme sono un ciclone. E sanno modulare toni, gesti. Ritmi lenti si alternano a scatenate sequenze con uno slancio, un’inventiva, una padronanza superlative. Antonio Latella li ha guidati – ormai alcuni fa, nel 2016 – in lunghi mesi di allenamenti, improvvisazioni, montando e rimontando sequenze, trovando di volta in volta tempi, inflessioni aderenti ai diversi momenti della saga. È riuscito a mantenere tensione costante, intensità, compattezza. Non c’è quasi nulla in scena. Bastano loro, gli attori, la loro fisicità, la loro fantasia, la loro creatività, il loro impeto. Nessuna traccia di accademismo. Ognuno si è inventato il proprio personaggio, se l’è cucito addosso: con molta allegria, spavalderia, qualche isterismo, sprazzi di follia. Nudi o vestiti con vistosi costumi, assurde parrucche.  Sì, tutti insieme, in perfetta sintonia, con la loro spontaneità comunicativa, la loro giovinezza incontenibile. Nelle fosche vicende degli Atridi oltre all’angoscia, alla ferocia, all’inquietudine, c’è spazio per leggerezza, ironia, spensieratezza, perfino ilarità. Da quando non vivevo dieci ore di felicità? Da quando non mi sentivo dentro tanta vitalità?

 

Eleonora Danco.


Eleonora Danco (Nadia Terranova)

Lo spettacolo del 2018 per me è Eleonora Danco. Non mi riferisco solo alla trilogia andata in scena al teatro India di Roma a dicembre, che ha chiuso l’anno come si deve, quindi con i fuochi d’artificio, mi riferisco proprio a lei in tutto ciò che fa: le foto che pubblica sui social – stesa a faccia in giù, tra le scale, tra i regali, nei teatri, per le strade, come morta a dire che è vivissima. Per Eleonora ogni luogo è teatro, ogni spazio è scenario; protesta, urla, inveisce con tutto il corpo prendendosi quello che può; riesce in ogni cosa che fa, anche al cinema, il suo film N-capaceè bellissimo, con quella protagonista Anima In Pena come lei. Riesce in televisione, come ci ha ricordato tornando alla Tv delle ragazze, dove abbiamo rivisto quanto era brava già decenni fa, giovanissima, minuscola e straripante di talento. È rimasta tutte queste cose insieme: giovanissima, con un viso e un corpo da elfo, sempre fuori dal tempo, minuscola mentre occupa tutto il palco, un talento intatto, già denso di esperienza e ancora più denso di futuro. Lo spettacolo del 2018 per me è Eleonora Danco, quello che ha fatto e quello che farà. Perciò è stato importante volgere uno sguardo indietro, prima di guardare avanti: la Trilogia Danco, da dEVERSIVO a Nessuno ci guarda a Donna n.4, è stato un momento teatrale di giusto tributo e intatta meraviglia. Si tratta di spettacoli amatissimi in cui Danco ha portato e continua a portare: erotismo, furia, ritmo, rabbia, magnetismo, crisi, apertura, esagerazione. Dirompente come la pittura a cui si richiama (Pollock, Rauschenberg, Bacon), ipnotica, iperattiva, poetica e dissacrante (poetica perché dissacrante), con quella sua lingua romanesca viscerale e invece studiata, elegante, calibrata in ogni parola, in ogni dittongo – ed è questo, che si sappia, a renderla viscerale.

 

Una scena da La reprise di Milo Rau, ph. Michiel Devijver.


Generatività del male – riflessioni da La reprise di Milo Rau (Silvia Rampelli)

Soggettiva. Piango le lacrime della Madre. La certezza di un sapere muto che il solo sentire nel corpo, impotente e inascoltabile, consegna. L’augurio mancato, l’oscuro rovesciamento del kairos si dà come segno: il figlio è perduto.

Non piango in teatro, ma in questa ripresa il teatro non c’è o, più esattamente, l’artificio manifesto – tavoli, sedie, schermi, luci, automobili, microfoni, telecamere, testo, attori, genio, errore, tutto – arde e tra le ceneri campeggia il fatto: l’uomo tragico.

Mi specchio nella solitudine originaria di questa tragedia, nostra, mia. L’abbattersi del caso nel fiorire di segni per anestesia del logos ignorati. L’epifania del dettaglio che si fa premonizione, il declinare della luce e del senso. Chiudo gli occhi nella cecità. Il male, con le vesti del caso, prende la forma incomprensibile e fatale del delitto operato dall’uomo sull’uomo, da più uomini su un solo uomo, da più ragazzi su un solo ragazzo. Vorrei invertire il ricamo del tempo che tesse miraggi e fa dell’assassino, del morto, del testimone, la stessa vittima. Vorrei dirti: non c’è ragione. Non c’è ragione.

Sul sacrificio del corpo cede lo sguardo, si leva la domanda.

Il male fonda il mondo, la necessità di mondo: la società, il diritto, il tribunale, il giudizio, il crimine.

 

Totale. La repriseè il diario scomposto di un assassinio a sfondo omofobo avvenuto in Belgio, teatralmente scritto a partire dai documenti della ricostruzione giudiziaria.

Il padre ignora ciò che la madre sente: la perdita del figlio, barbaramente ucciso da tre giovani, il corpo nudo, offeso, lasciato in strada.

Il fatto – figura, azione, nesso – è rotto in una frammentazione di dati che solo il progressivo coagularsi della coscienza nella durata rende indizio, certezza, racconto. Il passaggio temporalmente situato dall’ignorare al riconoscere fondante l’esperienza conoscitiva – di cui la relazione scenica atto/attore-spettatore è esempio – qui è tematizzato, rappresentato, presentificato, divenendo fulcro drammaturgico. L’ordine smarrito, la disarticolazione della causa e dell’effetto necessitano un tempo (il teatro) per ricomporsi nella stabilità del percepito. E il percepito inaccettabile, il senso rovesciato è l’assassinio del giovane. Nel fatto spoglio, nel fato, la solitudine invoca comunità. Individuo, destino, etica, politica: distrazione di nomi per una sola voce.

Nella penombra il centro è vuoto. Il crimine si compie sotto, sopra, al lato, dietro, spezzato, lo sguardo cerca, taglia, compone una prismaticità che è elevazione a potenza e sottrazione, dramma dell’identità, domanda. Siamo nell’ordine della pluralità, il fatto – l’uno – è disperso in un molteplice inarrestabile. Il titolo promette e tradisce. La ripresa, duplicazione del passato nel presente, di un tempodestino che si vorrebbe ri-attuare, trattenere, è l’atto che non può essere compiuto. Tempo trascendenza. L’assassino in carcere dichiara al suo doppio – l’attore che lo rappresenta – la fortuna di chi in questo dramma è solo attore. Rappresentazione, ripresentazione, ripetizione, no. Il tempo per l’uomo è verso.

 

Soggettiva. Tu, madre che vivi nel legame, che sei corpo dell’altro, sai che il silenzio indica.

Tu, giovane che ti abbandoni al canto, nella fredda canzone avvicini gli animi prima della fine.

 

Una scena da Kanata di Robert Lepage.


Kanata: impressioni sullo ‘spettacolo del secolo’ (Claudio Longhi)

Parigi. Piove in questa penultima domenica dell’anno. Un vapore opalescente ammanta il paesaggio spettrale del Bois de Vincennes. Fatico ad orientarmi. Da qualche parte, lì davanti a me, deve esserci la Cartoucherie, il rifugio del Théâtre du Soleil. Mi scopro a ripensare a Nekrošius e alla sua recente fin de partie. “Faccio spettacoli lunghi e ripetitivi”, aveva dichiarato un giorno il Maestro, “come antidoto alla velocità del nostro presente”: un mantra energico che nel silenzio di questa tarda mattinata dicembrina mi guida verso lo spettacolo cui tra poco assisterò e che al contempo dialoga aspramente con voci non meno ferme della mia memoria. Sono quelle di Dürrenmatt e Brecht, intenti a interrogarsi sulla rappresentabilità del mondo contemporaneo attraverso il teatro: gli «uomini» devono dotarsi di tutti gli «strumenti utili» per capire i «grandi e complicati avvenimenti» dell’oggi, perché «le cose», oggi, «sono complicate». E poi…

… poi, un paio d’ore dopo lo spettacolo: Kanata Épisode I La controverse– la prima creazione di punta del Théâtre du Soleil non varata dalla matriarca Mnouchkine, ma affidata alla guida di Robert Lepage. La posta in gioco è alta: raccontare in palcoscenico la storia del Canada concentrandosi sulla ferita del rapporto irrisolto con le popolazioni indigene. La via crucis di Tanya, autoctona eroinomane trucidata da un serial killer, corre veloce nell’aggiornato cine-tele-teatro di Lepage, in bilico tra diario privato e docu-fiction d’attualità. Facendo perno su di un loft alla periferia di Vancouver, la trama si affabula in un copione dalla sintassi abnorme tipica delle storie incrociate delle serie TV e dal linguaggio quotidiano e minimalista proprio alle sceneggiature pop. La cronaca è lì, sotto ai nostri occhi, e lungo le due ore e mezza di spettacolo il regista la insegue in un’inchiesta serrata squadernata a macchia d’olio sul plateau, nello sforzo di aderire alla superficie infinita del reale. La cronaca è lì, è vero, ma lo spettacolo si impenna veramente solo verso la fine, in una sequenza stupefacente: una canoa sospesa a mezz’aria, fuori dal tempo, che ruota su se stessa; il ripiegarsi del racconto sul proprio incipit nella citazione della foresta primigenie iniziale; Tobie e Miranda, i due protagonisti, che danzano la loro passione sfidando la gravità e precipitano infine su di un letto, inchiodando così la loro fuga ad un sogno… La rapidità frattale degli accadimenti e l’immobile verticalità del mito: il corto circuito è folgorante. Ed è un cortocircuito che getta nuova luce sulla polemica che ha accompagnato la creazione di questo spettacolo, arrivando financo a metterne in forse l’andata in scena. È legittimo rappresentare il dramma degli autoctoni del Canada non avendo nessun interprete autoctono coinvolto nel progetto creativo? È in atto, in questo caso, un’indebita appropriazione culturale? Una polemica che interroga, a ben vedere, lo statuto stesso del fare teatrale, incendiando gli incerti territori di confine tra il teatro-documento e il teatro-metafora. Mito versus storia, dunque.

Esco confuso dalla sala. E lo smarrimento aumenta, nel prendere congedo dalla Cartoucherie, quando lo sguardo si ferma sulla scritta che campeggia sul portone del teatro: «liberte egalite fraternite». Il motto della Francia rivoluzionaria. Il ricordo sbiadito dei fasti di un glorioso chronicle play come 1789. A fronte del trionfo del mito cui ho appena assistito, la storia come spazio privilegiato d’intervento dell’engagement di M.me Mnouchkine. Mentre ripercorro à rebours il cammino della mattinata, sull’ambiguità dello spettacolo si allungano le ombre di precedenti allestimenti a contraffarne il profilo: L’histoire terrible, mais inachevée de Norodom Sihanouk roi du CambodgeLe dernier Caravansérail, da un lato, Les atrides dall’altro. Ormai Kanataè diventato un centauro di possibilità. Giunto all’ultimo tratto dell’Avenue de Fontenay sono attraversato da un pensiero. Se il teatro è lo «specchio» del saeculum, mai come oggi è essenziale prendere posizione, al vaglio di un’implacabile dialettica, su quale «forma» e «impronta» il nostro“tempo” debba vestire sulla scena. Per reagire a quanto ci circonda e ritrovare l’essenza dell’azione teatrale.

E mentre mi lascio scivolare lungo le scale mobili della stazione locale nel ventre del metro che mi riporterà a Charles de Gaulle, ritrovo nell’archivio del mio iPhone lo scatto che ritrae una delle sentenze trascritte sulle mura confetto della cantine del Théâtre du Soleil: “Le Temps, à la fin, vous sautera dessus, comme le faucon sur la perdrix. Kabir” (il tempo, alla fine, ti ghermirà, come il falco la pernice).

 


Anche noi (Silvia Bottiroli)

Il 2018 resterà nella storia anche per essere l’anno in cui diversi casi legati al più ampio movimento di #metoo hanno acceso il dibattito nella comunità teatrale. Possiamo leggerli in rapporto a una scena teatrale che negli ultimi anni ha fatto dell’indagine della realtà a mezzo della finzione una vera e propria poetica, spesso utilizzando lo scarto tra l’una e l’atra per produrre un effetto di “scandalo” nel senso etimologico di inciampo alla usuale comprensione e lettura del reale, di rivelazione di un altro livello del senso. Ce lo hanno insegnato tra gli altri i re-enactment magistrali di Milo Rau, le distopie fantastiche di Philippe Quesne, e in Italia le scritture sceniche di Deflorian-Tagliarini, le ricerche coreografiche di Cristina Kristal Rizzo e Michele Di Stefano e gli spettacoli di Motus.

Ora che è la realtà a guardare il teatro e a produrvi scandalo, gli effetti sono ancora tutti da misurare.

Il primo articolo pubblicato da Ilse Ghekiere su RektoVerso nel novembre del 2017 (#Wetoo. What dancers talk about when they talk about sexism) ha infatti dato il via a diverse voci che, una dopo l’altra, hanno preso la parola per denunciare le diffuse forme di sessismo e le diverse sfumature di molestia sessuale all’opera nell’ambiente di lavoro del teatro, all’interno sia di istituzioni artistiche pubbliche sia di grandi compagnie private, in tutta Europa. Queste lettere aperte, spesso seguite da lunghe serie di commenti, hanno definitivamente rotto il muro di silenzio e involontaria complicità che aveva protetto fino ad allora alcuni acclamati artisti internazionali, soprattutto uomini: ne sono emblema il caso di Jan Fabre e della sua compagnia Troubleyn, le cui violenze sono state denunciate da una lettera a firma di molti (ex) dipendenti e collaboratori, e quello di Frank Castorf che rispondendo a una domanda sulla scarsità di registe donne prodotte o programmate dalla Volksbühne ha dichiarato letteralmente: “Ci sono due squadre di calcio: maschi e femmine. E tutti possono vedere la differenza di qualità”, scatenando la reazione di una giovane curatrice, Felizitas Stilleke, la cui lettera è diventata virale in pochi giorni.

In questa fine d’anno e in inizio di un anno che vorremmo nuovo, è il caso di chiederci come il #metoo risuonerà nel teatro e nella danza italiani dove, in coerenza con l’intera nostra società, il sessismo è ampiamente diffuso e legittimato, anche al di là delle forme più gravi di violenza o molestia e proprio come pratica abituale che conforma profondamente il nostro modo di pensare. Nel 2018 tutta l’Europa ha dovuto riconoscere quel che già sapeva, e cioè che l’ambito artistico non è immune dai mali della società in cui opera ed è doppiamente colpevole di praticare un pensiero critico che non sa rivolgersi a se stesso, alle proprie etiche, politiche e modalità di produzione. Intere narrazioni e mitologie sulla creazione artistica sono esplose nell’impatto con un movimento che ha rivelato il teatro non solo come meccanismo di rappresentazione del reale ma anche come pratica di realtà costruita su strutture patriarcali, eppure molto poco è sembrato vacillare nel sistema teatrale italiano, sia sul fronte artistico sia su quello accademico, critico, e delle istituzioni artistiche.

Bisogna allora che iniziamo ad aprire gli occhi sulla realtà del nostro teatro, a indicarne con precisione le strutture di potere e i soggetti e ad assumerne tutte le conseguenze, per trasformarlo davvero in un campo di produzione di senso e in un emancipato modello di possibili comunità future.

 


Copertina dell’operina di auguri per il 2019 di Giuliano Scabia.


Un augurio al teatro del 2019 (Giuliano Scabia)

l'universo, si sa, non è eterno (forse):

il teatro, che è lo specchio dell'universo, ha il tempo dell'universo:

nel 2019 fa un nuovo passo, un passo doppio,

per mostrare all'universo il sentiero di se stesso:

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Teatro 2018
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Dare forma all’informe

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Di che cosa hanno bisogno gli artisti oggi? Cosa abbiamo bisogno di costruire noi tutti, come individui e come società? Per provare a rispondere a queste domande possiamo rintracciare alcuni indizi raccolti nella mostra La vita materiale. Otto stanze, otto storie, in corso presso le sale di Palazzo Leone da Mosto, prezioso edificio quattrocentesco nel centro di Reggio Emilia. 

 

È da un dialogo ideale con Jean Dubuffet. L'arte in gioco. Materia e spirito, 1943-1985, ospitata presso Palazzo Magnani di Reggio Emilia che prende il via l’esposizione a cura di Marina Dacci. Per l’occasione, le artiste Chiara Camoni, Alice Cattaneo, Elena El Asmar, Serena Fineschi, Ludovica Gioscia, Loredana Longo, Claudia Losi e Sabrina Mezzaqui sono state chiamate a realizzare degli “habitat” nei quali mettere a nudo la relazione tra arte e vita personale, focalizzando l’indagine sul sé attraverso proposte formali che esibiscono il proprio processo costitutivo. 

 

Otto stanze ma soprattutto otto habitat, perché il punto di partenza è ricreare – prendendo a prestito una definizione della biologia – le condizioni ambientali in cui un essere vivente trova una condizione favorevole al proprio sviluppo. Non siamo al cospetto di una collettiva consueta: non c’è un contenitore da riempire, né una tesi programmatica da illustrare; qui la piattaforma è altra, è un tavolo sgombro attorno al quale si sono sedute artiste differenti per storia, linguaggi, provenienza, poetica, che hanno preso parte a un’operazione nella quale si è data cittadinanza a ogni singola identità, ognuna delle quali ha concorso alla realizzazione di un edificio labirintico, in cui riannodare il filo di un fare artistico che si dispiega come pratica unitaria tra la dimensione privata del vivere e il riflesso che questa proietta sulla vita pubblica, in quella dimensione collettiva in cui si trova ad agire l’opera d’arte, una volta generata.

 

Ph Claudia Losi.

 

Via via che ci si addentra nel percorso espositivo, la dissonanza iniziale che coglie lo spettatore, che si confronta con mondi apparentemente privi di continuità, lascia spazio alla rivelazione di legami imprevedibili e più solidi. Ogni stanza apre a un territorio più vasto, nel tentativo di fotografare il macrocosmo dell’artista, e ogni stanza “sconfina” nell’altra, in un dialogo ininterrotto che stratifica la mostra; non si tratta di semplici installazioni, quanto piuttosto della condensazione di modus operandi, una via per approcciare la complessità della ricerca al di là della singola opera. Dacci, refrattaria alle logiche curatoriali precostituite, sceglie un approccio laterale, muovendo dall’assunto di pratiche che trovano un terreno comune nel ruolo dell’homo faber, nel ricorso a tecniche apparentate al mondo dell’artigianato, nell’impiego di materiali per lo più di recupero, o comunque di provenienza umile, marginale, sempre residuale. Il cardine della mostra è quindi la verifica di senso di un’operazione, una proposta più che un’asserzione, l’invito ad abbracciare una prospettiva dove il basso e l’orizzontale si sostituiscono all’elevato, al fine di riportare gli oggetti nel mondo, utilizzando il registro del declassamento per permettere alla forma di ricostruirsi e risignificarsi partendo da sé. Un processo che avviene in parallelo anche nell’io dell’artista, che si configura a partire dalla demolizione di una identità data, socialmente determinata e precostituita, e si ricostruisce in un individuo che agisce perseguendo una logica alternativa, in continuo divenire.

 

In questo territorio trova giustificazione il ricorso a registri linguistici e generi narrativi come l’ironico, il giocoso, il fantastico, il diario, lo stream of consciousness, che tendono a non essere mai dimostrativi (evitando quell’“alto”, cui si accennava prima), ma portatori di un grado di difetto, contaminati dalla presenza di germi di vita materiale che, come batteri, abitano il corpo delle opere. Proprio come avviene in molte pratiche craft, dall’arte della tessitura dei tappeti a certi tipi di ceramica, il difetto costituisce un segno che impreziosisce il manufatto, donandogli unicità e collocandolo in una dimensione temporale differente: l’imperfezione denota un accidente, un evento accaduto e che si ripete ogni qual volta il segno si presenta dinanzi agli occhi dello spettatore; grazie alla sua evidenza agisce come un memorandum, un taccuino in forma di segno, l’infinitesima porzione di una storia più grande. L’accettazione dell’errore diventa allora uno snodo cruciale: la smagliatura, lo sbavo, la cosa che si spezza, l’accidente, il non finito propongono un alfabeto nuovo per i tempi correnti, una confutazione delle logiche prestazionali a favore di un’esperienza che apra uno “spazio di immaginazione” (rimando qui a un approfondimento sul tema della compassione di Anna Stefi), che ci conduca verso l’incontro con l’altro.

 

Nell’antologia di tecniche differenti che si dispiegano in mostra – il ritaglio, la tessitura, il disegno, la scultura del metallo, la modellazione, la pittura, la stampa, il collage, il tachisme (si potrebbe continuare a lungo, seguendo il piacere della vertigine tassonomica), l’esercizio dell’attenzione investe le singole pratiche della artiste, ne illumina il fare e le avvicina. Esiste una forma di comprensione che si attua solo attraverso il lavoro manuale, un apprendimento in divenire guidato dalle mani, come indicano le opere che compongono il complesso espositivo, e che riafferma l’idea di “tecnica considerata non come procedimento svincolato dal pensiero, bensì come questione culturale” (Richard Sennett, L’uomo artigiano, Feltrinelli, 2008). La cosiddetta “embodied knowledge” o “abilità, quella capacità pratica ottenuta con l'esercizio” (ibidem) qui riafferma la propria centralità all’interno della costruzione di un pensiero che si apra al mondo, un agire investito da un “rivolgere l’animo a”, per recuperarne la radice etimologica del lemma. Attenzione intesa come permeabilità del soggetto stesso all’oggetto, qualcosa di paragonabile a una forma di meditazione, a uno svuotamento di sé per ritornare a sé, recuperando le riflessioni di Simone Weil. Benché al di fuori di un orizzonte spirituale, il sé trova legittimazione in qualità di strumento di indagine, si fa soglia da attraversare, per un movimento oscillante, di andata e ritorno, per portare alla luce una verità non assoluta, non metafisica, ma calata nella finitezza del mondo. 

 

Tornando alle domande iniziali, tra le risposte possibili ce n’è una che sembra emergere dalle ricerche raccolte nella mostra, ed è la necessità di tornare a fare comunità. Il sistema dell’arte soffre, come altri macrosistemi sociali, di un solipsismo che molti segnali sembrano voler confutare. L’affermazione di forme relazionali, il desiderio di sviluppare realtà collaborative e format aperti, la crescita del terzo settore sono sintomi di un bisogno evidente di ricostruire un tessuto sociale sfilacciato che riverbera nell’attività degli artisti. In questa prospettiva, il rientro sulla scena pubblica e politica dei movimenti delle donne segna un passaggio storico importante, portando in primo piano un patrimonio di sapere e di posture che a lungo è stato considerato irrilevante rispetto alla costruzione di un orizzonte sociale. Oggi questo patrimonio si offre come possibile alternativa a scenari consunti, offrendo strumenti di intervento sul reale in grado di offrire un concreto cambio di paradigma rispetto alle strutture consolidate delle società del cosiddetto realismo capitalista. Se l’arte ha la capacità di anticipare e riverberare ciò che accade nel mondo, l’invito che le artiste rivolgono allo spettatore è quello di stare nelle “cose basse” e da esso partire alla scoperta di un potenziale totalmente trascurato ma gravido di opportunità. Per fare ciò, si impone la necessità di uno sforzo visivo e l’acquisizione di un approccio fattuale: bisogna organizzare il tavolo di lavoro, scegliere con cura i materiali, sottoporre il progetto a costante verifica nel suo farsi, annotare gli errori, proseguire. Poi, ricominciare. Si tratta di abbracciare un metodo e la mostra ha il pregio di offrire allo spettatore non solo un prodotto formale quanto la messa in luce di un processo che ha valore in sé. Ecco quindi perché la rinuncia al testo critico per realizzare un non-catalogo, un diario edito da Gli Ori nel quale ogni artista ha trovato lo spazio per consegnare le proprie riflessioni libere sul tema arte-vita. 

 

Se vogliamo infine rinvenire un’intenzione nella mostra, è quella di confutare un approccio distratto allo sguardo, il rifiuto di una sciatteria nella relazione tra spettatore e artista, il desiderio di mettere in atto una strategia finalizzata a un’ecologia dell’attenzione. Dove solitamente allo spettatore viene somministrata una proposta predefinita, dominata da una lettura univoca, qui esso viene incoraggiato a perdersi, a rinvenire percorsi, tracce, passaggi segreti e consonanze, a farsi sorprendere da idiomi differenti che trovano il modo di comunicare tra loro.

 

Attraverso la messa in evidenza di tutte quelle pratiche che, recuperando una dimensione tecnica attinente alla materia e alla cultura manuale, la investono oggi di un nuovo senso, superando sia il fine esclusivamente produttivo del lavoro meccanico (quello dell’animal laborans), sia la dimensione essenzialmente funzionale dell’artigianato nell’unicità dell’operazione artistica, assistiamo alla costruzione di un pensiero relazionale guidato dalla mano, da quella mano che è “finestra della mente”, come indicato da Kant, che ci consente di applicare uno “sguardo aptico” sulle cose.

 

Qui di seguito, otto brevi note relative alle stanze in mostra, in ordine sparso e non gerarchico. 

 

Ph Sabrina Mezzaqui.


Sabrina Mezzaqui | disciplina dell’attenzione

Al centro della stanza si staglia un albero da cui pendono centinaia di fiori realizzati a mano: sono cinquecento disegni, ognuno ritagliato e intelaiato, accompagnati da un video senza sonoro. L’opera si intitola Fare fiori (2017) ed è stata realizzata da Mezzaqui raccogliendo i disegni prodotti dalla madre e dandogli una seconda vita. I fiori appesi ai rami dell’albero si muovono al passaggio degli spettatori, si dischiudono a una vita delicata e tenace che si manifesta attraverso il segno ripetuto della mano che reitera un modello, parlano di relazioni umane e di sentimenti potenti, come le memorie comuni, la caducità del tempo, i legami familiari. Una mano che è anche quella di Mezzaqui, che copia come un’amanuense su un quaderno ricamato i passi di Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf (Nella stanza [V.W.], 2012) e ritaglia le parole nivee, sospese, di Simone Weil (Disciplina dell’attenzione [S.W.], 2016), e poi sparge petali di carta rossa che sembrano essere stati soffiati dal vento fuori dalle pagine di uno dei suoi quaderni (Appunti per piccola autobiografia del rosso, 2018). Le parole, nel lavoro di Mezzaqui, radicano, germogliano nella vita quotidiana, si fanno trama vegetale, si innalzano come alberi, si dischiudono come fiori e si protendono come foglie, escono ed entrano dalle pagine di carta, costruiscono una fitta relazione tra letteratura e pratica quotidiana, tra lavoro manuale e intellettuale, tra mondo interiore e esteriore. Il libro, elemento simbolico attorno al quale ruota tutta la sua ricerca, è oggetto doppiamente prezioso, nel suo essere contenitore e strumento attraverso il quale acquisire il sapere, sia come manufatto frutto di specifica sapienza artigianale.  

 

Ph Chiara Camoni.


Chiara Camoni | gli immediati dintorni

Come di fronte a delle rovine, come uno scavo, le fondamenta dell’edificio immaginato da Chiara Camoni segnano una planimetria di un non-abitare, dove materiali di scarto dell’industria marmifera, recuperati dal letto di un fiume che scorre in Versilia, tornano ad avere un ruolo. Pietre lavorate dall’uomo, poi gettate, poi di nuovo lavorate dal fiume, che le leviga e le restituisce come nuove forme re-naturalizzate. Sulle pareti, sete impalpabili appese che si animano al passaggio dei visitatori: sono i Senza titolo Untitled (Winter e Autumn, 2017), stampe vegetali su seta, sorta di sindoni su cui rimane impressa la traccia di fantasmi, spiriti della natura impressi attraverso un processo altamente casuale di stampa attraverso foglie morte e residui vegetali recuperati nel giardino della casa dell’artista. L’evento effimero e non pienamente controllabile si sposa con la relazione con il paesaggio naturale e con l’altro, in una forma di reciproco riconoscimento: lo sguardo diventa empatico e l’atto diviene forma della scoperta. Coltivare la prensione, la capacità della mano di afferrare, un fenomeno che comporta la formulazione del pensiero prima che il tatto comunichi al cervello l’acquisizione dei dati sensoriali; affidarsi alle dita per giungere alle soluzioni; prendersi cura di ogni singolo elemento scultoreo e collocarlo in una dimensione temporale che scaturisce dal paesaggio che l’opera e l’ambiente definiscono, stare nel flusso della vita materiale, del quotidiano, lasciando che il momento della creazione si manifesti e assecondarlo, seguendo il corso della necessità e il ritmo antico, misterioso di ciò che è.

 

Ph Loredana Longo.


Loredana Longo | float like a butterfly, sting like a bee

Nella sua elegia della distruzione, Longo costruisce un teatro-palestra, dove feticizza l’estetica militare per poi irriderla e demolirla, contemplandone il crollo. Un sacco da boxe, realizzato in ceramica, campeggia al centro della scena: nel video della perfomance Golden Heel (2018), Longo lo utilizza come un sacco da allenamento vero, prendendolo a pugni per poi trafiggerlo con una scarpa da donna dorata, con il tacco a stiletto. Sul fondo della stanza, un drappo nero in lurex – lo stesso materiale degli accappatoio dei boxeur – copre le finestre e inquadra una quinta: su di esso è ricamato il celebre motto di Muhammad Ali Float like a butterfly sting like a bee, che dà il titolo alla stanza; sulla sinistra campeggia Fist (2017), un’infilata di pugni di ceramica dolce inseriti su una rastrelliera, modellati sulla mano dell’artista e poi fatti esplodere; sul lato opposto Tirapugni&champagne (2017) un gioiello su cui sono incastonate le schegge di vetro di una bottiglia di champagne infilato in un blocco di cemento.

La fascinazione per la distruzione si sposa nell’habitat di Longo con l’evocazione di un immaginario virile, tutto orientato alla forza e al controllo. I parafernalia tipici dei regimi dittatoriali e l’immaginario muscolare della palestra si fondono per essere poi demoliti: Longo non ha un fine vendicativo, non cerca una catarsi femminista quanto la celebrazione dell’energia che si libera nel momento del collasso, quando la materia tracolla attraverso un’azione dirompente. C’è una sorta di follia controllata nella volontà di utilizzare la violenza e disinnescarne il potenziale negativo appropriandosi della sua energia, un desiderio demiurgico di rifondazione del mondo che rimanda agli archetipi del caos appartenenti al mito e insegue la possibilità di una trasmutazione continua della materia, delle cose e del pensiero, anche quando questo implica la perdita o la sparizione dell’opera d’arte, a favore di un lascito immateriale, un’idea potente, più forte della materia.

 

Ph Alice Cattaneo.


Alice Cattaneo | unico raccogliersi dell’ombra nella valle

Nell’universo di Alice Cattaneo il caos è strettamente sorvegliato. Cattaneo entra nello spazio e ragiona sui vuoti, calcola il ritmo della stanza affrescata, apprende gli interstizi e porta alla presenza le sue composizioni scultoree. Annota dettagli apparentemente irrilevanti, instaura relazioni di ascolto profondo dell’ambiente, crea nuovi spazi dentro gli spazi (Il lavoro tra i lavori, 2018). A Palazzo da Mosto la stanza affrescata riverbera negli elementi realizzati in vetro pieno di Murano, un solido che ha una consistenza allo sguardo di scioglievolezza, si riflette nei metalli e nelle ceramiche, si tende sui fili di cotone degli Untitled (2017). Le antinomie trovano un equilibrio momentaneo, e sempre il lavoro di Cattaneo sembra a un passo dal fallimento. La sua ricerca segnata dalla contraddizione la conduce su un crinale, in una continua battaglia contro la scultura: forzarne i limiti, accostare materiali non affini, tradire il rigore geometrico e l’esattezza della composizione sono tappe di un processo di verifica della tenuta del linguaggio che non permette sconti, eppure si concede una sottile ironia, indugia nell’effimero e si cimenta nell’edificazione di strutture “inutili”. La semplicità dei materiali viene sublimata in composizioni ritmiche, che si collocano in uno stato di transitorietà, in una perenne tensione tra la condizione della materia e un possibile accadimento che trasforma gli assemblaggi in monumenti all’incertezza.

 

Ph Serena Fineschi.


Serena Fineschi | del sublime difetto

Tutto è pittura. In questa stanza, dove non c’è neanche un dipinto in senso stretto, tutto parla di pittura. Il primo indizio è rappresentato dai due volumi posati a terra, dedicati a Duccio di Boninsegna e Ambrogio Lorenzetti, due numi tutelari per l’artista, e un cioccolatino poggiato sopra, una “nota” che richiama un lavoro in cui Fineschi omaggia la grande pittura senese realizzando tele dal sapore suprematista. Un appunto che rimanda alle origini, all’orizzonte visivo della sua formazione e alla sua attuale ricerca.

 

C’è qualcosa di sorprendente nella capacità di controllo di Fineschi, artista in grado di maltrattare i materiali e ottenere in cambio delle opere di grande equilibrio formale, nelle quali la dimensione lirica e l’utilizzo spregiudicato di materiali residuali convivono in un miracoloso equilibrio dinamico. Ne sono un esempio la carta abrasa e violentata di Landscape (L'Empire des Lumières, 2013-2018), maltrattata eppure così composta, con le trasparenze dovute all’usura che quasi sembrano velature di grafite o macchie di colore; il dittico Storm, 1, 2, (The Final Match), Trash Series, (2018), realizzato prendendo letteralmente a pallonate la tela fino a ottenere, quasi per una beffa, una sorta di cielo nebuloso, o in Sotto il cielo di Seurat (Gli Amanti), Trash Series, sempre del 2018, dove una “stellata” di chewing gum appiccicati al soffitto – che rimanda il pointillisme del maestro francese – sovrasta una vecchia coperta di lana, oggetto legato alla storia familiare dell’artista, sui cui è sparpagliata una manciata di caramelle leccate. Frammenti di vissuto personale, istanti inafferrabili, oggetti comuni concorrono a una messa in discussione dello stato delle cose, alimentando l’ansia di rivelare ciò che sta dietro al velo delle apparenze, la sostanza inafferrabile del tempo che scorre e del nostro abitarlo.

Il chewing gum di About Decadence approximate taxonomy , Trash Series, 2018, metafora di un’esperienza di consumo senza assimilazione, paradigma consumistico, diventa un orizzonte, si fa paesaggio della memoria (una memoria in continua mutazione come la materia, condannata all’impermanenza) riempiendo la stanza di un profumo che riporta subito all’infanzia. Ed è alla dimensione dell’infanzia che fanno capo la rabbia e la poesia che abitano i lavori di Fineschi, che si accanisce sfinendo i materiali, che le restituiscono una bellezza quasi insensata, come a dimostrare una saggezza superiore, un sapere delle cose che si manifesta quasi come consolazione, come una grazia che – se gli dei non fossero morti molto tempo fa – potremmo dire divina.

 

Ph Claudia Losi.


Claudia Losi | quel che dice la mia forma

Il mondo di Claudia Losi è multidisciplinare e affetto da una curiosità enciclopedica. Il suo sguardo è rivolto a territori come le scienze naturali, la biologia, l’antropologia, il suo agire essenzialmente un atto di tessitura, volto a riunire frammenti da cui far scaturire storie collegate l’una all’altra, che si dispiegano come onde nel corso degli anni (si pensi al Balena Project, opera proteiforme sviluppatasi nell’arco di oltre un decennio). Il rapporto con il cucire, pratica ancestrale del femminile, è nel suo lavoro sia reale che simbolico: tessere e raccontare sono saldamente unite, le mitologie che giungono prima della storia, le favole e i testi sacri ce ne rammentano il magistero. Il tessuto e la parola si uniscono per esempio nel maestoso What my Shape Says Cosa dice la mia forma (2016) che accoglie i visitatori sopra lo scalone di ingresso: una struttura dove strisce di tela dai diversi toni dell’incarnato riportano i messaggi scritti da centinaia di donne sul tema del corpo, così da comporre una enorme “medusa”, in grado di proteggere e accogliere lo spettatore. 

 

Sui tavoli da lavoro presenti nella stanza, trovano collocazione disegni figurativi (inusuali per Losi) sul tema della conchiglia, rappresentata nella sua cruda evidenza organico-genitale (Shells, 2018), lastre di marmo con incise delle farfalle e Beating Wings_Making Words, 2014-2017, video installazione anch’essa dedicata alle farfalle. Specularmente, sono disposti i disegni realizzati da dieci madri con i loro bambini, coinvolte in un progetto di assistenza sociale dedicato a famiglie fragili, nato come prosecuzione di What my Shape Says Cosa dice la mia forma chiamate a rappresentare i loro corpi: disegni quasi elementari, la cui essenzialità appare sotto una veste dolorosamente nuova alla luce della relazione di un’assistente sociale di cui viene riportato uno stralcio. Forme di case, forme di corpi quasi sempre socialmente inadeguati, mentre la natura essere più assennata; gusci, zavorre, protezioni, armature, bozzoli, conchiglie, la morfologia del femminile e il tentativo di comprendere la ratio profonda inscritta nella forma.

 

Ph Ludovica Gioscia.


Ludovica Gioscia | psychic residue

La psichedelia di Gioscia travolge lo spettatore e lo proietta in uno spazio che segue regole proprie, dai molteplici piani temporali e dalle infinite stratificazioni. Lavorando sulle superfici, Gioscia accumula, sovrappone e fa coesistere elementi disparati, creando un multiverso in cui gli elementi coesistono e sono in costante trasformazione. 

 

La stanza si apre sulla riproduzione del “muro magico” appartenente al suo studio (Magic Wall, 2018), sorta di notebook gigante su cui dipingere e annotare, in cui sono inseriti altri pezzi (come Temporal Tablet 4 e Trafamaldore Dust) e vera e propria opera aperta; appesi a binari scorrevoli ci sono due serie di lavori: i “portali” (The Portals), membrane di tessuto attraverso cui varcare le dimensioni spazio temporali e i camici da scienziato pazzo (Mad Lab Coats), lavori indossabili che si ricollegano alla storia familiare dell’artista e all’interesse verso la fisica intesa come scienza immaginifica, sperimentale e giocosa, eredità familiare rielaborata all’interno della sua ricerca; in fondo alla stanza è collocata Telepathic Landscape (2018), una pedana composta da strati di oggetti e materiali difformi, che spaziano tra i nastri analogici delle sedute spiritiche di famiglia e forme di cartapesta, ritagli di giornale, cosmetici, avanzi, tessuti, oggetti d’affezione che concorrono a comporre una “mappa telepatica”. L’apparente anarchia che governa il mondo lisergico di Gioscia sottende un approccio colto e analitico alla fenomenologia degli oggetti, nonché le loro implicazioni sociologiche. È una ostensione di residui psichici quella messa in scena, la presa d’atto di un flusso di coscienza che lascia l’intimità dell’io per abitare il mondo, anzi per infestarlo come presenza pervasiva, le cui tracce non possono essere cancellate ma solo accumulate, una sull’altra, affastellando il nostro spazio mentale, saturato di memorie private ed estranee, amplificate attraverso i media digitali. Un mondo dove la consequenza temporale è saltata e passato, presente e futuro si influenzano e si modificano reciprocamente, dove ci ritroviamo inchiodati all’impossibilità di dimenticare come tanti Ireneo Funes borgesiani, soffocati dail’infinità di dati che il favoloso mondo industriale prima e digitale poi ha raccolto e ci rovescia addosso, oggi e per ogni giorno a venire.

 

Elena El Asmar | l’esercizio del lontano

Per una strana associazione di idee, il lavoro di Elena El Asmar riporta alla mente le visioni filmiche di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Lavori lontanissimi, eppure una specifica qualità di nostalgia come movimento di deriva emerge sia dalle archeologie cinematografiche del duo, sia nei miraggi di El Asmar. Deriva da intendersi come letterale trascinamento di un corpo immerso in un liquido, visioni che illudono, che si appalesano, poi si rivelano sempre dalla doppia natura, instabili. Uno slancio verticale le anima e le spinge verso l’alto, come se l’intento dell’artista fosse essenzialmente architettonico: edificare un palazzo mentale dove trovare dimora, ammirare una città immaginaria che si staglia in un orizzonte domestico e tende verso un altrove mitico (che trova origine nei ricordi di una duplice appartenenza culturale in L’esercizio del lontano, 2010-2018), trasformare in un talismano personale la sagoma di un palazzo mediorientale ricavato da qualcosa di minimo come gli adesivi per la nail art e applicarlo su una vetrata per giocare con i piani di realtà (Vedute d’insieme, 2012-2018); comporre un velario con migliaia di palette di plastica per il caffè, una cosa fatta di niente eppure così formalmente ineccepibile da imporsi e risuonare con l’architettura del palazzo (Vespertine, 2006-2018, visibile sopra uno dei due ingressi della mostra). Poetica del piccolo, di ciò che resta, cartografie di un altrove che si rivela inconoscibile eppure familiare, come in Arioso Operoso (2018), dipinto su raso di cotone nero, opera pittorica dove il nascondimento della materia originale attraverso una lavorazione che rimanda quasi alla scrittura automatica conduce alla rivelazione di un paesaggio misterioso, una rêverie in cui gli oggetti perdono parte di sé per acquisire nuove narrazioni, identità ibride, stati temporali e geografici indeterminabili.

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La vita materiale, Palazzo Leone da Mosto
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La voce di Bruce Springsteen

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Per trovare una voce bisogna averla cercata a lungo. Quando, alla soglia dei settant’anni, una delle rockstar più amate del pianeta confessa di aver scoperto la propria voce nel padre, è l’impalcatura stessa del rock che rischia di venire giù. Di tutti i luoghi, il soggiorno di famiglia. A un certo punto, durante lo spettacolo che Bruce Springsteen ha tenuto al Walter Kerr Theatre di Broadway nel corso dell’ultimo anno, il cantante lo ammette serenamente: io sono Mister Born to Run, nato per correre (dal titolo della canzone e del disco che lo resero famoso), volevo fuggire da tutto, prendere l’autostrada e non tornare più, ma oggi abito in New Jersey, a dieci minuti dalla casa in cui sono nato. Se Bruce Springsteen rincorse la voce del padre è perché, dice, “quella voce aveva qualcosa di sacro. Quando non sapevo che vestito indossare, sceglievo delle tute da lavoro, le stesse che mio padre metteva in fabbrica. Tutto ciò che sappiamo della virilità è ciò che abbiamo visto e imparato dai nostri padri, e ciò che io vedevo in mio padre era l’eroe, oltre che il mio peggior nemico”. Racconta poi di aver sognato il padre poco dopo la sua morte. Douglas Frederick Springsteen è seduto in platea e sta assistendo al concerto del figlio. Bruce, come succede nei sogni, d’un tratto si ritrova accanto al padre e insieme, per un attimo, osservano quell’uomo esagitato al centro della scena. Dopo anni di silenzio e di incomprensioni, Bruce trova infine il coraggio di rivolgersi al padre: “quell’uomo lassù sul palco, papà, è così che ti vedo”. Ricorriamo all’emulazione per sentire vicini coloro il cui amore desideriamo ma non riusciamo ad ottenere, confessa il Boss con voce rotta dall’emozione. Lo Springsteen ventenne, l’aspirante rockstar, di fronte a una rivelazione del genere se la sarebbe probabilmente data a gambe, o avrebbe reagito come i consiglieri nella serie tv The Soprano’s allorquando scoprono che il loro, di boss, Tony Soprano (James Gandolfini), s’è messo in terapia: imbarazzo, sguardo basso, silenzio di tomba. Un disonore non contemplato dal manuale del mafioso. Il primo a prendere la parola è Silvio Dante (Steven Van Zandt, Little Steven, lo storico chitarrista, caso vuole, della E-Street Band di Bruce Springsteen): Well, I’m sure you did it with complete… (mandando giù il boccone) discretion (beh, sono sicuro che l’avrai fatto con la massima… ugh, riservatezza). Poi è la volta di Paul "Paulie Walnuts" Gualtieri (Tony Sirico): It’s not the worst I ever heard (ho sentito di peggio). E infine Christopher Moltisanti (Michael Imperioli): It was like… marriage counseling? (del tipo… consulenza matrimoniale?). Insomma, Bruce, la voce di… tuo padre?

 

Dello spettacolo Springsteen on Broadway, da poco disponibile su doppio CD e su Netflix, si è parlato un po’ ovunque come della seduta d’analisi di un cantante deciso a fare i conti con sé stesso, con i propri demoni, e fors’anche con la retorica del rock. Più di due ore di musica e di confessione a tu per tu con lo spettatore, ogni canzone introdotta da un monologo che ne illustra non tanto la genesi, quanto la premessa emotiva. Chitarra acustica o pianoforte, poche luci e un teleprompter su cui scorre il copione, tratto in buona parte dall’autobiografia Born to Run. La voce dello Springsteen cantante di rock si è plasmata in anni di gavetta nei luoghi più diversi. L’elenco, snocciolato dallo stesso Bruce nel corso dello spettacolo, contempla feste nella locale stazione dei pompieri, drive-in, party in spiaggia, pizzerie, feste di paese, carnevali, balli del liceo, aperture notturne del supermercato di quartiere, matrimoni, bar mitzvah, concerti nelle prigioni, manicomi… Il pedigree d’ogni musicista rock che si rispetti. Prima del successo planetario e delle adunate negli stadi, Springsteen è stato uno dei tanti che ce la stava mettendo tutta, ma con poca o nessuna garanzia che l’impresa avrebbe potuto condurlo al successo, o soltanto al prossimo concerto. La voce del cantante di rock è poi emersa in tutta la sua forza, abbinata a un vigore spesso frainteso o facilmente rubricato alla voce “animale da palcoscenico”, con la perplessità parecchio snob di chi vedeva in quegli stadi gremiti di gente un rito fatto di muscoli e sudore, tanto testosterone e poca o nessuna poesia.

 

 

Bisogna dire che la bandana di metà anni ’80, la bandiera a stelle e strisce, il cappellino da baseball infilato nella tasca posteriore dei jeans, le maniche della t-shirt arrotolate sulle spalle come un bullo di periferia, la mascella prominente da cocciuto americano del Midwest, oltre a quella canzone pedante e sovente equivocata che urlava a squarciagola l’orgoglio d’esser nato su suolo americano e che tappezzò i muri di mezzo mondo coi colori di un’egemonia che se eri nato altrove poteva anche suonare irritante, se non proprio incresciosa (Born in the U.S.A., I was born…, eccetera), non aiutò Springsteen a conquistarsi degli estimatori fra gli intellettuali e fra chi gli rimproverava troppa prossimità poetica (e quindi, se ne deduceva, ideologica) con gli intenditori di birra Budweiser. Avevi un bel spiegare che lo sguardo di Springsteen era critico, e che quello era l’urlo di un cittadino offeso e colmo di vergogna, per sé e per il suo paese, ma l’iconografia e la reputazione da rockstar più amata del Midwest, sorta di Rambo del rock, non l’avrebbe più abbandonato. Molti furono indotti a credere che quel nerboruto cantante, chissà come scampato alle acciaierie, difettasse in fondo di sottigliezza (che fosse, in definitiva, un bruto venerato da una legione di fan sostanzialmente sprovvisti di buon gusto). Eppure, prima di quella cosa lì, c’era stato un disco come Nebraska, che parlava tutta un’altra lingua, quella di un’America rurale, dimenticata e senza futuro. Poi vennero, ancor più clamorosi, dischi come The Ghost of Tom Joad (toh, Bruce Springsteen ha letto John Steinbeck?), o canzoni come The streets of Philadelphia (toh, un eterosessuale bianco che prende posizione per conto della comunità gay d’America, decimata dall’AIDS?). E che dire di quel suonatore di sassofono di colore (l’amico fraterno Clarence Clemons, il gigante nero) in una band di musicisti bianchi di rock’n’roll? Ok, però restava pur sempre un problema: quella sua voce rock troppo FM, da cingolato e da strapaese america, una voce che persino un camionista o un tornitore avrebbe potuto fare sua, e questo i cultori di certa canzone d’autore non riuscivano proprio a mandarlo giù. 

 

 

Nel raccontare la genesi della sua autobiografia Born to Run, Bruce Springsteen ha spiegato di essersi infine deciso per l’impresa solo dopo aver capito di aver trovato una voce. Springsteen teneva insomma a sottolineare che per quanto tu possa aver coltivato una voce su disco o su un palcoscenico cantando le tue canzoni e raccontandole come lo stesso Springsteen ama fare durante i concerti, questo ancora non significa che quella stessa voce, una volta messa in pagina, funzionerà altrettanto bene. Anzi, è quasi matematico che così com’è, quella voce, qualunque essa sia, sulla pagina proprio non funzionerà. Innumerevoli i casi a sostegno della tesi, fuori e dentro il regno della canzone. Groucho Marx ad esempio, quando si applicò all’esercizio autobiografico – Groucho and me. The autobiography of Groucho Marx by (of all people!) Groucho Marx– ebbe l’accortezza di dedicarla a cinque maestri dell’umorismo in prosa come Robert Benchley, Ring Lardner, S.J. Perelman, James Thurber e E.B. White, e a un commediografo a lui vicino come George S. Kaufman. La voce di Groucho, sulla pagina, quanto meno nelle intenzioni, si voleva depositaria di una tradizione letteraria e di uno stile non meno letterario, lontano, per quanto possibile, dalla gag da palcoscenico. La mera trasposizione in pagina di una freddura da avanspettacolo o di una comicità genere stand-up, di regola, non regge. Se è vero che lo spettacolo Springsteen on Broadway metteva Bruce in una condizione favorevole (su un palcoscenico, a cantare e a raccontare le sue canzoni di fronte al suo pubblico), la vera sorpresa è stata lo scoprire come il narratore Springsteen, al di là dell’aneddotica da palco che caratterizza i suoi concerti, e in aggiunta al tono epico delle sue canzoni, abbia dimostrato di poter reggere con mestiere e sapienza la dimensione teatrale.

 

 

La voce dello Springsteen narratore è una voce che si è formata sulla strada, nella più pura tradizione americana, rimasta però del tutto impermeabile alla lezione dei beat e a qualsiasi sperimentazione di natura formale (un pizzico di Kerouac qua e là, ma niente più). Il racconto di Springsteen risente piuttosto di un’epica contadina e di lavoro, semplice ed arcaica, fatta di motivi depositati al fondo di ognuno di noi, si sia o meno nati nel New Jersey o nelle praterie d’America (il fatto che la sua voce arrivi a tutti, più che della semplicità del dire rileva dell’universalità del sentire, proprio come succede in Steinbeck). Il ritmo è da bivacco intorno al fuoco e lo sguardo è ampio, onnicomprensivo. In Springsteen a comandare è sempre il senso di comunità, sia questo il nucleo familiare, la dinamica da palco con la band, oppure la dimensione del villaggio, del paese, della nazione. Sia che senta la necessità di fuggire correndo a cento all’ora verso un luogo indefinito o che avverta il bisogno di fare ritorno a casa perché è solo dentro quella culla che la storia d’ognuno può accendersi di senso, Bruce è sempre un sé di fronte a qualcuno. Nelle sue canzoni nessuno vive mai per sé stesso e basta. Esistere significa cercare il modo migliore di stare assieme, nel mondo. Per anni, per tutti, per Bruce Springsteen stesso, Springsteen è stato l’uomo born to run, nato per correre.

 

Nulla per ora lascia intendere che vi sia l’intenzione di rallentare o di rinunciare ad occupare palcoscenici con i suoi concerti da quattro, cinque ore, sudando le proverbiali sette camicie, ma paradossalmente l’ultimo Springsteen, quello dell’autobiografia e dello spettacolo Springsteen on Broadway, pare averci consegnato una voce che pur nell’impossibilità di cantare la sedentarietà, ha scoperto che il senso di tutto quel correre era forse poco più di un modo per tornarsene a casa, a dieci minuti da dove si è nati. Come se il senso del viaggio consistesse in definitiva nella riconciliazione con sé stessi e nel fare pace con il luogo da cui si è partiti. Poca cosa? Dipende. Dipende da come la si inquadra, da quel che si è raccolto lungo il viaggio, dal tono, dai dubbi e da quanta persuasione si riesce a mettere nel racconto. Fermi al semaforo, il CD dello spettacolo nelle casse della macchina, si ascolta la voce di Springsteen raccontare la sua vita, le gioie e i dolori, gli amici che non ci sono più e la necessità di tenere alta la guardia perché ne va di noi e ne va del mondo, e d’un tratto gli occhi s’inumidiscono. Strana cosa, il rock. E un gran fuoriclasse che sa colpire dritto al cuore, il buon Bruce.

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L’arte in gioco. Dubuffet a Reggio Emila

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I muri li si guarda poco. I passanti procedono, li sfiorano, non li osservano. Ogni tanto, però, qualche artista smette di camminare (bisogna fermarsi per guardare un muro) e c’è una scoperta. Fu Leonardo a parlare con un certo pudore (“benché paia piccola e quasi degna di riso”) di questa “invenzione di speculazione”: “se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o in pietre di vari misti (…) potrai lì vedere similitudini di diversi paesi, ornati di montagne, fiumi, sassi, alberi, pianure grandi, valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie ed atti pronti di figure strane, arie di volti ed abiti ed infinite cose”. Del resto, in Occidente, persino il mito fondatore dell’arte è legato a un muro: racconta Plinio il Vecchio che la figlia di Butade, un vasaio di Corinto, innamorata di un giovane che stava per partire e intraprendere un lungo viaggio, ne tracciò il profilo su un muro seguendo l’ombra proiettata da una lucerna; così il padre ne ricavò un fedele ritratto in argilla.

 

 

Con un po’ di pazienza si potrebbe tentare, dopo questi singolari esordi, una storia degli osservatori di muri (ne esistono più di quanto si direbbe). Senz’altro, e a pieno diritto, dovrebbe comparirvi anche Jean Dubuffet (1901-1985), che tra 1945 e 1950 licenziò una serie di litografie intitolata appunto Les murs, a illustrazione dei versi di Eugène Guillevic. L’opera è presente nella mostra dedicata all’artista a Palazzo Magnani, Reggio Emilia: Jean Dubuffet (1901-1985). L’arte in gioco. Materia e spirito 1943-1985, a cura di Martina Mazzotta e Frédéric Jaeger.

 

 

Muri macchiati, graffiati, sporchi; pietre consunte, intonaci sbrecciati. Non si tratta tanto di muri di case, dato che spesso ne vediamo il margine superiore, e uccellotti che vi si posano; l’erba a volte vi cresce sopra. Sono forse recinzioni di periferie, che bordano indefinite proprietà private e terreni non coltivati. Sagome di passanti quasi si confondono con i muri scrostati; uno parla da solo, bocca aperta e lingua all’insù. Poche affissioni, incisioni a non finire: iniziali di amanti, una data, qualche disegno osceno, scarabocchi, scritte incomprensibili. Un uomo piscia in un angolo, e lo fa anche un cane senza padrone. In un’altra litografia due tipi la fanno insieme contro il muro; uno dei due guarda sghignazzando verso di noi, mentre più in alto si intravvedono compatte case lontane. 

Quello che conta qui non è descrivere un atto impudente o sgradevole; una sessantina d’anni prima, verso la fine dell’Ottocento, un esponente del movimento delle Arts Incohérents aveva raffigurato una situazione analoga: un ragazzaccio piscia su un muro e nello stesso tempo disegna la faccia di qualcuno (un ufficiale prussiano?) sull’intonaco. Ma qui al massimo siamo davanti a un’innocua sfacciataggine, niente del tanfo, dello sporco, dei ghigni che occupano le litografie di Dubuffet.

 

 

Al centro della scena, insomma, sono proprio i muri; quel sovrapporsi di macchie, incrostazioni, fenditure che alla fine degli anni ’50 dovettero suggerire a Dubuffet le Texturologies. E poi le scritte e i disegni che sui muri dei quartieri periferici si inframmezzano agli intonaci scalfiti, alle loro stratificazioni: chi scarabocchiava allora sui muri non usava colori, ma incisioni, realizzate non si sa con quale punta. Pochi anni prima della ventata futurista, Giacomo Balla in Fallimento ci aveva messo davanti un muro a finti conci e una porta chiusa che i soliti monelli avevano usato come lavagna per incidervi in nomi di una ragazza, e altri ghirigori indecifrabili. 

 

 

Dagli anni Trenta, anche il fotografo Brassaï aveva cominciato a scattare foto dei muri di Parigi, che confluirono più tardi nel libro Graffiti (1961); foto che in parte, come ricorda Martina Mazzotta nel catalogo della mostra, non a caso entrarono anche nei Cahiers de l’art brut curati da Dubuffet.

 

 

Ai muri Dubuffet non rinuncerà neanche più tardi, dopo le litografie a commento del componimento di Eugène Guillevic: nel febbraio 1957 esegue lo straordinario Obscur théâtre au pied du mur, un assemblage di impronte; nei primissimi anni ’60 inquadra alcune vie di Parigi (in mostra Ostracisme rend la monnaie, 2 maggio 1961 [Ostracismo dà il resto]) in una doppia prospettiva dall’alto e di fianco, così che gli riesce di farci vedere le vetrine dei negozi e soprattutto le scritte delle insegne e della pubblicità. E, insieme, è possibile rivedere i profili e le facce che erano comparsi in Les murs del 1945-1950: guance rosse, nasoni, occhi scentrati, sghignazzi di guidatori di utilitarie.

Sì, perché il volto è un tema ricorrente in tutta l’opera di Dubuffet: nell’esposizione reggiana compaiono le fragili pagine di Portraits, il catalogo della mostra che l’artista aprì alla Galerie Drouin di Parigi (1947), pagine fitte di testi e di “ritratti sparuti, ispidi come istrici, dei compagni di via” (come scrive in catalogo Renato Barilli); tra gli altri, ecco infatti Antonin Artaud, Jean Fautrier, Henri Michaux; qua e là scritte come queste: “le persone sono molto più belle di quanto credano”, “belli malgrado loro”. 

 

 

In questo fragile catalogo del 1947, Dubuffet scriveva che un ritratto deve prima di tutto avere una propria carica, deve funzionare, e deve farlo a lungo, senza esaurire la propria vitalità; perché un ritratto abbia un “bon usage”, diceva, deve essere dotato di una sua vita, come un albero, come un cagnolino. A questo scopo non è affatto detto che le indicazioni fisionomiche siano così necessarie; dove si annida infatti il sé di ogni uomo? non certo nei caratteri esterni del viso (e non per niente Leonardo parla di “arie di volti”). I tratti del volto – ribadisce l’artista – non devono essere sottolineati, piuttosto è meglio cancellarli; dopo tutto, scriveva, sono più interessanti i sentieri di cui non si coglie la fine, i fori di cui non si intravvede il fondo, i vapori che fanno da velo alle cose. È un po’ quello che farà nel 1966 col proprio autoritratto, con tratteggi rossi e azzurri entro alveoli di linee nere.

Nel 1945 – nelle Note per i fini letterati (il tono è giocoso e polemico allo stesso tempo) ora in selezione alla fine del catalogo della mostra reggiana – aveva scritto: “Dipingere un volto come si dipinge una mela, ah, ma no! il pensiero è intimamente mescolato alla descrizione, e se dipingo le orecchie penso al rumore, e se dipingo le labbra alla parola, i denti al cibo”. In altre parole, tutto sembra contare in un ritratto meno che la somiglianza dei tratti fisionomici, cioè il presupposto che sta alla base della ritrattistica dal primo Rinascimento in poi.

 

Senza dichiararlo più di tanto, Dubuffet si confronta con questa autorevole tradizione: la sua Suite de visages (1946), una serie di volti l’uno accanto all’altro, vuole forse riprendere le sequenze di facce che comparivano nei trattati di fisiognomica del Settecento? E quando esegue Solario (Portrait) (1967) – è un’ipotesi suggestiva di Martina Mazzotta – vuole forse rifare a modo suo il ritratto cinquecentesco di Charles d’Amboise, al Louvre, opera di Andrea Solario? Di certo l’intento di polemizzare giocosamente con la ritrattistica antica è presente nel Nobile portamento di testa (Noble port de tête, 1954): con un titolo così pomposo ci si aspetterebbe una postura solenne, uno sguardo fiero, insomma i toni del ritratto aristocratico dal Rinascimento al moderno (compresi certi autoritratti di Giorgio de Chirico); e invece ecco un facciotto rossiccio che guarda perplesso non si sa dove: Dubuffet gioca anche questa volta.

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Si può dipingere un colore?

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«Forse la superficie, la pelle, è tutto ciò che possiamo raggiungere» scrive David Scott Kastan citando Melville, e la pelle delle cose – come quella degli uomini – è esattamente colore. Fermarsi al colore non è però una rinuncia a penetrarne l'essenza, perché l'essenza del colore sta proprio qui, nella superficie, e qualche volta questa stessa superficie viene colta in sé stessa nell'arte e nella vita.

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I bambini fantasma

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Gaia Giani ha cominciato a fotografare scuole nel 2012. Racconta: «Abitavo vicino a una delle migliori scuole primarie pubbliche di Londra, la Sudbourne Primary School di Brixton, un quartiere prevalentemente nero. Molte famiglie benestanti si erano trasferite nella zona per far frequentare ai loro figli quell’istituto (che rientrava ogni anno nella classifica dell’Ofsted), dando inizio alla riqualificazione, o gentrification, del quartiere. Ispirata da quella scuola, ho iniziato a riflettere sul tema.

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Il fascino discreto della neo-borghesia

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Léonard (Vincent Macaigne), è uno scrittore. I suoi libri raccontano storie d’amore e di sesso, più di sesso che d’amore in verità. Sono storie in gran parte autobiografiche, come si capisce dall’incontro che Léonard ha con il suo editore Alain (Guillaume Canet). Gli ha portato il dattiloscritto dell’ultimo libro, il quarto o forse quinto. Il pranzo si risolve con un rifiuto di Alain di pubblicarglielo. L’editore non glielo spiega, ma è evidente che non gli è piaciuto. Di più: l’ha irritato. Alain lo dice alla moglie tornando a casa: le storie di Léonard l’hanno stufato; in qualche misura lo disturbano con tradimenti, storie di matrimoni falliti, incontri sessuali e altro ancora. La moglie, Selena (una bravissima Juliette Binoche), è un’attrice di teatro, tuttavia la sua fama è legata a una serie televisiva dove interpreta una poliziotta – una specialista in situazioni critiche, precisa lei. Vorrebbe smettere di farlo e forse tornare al teatro. Si sente prigioniera del personaggio.

 

Olivier Assayas.


Questa la trama d’avvio di Il gioco delle coppie di Olivier Assayas, regista ed ex critico per i “Cahiers du cinéma”, fra i più amati dalla cinefilia internazionale, premiato a Cannes (miglior regia nel 2016 per Personal Shopper) e Venezia (miglior sceneggiatura nel 2012 per Qualcosa nell’aria). All’incontro con lo scrittore fa seguito una cena a casa di Alain e Selena con altri amici scrittori o che ruotano in quel mondo editoriale. Mangiano seduti su poltrone, sedie, divani. Non si siedono intorno al tavolo. In questa come in tutte le altre scene di pranzo o cena (salvo al ristorante all’inizio) i nostri bobo parigini, equivalenti dei radical chic americani (e italiani), parlano molto e mangiano poco. Forse Assayas non li fa sedere al tavolo per ragioni registiche, o forse perché memore del pranzo degli invitati di Il fascino discreto della borghesia di Buñuel. Sono dei borghesi anche loro, quarant’anni dopo. Di cosa parlano? Non certo della rivoluzione che è alle porte, né dei reazionari che incombono, né di traffici illeciti tra armi e droga, come i convitati del regista spagnolo. Qui nella casa del direttore di una casa editrice centenaria si parla del passaggio dall’analogico al digitale: cosa resterà dell’editoria quando tutti leggeranno sui tablet i libri? Uno degli invitati è uno scrittore che ha migliaia di contatti nel suo blog, ma vende molte meno copie dei suoi libri. Non sembra uno scrittore di qualità, da come parla, dall’ignoranza che dimostra (crede che Adorno abbia scritto le sue opere su papiro o qualcosa di simile). Il digitale cambierà l’editoria. Selena è l’unica dichiaratamente favorevole al libro di carta, persino Alain, pur essendo un editore di libri su carta, sta pensando al cambiamento. La discussione va avanti in modo polemico, ma tutto sommato scontato. Nessuno di loro dice cose davvero interessanti, sono banalità da bobo, appunto. L’unica convinzione comune è che sta per avvenire una rivoluzione e loro assistono, tranne forse lo scrittore col blog e l’editore. Del resto, sono dei cinquantenni. 

 

Il film in francese s’intitola Doubles vies, “doppie vite”. Allude al fatto che i principali personaggi del film – Léonard, Selena e Alain – hanno un’altra vita, sentimentale o sessuale. Stanno insieme, ma tradiscono i loro partner. La doppia vita si riferisce anche al fatto che c’è una doppia situazione in corso: analogico/digitale; oltre al tema fedeltà/tradimento. Léonard, personaggio decisamente antipatico, è una via di mezzo tra Houellebecq e Carrère: egoista e pauperista, di fatto un parassita della moglie, fa dell’autofiction, raccontando la sua vita sessuale e sentimentale modificando i nomi, naturalmente, ma non tanto da impedire che le persone ritratte non si riconoscano. Per lui la doppia vita è tra finzione e realtà. In una scena, Léonard presenta il suo ultimo libro e nel pubblico delle persone gli chiedono se è al corrente delle polemiche nel web sul libro: l’ex moglie l’ha attaccato e ci si domanda se sia giusto che uno racconti la vita degli altri in un romanzo usando come personaggi persone reali. Lo scrittore ha buon gioco nel dire che non sono persone reali, e che se poi la sua ex moglie vuole raccontare la sua versione, scriva pure. Uno dei lettori replica: se lo facesse non sarebbe più una storia vergine, ma già raccontata. Assayas in questa parte del film riecheggia una discussione avvenuta nel web sul diritto di impossessarsi delle vite degli altri e quindi di narrarle. 

 

Vincent Macaigne.


Tutti insomma fanno una doppia vita. Alain ha assunto per svecchiare la casa editrice una giovane esperta di social media, Laure (Christa Théret) con cui recita il ruolo del conservatore della carta. La discussione con lei continua in modo rovesciato rispetto a quella a casa sua con la moglie e gli amici. Alain va a letto con la ragazza, la quale, dal canto suo ha altre storie. È anche lesbica: il tema della bisessualità oggi è immancabile in ogni film che racconti i nostri tempi. Non in tutti, perché c’è ancora una sorta di pruderie calvinista in tanti registi, per quanto non si possa negare che il gay maschile e la lesbica femminile si siano trasformati in maschere sociali, nella rappresentazione cinematografica e spesso anche in quella letteraria (Houellebecqè stato uno dei primi a farlo, con il suo solito affabulante cinismo).

 

Il film di Assayas è molto “francese”: mano leggera, nessun eccesso moralistico, capacità di raccontare le infedeltà e i tradimenti con una sorta di sovrana distanza – così va il mondo –, senso del ritmo nel cadenzare le varie storie. Non svelo nulla di non svelabile se dico che l’amante di Léonard è Selena. Proprio lei, che in una pausa delle riprese della serie tv rivela al suo agente di sospettare che Alain abbia un’amante. Alain è un personaggio a suo modo positivo: ironico, spiritoso, realista, leggero, colto, impeccabile ed elegante, sempre rasato di fresco e con le camicie bianche. Lui è il più superficiale di tutti i superficiali che questo film mette in scena. Il regista lo preferisce a Léonard, barbuto, maniche arrotolate, in giacca a vento, che risulta falso in quasi tutto quello che dice; antipatico ma non repellente, nonostante tutto. Il personaggio più positivo di tutti è Valérie (Nora Hamzawi), la donna che vive con Léonard, che lo mantiene; i libri dello scrittore infatti si vendono, tuttavia Léonard non riesce a campare di questo, a differenza del suo collega con il blog, più digitale di lui che ignora Facebook e Twitter e trae la materia dei suoi libri dalle proprie esperienze personali, non dal web – cosa che del resto fanno tutti gli scrittori. Valérie è la portaborse e consigliera di un politico di sinistra, che tutti paiono ammirare. È un’idealista che si spende per una giusta causa, che crede nel suo partito politico e lo sostiene. Valérie appare in scena subito, al ritorno a casa di Léonard, dopo il rifiuto della pubblicazione. Al mattino a colazione lei sembra fredda, non solidarizza con lui, così da risultare, nonostante che Léonard non sia proprio simpatico, fredda e distante. Ma è un falso movimento. Il resto del racconto mostrerà proprio il contrario, che lei è l’unica persona “vera” del film, insieme a Selene: la conclusione in positivo sarà sua. 

 

Juliette Binoche.


Le donne fanno una figura migliore degli uomini. Anche la cinica con la patente, la media editor Laure (donna scaltra e senza ideali, se non il puro realismo, che va a letto col suo principale) non è così detestabile. Il regista non la giudica, la mette in scena e la osserva; in fondo anche lei ha una sua tenerezza, come le altre donne del film. Sono i maschi che ne escono male: superficiali e pragmatici. Anche le donne lo sono, ma per necessità, non per istinto, come loro. La doppia vita che conducono è anche questa: sentimento/cinismo. Uno è il rovescio dell’altro. Le donne devono adeguarsi. Cosa abbia spinto Selena ad andare a letto con Léonard per sei anni, non si capisce. Le piace quell’uomo: forse il suo infantilismo, forse il suo modo di stare nella vita e di raccontare, forse perché uno scrittore è per lei, di mestiere attrice, meglio di un editore, con cui pure ha fatto un figlio. Non si comprende. Certo che alla fine lei lascia lo scrittore, non senza averlo aiutato a pubblicare il libro rifiutato, intercedendo presso il marito, convincendolo che ha un suo pubblico di lettori e che forse il libro non è poi male. Anche questo è un aspetto della sua doppia vita. 

 

Tutti, sembra dirci Assayas, conduciamo una doppia esistenza: da un lato, tra due epoche; dall’altro, tra rapporti sentimentali e sessuali diversi. Meglio: tra volere e non volere, tra negare e affermare. La loro morale, come rivela Alain alla giovane Laure dopo esserci andato a letto, nel momento post-coitale senza il letto, che equivale al momento post-prandiale senza tavolo attorno a cui sedersi – i tavoli e i letti ci sono nel film, ma non sono più oggetti su cui insiste l’occhio del regista, segno di un cambiamento in corso nelle abitudini dei bobo, e non solo loro – è quella del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare niente. Alain aggiunge che questa frase era meno vera nel momento in cui è stata scritta, mentre è oggi assolutamente vera. Come i borghesi di Buñuel anche questi neo-borghesi vivono nella convinzione di perpetuarsi, e quello che resta fisso nella loro doppia vita di bobo non è certo la rivoluzione informatica e digitale, bensì il mondo sentimental-sessuale della vita borghese. Il digitale cambierà probabilmente l’editoria e il modo in cui si legge, ma il cambiamento sentimentale non è ancora avvenuto, e forse non avverrà mai per loro. Solo Laure con la sua bisessualità – un’altra doppia vita – potrebbe indicare un cambiamento. Tuttavia, come spiega alla sua amante, lei sta per cambiare lavoro, per la carriera, per avanzare nella scalata sociale e del potere: le piace di più andare a letto con le donne, dice, ma non esita a lasciare la donna per trasferirsi da Parigi a Londra. 

 

Guillaume Canet.


Pur essendo un film a suo modo leggero, come già detto, non è così lontano dal mondo descritto da Michel Houellebecq, Balzac dei nostri giorni, nei suoi romanzi sempre più brevi e sottili, forse per essere ancora più rapido nell’indicare i cambiamenti che vuole anticipare, seppur solo di minuti o di ore. L’ha fatto con i terroristi islamici e con i gilet gialli di queste settimane, libri molto meno complessi e articolati dei primi: Le particelle elementari, Estensione del dominio della lotta o Piattaforma. Assayas sta raccontando la stessa Francia, più ordinaria e ordinata di quella dello scrittore, ma le due società narrate confinano. Chi ci salverà dal caos indicato da Houellebecq, in cui stiamo precipitando? Valérie è la donna che compirà il gesto risolutore, rendendo impossibile con il suo ottimismo la doppia vita di Léonard. A lui invece, nel momento della separazione, Selene, disgustata dal suo modo egoistico di continuare la sua relazione, chiede di non raccontare quello che c’è stato tra loro in sei anni di sesso e amore, pur sapendo bene che, proprio nel libro che ha aiutato a pubblicare, lui l’ha già fatto: un episodio di fellatio al cinema. 

 

Che dire di questo film così piacevole e così superficiale? Che nonostante la sua leggerezza fa pensare, che si vede con piacere, che è una commedia francese con tutti i crismi. Cosa chiedergli di più? Non tutti gli artisti, pur dotati di talento, sono Bergman – citato da Alain in uno dei colloqui con Laure, appena dopo aver scopato. Se Bergman ritornasse oggi, e ci proponesse uno dei suoi maestosi e profondi film, sapremmo capirlo? Lo seguirebbe il pubblico, si parlerebbe di lui come uno dei grandi del cinema? Non ne sono sicuro. Di sicuro so che tra pochi giorni comprerò e leggerò il libro di Houellebecq in uscita, Serotonina, pur sapendo che neppure lui ha le risposte alle mie, alle nostre, domande. Però so che ci farà divertire, arrabbiare e riflettere più del pur bravo Olivier Assayas.   

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O. Assayas, “Il gioco delle coppie”
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