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Milo Rau, Histoire(s) du théâtre con Decalogo

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Sottotitolo: 

Passeranno molti minuti e in alcuni momenti il tempo volerà sulle ali della commedia, in altri sembrerà inciampare su sé stesso, come sempre accade a teatro, si vedranno attori di vaglia, bravi perché capaci di recitare la parte del fantasma del padre nell’Amleto con la stessa disinvoltura con cui un fattorino consegna una pizza senza farsi notare, se ne vedranno altri per definizione sospesi su qualunque bravura, perché nella vita guidano il muletto o fanno le dog-sitter e lì per lì non riescono a piangere a comando, a spogliarsi, a baciare una donna, mentre poi faranno tutte queste cose calati in una storia puntigliosamente ricostruita tra il palco e lo schermo: una brutta storia scellerata di omofobia e di omicidio avvenuta in Belgio, a Liegi, ex città industriale dove adesso sono tutti disoccupati, e quelli che non lo sono “recitano nei film dei fratelli Dardenne”. 

 

Al culmine di questa sequenza abbastanza travolgente per far dimenticare in quello che viene quello che lo precedeva, lo spettatore, catturato dai versi di una poesia di Wyslawa Szimborska che costituisce un finale, e da una scena in cui un attore monta su una sedia per mettersi un cappio al collo, che costituisce un altro finale, lo spettatore che applaude ed espira, ritrovando un vecchio piacere catartico come si ritrova una cara benché cattiva abitudine – avrà forse perso di vista che il titolo dello spettacolo di Milo Rau presentato al Teatro Vascello da Romaeuropa Festival, tradotto in buon italiano è La ripresa, come nella versione francofona (La reprise) e non “La ripetizione”, come suona in quella inglese stampata sui biglietti – The repetition – con quell’aria da newspeak orwelliano che ormai assumono i titoli anglofoni sparsi a manciate nei cartelloni di mezza Europa. Certo, l’assunzione pentecostale di più lingue – sulla scena de La ripresa ne circolano tranquillamente tre – è uno dei comandamenti del nuovo Teatro di Gent, del teatro “Dogma” di Milo Rau. Ma per quale ragione lo spettacolo del regista svizzero ha lo stesso titolo di uno dei più folgoranti libri di Soren Kierkegaard dove la questione centrale è quella di “volere la ripresa”, ben sapendo che ogni replica, ogni riproduzione, ogni matematica ripetizione del vissuto reale è, al contrario, impossibile? Perché mai il (nuovo) teatro, dopo aver a lungo lottato per essere un’arte che al pari di tutte le altre volta le spalle alla mimesis, dovrebbe assestarsi nell’ambiguo, mediano, spazio etico “voluto” dal pensatore danese?

 

 

In realtà sono i dubbi, e non i dogmi, a rendere magistrale la lezione di Milo Rau: i dubbi che ogni rappresentazione della morte si porta con sé nel suo violare un confine stabilito, e stabilito da secoli – “la morte resta fuori di scena” decretava Roland Barthes nella sua analisi della tragedia raciniana – i dubbi che trasformano le forzature formali in altrettante soluzioni. C’è quello schermo che sovrasta una scena spoglia in cui l’azione finisce sdoppiata o piuttosto raddoppiata, quell’immagine dialettica che il regista svizzero ha ereditato dal suo conterraneo Jean-Luc Godard e che ispira anche il sottotitolo della RipresaHistoire(s) du théâtre, parafrasi delle godardiane Histoire(s) du cinema. Quello schermo esalta molti, irrita e deprime altri che in esso vedono il segno di un primato del visivo sull’ormai definitiva debolezza del teatro in quanto arte del fatto. 

 

È strano che, forse per un’abitudine ormai inveterata a ragionare in termini di mera potenza, pochi vedano e pensino l’opposto: che proprio alla crisi del cinema e dei suoi derivati sul mercato dell’intrattenimento spettacolare siano rivolti gli schermi che compaiono puntuali in tutte le messinscene viste finora di Milo Rau. C’è una crisi politica del cinema che si manifesta nella dichiarata impossibilità di accedere a un’immagine definitiva del reale delle ricostruzioni processuali di Rau (che sono tali nella doppia accezione del termine “processo”: estetica e giudiziaria, dal momento che gli spazi del regista svizzero tendono inesorabilmente al tribunale anche dove quel che viene messo in scena non è come in Kongo Tribunal esplicitamente un tribunale; dal momento che la ricostruzione, in Five Easy Pieces come in La reprise, è sempre indiziaria. Anche Nicola Chiaromonte, per inciso, individuava nel tribunale una delle forme originarie del teatro). 

Il cinema è in debito di incontro rispetto al pubblico proprio nel suo essere un prodotto industriale che nasconde la propria processualità a favore della potenza illusionistica dell’immagine, dell’effetto, del risultato: questo potere illusionistico si ritrova puntualmente rappresentato in tutti gli spettacoli di Milo Rau, rappresentato e decostruito dalla ritualità dei suoi “montaggi a vista” che costringono lo sguardo dello spettatore a un estenuante andirivieni tra la terra del palcoscenico, dove l’immagine effettivamente si forma, e il cielo dello schermo. Mentre gli indizi che vengono sparsi a manciate sul terreno preparatorio delle audizioni, lungi dal configurare una digressione rispetto al cuore dell’azione, si comportano come i segni anticipatori della tragedia antica: uno dopo l’altro, tutti finiscono per rivelare la propria necessità drammaturgica. 

 

 

In La Reprise, che se non il più bello è il più esemplare degli spettacoli di Milo Rau, questa seminagione che precede l’omicidio ha qualcosa del sortilegio, anche se in fondo non è che una calibrata astuzia: scelta per incarnare la madre di Ishane Jafry, Suzy Cocco, la donna che porta a spasso i cani dei ricchi, si sottrae pudicamente alla domanda che le viene posta dal regista se sarebbe capace di spogliarsi davanti a tutti per recitare, cosa che puntualmente avverrà in seguito, in scena e sullo schermo, quando la nudità diventerà la condizione che distingue il mondo delle vittime da quello dei carnefici. Il grammelot che l’attore di origini ghanesi Tom Adjibi ha inventato per sembrare arabo nei casting risuonerà nella preghiera mormorata con cui, indossati i panni di Ishane, cerca di scongiurare il proprio destino chiuso nel portabagagli dell’automobile degli assassini (e più tardi ancora quella sonorità si libererà con uno scioglimento ulteriore nei gorgheggi di una commovente esecuzione di The cold song di Purcell intonata dal vivo). E così è delle lacrime provocate e non versate, degli schiaffi di scena sonoramente fittizi o del casuale inizio con cui Johan Leysen, il più anziano e il più di mestiere dei tre attori di mestiere che in La Reprise giocano di sponda con i due attori non professionisti, propone di dissolvere l’imbarazzo tipico di ogni ingresso in scena – come entrare nel personaggio – “per esempio” con il monologo del fantasma del padre di Amleto. 

 

Portando dentro tutto quello che era fuori, ogni frammento viene preso nella spirale di una ricapitolazione drammaturgica che lo ripresenta sulla scena, to complete and make up the catastrophe of this great piece, per dirla con il medico inglese Thomas Browne, che in questa sorta di apocatastasi teatrale di tutti gli oscuri elementi della realtà, divenuti finalmente chiari, intravedeva niente meno che la redenzione di una tragedia cosmica. Sulla scena de La reprise sono i magnifici versi delle Impressioni teatrali di Wyslawa Szimborska a esercitare la medesima funzione salvifica – Sara De Bosschere li dice con le lacrime agli occhi, spingendo la tragedia oltre, nel “sesto atto” evocato dalla poetessa polacca: “il risorgere delle battaglie della scena / l’aggiustare le parrucche, le vesti / l’estrarre il coltello dal petto / il togliere il cappio dal collo / l’allinearsi tra i vivi / con la faccia al pubblico”. E tuttavia è proprio questo cappio tolto che nell’ultimissima scena della Ripresa torna letteralmente a incombere sulla testa dell’attore, lasciando intendere al pubblico che solo una sottile svista separa l’atto scenico da un sempre inspiegabile passage à l’acte, insinuato e subito troncato dal buio (prima che qualche spettatore corra in soccorso dell’uomo che sta per infilarsi il cappio al collo vedendo in lui nient’altro che un uomo in stato di pericolo). Strano ritrovare Artaud proprio in questo estremo sigillo: “Una volta lanciato nel suo furore, occorre infinitamente più virtù all’attore per impedirsi di commettere un crimine di quanto coraggio non serva all’assassino per riuscire a eseguire il proprio, ed è qui che, nella sua gratuità, l’azione di un sentimento a teatro appare come qualcosa di infinitamente più valido di quella di un sentimento realizzato”.

(Quanto all’attore sotto il cappio, era, se non ricordo male, lo stesso che nel corso dello spettacolo si era rammaricato della propria impotenza, e dell’impotenza del teatro, a rivivere la sofferenza provata da Ishane Jafry nelle ultime ore della sua vita) 

 

 

L’intero dispositivo drammaturgico di tutte queste “stori(e) di teatro” ruota attorno a una scena madre: quella ricostruita e ripresa in diretta dell’omicidio di Ishane Jafry, pestato a sangue, denudato e rinchiuso nel bagagliaio dell’automobile, infine lasciato agonizzante sulla strada. Sul perché dell’insorgere di quest’atto omofobico e omicida, la Reprise non dice (quasi) nulla: ogni ragione è tolta agli assassini, persino lo spettacolo della banalità del male che incarnano. Sul come l’omicidio si è consumato si concentra invece tutta la potenza scenica della ricostruzione, in una serrata, laboriosa dialettica tra quello che avviene sotto, nella vera automobile che avanza in scena e quello che viene simultaneamente proiettato sopra, sullo schermo. Tutto si vede, e ancor di più di ciò che normalmente si vedrebbe (solo a teatro o solo in televisione), soprattutto dell’energia con cui la finzione teatrale spedisce verso l’alto, nel mondo della simulazione, l’immagine visiva che, parallelamente, ricade attratta dalla forza gravitazionale della scena. La qualità di questa immagine non è granché diversa dalle sequenze di ricostruzione dei delitti che si utilizzano nei reality a sfondo criminale. Lo spettatore finirà per affidarsi a qualcosa che non si vede, al punto di caduta, a un corto-circuito tra le due immagini che nega ciò che sembra affermare, ribadendo l’impossibilità di una rappresentazione puntuale della morte: la vera emozione consiste nell’assistere alla concitazione agonica con cui le forze della vita organizzano l’immagine della morte e del morire. Quel cadavere che rotola dal cielo del video alla terra del palco, come un dono precipitato in piena luce, sorprende non per le apparenze della morte, ma per il suo essere più che mai vivo, vivo come può esserlo soltanto un uomo che si finge morto. Reale, per Milo Rau, è la rappresentazione stessa. La reprise è un grande spettacolo sulla morte perché è un grande spettacolo sui fondamenti del teatro e sulla sua esigenza di riprendere quella lesione ontologica che ci accomuna davanti al sacrificio di una vittima innocente, di un altro. E proprio dal fallimento di un’immagine sgorga la sua travolgente potenza etica. Noi non sappiamo rappresentare. Noi non possiamo rappresentare. E tuttavia non possiamo fare a meno di rappresentare, di volere, malgrado tutto, la ripresa

 

 

Milo Rau, direttore del teatro cittadino di Gent, in Belgio, Ntgent, ha stilato un manifesto in dieci regole, simile nello spirito al Dogma 95 di Lars von Trier, che chiunque lavori in quel teatro deve sottoscrivere. Eccolo qui di seguito, nella traduzione di Francesco Alberici.

 

Gent Manifesto 

Milo Rau

 

Uno: non si tratta più soltanto di ritrarre il mondo. Si tratta di cambiarlo. L'obiettivo non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa. 

 

Due: il teatro non è un prodotto, è un processo di produzione. La ricerca, i casting, le prove e i relativi dibattiti devono essere resi accessibili al pubblico. 

 

Tre: l'autorialità spetta esclusivamente a coloro che sono coinvolti nelle prove e nelle performance, qualunque sia la loro funzione – e a nessun altro. 

 

Quattro: l'adattamento letterale dei classici sul palco è proibito. Se un testo sorgente – sia esso letteratura, cinema o teatro – è utilizzato all'inizio del progetto, può occupare solo al massimo il 20 per cento del tempo di esecuzione finale. 

 

Cinque: almeno un quarto del tempo di prova deve svolgersi al di fuori del teatro. Uno spazio teatrale è un qualsiasi spazio all’interno del quale sia stata provata o eseguita una rappresentazione teatrale. 

 

Sei: almeno due lingue diverse devono essere parlate sul palco in ogni produzione. 

 

Sette: almeno due attori sul palco non devono essere attori professionisti. Gli animali non contano, ma sono i benvenuti. 

 

Otto: il volume totale del materiale di scena non deve superare i 20 metri cubici, cioè deve poter essere contenuto in un furgone che può essere guidato con una normale patente di guida. 

 

Nove: almeno una produzione per stagione deve essere ripetuta o eseguita in una zona di conflitto o di guerra, senza alcuna infrastruttura culturale. 

 

Dieci: ogni produzione deve essere mostrata in almeno dieci località in almeno tre paesi. Nessuna produzione può essere rimossa dal repertorio NTGent prima che questo numero sia stato raggiunto. 

 

Gent, 1 Maggio 2018 

 

Le foto che accompagnano il testo sono di Hubert Amiel; l’ultima, riportata nella homepage è di Michiel Devijver.

 

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Come misurare la diseguaglianza dei redditi

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In un tempo passato, a un viaggiatore in terre lontane capitò di visitare Anastasia e Zobeide. Anastasia era una città bagnata da canali concentrici e sorvolata da aquiloni; una città ingannatrice che appariva come un tutto in cui nessun desiderio andava perduto e di cui ognuno faceva parte, ma in cui non restava che abitare questo desiderio ed esserne contento. Di là, dopo sei giorni e sette notti, si arrivava a Zobeide, città bianca, ben esposta alla luna, con vie che giravano su stesse come in un gomitolo, fondata aspettando di ricreare un inseguimento sognato, senza che quello si ripetesse né nel sonno né da svegli. Il viaggiatore, acuto osservatore, notò che in tutte e due le città gli abitanti si suddividevano in cinque classi, distinte l’una dall’altra per la professione dei loro componenti, ma altrimenti assai omogenee, tra loro e al loro interno. A ciascuna classe si associava non una posizione diversa nell’ordinamento sociale, ma una differenza nel livello di reddito e, quindi, nel tenore di vita. Il viaggiatore registrò questi redditi in una tabella, esprimendoli tutti in ducati, la moneta del suo paese, e correggendoli per annullare le differenze nel costo della vita tra le due città.

 

 

Tornato in patria, una sera mostrò la tabella ad alcuni suoi conoscenti e gli sottopose il seguente quesito “Secondo voi, cari amici, in quale delle due città la distribuzione dei guadagni è più diseguale?”. Il primo a rispondere fu il contabile: “Mi pare che non vi siano dubbi: sono entrambe diseguali in pari misura. Nell’una e nell’altra il reddito dei più ricchi è doppio di quello dei più poveri. Anzi, a ben vedere, per ciascuna classe i redditi a Zobeide sono semplicemente una volta e mezzo quelli ad Anastasia; in tutte e due le proporzioni tra le professioni sono le medesime”. “Credo che ti sbagli”, obiettò il medico: “Non vedi che ad Anastasia gli amministratori hanno 50 ducati più dei manovali, mentre a Zobeide ne hanno 75? Zobeide è certamente più disuguale di Anastasia!”. Intervenne infine il calzolaio, sin allora rimasto in silenzio: “Mah, sarà anche giusto quello che dite, ma se mi fosse chiesto in quale delle due vorrei trasferirmi, senza sapere a quale classe apparterrò, certo sceglierei Zobeide: lì sono tutti più ricchi e, se anche per sventura dovessi ritrovarmi a fare il manovale, vi guadagnerei molti più ducati che ad Anastasia”. La conversazione durò ancora un po’, si arricchì di nuove considerazioni, ma le posizioni non mutarono. Il viaggiatore rifletté che, lungi dal chiarirsi, la questione si era assai ingarbugliata: non avrebbe saputo dire quale fosse la risposta più convincente al suo quesito. Decise che meritava un approfondimento.

Oltre che osservatore acuto, il viaggiatore era uomo di solidi studi. Una rapida ricerca lo portò a individuare vari indici di disuguaglianza. Tra questi rientravano la varianza σ2i(yi–μ)2/n e il coefficiente di variazione c=σ/μ, che gli erano noti sin dal corso di rudimenti di statistica (yiè il reddito dell’individuo i, μ il reddito medio e n il numero totale di individui). Scoprì che la misura più popolare “a livello mondiale” era tuttavia l’indice di concentrazione G proposto da Corrado Gini, un illustre accademico italiano, basato sul confronto a due a due dei redditi di tutti coloro che compongono una comunità: GiΣj|yiyj|/2n2μ. Per redditi non negativi, G varia tra 0 nella situazione di perfetta uguaglianza e (n–1)/n in quella di massima disuguaglianza, dove si definisce “perfetta uguaglianza” la situazione in cui tutti hanno lo stesso reddito e “massima disuguaglianza” quella in cui tutto il reddito è concentrato nelle mani di una sola persona. Il viaggiatore trovò anche che gli economisti del lavoro preferivano invece la varianza dei logaritmi VLi[ln(yi)–μln]2/nlnè la media aritmetica dei logaritmi dei redditi), sia perché VLè un indice “naturale” nelle analisi econometriche in cui le variabili sono espresse in logaritmi sia perché i logaritmi delle retribuzioni tendono a distribuirsi all’incirca normalmente, così che la distribuzione delle retribuzioni può approssimarsi con una specificazione lognormale. Il viaggiatore annotò infine l’idea di un econometrico olandese, Henri Theil, secondo cui misurare l’entropia della distribuzione dei redditi equivale a stimarne il grado di uguaglianza. Partendo dai risultati della teoria dell’informazione, Theil derivava due misure: la deviazione logaritmica media, L=–Σiln(yi/μ)/n, e l’indice che da lui prese poi il nome, Ti(yi/μ)ln(yi/μ)/n. Questi due indici hanno la proprietà di essere perfettamente scomponibili per gruppi omogenei di popolazione così che la disuguaglianza totale è la somma esatta, senza alcun residuo, della somma ponderata della disuguaglianza all’interno dei gruppi e della disuguaglianza tra i gruppi. Si è successivamente mostrato come questi due indici appartengano alla famiglia delle misure generalizzate di entropia, che condividono la medesima proprietà di essere additivamente scomponibili. Questa classe di misure è definita da Eβ=[Σi(yi/μ)β/n–1](β2–β)–1, dove β è un parametro da fissare compreso tra –∞ e ∞, che genera la deviazione logaritmica media quando è uguale a 0, l’indice di Theil quando è uguale a 1 e la metà del coefficiente di variazione quando è uguale a 2. Gli indici di questa classe sono compresi tra 0 (perfetta uguaglianza) e ∞ (massima disuguaglianza), tranne la metà del quadrato del coefficiente di variazione e l’indice di Theil i cui limiti superiori sono, rispettivamente, (n–1)/2 e ln(n).

Soddisfatto per l’esito della sua ricerca, il viaggiatore calcolò questi indici per i redditi di Anastasia e Zobeide e li riportò in una nuova tabella. 

 

 

I valori calcolati erano molto diversi tra i vari indici, ma per ciascuno di essi erano uguali in entrambe le città, tranne che nel caso della varianza. Sembra quindi che avesse ragione il contabile: Anastasia e Zobeide avevano lo stesso livello di disuguaglianza nella distribuzione dei guadagni, almeno secondo quasi tutte le misure abitualmente utilizzate. Fu quel “quasi” a turbare il viaggiatore. Perché la varianza indicava che i redditi erano allocati in modo più diseguale a Zobeide, mentre tutti gli altri indici non segnalavano alcuna differenza? E come mai non vi erano differenze per questi altri indici, nonostante che le loro formule fossero assai diverse? Era necessario proseguire l’indagine.

Il viaggiatore si ricordò di aver letto in gioventù un saggio scritto nel 1920 da Hugh Dalton, un autorevole professore gallese della London School of Economics che gli eventi della vita avrebbero poi portato a diventare Cancelliere dello Scacchiere laburista nel 1945. Dalton sosteneva che la nozione di disuguaglianza non potesse essere scissa dalla visione etica sottostante, poiché altro non è se non la perdita di “benessere sociale” causata da una distribuzione disuguale dei redditi: va quindi misurata con un indice etico, derivato da una specifica funzione matematica che definisce il benessere sociale. Questa visione si contrapponeva nettamente alla tradizione che fino allora aveva proceduto elaborando indici puramente descrittivi, che dessero semplicemente conto della variabilità dei redditi tra gli individui, senza attribuirvi alcun significato normativo. Gini fu pronto a prendere le difese della tradizione, replicando a Dalton che nella misurazione della “… disuguaglianza dei redditi e della ricchezza, indipendentemente da tutte le ipotesi sulla relazione funzionale che le lega al benessere economico, … gli stessi metodi sono … applicabili … a tutte le altre caratteristiche quantitative (economiche, demografiche, anatomiche o fisiologiche)”.

A dispetto della veemente reazione di Gini, al viaggiatore sembrò che l’osservazione di Dalton cogliesse un punto: l’importanza dei giudizi di valore nella misurazione della disuguaglianza. D’altronde, la diversità di opinioni di qualche sera prima tra i suoi amici sembrava esserne una chiara testimonianza. In termini formali, secondo Dalton la funzione di benessere sociale poteva scriversi come somma del benessere di tutti gli individui, cioè come SWiW(yi) dove W(⋅) dipende solamente del reddito. Il viaggiatore pensò che le cose sarebbero state semplici se W(⋅) fosse stata una funzione lineare. SW sarebbe divenuta una trasformazione lineare del solo reddito medio e un aumento di quest’ultimo sarebbe equivalso a un maggiore benessere complessivo, indipendentemente dalla sua ripartizione – l’ipotesi implicita nei confronti internazionali che si basano esclusivamente sul prodotto interno lordo pro capite. Il viaggiatore calcolò velocemente che il benessere sarebbe risultato maggiore a Zobeide, dove il reddito medio era pari a 114 ducati contro i 76 di Anastasia. Come aveva suggerito il calzolaio. Già, ma che dire del fatto che i redditi erano distribuiti in modo diseguale? Dalton, in effetti, adottava un approccio utilitarista e interpretava W(⋅) come una funzione di utilità (cardinale) identica per tutti gli individui e (strettamente) concava, tale cioè da aumentare meno che proporzionalmente al crescere del reddito. Ne seguiva che la disuguaglianza dei redditi riduceva il benessere della collettività e che questo sarebbe salito ridistribuendo in modo perfettamente ugualitario il reddito totale. Ciò parve ragionevole al viaggiatore, ma quale forma poteva assumere la funzione W(⋅)? Era un dubbio già espresso a pochi anni dalla pubblicazione dell’articolo di Dalton da un economista americano, Dwight Yntema, che aveva osservato come la proposta di questi “si scontrasse con la difficoltà di trovare la funzione che lega il benessere di un individuo al suo reddito come pure con la necessità di ipotizzare che sia identica per tutti gli individui”.

Il viaggiatore trovò la soluzione a questo conundrum– un termine inglese che gli piaceva molto – in un articolo pubblicato mezzo secolo dopo da un altro brillante economista gallese, Anthony Atkinson. Atkinson ebbe l’intuizione di sfruttare alcuni risultati della teoria della scelta in condizioni di incertezza per definire i criteri che una funzione di benessere sociale deve soddisfare per poter ordinare due distribuzioni dei redditi. Quanto più restrittivi sono questi criteri, tanto più è probabile che si possa dire quale sia socialmente preferibile tra le due distribuzioni. Il carattere generale di questi criteri consente di evitare di adottare una specifica funzione W(⋅), ma può tuttavia non essere conclusivo per il confronto, rendendo inevitabile il ricorso a un indice di disuguaglianza, che si basa implicitamente su presupposti ancor più rigidi. Qui interviene la seconda fondamentale intuizione di Atkinson: trasferire l’idea di Dalton dallo spazio delle utilità a quello dei redditi introducendo la nozione di “reddito equivalente a una distribuzione ugualitaria”. Questo reddito y* è quel reddito che se fosse percepito da tutti darebbe un livello di benessere sociale uguale a quello della distribuzione di partenza; è quindi definito implicitamente con l’espressione nW(y*)=ΣiW(yi). Dalla concavità di W(⋅) segue che y* non è superiore a μ, così che il suo scostamento dalla media rappresenta una misura della perdita di benessere sociale causata dalla diseguale distribuzione dei redditi. Si può perciò scrivere un indice etico di disuguaglianza come S=1–y*/μ, che per costruzione è compreso tra 0, quando l’uguaglianza è perfetta, e 1, quando invece è massima. Il valore di y*, e di conseguenza di S, dipende dalla specificazione della funzione W(⋅). Con una funzione isoelastica, W(yi)=yi1–ε/(1–ε) per ε>0 e ε≠1 e W(yi)=ln(yi) per ε=1, si ottiene l’indice suggerito da Atkinson: Aε=1–[Σi(yi/μ)(1–ε)/n]1/(1–ε) per ε>0 e ε≠1 e Aε=1–Πi(yi/μ)(1/n) per ε=1. 

L’indice etico così derivato ha una valenza più generale di quella originariamente attribuitagli da Dalton: è sì perfettamente coerente con l’impostazione utilitaristica di quest’ultimo, ma è anche un modo per rendere esplicito, nella scelta della forma funzionale di W(⋅), il giudizio normativo di chi misura il grado di disuguaglianza. In questo secondo caso, la funzione W(⋅) non rappresenta più un’utilità individuale, ma il sistema di ponderazione che il misuratore utilizza per pesare i diversi redditi. Nell’indice Aε, data la forma isoelastica imposta a W(⋅), il parametro ε ne determina la concavità e, conseguentemente, il grado di avversione alla disuguaglianza: più alto è il valore di ε, maggiore è l’attitudine egualitaria del misuratore e il peso che attribuisce alle persone più povere relativamente alle altre; per valori molti elevati di ε, l’indice tende a (1–y1/μ) e dipende, di fatto, solamente dal reddito y1 dell’individuo più povero.

La possibilità di palesare un pluralismo di giudizi di valore non dispiacque al viaggiatore, che si accinse a calcolare l’indice di Atkinson per i guadagni ad Anastasia e a Zobeide. La scelta di ε era un nuovo problema da risolvere, ma una sommaria scorsa agli studi esistenti lo rassicurò che scegliendo valori compresi tra 0,3 e 3 avrebbe coperto un ampio spettro di attitudini alla disuguaglianza. Come atteso, riscontrò che il grado stimato di disuguaglianza aumentava scegliendo un ε più alto, ma ancora una volta non emerse alcuna differenza tra le due città. Un altro punto a favore del contabile.

 

 

Rimaneva però al viaggiatore il cruccio dell’anomalia della varianza. Fu allora che si imbatté in un saggio illuminante, pubblicato nel 1976 da un economista francese, Serge Kolm. “Nel maggio del 1968, in Francia, – scriveva Kolm – gli studenti radicali innescarono una protesta che portò i lavoratori a proclamare uno sciopero generale. Tutto finì con l’accordo di Grenelle che riconobbe un aumento del 13 per cento per tutte le retribuzioni. Così, i lavoratori che guadagnavano 80 sterline [sic] al mese ricevettero 10 sterline in più, mentre i dirigenti che già guadagnavano 800 sterline al mese beneficiarono di un aumento di 100 sterline. I Radicali si sentirono amareggiati e truffati; secondo loro, questo accordo aumentava enormemente la disuguaglianza dei redditi … In altri paesi (mi sono stati citati esempi per l’Inghilterra e per i Paesi Bassi), i sindacati dei lavoratori sono più accorti e spesso insistono per aumenti delle remunerazioni uguali in termini assoluti, non relativi, così da evitare l’effetto appena indicato. Ho trovato molte persone che pensano che sia un uguale incremento assoluto di tutti i redditi quello che non accresce la disuguaglianza”. Partendo da questa considerazione, Kolm definì la famiglia di indici assoluti di disuguaglianza Kκ=ln{[Σiexp(κ(μ–yi))]/n}1/κ, dove κ>0 è un parametro che, come ε in precedenza, coglie il grado di avversione alla disuguaglianza. Aumentando κ, si attribuisce più importanza ai redditi più bassi, fino a dar risalto solamente al reddito del più povero con κ molto grande, quando l’indice Kκ tende a coincidere con la differenza (μ–y1). L’indice Kκ non cambia quando tutti i redditi sono aumentati di un pari ammontare, mentre cresce quando sono aumentati in modo proporzionale. 

“Ecco dove sta la differenza”, pensò il viaggiatore. “Tutte le misure che ho considerato sino ad ora sono ‘relative’: il loro valore non varia se tutti i redditi sono accresciuti nella stessa proporzione. Fuorché una: la varianza. La varianza rimane immutata solo quando do, o tolgo, a tutti la stessa quantità, proprio come accade per l’indice di Kolm”. Scelse quindi tre valori per κ e calcolò l’indice di Kolm: vide che il livello della disuguaglianza era maggiore per valori più alti di κ in entrambe le città, ma che era senza dubbio superiore a Zobeide che ad Anastasia. Quello che aveva sostenuto il medico!

 

 

Mentre calcolava questi ultimi valori, il viaggiatore si rammentò che già Dalton aveva chiaramente distinto tra indici assoluti e relativi. Si rammaricò di non avervi prestato sufficiente attenzione, soprattutto perché l’argomentare di Dalton su quali fossero gli indici da preferire dal punto di vista teorico anticipava l’approccio assiomatico che sarebbe stato seguito nei decenni futuri. Un modo per discriminare tra i diversi indici di disuguaglianza è infatti quello di fissare alcune proprietà “ragionevoli” e scartare quegli indici che non le soddisfano. Annotò le principali di queste proprietà. “Simmetria o anonimità”: l’indice tratta in modo uguale le persone, tralasciando tutte le caratteristiche diverse dal reddito. “Principio della popolazione”: il valore dell’indice non varia quando ciascun individuo nella popolazione è identicamente replicato x volte. “Principio del trasferimento di Pigou-Dalton”: il valore dell’indice diminuisce quando un ammontare di reddito è trasferito da una persona più ricca a una più povera, senza mutarne le posizioni relative, e aumenta nel caso opposto, indipendentemente dai redditi delle altre persone. “Indipendenza rispetto alla scala”: il valore dell’indice non varia quando tutti i redditi sono moltiplicati per la stessa costante positiva. “Scomponibilità”: il valore dell’indice per l’intera popolazione aumenta quando non diminuisce in alcuno dei gruppi ottenuti da una partizione della popolazione e cresce almeno in uno (a parità di dimensione e di reddito medio). Se si segue la proposta di Kolm, l’indipendenza rispetto alla scala è sostituita dalla “indipendenza rispetto a traslazioni”: il valore dell’indice non varia quando lo stesso ammontare è sommato a (sottratto da) tutti i redditi. Di là dalle proprietà che i vari indici soddisfano, la loro diversa sensibilità può essere valutata calcolando come cambiano trasferendo un ammontare di reddito Δ dal più ricco i al più povero j, senza mutarne le posizioni relative. L’indice di Gini varia di [2(ji)/n2μ]Δ; la deviazione logaritmica media, approssimativamente, di [(yjyi)/nyjyi]Δ. Poiché per definizione j<i e yj<yi, entrambe le variazioni sono negative, a riprova che i due indici soddisfano il principio di Pigou-Dalton. Un trasferimento progressivo di reddito ha un effetto tanto maggiore sull’indice di Gini, quanto più distanti (nella sequenza ordinata dei redditi) sono le persone coinvolte, indipendentemente dal livello dei loro redditi, una caratteristica che può rendere quest’indice “sgradevole” ad alcuni. Nel caso della deviazione logaritmica media, la diminuzione è invece proporzionale al divario tra i redditi delle due persone.

Il viaggiatore decise che la sua investigazione era giunta alla fine. Gli era ormai chiaro che gli indici di disuguaglianza si distinguono per il peso che implicitamente danno a valori in posizioni diverse della scala dei redditi e che sceglierne uno equivale ad adottare un certo sistema di valutazione delle singole osservazioni e, in ultima analisi, un certo giudizio di valore. Poiché vi è una naturale pluralità di giudizi etici, come la discussione tra i suoi amici gli aveva mostrato chiaramente, in molti casi sarebbe una forzatura sostenere che un indice è migliore di un altro. Fu confortato in questa sua conclusione dallo scoprire che vi è un consenso tutt’altro che unanime intorno alla plausibilità delle proprietà degli indici di disuguaglianza che si era annotato. Era questo, infatti, il verdetto delle verifiche sperimentali compiute sottoponendo quesiti verbali e numerici a vari gruppi di studenti universitari in Europa, Oceania, Israele e Stati Uniti. 

Si convinse che la misurazione della disuguaglianza è un processo complesso, che può fornire risultati differenti, talora anche contrastanti, a seconda delle soluzioni adottate. Questa pluralità di risultati non è però un sintomo di inadeguatezza della teoria, ma è la conseguenza della complessità costitutiva della nozione di disuguaglianza, in cui convivono una natura “descrittiva” – la condizione fattuale di diversità tra soggetti – e una “normativa” – il giudizio di equità della distribuzione rispetto a un qualche termine di riferimento ideale. Come ha scritto il grande economista indiano Amartya Sen, “... una misura può difficilmente essere più precisa della nozione che rappresenta”. 

Compiaciuto dei suoi progressi, il viaggiatore decise di invitare nuovamente a cena il contabile, il medico e il calzolaio per illustrargli i risultati delle sue ricerche e rassicurarli che tutti e tre avevano colto un aspetto importante del confronto tra i guadagni ad Anastasia e quelli a Zobeide.

 

Pubblicato in “Matematica e democrazia”, a cura di A. Guerraggio, PRISTEM/Storia - Note di Matematica, Storia e Cultura, n. 39-40, pp. 171-182, Milano, Egea, 2015. Con molte scuse a Italo Calvino, per l’uso improprio delle sue città invisibili.

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Canta come parli

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Fateci caso: molte delle canzoni americane della prima metà del Novecento recano, a mo’ di titolo, delle frasi fatte. Qualche esempio? It never entered my mind (Non mi è mai passato per l’anticamera del cervello; di Richard Rodgers e Lorenz Hart); Everything happens to me (Capitano tutte a me; di Matt Dennis e Tom Adair); You took advantage of me (Ti sei approfittato/a di me; di Rodgers e Hart); You’re driving me crazy (Mi fai impazzire; di Walter Donaldson); I could write a book (Potrei scriverci su un libro; di Rodgers e Hart); I don’t stand a ghost of a chance (Non ho uno straccio di possibilità; di Victor Young, Ned Washington e Bing Crosby), e via discorrendo. È un elenco lunghissimo, se non proprio sterminato.

 

Si tratta per l’appunto di frasi convenzionali, espressioni prese a prestito direttamente dalla quotidianità, né più né meno, come sottolinea Philip Furia ne The Poets of Tin Pan Alley (Oxford University Press, 1990), di come la poesia e più in genere anche le altre arti cominciarono a fare nei primi decenni del ventesimo secolo. Ci si stava cioè accorgendo di come la lingua di tutti i giorni, per di più nella sua forma più colloquiale, nell’uso ripetuto e ormai svuotato di senso del luogo comune, poteva assumere, se espressa in un certo modo e in un dato contesto, una valenza poetica degna di essere rappresentata. Frasi banali o colloquiali, formule stereotipate come “capitano tutte a me”, “ti sei approfittato di me”, “non ti si vede più da queste parti”, diventarono titoli di canzoni capaci di catturare con immediatezza uno stato d’animo, un sentimento facilmente condivisibile, o un’emozione che lo era altrettanto. E questo grazie all’interpretazione di grandi artisti.

 

Quando Chet Baker canta It never entered my mind o Billie Holiday attacca il ritornello de I didn’t know what time it was, queste frasi così abusate, ormai spogliate di senso tanta è la vaghezza che esprimono, scolpite in una canzone riacquistano come per magia una dignità che l’abuso colloquiale aveva ormai cancellato. E questo succede perché queste frasi vengono affidate a un interprete, tornano cioè a farsi espressione di qualcosa di autentico che ci riguarda in prima persona. La canzone, in un certo senso, è il luogo dove il cliché sfugge per un attimo alla sua indeterminatezza, e si riappropria di una verità emotiva. Del luogo comune una canzone accoglie la genericità del sentimento che esprime, ma la precisa poi e la individualizza attraverso un’interpretazione di natura personale.

 

 

Detto questo, pescare a piene mani nel catalogo delle frasi fatte è un conto, riuscire ad alleggerire un luogo comune della vaghezza che porta con sé è tutta un’altra storia. Contribuisce da un lato l’interpretazione, dall’altro il contesto dentro il quale la frase è inserita. Ed è proprio su questo versante che l’estro dei migliori parolieri americani degli anni ’20 e ’30 fece la differenza. Il trucco consisteva sovente nel collocare il luogo comune dentro una situazione capace di colpire l’immaginazione con un’evidenza inattesa. Spesso semplicemente inserendo quella frase dentro un contesto diverso, oppure mettendola in relazione con un fatto concreto, fosse l’insperata durata di un bacio, come in How long has this been going on? (Da quant’è che dura ‘sta storia?, di George e Ira Gershwin) o l’esitazione romantica di I can’t get started (Non riesco a decidermi, di Vernon Duke e Ira Gershwin). Le canzoni dopotutto erano scritte perché diventassero popolari. Non v’è alcun dubbio che un titolo e un testo come quello di It had to be you– altro luogo comune: qualcosa come Non aspettavo che te, o Nessun’altro/a che te (che ha in verità un suo corrispettivo in Nobody else but me/you, composta da Jerome Kern e Oscar Hammerstein II) – sia diventato immensamente più popolare di un titolo come Bewitched, bothered and bewildered (Stregata, infastidita e disorientata; di Richard Rodgers e Lorenz Hart), una sequenza di tre aggettivi originali ma quasi dissuasivi, certo non ideali per una melodia da mandare a memoria al primo ascolto, al punto che la canzone viene oggi comunemente identificata soltanto con il primo degli aggettivi: Bewitched.

 

Johnny Mercer, il grande paroliere, cantante e attore americano, riteneva ad esempio che la più bella canzone pop mai pubblicata fosse proprio It had to be you, scritta a quattro mani dal compositore Isham Jones e dal paroliere Gus Kahn. Quanto ad Alec Wilder, forse il più autorevole studioso del repertorio dei song americani del bel tempo che fu, pur ammettendo di non avere una canzone preferita, la pensava allo stesso modo. In American Popular Song – The Great Innovators, 1900-1950 (Oxford University Press, 1972), ammise che sì, a dover proprio scegliere la “miglior canzone in assoluto”, It had to be you sarebbe stata una buona scelta. 

 

Dietro a questa predilezione vi sono anzitutto delle ragioni musicali. Wilder riteneva che le soluzioni melodiche e armoniche trovate da Isham Jones fossero esemplari. Niente di sperimentale, niente di particolarmente innovativo o rivoluzionario, proprio come si richiede a una buona canzone pop. Quanto al titolo, rispetto a ciò che si diceva prima, è altrettanto azzeccato: It had to be youè un bellissimo luogo comune. Nella canzone s’affrontano tre fasi distinte del processo amoroso: la ricerca del partner ideale (I wandered around and finally found, that somebody who / Could make me be true; ho gironzolato a lungo, ma finalmente ho trovato la persona capace di farmi sentire vero/a); la presa d’atto che la realtà aggiusta ogni pretesa (With all your faults, I love you still; ti amo nonostante i tuoi difetti); e infine la piena accettazione della vita di coppia (And even be glad just to be sad, thinking of you; esser persino contento/a d’essere triste, pensando a te).

 

Pubblicata nel 1924, It had to be you resta ancor oggi uno degli standard più amati del jazz e della canzone americana. L’orchestra di Paul Whiteman l’aveva in repertorio negli anni ’20, tutte le grandi voci della canzone a stelle e strisce vi si sono prima o poi misurate: Frank Sinatra e Billie Holiday, Ella Fitzgerald e Tony Bennett, Bing Crosby e Ray Charles, passando per Doris Day e Barbra Streisand. La canzone ha poi avuto una sua peculiare vita parallela nel cinema, dapprima grazie a Ruth Etting che la interpretò nel film Melody in May nel 1936, cui seguì Dooley Wilson in Casablanca (1942), Diane Keaton (Io e Annie, 1977), fino alla versione di Harry Connick Jr. che funse da tema principale per una delle commedie romantiche più popolari degli ultimi decenni, Harry ti presento Sally, di Rob Reiner (le cui riprese terminarono proprio trent’anni fa, il 15 novembre del 1988).

 

Il testo della canzone fu scritto da Gus Kahn, un paroliere nato a Coblenza, in Germania, nel 1886, ed emigrato con la famiglia a Chicago all’età di cinque anni. Prima di avventurarsi nel mondo dell’editoria musicale era stato impiegato delle poste. Poi, appena ventenne, aveva pubblicato la prima canzone: My dreamy China lady. In seguito aveva scritto testi per delle riviste musicali e degli spettacoli di Broadway, e infine per il cinema. Fu, fatto che merita di essere sottolineato, l’unico paroliere americano ad esser stato omaggiato da Hollywood con un film biografico, I’ll see you in my dreams, dal titolo (Ci si vede nei miei sogni) di una delle sue canzoni più famose, anche questa scritta a quattro mani con Isham Jones. Fu autore di testi semplici, molto lontani dalla ricercatezza di Lorenz Hart, dalla giocosità di Ira Gershwin o dall’ironia di Cole Porter. Kahn fu abilissimo nel conferire alle espressioni più abusate quel valore di poetica del banale di cui si diceva sopra.

 

Provate a masticarlo in bocca un attimo, quel titolo: It had to be you. Si sia o meno un cantante, e si abbia o meno dimestichezza con la lingua inglese, la fluidità dell’enunciazione appare subito evidente. Sono cinque semplici, innocue parole, ognuna di una sola sillaba, ma che presentano una successione di vocali di squisita cantabilità. Quasi un telegramma, a ben vedere, It had to be you. Stop. Con te e con nessun’altra. Stop. Per brevi che siano, le parole cascano alla perfezione dentro la melodia di Isham Jones. Ad ogni parola corrisponde una nota, e la sfida, probabilmente a perdere, è riuscire a trovarne di migliori.

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L'atlante di Kassia St Clair

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La traduzione italiana del libro di Kassia St Clair The Secret Lives of Colour ha come titolo Atlante sentimentale dei colori. Da amaranto a zafferano 75 storie straordinarie (trad. it. di Claudia Durastanti, Utet, DeA Planeta Libri, Milano): il carattere classificatorio dell'atlante viene mitigato dall'accento sulle storie che appariva centrale nel titolo dell'originale.

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Kurt Tucholsky. Deutschland Deutschland

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Continua il nostro speciale Ritorno al futuro. L'idea è quella di rileggere libri del passato che offrano una prospettiva capace di illuminare il momento che viviamo oggi.  Per leggere gli altri contributi cliccare sul nome dello speciale a sinistra sopra il titolo in questa stessa pagina.

 

La sera del 10 maggio 1933, in piazza dell’Opera, gli studenti dell’Università di Berlino scaricarono dai camion con cui erano arrivati migliaia di libri e li diedero alle fiamme in un enorme falò. Joseph Goebbels catechizzò i presenti con un vibrante discorso contro l’“arte degenerata” e contro “l’esagerato intellettualismo ebraico”, la cui era “è finita”. Esistono ancora raggelanti immagini di quell’evento che si possono vedere qui. Questi gli autori le cui opere vennero date alle fiamme: Karl Marx, Bertolt Brecht, Thomas Mann, Joseph Roth, Theodor W. Adorno, Walter Benjamin, Herbert Marcuse, Ludwig Wittgenstein, Hannah Arendt, Edith Stein, Max Weber, Erich Fromm, Walter Gropius, Paul Klee, Wassili Kandinsky, Piet Mondrian, Albert Einstein, Sigmund Freud, Fritz Lang, Franz Murnau. E Kurt Tucholsky – che oggi è probabilmente il meno ricordato in questo Gotha dell’intellighentsia tedesca, ma che allora era invece uno dei nomi di punta dell’antinazismo. Tucholsky era fuggito da tempo in Svezia: e da lì, dopo il rogo dei suoi libri, assistette impotente alla progressiva hitlerizzazione della sua patria finché si suicidò a Goteborg a soli 45 anni. Tucholsky era stato presentissimo per decenni nel dibattito intellettuale e politico tedesco, soprattutto dopo la sua partecipazione come soldato alla Grande Guerra.

 

Era emerso dal conflitto animato da sentimenti pacifisti e di sinistra radicale e attraversò l’epoca della Repubblica di Weimar da protagonista firmando libri, poesie, interventi sui giornali con il suo nome o con uno dei molti pseudonimi sotto i quali amava nascondersi. Il suo volume più famoso è del 1929: Deutschland, Deutschland über alles. Ein Bilderbuch von Kurt Tucholsky und vielen Fotografen. Montiert von John Heartfield. Più che un titolo, dei veri e propri credit da film, dai quali appaiono chiari i due elementi che lo caratterizzano: il tema, una feroce critica della Germania “patriottica”, a partire dal famoso incipit dell’inno tedesco (“lo stupido verso di una poesia fanfarona”); e la tecnica – “un libro illustrato, di Kurt Tucholsky e di molti fotografi, montato da John Heartfield”. Già, perché è impossibile pensare a DeutschlandDeutschland senza l’apporto di Heartfield, il famoso grafico comunista. Un vero best seller ai suoi tempi (50 ristampe in pochi anni!), il libro era caduto sostanzialmente nell’oblio. Meltemi ha il merito di pubblicarlo oggi per la prima volta in Italia, rispettando la grafica originale (anche a costo di una qualità visiva inevitabilmente influenzata dal tempo che è passato), e con un’interessantissima introduzione di Maurizio Guerri e un saggio di Ursula Bavaj.

 


 

La lettura del libro è possibile a due livelli. Il primo è quello del documento storico. Si tratta di una sorta di operazione chirurgica senza anestesia sul corpo malato della Germania pre-hitleriana. Il bisturi di Tucholsky e Heartfield affonda spietato alla ricerca del male profondo del popolo tedesco, come un coltello che taglia il formaggio perché “ciò che si contorce durante il taglio sono i vermi”. È più facile seguirlo quando affronta temi generali, dal militarismo al sistema giudiziario, dallo sfruttamento dei lavoratori alla politica estera. Molto più difficile, invece, districarsi nella ragnatela di riferimenti a personaggi ed eventi contemporanei contro i quali si scaglia con una satira feroce (da questo punto di vista è utilissimo l’apparato storiografico di note in fondo al volume). Il suo stile è tutt’altro che realistico, e risente chiaramente di un’atmosfera letteraria che produrrà di lì a poco il Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin. Sembra che la deformazione espressionistica sia un tratto inevitabile del periodo: le descrizioni del borghese tedesco di Tucholsky spesso sembrano trascrizioni degli spietati ritratti di Georg Grosz e Otto Dix. Il più controverso passaggio del libro fu quello in cui, con la didascalia “Gli animali ti guardano”, gli autori pubblicarono un montaggio di impettiti primi piani dello Stato Maggiore. Tucholsky usa indifferentemente prosa e poesia, ballata cantabile e copione drammaturgico per costruire un album che non ha uno sviluppo logico progressivo, ma assomiglia piuttosto a un “montaggio delle attrazioni” eisensteiniano. Le argomentazioni in favore della lotta di popolo, in Deutschland Deutschland, raramente sono logiche, molto più spesso emotive. L’invettiva è lo strumento preferito, che si appoggia sulle immagini, a cui spetta l’enunciazione dei fatti. Ma sarebbe sbagliato credere che le fotografie e i fotomontaggi abbiano una funzione solo realistica, documentaria: al contrario.

 

Aprono una contraddizione nella percezione e anche se spesso risentono della loro intenzione di propaganda ideologica tendono a dire più di quello che rappresentano (Heartfield aveva cominciato come dadaista). D’altra parte Tucholsky era ben consapevole della potenza delle immagini ed era infuriato per il modo didascalico in cui le riviste illustrate (ma anche le pubblicazioni comuniste) usavano le fotografie.
Tutto questo ci spinge a considerare il libro nei suoi possibili rapporti con la contemporaneità. Perché è inevitabile cogliere in questa tecnica di giustapposizione, affastellamento, stratificazione ed episodicità legata alla cronaca evidenti legami con la comunicazione digitale di oggi. Deutschland Deutschland potrebbe essere visto come una specie di blog o di profilo Facebook ante litteram, in cui gli autori postano in libertà commenti e immagini sulla Germania del ’29. Manca il feedback dei lettori, ovvio – ma sembra quasi di vedere i “like” accumularsi a fondo pagina: la retorica tucholskiana è quanto mai accattivante. Il libro quasi invoca la partecipazione di chi legge, la “condivisione”: Tucholsky non scrive per fare accademia, ma per mobilitare le masse. Il tono “ad alta voce” (se non addirittura urlato) del testo chiama al coinvolgimento, non alla meditazione. In questo senso si rivela una debolezza, forse anche storica, dell’operazione: esattamente come i social di adesso, un libro così si rivolge sostanzialmente a chi già sta dalla tua parte.

 

La forza dell’invettiva non costruisce ponti; apre fratture. In particolare, è interessante notare il rapporto di Tucholsky con il patriottismo, qualcosa che si sta ripetendo in Italia oggi con il “sovranismo”. Dice Tucholsky alla fine del libro, in un pezzo intitolato programmaticamente Patria, quasi sentisse il bisogno di giustificare la rabbia con cui si è scagliato contro i suoi connazionali: “Per 225 pagine abbiamo detto no: abbiamo detto no per per pietà e no per amore, no per odio e no per passione – ma ora vogliamo dire sì per una volta (…) sì, noi amiamo questa nazione”. Ma certo è contradditorio dichiarare amore per la Germania in una pagina, dopo che per 225 ti sei scagliato contro i tedeschi. È facile vedere quante somiglianze ha questa situazione con la nostra attuale; e con la storica sfiducia di noi italiani verso i nostri connazionali, che invece di essere percepiti come compatrioti sono sentiti come traditori sotto un’altra bandiera. È un meccanismo antropologico di chiusura e conflitto in azione a sinistra (di cui la scissione di LEU è l’ultimo grottesco capitolo); a destra; e (anche e soprattutto) nei M5S. Si può essere pro o contro il TAV, ma faceva sincera impressione, qualche settimana fa, sentire i normali cittadini SiTAV che manifestavano sotto il Municipio di Torino etichettati dalle urla dei NoTAV come “servi della mafia”. Finisce che anche se tra “noi” e “loro” la ragione sta dalla nostra parte, il conflitto che ne deriva non può che concludersi con la vittoria degli uni e la sconfitta degli altri in base a puri rapporti di forza. Che è esattamente quello che successe in Germania allora e che sta ripetendosi in forme diverse oggi qui. A quel punto i cattivi accenderanno i roghi dei libri: e i buoni gli avranno fornito, inconsapevolmente, il combustibile.

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Ritorno al futuro
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You'll never walk alone

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«La coscienza di classe proletaria, che è la più studiata, modifica radicalmente la struttura della massa proletaria. Il proletariato, dotato di coscienza di classe, forma una massa compatta solo dal di fuori, nella rappresentazione dei suoi oppressori. Nell'istante in cui inizia la sua lotta di liberazione, la sua apparente massa compatta si è in verità già allentata. Essa smette di essere dominata dalla semplice reazione; passa all'azione. L'allentamento della massa proletaria è l'opera della solidarietà. Nella solidarietà della lotta di classe proletaria viene soppressa la morta, adialettica contrapposizione tra individuo e massa; per il compagno essa non esiste».

 

In questo passo di Walter Benjamin da L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), una nota celebre ripresa da Andrea Cavalletti in Classe (Bollati Boringhieri 2009)

si sottolinea come la coscienza di classe modifichi la struttura della massa, la moltitudine di persone non conscia di sé e delle relazioni che intrattiene con il mondo. La coscienza di classe produce la consapevolezza di un'identità sociale, è una forma di coscienza che trasforma l'azione degli individui poiché retroagisce sulla loro configurazione in quanto “massa” indistinta, designata tale da chi la racconta dall'esterno, e la cambia di segno. Essa provoca un “allentamento” nella composizione sociale, una diminuzione della pressione – quella che comprime la massa piccolo-borghese o la massa totalitaria,

– nei termini di una distensione. Questo alleggerimento o scioglimento della tensione avviene attraverso la solidarietà: «quando non ci sono solidarietà e coscienza non c'è classe, c'è solo la massa piccolo-borghese», scrive Cavalletti. Parola abusata, la solidarietà perde qui il significato prima giuridico-economico e poi politico-nazionale (che richiama anche etimologicamente ciò che è solido) e diventa un solvente in grado di aprire nuovi spazi e di spalancare delle finestre sul futuro, così come l'introduzione di nuovo ossigeno può alimentare un fuoco che cova sotto la cenere.

 

Fra le ragioni di un potente ritorno a Marx e al marxismo negli ultimi anni c'è anche il bisogno di un'adeguata concettualizzazione del tema del lavoro nel contesto attuale, un dato fondamentale per un pensiero di sinistra che sia adeguato alle sollecitazioni del tempo presente. In questo senso alla casa editrice romana Alegre si deve la pubblicazione della versione italiana della rivista Jacobin, sorta a New York nel 2011, e la nascita di una collana di narrativa working class, la cui direzione è stata affidata ad Alberto Prunetti.

 

La prima uscita, di questi giorni, è Ruggine, meccanica e libertà di Valerio Monteventi, una storia bolognese di auto-fiction che partendo dagli anni Ottanta intreccia fabbrica, carcere, lavori e animazione sociale attraverso il lavoro e le generazioni.

L'intento programmatico è fare non solo narrativa di lavoro ma raccontare storie di “lavoratori nella loro soggettività. Non solo l’alienazione ma anche l’irriverenza”, “non solo lo sfruttamento ma anche la gioia e l’umorismo, la solidarietà e il conflitto sociale”. Soprattutto il conflitto e la sua rimozione. Il lavoro che non sembra poi così diverso da ieri in molti contesti, ma anche “le nuove forme di precarietà e di sfruttamento, il lavoro domestico, il precariato culturale, i lavoretti e i dannati della gig economy, gli intrecci tra genere, etnicità e classe”.

Leggi qui.

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A partire da questo è sorta una conversazione con Alberto Prunetti, un pre-testo per ragionare sulla produzione di immaginario, sullo stile, sulla pluralità di voci, sulle generazioni, l'ambiente, la memoria.

 

EM Ti cito: “È qualcosa che unisce nella distanza. Quando la classe operaia era forte, non scriveva: l’egemonia ce l’aveva nella strada e la teneva a pugno chiuso in mano. Oggi che dobbiamo riformare un immaginario che è stato completamente devastato, bisogna ripartire, dai libri e dal conflitto”. Partiamo da qui, dai tuoi libri Amianto e 108 metri. Da narratore hai raccontato persone che lavorano e messo il lavoro al centro delle storie. La biografia e l'autobiografia sono le chiavi principali di un racconto che è anche indagine storica e sociale. La dimensione privata, e anche tragica, potenziano il tuo racconto. Ci voleva il “romanzo” per tornare a parlare di lavoro?

 

 

AP Innanzitutto ci voleva la narrativa per poter utilizzare quei meccanismi di identificazione testuale e quegli effetti di realtà che proiettano il lettore dentro a un testo, facendogli “sentire” l’odore dei fumi delle saldature o il puzzo di fritto di una cucina inglese. O obbligandolo a trattenere il fiato nei pressi di una lastra di amianto ridotta a pezzi o di fronte alla tosse di un operaio coi polmoni distrutti. Per questo ho scelto la finzione, per proiettare i sensi dei lettori dentro alla realtà che la finzione ha ricostruito. Il saggio aumenta le distanze, trasforma le vite in astrazioni numeriche quantitative, usa la terza persona. Il romanzo ha questo elemento di paradossalità: le tecniche della fiction ti sbattono in faccia il reale. Ma attenzione: la mia non è narrativa pura e l’inchiesta, il pamphlet e il saggio si alternano, assieme a forme di enunciazione di tipo espositivo ed argomentativo.

 

EM Mi interessa sottolineare il fatto che parliamo di letteratura, una continuazione della militanza condotta con altri mezzi ma comunque letteratura. Hai in comune con Wu Ming e con una generazione di narratori l'idea di ibridare i generi: in 108 metri, ad esempio, il picaresco in salsa livornese e il richiamo alla letteratura, o più ancora al cinema british di ambiente working class sono molto presenti. 

AP Sì, come appunto dicevo, le forme argomentative del saggio e certe proiezioni identificative, assieme a meccanismi di commozione tragica o di distanziamento umoristico tipici del romanzo, sono parte delle frecce a disposizione del mio feretro. Ho usato tecniche di giornalismo no ficción latinoamericano, inchiesta operaia, forme vernacolari toscane e un immaginario britannico alla Ken Loach. Il risultato è la mia trilogia working class (di cui sono usciti per ora solo due titoli, il terzo è in corso d’opera). 

 

EM Per non dire del riferimento a Lovecraft e al capitalismo come culto di Cthuluh, che si ritrova sia in 108 metri sia in Un viaggio che non promettiamo breve ma anche in alcune scene disegnate da Zero Calcare, un ragazzo più giovane (di noi), per descrivere qualcosa di angosciante, strapotente, terrificante e alieno. Pensi possa essere un dato generazionale, una ricerca di linguaggi “altri” che derivano dall'aver interiorizzato un certo tipo di cultura alternativa?

AP Non so se sia una cosa generazionale. Già in Amianto avevo identificato il capitale con qualcosa di mostruoso, di osceno, di repellente. Parlavo però di un drago che aveva la sua tana in certi mastodontici complessi industriali. In 108 metri questa allegoria è diventata più forte, è un Lovecraft che passa attraverso un adattamento di Wu Ming. È quel weird che, come ci ricorda Mark Fisher in The Weird and the Eerie, (https://www.minimumfax.com/shop/product/the-weird-and-the-eerie-2096) ci permette di raccontare con “spietato realismo”, direi con un ipernaturalismo, la dimensione mostruosa, satura di realtà putrida, del capitale, la sua irruzione nelle nostre vite, come un mostro che le parassita e le svuota.

 

EM Alegre è un editore con un progetto culturale di sinistra militante, in un paese in cui le sinistre sono state progressivamente marginalizzate e distrutte quanto meno nel quadro politico istituzionale. Prima di tutto culturalmente: quali ragionamenti ci sono dietro l'idea di una collana dedicata al tema del lavoro?

AP Direi dedicata al tema dei lavoratori oppressi e quindi alla nuova classe lavoratrice. L’idea di fondo è che l’immaginario è importante nei conflitti sociali tanto quanto le caratteristiche materiali, economiche, dello sfruttamento. E se non lavoriamo sull’immaginario e sul simbolico, abbiamo già perso. Inoltre la collana si regge sull’idea di base che il mondo dei lavoratori sia stato perlopiù raccontato dall’esterno. Gli operai erano raccontati dalla letteratura industriale italiana, che non era fatta da operai. Rare sono le eccezioni (Di Ciaula, Di Ruscio, Guerrazzi). Negli ultimi anni però si sono alternate uscite editoriali molto interessanti, tra narrativa, poesia e graphic novel, di autori figli di operai o operai loro stessi. E quindi ho lanciato prima una sorta di manifesto per questa narrativa working class e poi ho accettato di curare la direzione dell’omonima collana dell’editore Alegre. Ci raccontiamo da soli per non farci raccontare da altri.

 

EM Sia il tuo 108 metri che la prima uscita della collana 'Working class'Ruggine meccanica e libertà mi sembra che cerchino un confronto tra le generazioni e il passaggio di consegne. Io e te siamo coetanei e credo che abbiamo vissuto gli anni Ottanta come un momento in cui la frattura si faceva più dura rispetto al decennio precedente e il solco tra provenienze e il passaggio di eredità tornava a scavarsi... 

AP Sì, siamo in una posizione anagrafica che ci consente di stare a metà tra il moderno strato sociale sfruttato (atomizzato, bloccato nell’immaginario) e la vecchia classe operaia (solidale, politicizzata, dotata di un immaginario forte). Stiamo su un guado e possiamo passare elementi fondamentali – memorie, racconti, tecniche di lotta – alla nuova classe sfruttata che si sta formando ma che ha ancora scarsa consapevolezza di sé. In questo senso c’è una forte dimensione generazionale: siamo gli ultimi e i primi. Proviamo a intuire la direzione delle lotte del futuro e ci ricordiamo qualcosa di quelle del passato. L’importante è non avere quel tono dolente, dimesso, da sconfitti, che può risultare dalla nostra condizione ibrida. C'è toccato il compito di Sisifo: ripartire da capo. E quello di Rodolfo Walsh: dare testimonianza in momenti difficili. Sono due dimensioni ben presenti nel romanzo di Valerio Monteventi. La fabbrica e la prigione sono i due ambiti in cui la vita vera e la falsa, il tempo vivo e il tempo morto si contendono l’esistenza del protagonista. Che riesce a non farsi stritolare, non lascia le dita sotto la pressa, anzi: fissa il pezzo sulla morsa e lo prende a martellate, piegandolo al proprio inesauribile bisogno di libertà. Penso che Ruggine, meccanica e libertà sia il titolo perfetto per lanciare la collana perché si pone al crocevia tra vecchia classe operaia e nuova working class. Tra le competenze tecniche delle tute blu del passato e i lavoretti di merda, i Mcjobs noiosi e ripetitivi, precari e incalzanti, della nuova classe lavoratrice.

 

EM Ho sentito cose in comune leggendoti benché Torino non sia Livorno. Mio padre lavorava come tecnico metalmeccanico e dell'aria compressa. Mia madre faceva la sarta e svolgeva lavoro domestico. Oltre la famiglia e il quartiere, sono cresciuto in un mondo mentale in cui la meccanica e il lavoro ben fatto sono un codice d'onore e il conformismo del mondo industriale (a Torino significava la Fiat) è un ordine morale conservatore e conformista, una cosa da cui guardarsi e difendersi.

AP Ti dirò… c’erano purtroppo elementi di conformismo anche nella vecchia classe operaia, soprattutto in quella togliattizzata. Inutile girarci attorno. C’era un pesante moralismo e il ruolo delle donne (che spesso facevano sia lavoro riproduttivo che produttivo, dentro e fuori l’ambito domestico) veniva misconosciuto. In realtà siamo fuori da quell’ordine delle cose ormai e io forse neanche lo rimpiango. Però non mi sento un transfuga di classe, proprio perché in realtà la mobilità sociale italiana è molto bloccata. In genere, chi viene dalle classi subalterne là rimane. Nel mio caso è cambiato solo la forma dello sfruttamento. Non ho le mani sporche di grasso come mio padre, ma lavoro più tempo di lui, guadagnando meno. Quindi non mi sento un transfuga per il mio lavoro immateriale: diciamo che sono precario perché le sconfitte della generazione di mio padre hanno aperto la strada alla mia precarizzazione. In passato però non ci si accontentava di sapere da che parte si stava. Era anche evidente chi era l’avversario. Oggi il padrone si è nascosto bene e il risentimento non è l’odio di classe, che sfidava il forte: è una passione triste che si sfoga contro il più debole.

 

EM Non posso dirmi proletario, il mio quartiere di formazione era piuttosto piccolo-borghese, non esattamente uno dei luoghi della sinistra operaia. Devo tutto alla scolarizzazione superiore e al fatto che i miei ci tenessero molto, non avendola potuta avere: come molti ho fatto un liceo e un'università, frequentando ambienti a cui in altri tempi non sarei dovuto appartenere. Grazie al potere della letteratura mi sono sempre ritrovato più in Philip Roth che racconta Newark o con Franzen nella suburbia di St. Louis, in Coe a Birmingham. Se penso a precedenti narrativi di “nuovo” bildungsroman generazionale in Italia li possa ritrovare in Tutti giù per terra (il libro di Culicchia e il film di Ferrario, Torino) o in Ovosodo (di Virzì, di nuovo Livorno). Credo che il tema qui sia il dolore del diventare diversi dal posto in cui vieni, portarsi lontano salvo poi non essere capito da chi hai lasciato indietro... In Italia il salto rapidissimo tra mondo rurale, industriale e post-industriale in alcuni posti si è consumato in due o tre generazioni.

AP Anche la classe operaia era stratificata, ti direi che la mia era quella che chiamavano aristocrazia operaia: mio padre era un operaio specializzato e guadagnava di più di un operaio-massa che lavorava alla linea. Forse aveva anche più garanzie e sicurezze, cosa che non gli ha impedito di ammalarsi di una malattia professionale. Non era così impossibile per il figlio passare a lavori di tipo non manuale, ed è successo. Più difficile era sottrarsi all’impoverimento e allo sfruttamento: ripeto, lavoro in ambito cognitivo, ma sono sfruttato quanto mio padre, più povero e forse più stanco e meno garantito. Sicuramente però mi sono sentito spesso né carne né pesce. Non avevo quel senso forte di solidarietà e convivialità. Mio padre a lavoro contava sui suoi compagni di lavoro. Io passo le giornate solo davanti al pc o legato virtualmente da contatti in remoto. Indubbiamente paghiamo una forte atomizzazione, che porta acqua al mulino del capitale. Riscoprirsi parte di una classe lavoratrice può servire a sostenere il peso psicologico dell’individualismo: sentirsi parte di un progetto di trasformazione sociale, percepire di avere interessi comuni e antagonismi da delineare, avversari a cui lanciare il guanto della sfida e del conflitto. La classe fa bene al cuore. I compagni son quelli con cui mangi il pane. I cospiratori respirano assieme. Gli individui invece sono soli, soli ad arrampicarsi sugli specchi. E la “gente” è risentita e incapace di solidarietà. Bisogna riscoprire la solidarietà di classe, nonostante le trasformazioni che il capitale ci impone: ci strappa dalla campagna per infilarci in fabbrica, ci strappa dalle fabbriche per chiuderci nei quartieri o nelle case o nei centri commerciali. Ma il capitale rimane capitale e la classe deve sapersi ricomporre.

 

EM L'idea è che quella finestra di mobilità sociale in ogni caso si sia chiusa e che stiamo vivendo un nuovo feroce classismo. Senza contare che per chi è giovane oggi No Future è una frase che ha ancora un diverso significato...

AP Concordo. Il classismo è forte. E allora se c’è il classismo, e se c’è la classe dei privilegiati, come si fa a dire che non c’è la classe subalterna dei lavoratori sfruttati? L’assenza di futuro è connessa alla mancanza di riconoscimento: ripartire con le lotte aiuterebbe a riconoscerci, creare reti di solidarietà e darci una ragione per alzarsi al mattino, che non sia quella di farci sfruttare meglio.

 

EM Nel tuo libro c'è anche molta musica, il punk-rock in particolare, che occupa un posto importante nella costruzione dell'immaginario working class...

Certo. La working class britannica ha saputo, in virtù del suo immaginario e tramite subculture specifiche (dai mods agli skin di sinistra fino agli hooligan), esercitare un’influenza enorme a livello culturale, su scala globale. Questo però è successo forse più in passato che adesso. Oggi forse sarebbe difficile anche per band working class come gli Oasis avere il successo che hanno avuto (a meno da non ripartire dalle controculture marginali non mainstream, come in passato hanno fatto punk e gruppi postpunk). In fondo anche l’abito casual, così diffuso, è famoso perché gli hooligan inglesi cominciarono a mettersi in ghingheri e a vestirsi da tipi casuali, un po’ borghesi, perché in abiti da operai la polizia li fermava mentre andavano allo stadio. Insomma, dal calcio alla musica, dalla narrativa al cinema fino all’abbigliamento, la working class ha elaborato, a volte in forma autonoma, altre volte con delle mediazioni, un proprio immaginario. Ci sono nel Regno Unito studi specifici sulle forme culturali working class (penso a Richard Hoggart o al ben più recente Owen Jones, tra i nomi più famosi). Da noi siamo fermi all’immaginario delle tute blu e delle piazze degli anni Sessanta-Settanta, e tra poco ci dimenticheremo anche quell’immaginario lì. Insomma, c’è tanto da fare...

 

EM Penso ad Amianto e al rapporto tra ambiente, malattia e occupazione. Uno dei punti centrali di una riflessione di sinistra è il rapporto con l'ambiente. Anche questa però non è privo di tensioni nella misura in cui presuppone la messa in discussione di un concetto di sviluppo. Nella tua vita mi pare di capire ci sono anche coltivazioni e apicultura.

AP Sì, dal lato materno della famiglia c’era una tradizione di piccoli proprietari terrieri, e ho ereditato un po’ di competenze, che negli anni ho tentato di affinare. Produco in autoconsumo ortaggi, vino, olio, miele. Le api sono un innamoramento recente ma seguire la loro attività è intrigante, sono degli incredibili indicatori ambientali, ci informano di cosa va e cosa non va nel pianeta. Ma le mie attività agricole ultimamente sono in stato di alterazione per le conseguenze del cambiamento climatico. I ritmi sono impazziti.

 

EM Un dato che mi sembra caratterizzare la “nuova epica” del lavoro possa essere l'assenza di vittimismo e il tentativo di scrollarsi di dosso l'etichetta della storia edificante di redenzione e la success story di chi viene from the block.

AP Sì, una delle formule con cui le storie proletarie sono ben accettate dall’industria editoriale è quella del “bravo ragazzo che ce l’ha fatta”, oppure la storia della vittima che “poverino che vitaccia”. E giù pacche sulle spalle. In Amianto la vittima c’è ma non c’è il vittimismo. Io insulto e maledico i potenti e nel romanzo il mi’ babbo irride la morte anche sulla soglia della tomba. È comico, quando tutti se lo aspetterebbero patetico. Idem con 108 metri: uno che va a lavorare nelle latrine che fa? Butta merda addosso ai quattrinai. Non è certo il tono dimesso con cui si fa carriera ma io son fatto così. E poi non mi piace la success story o l’idea del cherry picking: prendere quello bravo, la ciliegina buona dal mazzo delle ciliegie così-così, per fare un’operazione meritocratica. Piuttosto, lavorate per far emergere i quartieri operai, non per salvarvi la faccia scegliendo “i migliori del mazzo…”. Insomma, o ci si salva tutti o nessuno. 

 

EM Una certa immagine del lavoro dipende anche dal modo in cui è stato raccontato il Sessantotto, come immagine standard della cultura di sinistra, con una certa estetizzazione del passato e la riduzione di molti temi a macchietta/stereotipo, non priva di nostalgia. Mi sembra che l'immagine mainstream della sinistra sia stata lasciata in mano a voci e a un linguaggio di provenienza borghese, spesso senza una conoscenza diretta con effetti di paternalismo misti a semplificazione. Mentre progressivamente il portato di conflitto e di contraddizione – la questione di genere e di potere – veniva taciuto e rimosso.

AP Sì, il tema è complesso. C’è anche chi ha anteposto l’importanza del ’69 operaio al ’68 degli studenti. In realtà nessuno la mette così semplice. A me poi interessano le convergenze tra le lotte. Nel primo libro della collana working class troviamo il racconto di una saldatura tra condizione studentesca e condizione operaia. Il punto è raccontare le lotte dal basso e dalla periferia, invece di lasciare questo racconto a chi le lotte oggi non le fa più, a chi sta al riparo delle proprie rendite. Il racconto dei lavoratori deve essere fatto dai lavoratori. Altrimenti si raccontano gli operai in maniera caricaturale. Si racconta la classe operaia che vota Lega, sulla base di un campione di quattro pensionati in un bar annebbiati dal Cinzano. La classe operaia che vedo io è quella della logistica, dove ci sono giovani operai immigrati che fanno i picchetti. Probabilmente quella classe operaia non può neanche votare, altro che votare Lega: non ha i diritti politici. Insomma, invece di bersi le narrazioni del potere, bisogna stare sulla linea del picchetto: il conflitto è il vero termometro di un fenomeno sociale. Never cross a picket line. Le lotte ci sono ma nessuno le racconta. Tocca raccontarsi da soli, perché se ci raccontano ci fanno la caricatura. 

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L’amica geniale stasera in TV

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Finalmente stasera su RAI1 verranno trasmesse le prime due puntate della serie TV di L’amica geniale, fiction tratta dall’omonima tetralogia di cui Elena Ferrante è autrice. Dopo la proiezione in anteprima all’ultima Biennale del Cinema di Venezia e, a inizio ottobre, le tre giornate di proiezione nei cinema italiani, finalmente la genialità possiamo guardarla attraverso i volti delle due bambine prescelte a incarnare quello che fino ad adesso è stato invisibile. 

Invisibile è tuttora Elena Ferrante, così come irresistibile è stata l’ossessione collettiva di svelarne l’identità, e ora con la fiction la seduzione di questa inafferrabilità è sotto gli occhi di tutti e coincide anche visivamente con tutte le antinomie di una Napoli femminea, in qualche modo latente e collaterale ma sfacciata e portatrice di un’essenza refrattaria a rivelarsi, nonostante oggi più che mai la città sia al centro di un’ondata di film, romanzi, serie TV. 

 

È una seduzione tutta ferrantiana quella che stasera acquista visibilità attraverso le prime due puntate di una fiction, dell’ambientazione della quale sappiamo solo accidentalmente che si tratta di Napoli. Per stasera niente mare, niente Castel dell’Ovo, niente Cristo velato. Questa seduzione che ha agito su lettrici e lettori di tutto il mondo è ora una messa in scena dichiarata, assolutamente conscia che il segreto di un luogo come di un’identità sta nel non avere anatomia, né psicologia e che ogni cosa che se ne possa dire è reversibile. Il rione che vedremo stasera può essere dislocato ovunque, le due bambine potrebbero essere chiunque in un contesto che però è esistito prima e perciò illustra, attraverso le immagini di un agglomerato urbano circondato dal nulla, il suo carattere primigenio. Il rione ricostruito nella fiction diL’amica genialeè riconducibile all’apparizione di un prima universale in cui forze naturali e soprannaturali sfuggono al controllo umano: l’ira su tutte. La vera posta in gioco di questa chimerica identità tanto cittadina quanto femminile è la padronanza della strategia delle apparenze contro la violenza della realtà, o contro il potere che alla realtà noi tutti attribuiamo per default.  

 

Il fatto nuovo è quello di un’autorialità che, per la prima volta nel caso di Elena Ferrante, in occasione di questa attesissima fiction, si estende fino alla partecipazione alla sceneggiatura di un’opera cinematografica. Si accenna alle modalità della partecipazione di Elena Ferrante alla sceneggiatura in diverse occasioni entro alcune interviste rilasciate dall’autrice stessa e dagli altri coautori. Pare che la collaborazione fattiva dell’autrice di L’amica geniale si sia svolta attraverso le immancabili email con le quali l’invisibile scrittrice dialoga da sempre mantenendo l’anonimato e che le numerosissime missive costituiscano un materiale che potrebbe essere messo un giorno al vaglio per la pubblicazione. 

Nel frattempo, con la trasmissione della prima stagione della fiction, abbiamo l’opportunità di cogliere come la rielaborazione attraverso un altro media, operata dall’autorialità della scrittrice stessa, possa agire su alcuni aspetti contenutistici e stilistici della sua opera letteraria in qualche modo sia compendiando che ampliandone il campo con l’annessione di un fattore seduttivo non da poco: la parziale visibilità dell’invisibile. Con l’accortezza però, di lasciare perdere le interpretazioni di tipo ortodosso che quando si tratta di seduzione, come scriveva Jean Baudrillard, tendono a non considerare l’importanza delle apparenze e il potere conoscitivo della loro intrinseca devianza. Non per niente in latino sedŭcere è composto da se«a parte, via» e ducĕre, «condurre», perciò, come nel caso di L’amica geniale, quello che la seduzione innesca attraverso le apparenze è una deviazione, che potrebbe essere diversamente capace di condurci verso ciò che non sappiamo. 

 


Come ho avuto modo di osservare nel mio ebook sulla scrittrice“il ciclo di L’amica geniale ha come voce narrante una donna che si chiama come la misteriosa autrice che col suo libro d’esordio L’amore molesto si era imposta all’attenzione del pubblico, non solo per via dei contenuti del libro ma anche per la scelta radicale del più assoluto riserbo rispetto alla sua identità”. Nella fiction l’inserimento della voce narrante (prestata da Alba Rohrwacher) di Elena adulta, accompagna lo spettatore per mezzo dell’oralità, cioè la narrazione più antica che esiste, entro lo schiudersi non di una pretesa memoria di verità ma dell’immaginario di un passato che appare come un riverbero di un vissuto anteriore. Un vissuto di cui molti di noi sono ormai a conoscenza solo attraverso il ricordo altrui. È questo riverbero che conduce lo spettatore là dove i quattro libri di L’amica geniale hanno condotto lettrici e lettori con qualche anticipo, ossia entro l’ampiezza insospettabile del rapporto minuscolo che due bambine italiane degli anni Cinquanta intavolano inizialmente entro i loro giochi. 

 

Una delle scene decisive di tutta la tetralogia è infatti rappresentata stasera: Lila, in modo apparentemente incongruo, durante il gioco, getta la bambola di Elena nello scantinato del caseggiato in cui abitano entrambe ma poi incomprensibilmente convince Elena ad andare a reclamare le loro bambole presso don Achille che è il capostipite di tutti gli affari malavitosi del rione: “Con questa metafora espressa dal destino di una bambola che viene gettata in un abisso, cioè l’inferno dello scantinato, l’autrice in L’amica geniale ci esorta a credere che quell’identità possa forse essere misteriosamente recuperata non tanto pescando nel fondo oscuro di una cantina ma in cima all’ultimo gradino, nell’appartamento più alto del caseggiato, dove abita don Achille che è il diavolo in persona, in quanto è il più cattivo del rione”. Tanto nel primo volume de L’amica geniale quanto nella fiction, leggiamo, udiamo, vediamo l’autrice illustrare una condizione che è un vero e proprio aut aut, se guardata dall’ottica del destino che attende tutti i bambini di questa storia, immersi come sono nella miseria e nella violenza dell’immediato dopo guerra e con ciò apparentemente costretti entro un sistema binario: chi studia si salva, chi non studia no. Tuttavia nel caso di Elena Ferrante il protagonista indiscusso di questa semplificazione è il femminile, perciò il discorso è deviato su una specie di piano cartesiano alternativo in cui fisica e metafisica convivono più che altrove e dicono, con identiche parole sia nel romanzo che nella fiction, una presa di coscienza di genere spaventosa e fondamentale che riguarda le due bambine protagoniste: “In alto, in basso, ci pareva di andare incontro a qualcosa di terribile che, pur essendo da prima di noi, era noi e sempre noi che aspettava”.

 

È con i colori onirici contrapposti al ritratto iperreale di una violenza inaudita che le prime due puntate della fiction di cui Saverio Costanzo è regista, entrano visivamente in quel piano cartesiano che nell’opera di Ferrante suggerisce trascendenza perché la trascendenza, essendo un fattore esistente ma non direttamente visibile, può costituire un vettore che tende alla definizione di realtà diversamente connotate: “Dissolto il velo di Maya, l’ordine delle cose visibile e invisibili, per le amiche geniali non è mai né assoluto né definitivo. Ad esempio: è azzardo o intuizione la capacità che Lila e Lenuccia hanno di collegare cose molto distanti tra loro in accostamenti davvero inediti? Elena lo sa fare scrivendo. Lila lo fa vivendo. Azzardo o intuizione? Il dubbio resta ma il risultato non cambia perché è proprio questa dubbia capacità che, in tempi diversi, le farà cadere entrambe dai pensieri di Nino Sarratore. Un po’ come si cade dalla mente degli dei: forse per non esistere mai più. O magari per imparare ad esistere diversamente. Il tema della trascendenza nei romanzi napoletani ci appare alla stregua di una partita giocata dall’autrice su più tavoli contemporaneamente”.

 

 

L’opera di Elena Ferrante non è nuova a trasposizioni e rielaborazioni attraverso altri media. Da L’amore molesto Mario Martone trasse nel 1995 un indimenticabile film, la cui protagonista, Anna Bonaiuto, è la voce italiana degli audiolibri di cui Elena Ferrante è autrice. Nel 2005 Roberto Faenza trasse un film da I giorni dell’abbandono, che pur non essendo altrettanto convincente cinematograficamente, ebbe il merito di segnare un punto di contatto tra l’aspetto trascendente dell’opera di Ferrante e il dato realistico di come la radice della violenza su bambine e bambini possa affondare nella famiglia attraverso i suoi vuoti di senso, i suoi accidenti e le sue sventure. Inoltre quel film mise a suo modo visivamente in luce una tipicità, a mio avviso, di tutta l’opera di Elena Ferrante: l’isolamento psicologico di tipo sociale, culturale o di genere dovuto a circostanze che appartengono all’esperienza manifesta o latente di ciascuno, aspetto che l’opera di Ferrante affioa quasi a ogni rigo.

 

Sempre sulla scia delle trasposizioni mediatiche dei libri di Ferrante operata al di fuori dell’autorialità dell’autrice, è abbastanza recente la notizia che l’attrice e produttrice americana Maggie Gyllenhaal si occuperà della trasposizione cinematografica del romanzo di Elena Ferrante più denso e complesso dal punto di vista della trascendenza intesa come sopra: La figlia oscura. Nell’ambito dell’articolo che The Guardian riserva ogni sabato a Elena Ferrante in qualità di autrice, Ferrante a questo proposito, il 6 ottobre scorso scrive una considerazione che ci potrebbe essere utile per cogliere tutte quelle possibili implicazioni emerse dall’esplorazione di un passaggio che da un’ambientazione letteraria conduce a un impianto narrativo di tipo strettamente contemporaneo come quello della fiction. Ferrante infatti segnala una differenza che è, nel suo caso, la madre di tutte le differenze. Quando accade, come nel caso di Gyllenhaal, che un’altra donna voglia trasporre il contenuto di un suo libro attraverso il linguaggio cinematografico, scrive Ferrante: “Non direi nulla, anche se ha sistematicamente tradito il mio testo, anche se voleva usarlo semplicemente come trampolino di lancio per il suo stesso impulso creativo”, perché “Siamo state dentro la gabbia maschile per troppo tempo – e ora che quella gabbia sta collassando, una donna artista deve essere assolutamente autonoma.

 

La sua ricerca non dovrebbe incontrare ostacoli, soprattutto quando è ispirata dal lavoro, dal pensiero, di altre donne”. Diversamente, Ferrante dichiara nello stesso contesto, a un uomo chiederebbe di attenersi a quello che l’autrice afferma essere la gabbia delle sue storie. Una gabbia che, data la direzione dell’articolo di Ferrante, tutto lascia supporre oltre che tematica, sia la gabbia di un genere femminile nel cui stringente ambito certe storie si sono plasmate e in certo qual modo espanse per implosione. Una gabbia tanto tradizionalmente condizionante quanto estremamente connotata, da non ammettere deviazioni se non congegnate da una donna, nata e vissuta, come tutte, entro lo stringente perimetro concesso al suo genere e sviluppando con ciò orizzonti creativi diversi da quelli maschili.

La realizzazione della serie televisiva di cui Costanzo è regista vede tra gli autori della sceneggiatura, oltre a Elena Ferrante, Francesco Piccolo, Laura Paolucci e lo stesso Costanzo. La prima serie di otto episodi che sarà trasmessa a partire da stasera, riguarda solo il primo libro dei quattro di L’amica geniale e, rispetto a quanto ne sappiamo ad oggi, costituirebbe la prima delle quattro stagioni previste, ognuna dedicata in otto episodi a ciascuno dei quattro libri della saga. Per realizzare la fiction si è parlato di una troupe tecnica composta da centocinquanta persone che ha ricreato a Caserta il rione descritto in L’amica geniale e individuato da più parti come il rione Luzzatti, sulla base di una serie di indizi che ricondurrebbero a di un preciso quartiere di Napoli del passato. Si è trattato di creare dal nulla ventimila metri quadrati di set con quattordici palazzine, cinque interni, una chiesa e un tunnel. Circa millecinquecento i costumi usati tra originali e di repertorio. 

 

 

Per scegliere le protagoniste Saverio Costanzo ha fatto provini a oltre ottomila bambini e cinquecento adulti. In merito alla scelta delle due bambine protagoniste dei primi episodi, Ludovica Nasti che interpreta Lila e Elisa Del Genio che interpreta Elena, Elena Ferrante dichiarerà in un’intervista rilasciata al Venerdì di Repubblica del 12 ottobre: “La piccola Lila di Costanzo, per esempio, mi sembra perfetta e la piccola Elena ha momenti che fondano con efficacia la donna che diventerà”. La donna che la piccola Elena Greco diventerà sarà chiamata più spesso Elena che Lenuccia, avrà una carriera da scrittrice e una vita fuori dal rione nella quale la sua educazione superiore conterà più di qualsiasi altra cosa, all’interno di un ascensore sociale la cui attivazione però dipende anche dall’accresciuto grado di consapevolezza che Elena acquisisce grazie alle teorie e alle pratiche femministe con le quali viene in contatto a partire dai tardi anni Settanta.

Tuttavia ciò che rimarrà indelebile dei due episodi che vedrete stasera non è il kolossal giustificato dalle cifre della produzione ma lo spavento verissimo di fronte alla violenza degli adulti, descritto dai volti di due bambine immerse nella rappresentazione volutamente inautentica di un’epoca meravigliosa e terribile che abbiamo rimosso. Una rappresentazione in grado di ripescare dall’immaginario collettivo ogni sorta di virulenza e di vitalità con l’efficacia che solo la seduzione visibile di certe apparenze può suggerire. Una seduzione come quella di cui è capace quel certo amico che nel Faust di Goethe, citato da Ferrante come esergo di L’amica geniale, sarà pure inaffidabile, ma è di certo capace di tenerci sul filo di una ricerca identitaria inesausta.      

 

Leggi anche:

Viviana Scarinci, Elena Ferrante, doppiozero edizioni.

Viviana Scarinici, Storia della bambina perduta.

Viviana Scarinci, Chi sono i contemporanei di Elena Ferrante?

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Una cosa impossibile

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Mani avanti: nelle pagine che seguono non tenterò di adeguarmi all’approccio dei due libri sulla letteratura italiana contemporanea che più hanno avuto successo negli ultimi anni, imponendo i rispettivi autori come i maggiori critici militanti di una generazione «che disgraziatamente è anche la mia». Parlo di Senza trauma di Daniele Giglioli (Quodlibet 2011) e della Letteratura circostante di Gianluigi Simonetti (il Mulino 2018). Non sfuggirà il paradosso per cui la “critica militante” che più si porta, oggi, è quella che prova un orrore sacro per quanto la civiltà letteraria d’antan definiva appunto (con termine, in effetti, di sovrana antipatia) militanza: la quale consisteva proprio nei «giudizi di valore» e nel «canone» (ridotto a «classifica» o «tabellina» da Giglioli), e nelle «ricette stilistiche» e nelle «poetiche» dalle quali rifugge con un brivido Simonetti, sino a distogliere il calice dall’idea di difendere una qualche «qualità letteraria genericamente intesa» (attitudine, questa della critica, da lui definita «poliziesca, normativa e paralizzante»). 

 

Esplicito intento dei due (per molti versi stimabilissimi) autori citati è viceversa quello di usare i testi quali sintomi di una condizione post-postmoderna, diciamo pure di una nuova psicologia, nel primo caso; e, nel secondo, di una «società letteraria […] che sta ripensando, e a tratti capovolgendo, le basi umanistiche del proprio sapere». Anche la mole, di questi lavori, è molto distante dallo spazio ridotto che (per fortuna) ho a disposizione in questa sede. Nella quale dunque – con un quanto di provocazione, confesso – non offrirò a chi mi legga altro che giudizi di valore, depositando quindi la mia idea di qualità letteraria in quello che, protervia!, è un vero e proprio canone– seppur limitato alla finestra d’osservazione convenuta dei testi narrativi pubblicati in lingua italiana dal settembre 2017 all’agosto 2018. Dal momento che non sono intesi quali sintomi di alcunché – se non della qualità letteraria dei rispettivi autori –, i testi da ora in poi citati s’intendono segnalati, di qui in avanti, unicamente perloro stessi. (Chi vi sia interessato potrà trovare presupposti meno generici, di quanti possa fornirne qui, nella Terra della prosa, l’antologia che ho curato per L’orma nel 2014 e che comprende testi di autori italiani all’esordio fra il 1999 e il 2013; si può vedere pure il numero 64 di «Allegoria», luglio-dicembre 2011.)

Riprendendo appunto quel discorso, resto convinto che quello che altri chiama il «campo» della narrativa contemporanea si giovi a essere percorso, più che cartografato, seguendo logiche spaziali. Se insomma, come mi capita con una certa imbarazzante frequenza, mi si chiede “dove stia andando” la nostra narrativa più recente, rispondo che questa – con sempre più convinzione – va in direzione del dove. Se «la struttura dello spazio del testo diventa modello della struttura dello spazio dell’universo» – come ha insegnato Jurij M. Lotman nella Struttura del testo poetico (1970, Mursia 1972) –, la narratività di un testo è infatti definita dall’escursione all’interno del modello spaziale rappresentato dal testo stesso, valicando i suoi limiti esterni o le sue partizioni interne (sempre secondo Lotman «il movimento dell’intreccio, cioè l’avvenimento, è il superamento del limite»: laddove, si capisce – essendo quella del testo un’astrazione culturale –, il limite può essere inteso in senso strettamente spaziale ma anche, per esempio, morale o ideologico).

 

 

Non sono dunque a tutti gli effetti rubricabili quali testi di “narrativa” due dei libri più seducenti del nostro periodo, le Storie del pavimento di Gherardo Bortolotti (Tic edizioni, aprile 2018) e ollivud di Andrea Inglese (Edizioni Prufrock, luglio 2018): i quali però pongono in forma decisiva – con un grado di consapevolezza, cioè, che per tradizione pertiene più ai poeti che ai narratori – la perimetrazione degli spazi dell’immaginario. Fra le prose di ollivud Inglese riprende fra l’altro un suo testo del 2011, Quando Kubrick inventò la fantascienza, inclassificabile fuoriformato sospeso fra diarismo e saggistica, oltremodo discutibile quanto emozionante “stalking” di un film di culto come il 2001 di Stanley Kubrick, 1968, letto in primo luogo appunto quale «odissea dello spazio» oltre che «nello spazio». Mi piace definire stalking, questa forma di ossessivo corpo a corpo con un testo dato, perché a un altro caposaldo della fantascienza cinematografica, Stalker di Andreij Tarkovskij, del ’79, è dedicato quello che mi pare l’assoluto capolavoro letterario di questo genere (sempre che si possa definire un “genere”), cioè Zona di Geoff Dyer (uscito nel 2012, ma solo ora tradotto da Katia Bagnoli per il Saggiatore; per restare più o meno da queste parti, una pellicola narrativa esile al punto da apparire innecessaria avvolge le considerazioni personali, fra lo gnomico e il saggistico, di due maestri di diversa generazione come l’Aldo Busi delle Consapevolezze ultime– Einaudi, aprile 2018 – e l’Aldo Nove del Professore di Viggiù– Bompiani, aprile 2018). 

In Storie del pavimento Bortolotti riscrive (come meno esplicitamente aveva già fatto uno dei più sorprendenti esordi degli ultimi anni, Mio salmone domestico di Emmanuela Carbè, Laterza 2013) un archetipo delle “altre scritture” come il celebre Voyage autour de ma chambre pubblicato da Xavier de Maistre nel 1794: in 42 brevissime lasse (quanti sono i capitoli, e i giorni di arresto nella sua stanza, dell’io narrante – o meglio scrivente – dell’indisciplinato soldato de Maistre) ritroviamo i migliori estri della microepica bortolottesca (quella che ha deliziato, per esempio, i venticinque lettori di uno dei più straordinari e misconosciuti libri italiani degli ultimi anni, Quando arrivarono gli alieni, pubblicato da Benway Series nel 2016), qui applicata all’«infraordinario» di uno spazio-tempo circoscritto sino alla microscopia (il «minutario» che invocava, in luogo del «diario», il “nullista” russo di primo Novecento Daniil Charms), ma parossisticamente dilatato su coordinate continentali e durate geologiche. (Esercizi insieme di commento personale e riscrittura metaletteraria sono anche quelli, dedicati al Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, di Una serie ininterrotta di gesti riusciti, Marsilio agosto 2018: opera prima del giovane e valente studioso di letteratura Alessandro Giammei.)

In un micro-spazio “reale” che, come la chambre di Bortolotti, ospita infiniti spazi virtuali (inscenati dal videogioco in cui s’inabissa uno dei personaggi) è ambientata la parte più ambiziosa (anche se non necessariamente la più risolta) del nuovo romanzo di Tiziano Scarpa, Il cipiglio del gufo (Einaudi, gennaio 2018): che si richiama, sin dalla prosodia del titolo, a uno dei più bei libri di narrativa degli ultimi anni, Il brevetto del geco (ivi 2015), senza però riuscire a ripeterne i formidabili virtuosismi. 

Non è un caso che, sin dal titolo, sia dedicata alla micro-storia (o meglio, di nuovo, alla micro-epopea) di un micro-luogo una delle più interessanti “altre scritture” (quelle prose, cioè, che non si possano tout court rubricare nel modo della narrativa, ma che tuttavia fatichino a rientrare in altri “generi”) pubblicate nel nostro periodo: Gli 80 di Camporammaglia (Laterza, marzo 2018), libro d’esordio di Valerio Valentini (l’autore più giovane, nato com’è nel 1991, fra quelli qui passati in rassegna), è la registrazione asciutta quanto appassionata di una narrazione corale: quella delle persone che si ostinano ad abitare nel paese abruzzese del titolo, distrutto dal terremoto del 2009 (se vi appare indubbia un’eredità dalla non meno terremotata «paesologia» di Franco Arminio, purtroppo oggi dedito a tutt’altre forme di scrittura, molto diverso mi pare però lo spirito dell’operazione di Valentini). 

Nel Tempo delle ciliegie (Eleuthera, aprile 2018) Marco Rovelli (autore in passato di notevoli reportage narrativi, come Lager italiani e Servi, a loro volta basati sulla registrazione di testimonianze orali) sceglie una testimone storica (la «santa anarchica» Louise Michel, già da Victor Hugo eletta a simbolo della Rivolta) per raccontare l’epos della Comune di Parigi del 1871. Che è anche, al cadere dell’anniversario, una mossa del cavallo per ragionare in modo non scontato (a differenza di infiniti altri) sulle «intensità collettive» di un evento che a quel precedente si richiamò come il Maggio ’68. Meno compatto strutturalmente, a dispetto dell’ardimentosa miscela linguistica italo-siciliana che è fra le sue attrattive, è Lo scemo di guerra e l’eroe di cartone (Spartaco, aprile 2018), curiosa opera prima di Alberto Maria Tricoli: che racconta le biografie immaginarie, ma ricalcate su storie realmente accadute, di un disertore del Regio Esercito e di un miliziano delle camicie nere che si aggirano nei paesaggi della Sicilia 1943 (quelli di Horcynus Orca, per intenderci) dove più forte tira il vento della Storia.

Un vento che infuria a tempesta in quello che è – a mio sindacabilissimo giudizio – il libro italiano dell’anno: Mio padre la rivoluzione di Davide Orecchio (minimum fax, settembre 2017). In una struttura segmentata e multiprospettica, che smonta e “rimonta” le prospettive temporali – e con esse, si capisce, i “set” geografici – (come nella stupefacente opera prima, Città distrutte, Gaffi 2012; il Saggiatore 20182), tormentosamente la pietas dell’historicus di oggi insiste sul “mito” della Rivoluzione. Non per “demistificarlo” – come stucchevolmente non si smette di fare, a rivoluzioni sconfitte e universalmente esecrate –, o non in prima battuta almeno: bensì per ri-modularlo (la metafora musicale è indotta dalla conduzione poematica – epicamente ritmata a tamburo eppure, spesso, delicatissimamente screziata – della scrittura di Orecchio) attraverso il dispositivo del what if. Emblematico l’atteggiamento nei confronti del personaggio più memorabile del libro: è una pia leggenda, un mito appunto, quello del “buon” Trockij: fu invece lui – soffocando nel sangue, nel ’21, la rivolta dei marinai di Kronstadt che proprio alla sua parola d’ordine della rivoluzione permanente s’ispiravano –, a spingere la storia oltre il punto di non ritorno dell’orrore. Orecchio, che su Trockij ha letto tutto, lo sa meglio di ogni altro. E ciò malgrado è alla forza del mito che si, e ci, consegna: immaginandolo sopravvissuto nel ’56 in cui Chruščëv denuncia i crimini di Stalin alla tribuna del PCUS. L’etimo fantastorico di Borges, lievito affabulatorio di Città distrutte, si tinge così d’una vena che pare uscita, piuttosto, da Philip K. Dick.

Narratrice “epica” (almeno da Le rondini di Montecassino, il romanzo che l’ha imposta a un pubblico più ampio nel 2010) è senz’altro Helena Janeczek, autrice del libro più premiato dell’annata (Bagutta, Strega, finale al Campiello), La ragazza con la Leica (Guanda, settembre 2017), la cui struttura compositiva non è così diversa, a ben vedere, da quella di Rovelli: anche in questo caso la personalità di un’insorta impenitente vittima della Storia (della guerra di Spagna, nella fattispecie), la fotografa ebrea tedesca Gerda Taro, viene raccontata da testimoni diversi che ne parlano a diverse “distanze” (in tutti i sensi, tanto temporali che geografici), con una prospettiva “cubista”, neo-modernista, che può ricordare Dos Passos (autore citato nel libro) o quella di un capolavoro cinematografico di quegli anni, Citizen Kane di Orson Welles. Il testo, non meno che appassionante nelle sue parti iniziali e conclusive (nelle quali attraverso una logica iconotestuale si mette a fuoco, è il caso di dire, la specificità dello sguardo di Gerda – evidente avatar della scrittrice ebrea tedesca, del pari déracinée, che ne racconta la storia), si diluisce invece eccessivamente nel suo troppo esteso corpo centrale: forse proprio per la fretta di seguire le “storie”, della protagonista e dei suoi suiveurs, senza radicarsi nei loro rispettivi, problematici luoghi.

Lo stesso difetto, forse, impedisce di salutare con piena convinzione quello che resta in ogni caso uno dei libri più sorprendenti dell’annata, La galassia dei dementi (La Nave di Teseo, marzo 2018) di Ermanno Cavazzoni. I suoi personaggi si muovono, senza tregua e senza direzione, in una Pianura Padana-waste land di proporzioni sterminate, come sterminata è l’ampiezza del testo e (almeno in apparenza) la distanza temporale di questo vero e proprio anti-epos che segue con puntiglio la ricetta del poema eroicomico sei-settecentesco trasportandola, però, in un futuro fantascientifico: quando cioè la razza umana è stata spodestata da androidi-badanti che accudiscono il suo irrimediabile rincoglionimento. Il presupposto sarcastico, per cui l’affidarsi alla tecnologia non può che far decadere l’umanità, è topico (dalla Macchina del tempo di Herbert G. Wells, 1895, a Wall-E della Pixar, 2008); ma vero intento dell’autore – come nei giochi di prospettiva d’ogni parodia, ma già della migliore fantascienza appunto – è quello di farci sorridere, non sulla demenza di un tempo più o meno lontano, bensì sulla nostra. 

Fantasmagorie di un dopo-la-fine che più o meno simmetricamente regredisce ad antichità premoderne sono pure lo scarnificato Voragine, opera prima di Andrea Esposito – il Saggiatore, gennaio 2018 –, e i viceversa rutilanti History di Giuseppe Genna – Mondadori, settembre 2017 – e I vivi e i morti di Andrea Gentile – minimum fax aprile 2018. (Stilisticamente agli antipodi, ma del pari sospeso in un presente che in realtà è un elusivo non-tempo, è il raffinato apologo iperletterario che è Gli autunnali di Luca Ricci, La Nave di Teseo, febbraio 2018.) 

 


Esplicita – come in tutte le sue storie, siano o meno ambientate nel futuro come il formidabile esordio di Sirene (Einaudi 2007; Marsilio 20172) – l’epoché del presente nella conduzione allegorica di Laura Pugno. Che nell’ultimo romanzo La metà di bosco (Marsilio, giugno 2018) distende una trama, come suo solito rasciugata sino all’osso, su abissi archetipici: chiamando in causa l’«intimità», e anzi la perturbante consustanziazione, «dei vivi e dei morti», e obbligando i primi alla presa d’atto che la propria metà oscura, arcaica e selvatica, non potrà mai essere del tutto bonificata dalla ragione, psicoanalitica o meno, e così civilizzata, rischiarata, addomesticata (si radicalizza così il discorso del precedente, notevolissimo La ragazza selvaggia, Marsilio 2016). Più esplicito il confronto colle contraddizioni del presente nell’ultima prova di un narratore importante che predilige a sua volta (specie nelle sue ultime prove) l’impianto allegorico, il Claudio Piersanti della Forza di gravità (Feltrinelli, giugno 2018): un contesto sociale, però, ben presto resecato dalla scena della narrazione – circoscritta a un serrato gioco di specchi inter-generazionale tra un esacerbato professore in pensione e una giovane che si affaccia alla vita – dall’allegoricissimo strumento alla cui eloquente costruzione il protagonista attende nel chiuso del proprio appartamento (e che figura sulla copertina del libro): una ghigliottina.

Eppure scommessa decisiva di una narrazione non può che restare quella di raccontare la nostra storia mentre si svolge. Cioè il nostro presente, appunto. Il difficile, si capisce, è farlo eludendo gli stereotipi della doxa sociologistica: quella che aduggia la stragrande maggioranza di narrazioni desolantemente subalterne nei confronti di una cronaca sensazionalistica, schiava dell’immediato come lo è l’agenda di una politica sempre meno capace di pensare davvero il presente, cioè di farlo in prospettiva: dando in tal modo rilievo stereoscopico, per così dire, alla nostra esistenza. Questo invece, precisamente, dovrebbe essere l’ufficio di una narrativa davvero realista: che risulta invece, a dispetto di intenzioni pressoché unanimemente sbandierate, merce rarissima.

 

Opera – come tutte le sue – assai singolare di uno degli autori più appartati ed enigmatici del nostro tempo, Franco Stelzer, è Cosa diremo agli angeli (Einaudi, maggio 2018). Metafisico, forse gnostico è il “set” di un piccolo aeroporto di provincia, in cui un anonimo addetto ai controlli scruta con animo sospeso, distante e insieme pietoso come quello di un angelo handke-wendersiano appunto, «le vite degli altri»: quelle dei viaggiatori che sfilano davanti ai suoi occhi. Eppure, in questo suo modo idiosincratico, Stelzer misteriosamente coglie un’aria dei tempi: una malinconia tanto sottile quanto pungente, il senso di uno svuotarsi dell’esperienza, di una vita che sfugge dai suoi luoghi più vividi quanto banali – quelli appunto della doxa che ci assedia – per rifugiarsi in una sorta di spazio cavo («non-luogo» da manuale, l’aeroporto: allegoria però, in questo caso, di una ben più radicale epoché).   

E appunto uno spazio cavo, lo «sgabuzzino» in cui a un certo punto si rifugia il protagonista-narrante assediato dal mobbing di una mega-azienda disumanizzante, è il luogo-emblema di Ipotesi di una sconfitta di Giorgio Falco (Einaudi, novembre 2017): cioè quello che, insieme o subito dopo quello di Orecchio, è a mio parere il miglior libro italiano dell’anno. Nella parte centrale del testo (con effetto piuttosto simile a quello del maiuscolo Works di Vitaliano Trevisan, libro dell’anno del 2016), assistiamo a una specie di autobiografico dietro-le-quinte di precedenti exploits narrativi dell’autore, come Pausa caffè (Sironi 2004) e quello che resta il suo capolavoro, L’ubicazione del bene (Einaudi 2009). Ma nella parte iniziale (dedicata, con partecipazione assorta quanto commossa, all’esistenza di un padre conducente di autobus extraurbani) e in quella finale – che segue il vissuto di chi scrive sino a coincidere col momento della scrittura stessa –, laddove cioè non ci siano altri suoi testi ad adombrare la sua scrittura con effetti metanarrativi non perfettamente padroneggiati, la pietà oggettiva, di cui Falco ormai tante volte ha saputo dare prova, torna a splendere – tanto severa quanto struggente – su quella che non è la vita individuale di chi scrive (come nel caso, per antonomasia idiosincratico, di Trevisan), rivelandosi bensì come quella che una persona inevitabilmente plurale torna a designare come la nostra vita.

«Sta diventando una cosa impossibile» è la frase-refrain del padre-everyman novecentesco: una frase, «oscura pur nella sua semplicità» in cui, scrive Falco, «si era concretizzato […] il nostro vivere contemporaneo». Ossia il vivere che prosegue, malgrado tutto, in una post-società come quella in cui, appunto, viviamo – o ci illudiamo di farlo. Se “società” è per definizione quanto mette in relazione fra loro gli individui, sarà infatti difficile definire “associata” un’esistenza come quella che conduciamo oggi: «il capitalismo disconnette: presuppone una vita interiore fatta di segmenti eterogenei che convivono o che si succedono a brevissima distanza senza che questo sia un problema; presuppone quella blanda schizofrenia di cui ogni occidentale del XXI secolo fa esperienza ogni giorno, e che rappresenta l’equivalente psichico del consumo in quanto forma di vita e modo di essere al mondo» (Guido Mazzoni, I destini generali, Laterza 2015). Ma, date queste condizioni, quale potrà essere una narrativa– se è questo (è un’equazione che faceva già, all’indomani della sua pubblicazione, il maggior libro italiano sulla narrativa del secolo cui s’intitola, Il romanzo del Novecento di Giacomo Debenedetti) il nome letterario che diamo a quella che un grande maestro del tempo che ci precede, Charles Wright Mills, chiamava immaginazione sociologica (il libro del 1959, che reca questo titolo, è stato ripubblicato da poco dal Saggiatore)? 

 

Se Bortolotti e Falco – i davvero-realisti più forti del nostro tempo – hanno scelto di rappresentare il nostro mondo di segmenti eterogenei in forme letterariamente frammentarie e blandamente schizofreniche, un narratore più giovane che senz’altro li ha letti come Francesco Targhetta (all’esordio con un romanzo straniantemente in versi come Perciò veniamo bene nelle fotografie, ISBN 2012), per dare forma narrativa a questo medesimo mondo ha scelto una strada paradossale per il suo esordio in prosa, Le vite potenziali (Mondadori, marzo 2018): quella del “vero” romanzo, dalla struttura unitaria e basato sulla costruzione di personaggi verosimili le cui vicende, in potenza appunto, potremmo viverle tutti noi. È quella che una volta si chiamava “tipicità”: date determinate condizioni sociali, e in generale storiche, il personaggio incarnava comportamenti che ognuno poteva riconoscere. Ma, venuta meno la società che quel modello aveva espresso (nonché, forse, ogni forma di società riconoscibile), gli individui hanno preso a vivere come particelle sub-atomiche, monadi senza qualità. E allora il movimento incessante su e giù per l’Europa dei personaggi delle Vite potenziali, informatici iper-cablati a tutto e a tutti in un’accelerazione parossistica che teme la stabilità come la morte (l’esistenza che inseguono non è quella che vivono in atto bensì quella in potenza), è dunque un falso movimento– come una falsa comunicazioneè quella che allacciano alle «vite degli altri». (In una partitura stilistica differente ha inteso perseguire un simile paradosso narrativo l’Ernesto Aloia della Vita riflessa, Bompiani, gennaio 2018: che cala interrogativi identitari di sempre negli arcani macro- e microeconomici dei social network.) 

 

In un saggio memorabile del 1909 il maggior predecessore di Wright Mills – ossia Georg Simmel, fondatore della sociologia moderna – emblematizzava la presenza umana sulla Terra in due figure-chiave, il Ponte e la Porta: i due dispositivi materiali, le due forme simboliche attraverso le quali l’uomo «di fronte alla natura possiede la capacità di unire e dividere» (il classico saggio di Simmel da ultimo è incluso nell’omonima silloge Ponte e porta, Archetipolibri 2011). Ma quello in cui ci è dato in sorte di vivere, come vediamo con sempre più allucinante brutalità ogni giorno che passa, è il tempo in cui i Muri si rialzano, le Porte si chiudono e i Ponti – per colmo di evidenza didascalica – provvedono addirittura a crollare. Davvero, sta diventando una cosa impossibile

Forse non è un caso che pochi anni dopo la pubblicazione di Ponte e porta di Simmel il più grande e profetico fra i narratori moderni, Franz Kafka, abbia inserito nella suite narrativa che s’intitola Durante la costruzione della muraglia cinese quel formidabile apologo che è Il ponte. In cui a prendere la parola non è chi lo percorre, per una volta, bensì il ponte stesso:

 

me ne stavo e aspettavo. Dovevo aspettare. Un ponte, una volta costruito, non può cessare di esser ponte, senza precipitare.

Una volta, era verso sera – la prima? la millesima? non lo so –, i miei pensieri erano sempre confusi e giravano in tondo. Verso sera, d’estate, il torrente scrosciava più buio, udii un passo d’uomo. […] Chi era? […] mi girai per vederlo.

Un ponte che si volta! Non mi ero ancora voltato che già precipitavo e già ero straziato e infilzato sui sassi aguzzi che mi avevano sempre fissato così pacifici dall’acqua impietosa.

 

Nella delicata e insieme crudele suite di semi-onirici, circoscritti episodi di vita romana in cui Jhumpa Lahiri (narratrice indiana che ha scritto i suoi libri precedenti in inglese) ha racchiuso la sua fascinazione per la nostra terra con l’abbracciarne per la prima volta compiutamente la lingua, e cui ha dato un titolo eloquente come Dove mi trovo (Guanda, agosto 2018), un pezzo emblematico inscena proprio su un ponte l’incontro ricorrente con «un uomo con cui avrei potuto avere una storia, magari una vita»: è in questa stazione allegorica che si capisce come l’Altro sia un fantasma dell’Io – «ombre […] proiettate sul muro lungo il fiume» – ma come pure sia non meno che vitale – per l’esistenza, prima che per il suo riflesso sulla pagina – dare, a questi fantasmi, un corpo.

Se quella che chiamiamo “narrativa” è la forma che assume in letteratura la relazione fra gli individui – l’immaginazione sociologica che «riconduce il disagio personale dei singoli a turbamenti oggettivi della società e trasforma la pubblica indifferenza in interesse per i problemi collettivi» (così suona la frase di Wright Mills che il Saggiatore ha estratto dal testo per il blurb in controcopertina) – è evidente che, nelle condizioni odierne, essa andrà ripensata radicalmente. Ma proprio per questo, in forme che al momento non possiamo prevedere, la sua esigenza si confermerà imprescindibile.

 

Questo saggio fa parte dell'Almanacco 2019 di alfabeta2, a cura di Nanni Balestrini e Maria Teresa Carbone, edito da DeriveApprodi, che verrà presentato oggi alle 18 alla Fondazione Mudima (Via Tadino 26, Milano); e a Roma, al Cinema Palazzo a San Lorenzo (Piazza dei Sanniti 9), domenica 2 dicembre, alle 16.

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L’ennesima lingua più bella del mondo

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L’ennesima lingua più bella del mondo. Una tra le tante. Tutte, anzi. Vive e morte.

Esistono lingue morte, lingue scomparse, lingue di cui non si sa più niente, lingue di cui si ignora persino che siano esistite, e altre che nessuno parla più, che sono dette morte ma non lo sono, perché nei libri continuano a vivere e qualcuno ancora le legge e scrive. Tutte bellissime. A volte, più ancora che “miseramente apodittica, stenta, scolorata, tetra, eguale, come piccoletto grembiule casalingo da rigovernare le stoviglie” (Gadda), sembra morta la stessa lingua che stai usando, che si dibatte scomposta davanti ai tuoi stessi occhi come in agonia emettendo suoni stridenti e senza significato e un odore di marcio che si attacca alle narici, ma nella quale non puoi evitare di identificarti e che non puoi non amare. Come non si può evitare di amare noi stessi più di ogni altra cosa e con la stessa intensità, perché “la lingua è, nella sua dimensione affettiva, sempre al superlativo”, come scrive Stefano Jossa nel suo recente La più bella del mondo. Perché amare la lingua italiana (Einaudi, 2018, p. 8).

 

Identificarsi con la lingua non comporta tuttavia identificarsi con i parlanti. Una lingua esiste prima e oltre i parlanti, anche se solo essi la fanno vivere. Eppure amare una lingua in qualche modo è amare tutti quelli che la parlano; persino coloro che ne fanno un uso turpe, perché l’uso turpe è sempre nella lingua. Il che non significa sottrarsi al dovere di, anche, disprezzare chi di questo uso turpe fa abito e strumento e arma, e di schierarsi apertamente contro le opinioni e le scemenze e gli orrori che in questo modo vengono nelle varie sedi di piccolo e grande potere propagandati e propalati. 

 

Tutte le lingue sono le più belle del mondo. La propria più di tutte. 

Stefano Jossa però a questa banale considerazione adduce nel suo libro motivazioni che in realtà ribaltano questo giulivo unanimismo. A favore della nostra, naturalmente. Trovandomi perfettamente d’accordo, e in più essendogli grato di averle esplicitate con eleganza e ricchezza di esempi e dettagli. È ancora più bello leggere un bel libro che parla della lingua più bella del mondo in quella stessa lingua benissimo usata.

Un libro che non disdegna di applicarsi anche a generi cosiddetti inferiori (che in genere lo sono davvero, peraltro) come le parole delle canzoni (talvolta molto belle se non disgiunte da una musica non banale) e il rap e i giochi linguistici dei bambini e della pubblicità, o a programmi e personaggi televisivi, alla scelta e alle implicazioni del nome di una squadra di calcio (la più odiata dagli italiani, sottoscritto escluso: la Juventus), ma anche a grandi poesie e al nostro ricchissimo e  meraviglioso repertorio di rime. Senza trascurare poi le analisi godibilissime e illuminanti di momenti fondativi che molti magari hanno studiato velocemente a scuola senza pensarci poi più di tanto, come quella dedicata al cosiddetto indovinello veronese, che è “insieme la prima testimonianza della trasformazione del latino in volgare italiano e il primo invito all’esercizio della critica”, sia per trovare la soluzione che per andare oltre il primo riconoscimento, perché “il testo non è fine a se stesso, ma istituisce un dialogo con chi lo riceve. / La bellezza di una lingua è questa trasformazione da conoscere a capire”, e l’italiano, con un indovinello alle sue radici, in questo è ben piazzato. A volerlo e saperlo usare.

 

“La bellezza di una lingua sta nella sua storia, nei suoi usi, nelle sue possibilità e nelle sue sbavature”, e quindi il “primo modo per entrare in contatto con [questa] bellezza … sarà proprio quello di conoscerne la storia, l’origine e gli sviluppi”. E poiché la “lingua italiana è prima di tutto una lingua letteraria”, “costruita quasi a tavolino, nel corso del tempo da tre grandi uomini di lettere, Dante Alighieri, Pietro Bembo e Alessandro Manzoni” e di letteratura “nutrita fino ai nostri giorni”, è dalla sua storia che si deve cominciare e è ad essa che si deve continuamente attingere senza illudersi di poterla trascurare, a maggior ragione quando la si vuole contrastare o sminuire, perché altrimenti la sua nemesi, stupidità o ridicolo che sia, sarà inevitabile.

 

Jossa illustra questo assunto aprendo il suo libro proprio con un excursus che da Dante (che non solo istituisce il “nesso tra lingua (“favella”) e bellezza (“abbella”)”, in Paradiso, XXVI 130-2, ma identifica fin dalla sua nascita il volgare con la poesia) arriva fino a Pasolini e Calvino, per estendersi poi ad alcuni nodi del rapporto con la tradizione (il latino e il greco, la nozione di stile, la metafora…) fino a concludere sui suoi usi e abusi odierni (Leopardi e Sanremo, i populismi e il trionfo della sgrammaticatura). La scelta degli esempi è non solo illustrativa o cognitiva ma anche derivata dalla convinzione, già espressa nella premessa di Un paese senza eroi (Laterza, 2013) che “è arrivato il momento di tornare a parlare, con termini spaventosi solo per chi non è in grado di usarli, di contenuti e di ideologie” in “un dialogo costante con tutte le teorie, dalla filosofia alla sociologia, dalla psicologia all’antropologia, dalla stilistica ai cultural, visual e reception studies”. 

 

 

Affabile e arguto, divulgativo all’anglosassone (Jossa insegna alla Royal Holloway University of London), tenendo sempre alta l’asticella (tanto per usare una metafora sportiva, tra le più diffuse da noi), la bellezza e l’interesse del libro non stanno solo nella sua lingua e nella varietà delle esemplificazioni delle sue tesi, che in realtà sono veri e propri microsaggi brillanti, arguti quanto acuti, ma proprio in queste tesi: perché chi ha qualcosa da dire una tesi dovrà pur avanzarla e darne conto, senza tergiversare o lanciarsi in ipotesi fantasiose.  

E queste tesi hanno tutte a che fare con la volontà di capire qualcosa di più dell’Italia, che non a caso ricorre con voluta enfasi, nella ripetizione che dell’enfasi è veicolo, nei titoli dei libri di Jossa. Per forza!, uno pensa, dal momento che trattano della nostra lingua e letteratura… Questa presenza però non ha solo a che fare con gli oggetti presi in esame, ma riguarda anche, in più di un senso, l’identità che essi (lingua, letteratura, popolo) nel loro insieme vengono, più che a rappresentare o denotare, a costituire. Niente di più banale si potrebbe di nuovo pensare: è più di tutto la lingua a dare un’identità a un popolo; solo che da noi questa lingua non esisteva prima che esistesse la sua letteratura. Anzi, sostiene Jossa, è la letteratura che sta alla base della nostra lingua, la quale si radica in una comunità di leggenti più che di parlanti, che a sua volta sta alla base di qualcosa di più ampio che chiamiamo per convenzione popolo, il quale infine trova espressione in una nazione, Italia, che riprende un nome che a sua volta stava nei testi e in una vaga idea geografica, a cui non corrispondeva nessuna realtà politica né linguistica né etnica, religiosa e culturale.

 

La più bella del mondo per dar corpo a queste premesse passa in rassegna alcuni momenti della nostra storia linguistica e letteraria per arrivare fino al presente, che per molti sarebbe segnato dalla sua costante e irreversibile degenerazione: dai gerghi mediatici alla presunta e aborrita invasione straniera (anche qui!, è una mania; … a parte che la nostra storia, e preistoria, non è fatta d’altro, come già gli abitanti della penisola hanno avuto modo di sperimentare in ogni epoca, non si dovrebbe mai dimenticare, come scrive Jossa, che “la lingua è un luogo aperto, che accoglie piuttosto che selezionare o censurare”, perché “ciascuna lingua, è plurilinguistica per sua stessa natura”), all’impoverimento del lessico e allo stupro della grammatica e della sintassi e agli strafalcioni e alle castronerie (espressione mia) di certi politici che si ammantano di antipolitica, di cui intendono sbandierare la immacolata genuinità appunto strapazzando con superiore nonchalance la lingua per dimostrare la loro vicinanza al popolo (che notoriamente, secondo loro, parla male e dice scemenze a spron battuto), come se già il gesto di avvicinarsi non indicasse una separazione destinata a restare incolmabile al di là di ogni apparenza e buona volontà, che non si nega a nessuno, in genere sbagliando. Se si ama un popolo, rispettarne la lingua è un buon inizio, a cominciare dalle regole, che sono sempre legate alla libertà e alla possibilità di critica e dialogo, perché “parlar bene è una garanzia di corrette procedure logiche e giuridiche [e] la regola è fondamento di democrazia e stabilisce il confine tra giusto e sbagliato”. 

 

Anche se l’amore non è sinonimo di accettazione, men che meno se supina. Uno scrittore, per esempio, che per definizione la ama sopra ogni altra cosa (altrimenti sarà un genio, ma non uno scrittore), fa o dovrebbe fare sempre resistenza alla lingua, che è sempre la lingua corrente, la lingua d’uso, quella materna, della compagine sociale di cui la madre è espressione e prima rappresentante. Sapere che questa lingua avvolge, domina e pervade ineluttabilmente è necessario, ma non subirla. O quantomeno non lo è abbandonarsi alla forza rassicurante della sua corrente. È opportuno invece saper prendere anche le distanze, essere dentro e insieme fuori. E questo non in odio o spregio, bensì, appunto, per amore. Come se un vero sì, l’accettazione profonda, e il desiderio di essere non incluso nella lingua (quello va da sé) ma a propria volta accettato e amato, possa esplicitarsi e passare solo attraverso, e per mezzo, di molti no. 

 

Il rischio non è tanto la degenerazione, eterna lagna di chi vede degenerare se stesso, quanto l’impoverimento e la piattezza. La possibilità di significare al di là di quanto si dice che costituisce parte integrante della bellezza della lingua. Degenerazione rispetto a cosa, poi, e a chi? In cosa consiste la volgarità linguistica? Nel predominio di semplificazione, stereotipo, povertà lessicale e sintattica? Nell’acquiescenza a parole e espressioni legate a stagioni e circostanze effimere, diventate stereotipi senza essere state adottate e assimilate, come gli stereotipi “veri”, per lungo tempo grazie a un valore di verità, vero o presunto, ad esse connesso e legato all’esperienza e alla comprensione stessa della realtà o alla sua edificazione? Comunque sia, la volgarità fa parte della lingua. Persino la raffinatezza può risultare volgare. La degenerazione è sempre rispetto a un modello che si immagina astorico, ideale, cioè sottratto alla storia della lingua, che invece non è mai ferma, e per fortuna è sempre stratificata e varia.

 

Nello stesso gesto con cui si affrontano le innegabili volgarità linguistiche e gli stereotipi, è tuttavia indispensabile riprendere e analizzare quelli di cui la lingua stessa e la sua letteratura e la comunità dei suoi parlanti sono spesso fatte oggetto. Jossa si applica al buon nome dell’Italia (della lingua e della letteratura italiana) soprattutto andando a rileggere e a riconsiderare gli stereotipi che su alcuni dei suoi caratteri fondamentali sono andati a sostituirsi a quella realtà storica da cui erano emersi, magari con tutt’altre implicazioni; o a ribaltare quelli che sembrano i pilastri dell’eterno lamento che a volte gli italiani stessi riversano senza ritegno su di sé, esatto corrispettivo degli orgogli malriposti altrettanto spesso esibiti, rivelandone invece i tratti originali e positivi, come aveva fatto anche in Un paese senza eroi, che leggeva l’assenza di un eroe nazionale di origine o rielaborazione letteraria come indizio della fondamentale natura critica della nostra letteratura e del nostro carattere nazionale, a dispetto di certe ricorrenti preoccupanti derive, anche odierne, e di tutti i busti marmorei, per non parlare delle figure a grandezza naturale o più, che fanno compagnia alle coppiette e ai passeggiatori, e agli alberi, nei parchi urbani e da spartitraffico nelle piazze.

Lamento e orgoglio sono entrambi di matrice retorica; ma anche qui Jossa fa giustamente delle distinzioni: la “lunga tradizione antiretorica” che peraltro sento personalmente molto affine, non implica necessariamente un giudizio sempre negativo sulla retorica stessa, perché non è detto che nel pirandelliano “guardaroba dell’eloquenza” tutti “i vestiti fossero solo una maschera [o uno strumento di potere, mi permetto di aggiungere] anziché un piacere dell’eleganza, un gusto e uno stile”. Così come indossare solo abiti di stracci, sia pure firmati, a volte francamente ridicoli, che riempiono i guardaroba odierni. 

 

Se infatti da una parte delle “4500 parole più frequenti nell’uso quotidiano” Tullio De Mauro ha dimostrato che “quasi il novanta per cento è di provenienza letteraria e discende dagli autori del Trecento”, e dall’altra pare che la nostra lingua, contrariamente a quanto sostiene un’opinione diffusa, possieda più parole persino dell’inglese, contando circa 250.000 voci contro le 220.000 registrate dall’Oxford English Dictionnary (Jossa esemplifica con i due sonetti del Belli dedicati alle denominazioni degli organi genitali, che ciascun lettore non resisterà poi a estendere con il suo patrimonio dialettale e personale), usarne il meno possibile, magari male e scegliendo tra quelle meno apparentemente blasonate, è solo autolesionismo, impoverimento della realtà e della sua conoscenza, e, ancora peggio, rinuncia a uno dei piaceri più a portata di mano (di lingua e di testa) che abbiamo, sempre, a disposizione. A scapitarci però, non è solo il singolo, in questo caso, che allora tanto peggio per lui, ma (in quanto la lingua è sia “uno strumento di soggettività (la capacità di dire sé stesso) [che] uno strumento di partecipazione (la possibilità di stare insieme agli altri)”) la qualità stessa della vita sociale e del confronto critico e civile, che qualcosa in più dovrebbe contare, come si può facilmente constatare giorno per giorno dalla loro eclisse, ci sia augura temporanea. 

 

Dire le cose così come sono, ammesso che sia possibile, non sempre basta, comunque. Perché non dire di più, se e quando si può? Nemmeno “l’enunciato così com’è, semplicemente e direttamente”, in molti casi basta. Dal momento che “la realtà è per natura sfuggente, transitoria e mutabile”, e che “le cose vivono nella trama delle relazioni in cui sono immerse anziché di identità autonome”, a volte, dice Jossa, “la metafora è l’unico modo di cogliere il carattere plurale, sfaccettato e pluriprospettico della realtà”. La metafora, la retorica, lo stile, la lingua in tutta la sua complessità e ricchezza. Cioè la letteratura, a dispetto di ogni pretesa “lingua delle cose” che ad essa si opporrebbe. Si torna sempre dove si era partiti. O quanto meno si passa da lì ogni volta che si vuole andare altrove.

“La lingua (e la poesia) non cambiano il mondo, si legge sempre; ma se qualcosa lo cambia sarà la lingua a rifletterlo, a raccontarlo e a spiegarlo.”

Già rifletterlo, raccontarlo e spiegarlo, però, il mondo un po’ lo cambiano. Di solito in meglio.

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Un libro di Stefano Jossa
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Dialogo con Riccardo Muti

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Da trentaquattro anni Riccardo Muti non dirigeva un’opera a Napoli, sua città d’elezione. Riporta ora al San Carlo il Così fan tutte di Mozart con la regia di Chiara Muti, sua figlia, con la quale aveva già collaborato in passato. L’inaugurazione della stagione era attesissima non solo per il ritorno in una città che gli è molto affezionata, ma soprattutto perché Muti non dirige opere in forma scenica dal 2015. 

La prima al San Carlo (il teatro più bello del mondo, come il direttore d’orchestra ama ripetere) ci offre l’occasione per parlare della musica di Mozart, di Napoli e dell’Italia, di fronte a uno squisito caffè. Fuori splende il sole, ma il mare è in tempesta.

 

B. Perché per ritornare a Napoli la scelta è caduta su Così fan tutte?

R. Offrendo la regia a Chiara che non solo è cresciuta ascoltando la musica di Mozart ma lo conosce bene anche grazie a Strehler e Ronconi, mi sembrava naturale che la scelta cadesse su quest’opera. Si tratta di una coproduzione con l’Opera di Vienna (dove la si ascolterà nel 2020, in seguito andrà a Tokyo, NdR). Il fatto che il Così fan tutte si svolga a Napoli non ha molta rilevanza: come saprà, un musicologo mi raccontò che la vicenda pare sia realmente accaduta nel distretto di Neustadt, a Vienna, e che l’ambientazione a Napoli – Neapolis sarebbe la traslitterazione di Neustadt – sia il risultato di uno spostamento geografico.

 

B. Quanta Napoli c’è in questa regia e in queste scene?

R. La scena non è “da cartolina”, col Vesuvio e la baia di Napoli, Sorrento, etc., nella sua concezione registica sono soprattutto i colori, il bianco e lo sfavillio del mare in lontananza, sul fondo della scena, a dar l’idea dell’ambientazione mediterranea, idealizzata. La regia suggerisce un’atmosfera, la evoca, non la descrive. Nell’opera Napoli è citata una volta sola, il Vesuvio un paio di volte.

 

B.  È un dramma giocoso. Prevale l’elemento drammatico oppure quello buffo?

R. Non mi pongo questo problema, se sia meglio porre l’accento sul dramma o sul giocoso. Percorro il cammino musicale badando al rapporto verticale che c’è tra musica e parola, e viceversa. A parte qualche situazione iperbolica, come la vicenda del notaio o quella del medico, situazioni surreali, smaccatamente buffe, trovo che la comicità stia soprattutto nella perfidia di Da Ponte e di Mozart che usano frasi molto innocenti dandogli un significato erotico con doppi sensi evidentemente voluti.

 

B. Quali sono i passi più impervi dell’opera?

R. Il terzetto “Soave sia il vento mette alla prova il direttore: se hai a disposizione dei buoni musicisti e dei cantanti capaci di afferrare il “volo” esistente in partitura, che porta da una situazione semplice, concreta, a un’altra metafisica, si può creare un momento di grande emozione. Il passo più difficile è però il “Finale”: i giochi si sono ormai rivelati, la situazione è veramente amara, senza possibilità di recupero (“Te lo credo, gioia bella, Ma la prova far non vo'”) e ognuno ha una totale sfiducia nell’altro. Mozart evidenzia, in senso negativo, a cosa possono condurre i rapporti umani. Qui, quando le due protagoniste cantano assieme, Despina si vergogna, Don Alfonso si rammarica, anche se in fondo nel suo proposito è vittorioso, esattamente in quel momento… ho come la sensazione di sentire il canto delle sirene di Ulisse nel golfo di Napoli! La tradizione tedesca sceglie un andamento scorrevole, come fosse una specie di gioco, ma non sono d’accordo con questa lettura, bisogna prestare assai attenzione ai tempi (“Ah, signor, son rea di morte”, Andante e “V’ingannai, ma fu l’inganno”, Andante con moto, NdR). 

 

Chiara Muti.


B. Mozart ha viaggiato molto per l’Italia. Qual è stato su di lui l’influsso della musica napoletana?

R. Sappiamo che sia Mozart sia il padre Leopold avevano come obiettivo l’Italia, come del resto quasi tutti i musicisti dell’epoca. Da un lato Mozart desiderava che i grandi compositori del tempo riconoscessero il suo genio (a Napoli c’erano Cimarosa, Jommelli, Paisiello), dall’altro non si può negare che egli sia stato influenzato dalla musica napoletana di quel tempo. Credo che le sue opere, soprattutto quelle della Trilogia dapontiana, siano il risultato della combinazione della conoscenza di Mozart della scuola napoletana e, ovviamente, dell’influenza della musica austro-germanica. Quando portai Il ritorno di Don Calandrino di Cimarosa, primo titolo nel progetto relativo alla scuola napoletana al Festival di Pentecoste di Salisburgo (opere oltralpe del tutto sconosciute, eccezion fatta per i titoli più noti, come Il Matrimonio segreto), Jürgen Flimm, l’allora sovrintendente, uomo di grandissima cultura, affermò di aver capito che Mozart non fosse del tutto piovuto dal cielo e di quanto Cimarosa avesse influito sulla sua formazione. Senza la scuola napoletana la musica di Mozart sarebbe diversa.

 

 

B. Questa mi sembra una città molto calorosa (lo si percepisce dall’affetto rumoroso, tributato già durante la prova generale del Così fan tutte, aperta alle sole famiglie dei lavoratori del Teatro San Carlo e ad alcuni ragazzi del carcere minorile di Nisida che Muti è andato a trovare il giorno precedente, oppure dallo striscione srotolato alla prima dai ragazzi del liceo Margherita di Savoia). A Napoli si sente a casa?

R. Napoli non è più la città nella quale sono cresciuto, il mondo era allora diverso. Ma certo vedo molti segni d’affetto, come ad esempio la targa in pietra apposta nel mio liceo Vittorio Emanuele II che mi ricorda tra i vari allievi illustri (gli altri son tutti morti! – ride – oltre a Mercalli, Di Giacomo, e c’è anche un santo, Moscati!). Le persone mi fermano, mi salutano e questo mi fa piacere ovviamente.

 

B. Cosa la rende felice e orgoglioso dell’Italia?

R. Anzitutto la fortuna di essere nato in questo Paese, il più grande Paese del mondo per quello che ha donato in millenni di storia. Sento un forte legame con la cultura latina. A Chicago, quando esco dalla sala da concerto, vedo di fronte a me, dalla parte opposta della strada, l’Art Institute: i nomi degli artisti scolpiti nella pietra sono Michelangelo, Raffaello, sono artisti italiani! Mi inorgoglisce e produce in me una specie di calore interno… piacevole in una città il cui clima può arrivare d’inverno a meno trenta sotto zero! L’Italia dovrebbe avere una grande responsabilità verso la sua storia. Del resto, mi rendo conto che oggi siamo in difficoltà perché non è facile essere all’altezza del nostro passato. Bisogna riprendere in mano le redini della cultura di questo Paese, dell’Italia tutta, ma in particolare del Sud, il quale dal punto di vista culturale ha una ricchezza incomparabile, che va dai musei, alla storia, alla cucina, ai tanti luoghi di culto antichi. La qualità dei tesori nascosti di Napoli è semplicemente impressionante, la città ha una storia millenaria e la sua importanza è stata riconosciuta in tutte le epoche.

 

B. Progetti per il futuro immediato?

R. Mi aspetta una tournée con la Filarmonica di Vienna che toccherà, oltre a Vienna, Berlino, Monaco di Baviera e Colonia, con la Settima Sinfonia di Bruckner in programma e il Concerto per flauto in sol maggiore di Mozart, poi a gennaio una lunga tournée in Asia con la Chicago Symphony Orchestra. L’accademia operistica (la Riccardo Muti Italian Opera Academy si rivolge a direttori d’orchestra, maestri accompagnatori e pubblico, NdR) fa tappa questa primavera anche a Tokyo (in Italia si tiene ogni estate a Ravenna, il titolo scelto sarà lo stesso in entrambi i luoghi, NdR), inaugurando un ciclo triennale. Per il 2019 abbiamo già ricevuto centoquaranta domande d’iscrizione! In controtendenza rispetto agli anni passati, ho scelto per la mia accademia dedicata all’opera italiana un’opera di Mozart, Le nozze di Figaro

 

Così fan tutteè in scena al Teatro San Carlo da domenica 25 novembre al 2 dicembre 2018

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Il così fan tutte di Mozart al San Carlo di Napoli
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“La Flor”: quattro petali, un gambo e una radice

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O forse uno scorpione

Comincio con l’intravedere una forma, una specie di isola remota [...] Vedo la fine e vedo l’inizio, ma non ciò che si trova in mezzo. Questo mi viene rivelato gradualmente, quando gli astri o il caso sono propizi. Più di una volta devo ripetere il cammino nella zona d’ombra.

Jorge Luis Borges, Prologo a La rosa profonda

 

Da dove si comincia a parlare di un film di finzioni (il plurale è d’obbligo), che è anche un formidabile saggio sul cinema e sul suo connubio con la pittura, la letteratura, la fotografia, la musica, la politica, la storia? Un film che dura – intervalli inclusi – un po’ più di quattordici ore? Un film che seduce a tal punto gli spettatori da indurli a chiedersi di continuo “e poi? e poi?”, mai sazi, mai stanchi, mai disposti a abbandonarsi alle arti del mago Sabbiolino, perché qui la magia è tutta nelle mani di un regista che sa come tenere sveglio il desiderio e vivo il piacere? 

 

Sono il regista Mariano Llinás e i suoi alter ego scenici (tra cui il drammaturgo, regista e attore argentino Rafael Spregelburd) a dirci, dall’interno del film, quali sono le regole del gioco o, se volete, le istruzioni per l’uso. Lo fanno con tanto di taccuino e penna alla mano, disegnandone per noi in pochi tratti stilizzati la forma “teorica”. Solo che quella “forma” (utilizzata anche per il manifesto del film), combinandosi con il desiderio, non può che essere instabile, ondivaga, scivolosa: potrà assomigliare a un fiore, oppure a uno scorpione. 

 

 

Sherazade di sesso maschile, Llinás ha costruito con La Flor (in questi giorni nella sezione “Festa Mobile” del Torino Film Festival, dopo essere stato presentato a Locarno e al LEFFEST di Lisbona), un film “impossibile”, per dimostrare che il desiderio non si sazia, ma si risveglia, e che il piacere si riproduce all’infinito, fedele solo a se stesso e ai propri volatili, incostanti oggetti. Piacere uditivo e visivo insieme, ben noto ai piccoli della specie umana, dell’ascoltare una favola narrata da una voce/volto/corpo amati sul bordo del sonno. Sempre uguale e sempre diversa. Popolata dagli stessi esseri potenti e elusivi, paurosi e metamorfici: alberi che guardano, fate buone e streghe malefiche, trame costellate di iniziazioni, agnizioni, prove da superare per arrivare a un imprendibile premio finale o forse soltanto all’alba.

 

Ci ha messo dieci anni esatti a concludere (un verbo su cui riflettere) la sua megaopera, il quarantatreenne regista argentino, figlio del poeta surrealista Julio Llinás e discepolo del cineasta Hugo Santiago (il grande “complice” di Borges mancato nel febbraio di quest’anno). A muoverlo all’impresa, come lui stesso racconta, «è stato il desiderio di filmare le quattro chicas che compaiono in larga parte del film». Si riferisce a Pilar Gamboa (divenuta di lì a poco una star televisiva grazie alla serie Los Únicos), Elisa Carricajo (già protagonista di Historias extraordinarias, diretto da Llinás nel 2008), Laura Paredes (attrice e art director) e Valeria Correa (protagonista di El Estudiante, scritto da Llinás e diretto da Santiago Mitre nel 2011). Fondatrici nel 2003 della compagnia teatrale “Piel de Lava” di Buenos Aires (che co-produce il film), Llinás le vede in scena nel 2005 e da allora non abbandona più l’idea di creare un film insieme a loro. 

 

Le protagoniste (da sinistra): Laura Paredes, Pilar Gamboa, Valeria Correa, Elisa Carricajo.


«Il film è fatto per mostrare le attrici», afferma Llinás, «perché potessero farsi oggetto della camera. Le storie sono un trucco per filmarle». Incantato da loro (dalla luce e dall’energia che da loro emana, mutevole e evanescente, sullo schermo), costruisce attorno al corpo, alla mimica facciale, ai gesti, al modo di rivolgere lo sguardo verso l’obiettivo, alla voce di ciascuna, presa a sé e insieme alle altre, una rosa di trame che le contengono e tuttavia non le esauriscono. Un po’, dice il regista, «come Édouard Manet [si veda l'omaggio a lui dedicato nel film] di cui a Parigi, qualche anno fa, ho avuto modo di vedere l’intera opera, scoprendo che le sue modelle erano sempre le stesse, ma le figure dipinte/i personaggi erano sempre diversi. È lì che ho capito che per fare un ritratto credibile bisogna rendere irriconoscibile il proprio modello, provando a dargli una serie di forme successive. Sì, grazie a Manet ho scoperto che è solo attraverso la successione che si può fare un ritratto. Per mostrare il vero volto di un’attrice, bisogna mostrarla in tanti ruoli consecutivi. In La Flor non c’è relazione tematica tra le varie parti, se non in questa mutazione». 

 

Mutazione, viene da aggiungere, che produce una sorta di accumulazione cubista. Dei sei segmenti, spezzoni, bracci (“episodi” non sarebbe la definizione giusta) che compongono il film, i primi tre hanno un inizio, ma non una fine e il quarto non ha né un inizio né una fine. Tutti ricalcano un genere filmico codificato – l’horror alla B-movie, il musical, la spy story, l’esperimento metanarrativo – per sovvertirlo troncandolo sul più bello. «L’idea dei generi non mi è venuta subito», dice il regista. «All’inizio sapevo solo che la prima storia doveva essere stupida e convenzionale, non sofisticata, classica, e avevo chiara anche l’idea per il terzo blocco. Il resto è nato dalla mia relazione con le chicas, dal lavorare con loro.» 

 

In La Florè dunque il tempo (non lo spazio) a essere cubista. Parte integrante della continuità degli eventi all’interno della narrazione, esso è un evento in sé, paragonabile agli altri eventi, non un semplice contenitore. Tempo multiplo e sfaccettato: all’interno di ogni singola storia, nelle giunture/disgiunzioni tra le diverse storie, nelle trasformazioni dei corpi e dei volti delle chicas dentro e fuori lo spazio filmico, nel ritmo del montaggio sonoro ancor più che in quello visivo di un film plurimo e rigorosamente unitario.

 

La complicità richiesta allo spettatore da questo autore – che, «girando insieme a un gruppo di amici, nei ritagli di tempo, come quando si fanno dei corti o delle pellicole amatoriali, lavorando contro l’industria», si è garantito la libertà di fare uno dei film più anarchici e radicali degli ultimi anni, più innamorati di cinema – nasce senza dubbio come invito a condividere un piacere, a giocare insieme. «Le riprese sono state una successione di picnic tra amici», dice Llinás. «Sì, girare questo film è stato come praticare uno sport, in cui si migliora ogni giorno.» 

 

Mariano Llinás con le protagoniste.


Ecco perché, arrivato al quinto blocco narrativo, il grafico di Llinás imbocca una direzione imprevista e migra altrove, per la prima e unica volta in assenza delle attrici. E così ci troviamo di fronte a un remake di Partie de Campagne di Jean Renoir (1936), «un furto», dice il regista, «non un omaggio». Sulle immagini di questo episodio, mute e in bianco e nero, il regista monta in una straniante lontananza le voci e i suoni dell’originale, annunciando il sesto e ultimo, ma non conclusivo, tuffo delle sue chicas e del suo pubblico all’indietro nel tempo della storia (XIX secolo, fuga di quattro donne tenute in cattività dagli indiani) e del cinema. 

Sfocate, pittoriche, sabbiose, sgranate, queste ultime immagini – che presto si riveleranno non ultime– sono affidate all’improvvisazione delle chicas (due di loro adesso sono incinte), che sembrano jouer a essere se stesse in piena jouissance. La lente dell’obiettivo le allontana e le avvicina, forse si prepara a lasciarle e lasciarci andare, a restituirci alle nostre vite, fuori dal buio della caverna. E d’un tratto, un attimo prima che i lunghissimi titoli di coda comincino a scorrere sulle immagini, il quadro cinematografico si capovolge, il sotto diventa sopra, il cielo diventa terra e esseri umani, animali e alberi si ritrovano a testa in giù. Come a ricordarci non solo il pre-cinema (la stenoscopia e l’immagine ribaltata della camera oscura), ma anche la libertà di immaginare e costruire quel che non c’è o non c’è ancora.

 

Come si distribuisce un film come questo, un atto di suprema libertà che sfida il mercato e le sue leggi? «Ti ricordi», mi chiede di rimando Llinás, «quale fu il film più visto la settimana in cui andò nelle sale Citizen Kane? Qualcuno lo ricorda? Nessuno, perché non importa. I film, se non hanno il diktat di recuperare soldi, si fanno strada alla loro maniera». Ancora una volta, col tempo.

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Love Therapy. Riflessi di un’Epoca memorabile

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Sconfinare nelle meraviglie del diverso

Per Enzo Biagi è stato l'uomo che ha distrutto la moda per costruirla a modo suo, creando un sistema inclusivo, manovrato dalla strada, mentre per Oliviero Toscani rappresentava un innovatore modello, un esemplare raro, capace di sporcarsi le mani pur di perseguire il cambiamento.

Di certo si tratta l’identikit di una persona che ha saputo sospendere il tempo per lasciare la propria impronta nella storia, diventando così anfitrione di avvenimenti memorabili, e detentore di un’epoca, la sua, l’Epoca Fiorucci, in mostra a Venezia dal 23 giugno 2018 al 6 gennaio 2019.

Elio Fiorucci, scomparso a 80 anni nel 2015, ha incarnato, prima che diventasse un hashtag e un tatuaggio scritto male, il concetto di wanderlust, il desiderio viscerale di viaggiare ed entrare in contatto con nuove culture, col fine di tradurle, plasmarle, studiarne e decodificarne gli oggetti caratteristici, per poi avvolgerli nell’aura della moda, affidandoli ai suoi clienti e alla loro reinterpretazione degli usi e degli abbinamenti. Fiorucci progetta una forma di vita tout court, non soltanto uno stile, perché è conscio del ruolo fondamentale della moda nelle dinamiche sociali, politiche e del peso ricoperto dal cambiamento dei gusti in un momento storico ricco di tensioni, in cui mettere la parola fine alla corrispondenza diretta tra marchio, abbigliamento e status risulta di fondamentale importanza.

 

Fiorucci è alla ricerca del punto di rottura con gli schemi della borghesia benestante a cui appartiene, una sorta di missione che lo conduce a trasformare un’attività famigliare dedita al commercio di pantofole in uno dei luoghi del consumo più avanguardisti e visionari, prima in Italia e poi nel mondo. La rivoluzione comincia da un paio di ciabatte di gomma, ornate da un fiore, vendute insieme a degli orecchini en pendant, immediatamente notati dalle due “Anne” del giornalismo di moda italiano, Riva e Piaggi, che decretano il successo dell’idea di Elio, trovatosi improvvisamente a gestire un flusso inusitato di clienti. A Fiorucci interessa divulgare un immaginario o, meglio ancora permeare i suoi spazi con un’atmosfera, cioè un’esperienza affettiva e corporea della moda, immateriale, sapientemente riprodotta dai curatori della mostra – Gabriella Belli e Aldo Colonetti, con Elisabetta Barisoni – nel salone di Ca’ Pesaro, grazie all’utilizzo di luci neon, colori fluo, grafiche cartoon, appenderie fluttuanti, degna cornice per protagonisti dell’universo tematico di Fiorucci, adeguatamente storicizzati, ma non musealizzati, perché l'acme della dinamicità non va imbrigliato nella staticità.

 

 

Le atmosfere non possono essere irregimentate sugli scaffali, devono trovare riparo in un rifugio dove sopravvivere allo scorrere inesorabile del tempo, ma con la libertà di volatilizzarsi se è necessario: per queste ragioni Fiorucci credeva nella magia degli spazi e riteneva importante creare un negozio senza soglie, un prolungamento diretto del marciapiede, del sidewalk, vale a dire il catwalk più reale e veridico, con le vetrine senza quinte per annullare il confine fra dentro e fuori. Il 31 maggio 1967 Fiorucci trasforma la Galleria Passerella, Piazza San Babila e per estensione Milano, strappando via la coltre di cachemire e visone mediante l’esposizione di oggetti volti a provocare un effetto di senso straniante, a meravigliare, solo perché, come direbbe Heidegger, si oppongono all'abituale rimanendo volutamente inconsueti, per non cadere nel baratro della banalità conosciuta, a cui non si presta più attenzione. Cosa c'è di più sorprendente dell'altro e dell'ulteriore se non una cultura lontana? La moda di Fiorucci non è più ideata a tavolino, ma gemma spontaneamente per strada, grazie alle tribù indigene e metropolitane, risiede nel Greenwich village, in Giamaica, a La Jolla, a Brixton, a Portobello road, in India, a Rio de Janeiro, sulla spiaggia di Copacabana. Non bisogna più seguire ciecamente i diktat della moda, ma vivere secondo l’imperativo del poter fare, per fingere di “esserci” autenticamente e costruire il simulacro della propria identità.

 

Fiorucci pratica il culto del corpo femminile con uno sguardo scevro da malizia, ma puramente estetizzante, desidera che tutti possano gioire della forma più alta di bellezza, e così decide di importare dal Brasile bikini, monokini e tanga, pubblicizzati tramite la distribuzione di poster numerati e in edizione limitata, inventando una pratica che nel millennio successivo sarebbe diventata il perno dei consumi di moda. In effetti, oltre alla ristretta disponibilità dei beni, Fiorucci è stato il precursore anche dell’idea del negozio come bacino creativo, uno spazio di socializzazione comunitaria che ritroviamo nello streetwear anni Novanta con Supreme, una versione made in USA più esclusiva e settoriale dei luoghi del consumo disseminati sul globo terraqueo dal creativo milanese. A ben vedere, sembra proprio che l’Epoca Fiorucci abbia piantato i semi germogliati in quella dei social network, la cui manifestazione più evidente si trova nei virtuosi di relazioni che nascevano all’interno dei suoi negozi, basti pensare a Keith Haring, Jean-Michel Basquiat, Andy Warhol, e alla progenitrice di tutte le influencer, in origine semplice sorella di un commesso del flagship store di New York, poi salita agli onori della cronaca come Madonna.

In effetti, nel sistema della moda contemporaneo predomina l’estetica del riassemblaggio, come testimoniano i designer-guru Virgil Abloh e Demna Gvasalia, già materializzata e applicata da Elio Fiorucci con grande umiltà, come fosse un talento innato, non appreso. Fiorucci, infatti, ha creato una matrice invariante della sua visione dell’essere alla moda, basata prevalentemente sul bricolage e sul sampling, grazie a cui mettere insieme i vari tasselli provenienti dalle ispirazioni attinte qua e là, usate per comporre una mitologia del vestire in linea con lo Zeitgeist, replicabile e riconoscibile.

 

 

Così come avviene nelle collezioni del secondo decennio del 2000 con l’alta moda e la moda da strada, Fiorucci riesce nella creolizzazione dell'immescolabile, dell'incompatibile per convenzione, dove la complessità costruisce sensi e realtà sociali nel nome dell'autenticità, determinata dalla non classificabilità in generi antecedenti. Insomma, anche se spesso si dice che Fiorucci non ha inventato nulla, bensì citato e “copiato” in modo sublime, in realtà dobbiamo riconoscergli di essere stato l’antesignano di tutto ciò che oggi etichettiamo come avanguardia pura e l’ha capito anche chi ha acquisito il suo marchio, visto il ritorno sul mercato e sui corpi delle influencer delle stampe con le teste d’angelo, uno dei suoi simboli più potenti. I due esserini riccioluti e alati sono espressione di purezza e innocenza, figure asessuate dotate di qualità sovrannaturali che sublimano l’amore come mezzo per ottenere la virtù e raggiungere l’armonia cosmica.

 

Gli angeli racchiudono il senso profondo dell’opera di Fiorucci, il cui atto finale è la terapia dell’amore – il marchio Love Therapy– che promuove la gentilezza per sovvertire la rozzezza dei dettami del consumo, tramite la diffusione di valori radicalmente opposti. 

Fino a gennaio 2019 gli angeli e i nanetti di Love Therapy osserveranno il mondo dalle anse del Canal Grande, frutto della creatività di colui che è riuscito a vendere il jeans agli americani, ha ideato il marketing esperienziale, diffondendo nei suoi negozi profumi corrispondenti al comparto merceologico (es. bambini/borotalco), un uomo da considerare non solo come modello di imprenditoria e saper fare, ma anche in quanto figura esemplare del rispetto e della valorizzazione della diversità culturale. 

E perciò oggi abbiamo un gran bisogno di imparare da lui e dalla sua Epoca.

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Fiorucci
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Competenti, incompetenti, esperti, dilettanti

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È recente la notizia di un esponente governativo del movimento Cinque stelle che ha proposto di rivedere i programmi televisivi dedicati alla scienza: darebbero poco conto dell’attività di punta dei laboratori di ricerca, di fatto rinnegando il principio del sapere open access. C’è chi ha plaudito dinnanzi a cotanta alzata d’ingegno e chi, viceversa, ha ricordato il famigerato Minculpop fascista. Di fatto, si tratta di una proposta che mostra di non aver grande contezza né di come funziona la scienza né, meno che mai, di come funziona la televisione. Come se la famiglia Angela passasse il suo tempo a sfogliare “Science” o “Nature”, selezionando accigliatamente le scoperte più sexy da mandare in onda. Insomma: uno slogan come un altro, buttato lì nel pourparler pseudo-politico quotidiano e presto, si spera, dimenticato.

La cosa torna però alla mente leggendo La conoscenza e i suoi nemici di Tom Nichols (Luiss University Press, pp.  246, € 20), un accorato libro sulla ‘fine della competenza’ (sarebbe il titolo originale) nella società contemporanea – americana, nel caso raccontato dall’autore, ma facilmente esportabile nella nostra, amaramente simile. A prima vista sembrerebbe il tipico libro che preannuncia l’apocalisse prossima ventura, il mondo in mano agli ignoranti, la fine d’ogni onesto e retto conversar cittadino, dove la colpa, come al solito, è di internet che rende stupidi. E un po’ è così.

 

Da una parte, dice Nichols (docente allo U.S. Naval War College, dunque uno che pensa l’expertise anche e soprattutto dal punto di vista strategico-militare), proprio grazie al web mai come oggi si hanno a disposizione tante conoscenze, informazioni, notizie, D’altra parte, forse proprio per questo, mai come adesso la conoscenza e la competenza interessano così poco. E quando qualcuno, in vario modo, si dichiara esperto di qualcosa (medico, avvocato, professore, pilota d’aereo, uomo politico…), ed è pronto a dire la sua, o a fare la sua là dove è necessario, ecco che si scatena, non l’indifferenza, ma addirittura la rabbia, l’offesa, l’indignazione. “Ma chi è costui per sentirsi più competente di me?”, si dice in coro. 

Ecco, l’attuale novità, secondo Nichols, non starebbe tanto nel trionfo dell’ignoranza, e nel conseguente anti-intellettualismo che, in fondo, c’è sempre stato (ma con punte forti, certo, oggigiorno). Quanto semmai nel fatto che contro gli esperti si scatenano gli odi più profondi derivanti dal fatto che tutti si sentono in diritto e in dovere di dire la loro, anche e soprattutto se non ci capiscono nulla, se non hanno fatto alcuno studio in proposito, se non ne hanno alcuna particolare informazione specifica. È una specie di generalizzato bar dello sport, dove tutti non solo si vantano di saper mettere a posto la squadra del cuore in quattro e quattr’otto, ma fanno lo stesso con i problemi, che so, dello spread, della geopolitica mondiale, del taglio delle pensioni, del surriscaldamento globale del pianeta. Accade di regola nei social network, perché dunque, si sente dire, non replicarlo nelle camere parlamentari?

 

Il principio su cui si basa questa situazione è, per Nichols, tanto semplice quanto mostruoso. Cito per evitare fraintendimenti: “Gli americani ormai credono che avere diritti uguali in un sistema politico significhi che anche l’opinione di ciascuno su qualsiasi argomento debba essere accettata alla pari di quella di chiunque altro”. La democrazia non sarebbe cioè soltanto un regime politico che pretende l’uguaglianza sul piano politico e civile, ma anche una specie di redistribuzione egualitaria (e dunque per forza di cose livellante verso il basso) del sapere, e del diritto di esercitarlo. Uno vale uno, per dirla in termini caserecci, non solo al seggio elettorale ma anche nelle aule universitarie e, da lì, negli studi professionali, nei tavoli di concertazione politica, nei consigli di amministrazione delle aziende e così via. Come si vede, insomma, il quadro dipinto da Nichols per gli Stati Uniti si attaglia perfettamente anche alla situazione italiana. Leggere questo libro non ci fa male, e bene ha fatto la casa editrice dell’Università Luiss a farlo tradurre e e pubblicarlo.

 

È come, se, continua Nichols, invece di istituire un dialogo fra esperti e cittadini, in cui i primi forniscono ai secondi le informazioni e i servizi necessari, fosse in atto una guerra, pardon, una discrasia, che, alla fine, non va bene a nessuno. I social impazzano, i giornali sono in crisi di ipercompetizione e trattano i lettori come deficienti, le università considerano gli studenti come clienti da coccolare: il risultato è questa arroganza narcisistica che fischia cuorcontenta i cosiddetti cervelloni per rivendicare il diritto a trovare da sé soluzioni per tutto. Si veda, da noi, il caso dei vaccini rifiutati in massa. Siamo passati, dice Nichols, da un’epoca in cui ci siamo fidati un po’ troppo degli esperti (quelli che, portando l’uomo sulla luna, contemporaneamente bombardavano il Vietnam e vendevano talidomide alle donne incinte), a un’altra in cui non se li fila più nessuno. Generando, fra gli altri, un delicatissimo problema: gli esperti tanto bistrattati, ricorda Nichols, non sono decisori ma, nella migliore delle ipotesi, consiglieri; i decisori veri, cioè i politici, li ascoltano molto poco, preferendo semmai accodarsi alle masse di profani che, prima o poi, dovranno rivotarli. (E da noi, questa volta, il parallelo non funziona: gli incompetenti narcisi stanno difatti direttamente al governo).

 

Detta così, le cose sembrano messe male. In questo sfrenato desiderio d’essere tutti competenti, finiremo per essere tutti, e definitivamente, il contrario. Se la competenza è morta, socialmente e culturalmente, se non interessa più nessuno, progressivamente gli esperti spariranno, non se ne formeranno di nuovi e tutto andrà a rotoli. A meno di non darci un forte scossone, secondo Nichols, è il destino che ci attende di lì a poco. E la responsabilità dei politici, in questo, sarà grossa.

Ma, per fortuna, le cose sono forse un po’ più complicate di così. Più articolate, più sfumate. L’analisi di Nichols, in fondo, pur nel suo rigore, ragiona con soli due termini in gioco: i competenti e gli incompetenti, dove i secondi odiano i primi perché si sentono a loro uguali senza, patentemente, esserlo. Nichols usa talvolta, nel corso del libro, alcuni sinonimi (esperti, specializzati, profani, dilettanti, ignoranti…) ma in fondo gli attori in gioco sono sempre due.

 

Riprendendo un ragionamento abbozzato tempo fa, potremmo invece mettere in campo altre due figure ideali (i cui esempi concreti non sarebbe difficile reperire) che non sono esattamente il rovescio della medaglia delle prime due, ma che in ogni caso arricchiscono lo scenario generale. Rileggendo Ortega y Gasset (che Nichols cita, ma un po’ a casaccio), esiste per esempio la figura dell’ignorante istruito, ossia dell’esperto che sa tutto su qualcosa ma solo su quella, e grazie a questa specializzazione si sente poi in diritto (incoraggiato dai media) di esprimere pareri su qualsiasi argomento. È il tipico caso del premio Nobel in astrofisica intervistato indifferentemente sulle politiche pubbliche, la moda dei tatuaggi o le smart cities.

 

Si tratta di una persona che è certo competente, ma soltanto nel suo settore di applicazione; per il resto è altamente incompetente, alla stregua di qualsiasi altro. Come dire: diffidate degli esperti, non solo perché parcellizzano il sapere in porzioni sempre più piccole di specializzazione, alzando barriere tra un campo disciplinare e un altro, ma soprattutto perché si ritengono gli unici che hanno il diritto di alzare lo sguardo e uscire dagli steccati, vagabondando senza meta e senza perché. Una figura che a questo ignorante istruito potremmo opporre è allora quella del dilettante per professione, anche lui attore fortunosamente doppio: dilettante da un lato, dunque senz’altro incompetente, ma intenzionalmente e strategicamente; capace dunque di intercedere e tradurre fra un sapere e un altro, una disciplina e l’altra, un linguaggio e un altro, mettendoli ogni volta in relazione, facendoli produttivamente dialogare. Se degli esperti occorre sospettare, del dilettante invece no, per il semplice motivo che lavora senza copertura, apertamente e orgogliosamente. Pericoloso può esserlo, e lo è a suo modo.

 

Ma per chi? Non certo per i competenti illuminati, a cui starà anzi piuttosto simpatico, e diverrà euforico compagno di merende. Con ogni probabilità sarà semmai fatidico per gli incompetenti ottusi, infastiditi da questa sua costitutiva leggerezza, da questa maniera amatoriale di agire e di pensare. Dilettante è anche chi prova diletto. Analogamente sarà fastidioso per l’ignorante istruito, suo opposto dialettico, e dunque suo nemico per definizione. Non avere alcuna specializzazione è il miglior modo per irridere le specializzazioni vacue.

Il panorama, complicandosi, si articola un po’ di più: e abbandoniamo il bene e il male, il positivo e il negativo, il bianco e il nero. Tutto è un po’ meno evidente di quel che sembra, e si percepisce un orizzonte meno fosco, forse più ottimistico. Non so, pensiamoci. 

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Coop 70. Valori in scatola alla Triennale di Milano

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Storia di noialtri

Settant’anni e dimostrarli. No, non è un giudizio estetico, tanto meno una provocazione.

Eppure potrebbe essere questa una delle considerazioni che affiorano alla fine della mostra Coop 70_ Valori in scatola curata da Giulio Iacchetti e Francesca Picchi e aperta fino al 13 gennaio 2019 alla Triennale di Milano.

Si entra pensando a una mostra sulla Coop, si esce pensando a molto altro.

 

Settant’anni sono del resto un tempo significativo se rivolto alla storia e all’evoluzione dei consumi nel nostro paese, inevitabilmente anche la storia e l’evoluzione della nostra società, inevitabilmente di quello che siamo e che siamo diventati 

Lungo le sette stazioni in cui è suddivisa la mostra, che ci si immerga nell’evoluzione delle diverse pubblicità Coop come in quella dei prodotti a marchio, si ha l’impressione di percorrere parte di una storia che ci appartiene e in cui ci si può riconoscere, proprio come nelle sequenze fotografiche inventate nel 2000 da Noah Kalina, in cui la stessa foto e la stessa inquadratura ripetuta tutti i giorni evidenziava i mutamenti della persona e il trascorre del tempo. È un selfie dilatato per settant’anni quello che si percorre visitando la mostra. È la storia di una grande azienda cooperativa, ma è soprattutto un pezzo della storia di ognuno di noi. Noi (come società) siamo sempre stati qua, ma come siamo cambiati in questi settant’anni?

 

 

Forse in maniera inattesa, pur rispetto agli intenti dichiarati dei curatori, è come se si realizzasse in maniera imprevista e inaspettata la prima delle affermazioni di uno dei refrain pubblicitari più noti, La Coop sei tu... (chi può darti di più). Perché quel refrain alla lunga, nel corso del tempo, è diventato anche uno specchio che non si può evitare. Soprattutto considerando che dagli anni Cinquanta in poi nelle città si cominciava a interagire con quella parte di “ambiente che è il cibo” solo comprandolo... già solo comprandolo. Così stava andando il mondo: era semplicemente nato il consumatore.

 

Dunque, sette stazioni per altrettanti temi che si volevano evidenziare attraverso un percorso lungo appunto settant'anni. Uno spazio non enorme ma in cui la “dilatazione” del tempo è data dai “contenuti” e dall’intensità con cui ogni stazione è sfruttata. Così si comincia dai dati numerici ed economici che compongono l’universo cooperativo, e poi l’identità del marchio e dell’azienda attraverso l’estetica che l’ha resa riconoscibile. Il logo di Albe Steiner e la sua rivelazione negli anni 80 da parte Bob Noorda. Ma l’identità non è solo questione estetica e formale e allora è la dimensione dei “valori” del movimento cooperativo a costituire il tema della terza stazione. La dimensione e il valore della filiera produttiva, della sua sicurezza, elemento che Coop ha perseguito fin dall’inizio e che ha contribuito a rendere quei consumatori dagli anni Cinquanta in poi un po’ meno “consumatori”. Tre gli alimenti “simbolo” – olio, pomodoro, pasta raccontati all’interno di box interattivi – per esprimere i legami con la filiera produttiva e poi ancora i valori dell’ecologia, dell’etica, della tradizione, dell’educazione alimentare.

 

 

Così, insieme alla forza di un marchio e dei valori che la Coop ha cercato di perseguire nella sua attività, insieme alla storia delle pubblicità televisiva, a cominciare con quella in bianco e nero di Ugo Gregoretti negli anni Settanta, emerge progressivamente la nostra storia, storia di una società di consumatori, ma anche storia minuta, familiare, legata ai ricordi che vecchie immagini, prodotti o vecchi spot inevitabilmente fanno riaffiorare. Insieme, inevitabile l’idea di come abbiamo vissuto, almeno negli aspetti più concreti e materiali, quello legati al cibo e all’alimentazione, alla vita quotidiana, al crescere, al tirare su famiglia...

 

 

Non è cosa da poco...molti anni fa Beppe Grillo, già “politico ante litteram” recitava in un suo spettacolo spingendo un carrello del supermercato e riferendosi all’atto del comprare... “quando votiamo... quando votiamo veramente...”

Sì, oggi lo sappiamo in maniera sempre più diffusa e orizzontale, c’è responsabilità etica nel comprare. Ci sono conseguenze economiche, sociali, politiche ed educative nell’atto del comprare. Questo, Coop – è un merito che occorre riconoscere al confronto di ogni marchio della grande distribuzione – lo ha capito presto, lo ha capito forse subito, fino dalla fondazione delle prime cooperative di consumo (1854 Torino, 1926 Muggiò, 1945 Savona) che nel 1947 diventeranno Associazione nazionale delle cooperative di consumatori e che nel 1963 diventerà il marchio che tutti oggi conosciamo. La mostra nel suo rapido snodarsi, diventa così un percorso nelle sensibilità e nelle aspettative che, nel corso del tempo, sono state di noi “consumatori” ; quelle sensibilità e aspettative che la Coop, più o meno puntualmente, registra. Così è stato per l’attenzione al mondo del lavoro e al benessere legato alle scelte alimentari, così per l’attenzione agli sprechi alimentari in cui Coop è stata in prima fila anche in fase propositiva nella recente legge.

 

 

Una mostra certamente “da guardare”, perché costruita con grande attenzione sull’immagine e il design (inevitabile vista la collocazione all’interno della Triennale); una mostra con cui “giocare” per gli aspetti interattivi che presenta ma soprattutto una mostra su cui alla fine si riflette. Un percorso visivo per ragionare tra passato e presente, tra bisogni e desideri, tra consumi materiali e non, tra scelte personali e responsabilità collettive. 

Oggi la Coop, come tutti gli attori della Gdo (Grande distribuzione organizzata), sulla spinta delle trasformazioni tecnologiche, di nuovi player globali e di nuovi stili di vita, si trova ad affrontare un cambiamento che gli esperti giudicano epocale; difficilmente si può dire con certezza come e cosa sarà della grande distribuzione tra soli dieci anni... 

Un’incertezza legata anche alle numerose variabili su come – in una società in profonda trasformazione – noi stessi saremo consumatori.

Anche per questo Coop70, lungo il suo percorso, finisce per raccontarci un momento che è insieme passato e presente ma anche sul ciglio di un futuro comune ancora da descrivere, se non da immaginare.

Una mostra che parla di Coop ma soprattutto parla di noialtri; come un selfie dilatato in settant’anni, l’ultimo ancora da scattare.

 

Coop 70. Valori in scatola (16 nov 2018 - 13 gen 2019). Palazzo della Triennale. Ingresso libero.

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Digitale

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Gli scienziati sociali hanno spesso tentato negli ultimi decenni di coniare delle etichette allo scopo di definire sinteticamente le principali caratteristiche delle società contemporanee. Tali etichette però di solito hanno incontrato delle difficoltà, a causa della natura sfuggente dei sistemi sociali odierni. Pertanto, si è continuato a cercarne delle nuove. Tra queste, negli ultimi anni il concetto di “digitale” e la sua contrapposizione con quello di “analogico” hanno conosciuto un certo successo. Addirittura alcuni autori hanno parlato dell’esistenza di una “rivoluzione digitale”.

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Sergio Leone, macchina dell’immaginario

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In uno dei video che arricchiscono il percorso della grande mostra alla Cinémathèque di Parigi, realizzata in collaborazione con la Fondazione Cineteca di Bologna (fino al 27 gennaio 2019), un Sergio Leone già pingue ma senza barba, e quindi meno prototipico dell’immagine di lui che siamo soliti richiamare alla memoria, impartisce indicazioni al rumorista incaricato di dare spessore al tappeto sonoro di uno dei suoi film.

“Ecco, ora anche con i ferri, bravo”, gli raccomanda mentre spazza via le briciole di brioche dal suo tavolo e tamburella sul tavolo il ritmo esatto della corsa dei cavalli, intento come un direttore d’orchestra a far fare, e rifare, anche la più piccola battuta. Per chi esegue, con delle apposite scodelle e dei movimenti secchi e rapidi, gli occhi incollati allo schermo che proietta la scena, si tratta più di tradurre che di interpretare. Il regista ascolta e pondera, immerso al contempo nel film e nel suo cappuccino.

Sempre all’interno della sezione “Laboratorio Leone”, strutturata a spezzoni video e a gallerie di fotogrammi, ecco il regista, in tenuta da lavoro, ora mostrare a Clint Eastwood come impugnare l’arma, ora cingere alla vita la bellissima Claudia Cardinale proprio come l’avventore di turno avrebbe dovuto stringerla a sé in C’era una volta il West.

Un diario minimo di lavoro, fatto di particolari quasi insignificanti, eppure emblematico – e magnetico per il pubblico che si ferma a guardare e commentare, anche rumorosamente, le scene e le fotografie che girano in loop (questa mostra, in effetti, non richiede di essere esplorata in religioso silenzio, semmai il contrario).

 

Sergio Leone sul set di “Giù la testa” (© Fondazione Cineteca di Bologna / Fondo Angelo Novi).


Nella testa di Leone, un film è questione di dettagli – di molti, moltissimi dettagli.

In Lector in fabula, Umberto Eco ha parlato del testo narrativo come di una “macchina per produrre mondi possibili” – chiarendo che un mondo possibile non è affatto un mondo vuoto, ma un mondo ammobiliato di personaggi e contesti, di oggetti e situazioni, ognuno con le sue caratteristiche. 

Un universo perfettamente arredato in cui accomodarsi, aggirarsi con circospezione, e da cui ascoltare una di quelle “favole per grandi” del suo cinema: è questa l’impressione, più o meno consapevole, che si ha passeggiando per le sale della mostra e osservando oggetti e immagini che non solo conosciamo, ma riconosciamo benissimo.

Ed ecco il poncho di Eastwood, certo, ecco il vestito della Cardinale, e senti in sottofondo il tema del cattivo del film (come è che si chiamava?), e poi il telefono di C’era una volta in America– dicono gli sguardi, complici, degli avventori della mostra. Tutti noi, chi più chi meno, nel buio di un vecchio cinema oppure in streaming su uno schermo, nell’universo di Leone ci siamo già accomodati mille volte.

Quello che fa in più questa mostra – intitolata, non a caso, Il était une fois Sergio Leone – è accompagnarci, passo dopo passo, anche nel suo immaginario – alla scoperta del regista e dell’uomo che di queste “favole per grandi” è all’origine. Definizione che, confessa Leone, portando avanti la metafora, “mi ha, a volte, fatto affermare di avere l’impressione di essere, rispetto al cinema, come un burattinaio con i suoi burattini”. E la mostra della Cinémathèque tiene insieme tutto questo, il creatore e il suo universo, il progetto e i dettagli, le idee e la realizzazione tecnica.

 

Jennifer Connelly e Sergio Leone sul set di “C’era una volta in America” (© Fondazione Cineteca di Bologna).


Un testo narrativo, per descrittivo che sia, non richiede mai lo stesso livello di dettaglio di un’immagine, che è obbligata a chiedersi come mostrare, e a quale scopo, quello che vuol far vedere. Se l’immagine poi non è un’immagine solitaria, ma è la costellazione di fotogrammi, ordinata e invisibile nelle sue giunture, che è il cinema, le cose si complicano. E se chi sta dietro la macchina da presa è uno che si dichiara affetto da “sindrome del neorealismo”, come dichiara lui stesso, beh, le cose si complicano ancor di più.

Di tutto questo Leone è totalmente consapevole, concentrato in un modo che molti hanno definito maniacale sulla consistency di ogni singolo dettaglio dei suoi film (in questo senso è “neorealista”, anche se non alla De Sica o alla Rossellini) e che lui stesso ha amato rimarcare, più e più volte.

 

Nelle dense interviste con Noël Simsolo, per esempio, in C’era una volta il cinema (Il Saggiatore), pubblicate per la prima volta in italiano e da poco in libreria, la sua passione per i mondi narrativi ben ammobiliati emerge in modo gustoso attraverso una miriade di aneddoti, come questo su Per qualche dollaro in più (1965): “Non potevo inventare oggetti immaginari, serviva una grande precisione sul piano tecnico. Per cui mi sono documentato. A Washington, nella più grande biblioteca del mondo, la Library of Congress, si può ottenere una copia di qualsiasi libro raro. […] Così ho richiesto tutti i volumi disponibili che parlavano del West e della guerra di Secessione. Leggevo solo libri di quel genere. Devo aver consultato più opere io sul quel periodo di quanto non abbiano fatto gli storici! Tra le altre cose, ho trovato delle descrizioni dettagliate di tutti i tipi di armi dell’epoca. […] E ho scoperto con mia grande sorpresa che esisteva ancora una fabbrica di quelle armi, a Brescia, in cui si tramandava la costruzione di pistole e di rivoltelle del secolo scorso. E riforniva il mercato americano. […] Ma l’autenticità di quelle armi non mi bastava, le volevo precise anche per quanto riguardava la balistica, il raggio di tiro… La mia storia doveva partire da un realismo documentario basato sulla tecnica”. 

 

© Stéphane Dabrowski-Cinémathèque Française.

 

Molte delle armi commissionate alla Uberti di Brescia a partire dal 1965 – ovvero, grazie ai mezzi molto più cospicui ottenuti dai produttori dopo il successo del primo film della Trilogia del dollaro, Per un pugno di dollari (1964) – sono in mostra, insieme ai costumi di scena della Cardinale e di Henry Fonda. Di altri oggetti, apparentemente insignificanti per la narrazione ma per Leone necessari alla sospensione d’incredulità del suo spettatore – meglio ancora, alla resa incondizionata alla potenza della sua immaginazione – si legge tra le interviste con Simsolo e nel ricco catalogo della mostra, La révolution Sergio Leone, a cura di Gian Luca Farinelli e Christopher Frayling, che raccoglie saggi, contributi critici, testimonianze e interviste.

 

Tonino Delli Colli, collage di foto documentarie di New York utilizzato per la lavorazione di "C’era una volta in America".


C’era una volta in America, per esempio: la “cattedrale”, così la chiamavano i collaboratori di Leone – uscito nel 1984, tredici anni dopo Giù la testa, ma in gestazione da molti anni prima – è un oggetto narrativo delicato e complesso, in cui nulla è lasciato al caso. La documentazione di Tonino Delli Colli, direttore della fotografia, esposta in mostra lo racconta bene, dai collage di vecchie foto per ricostruire un panorama più ampio possibile alle minuziose scalette di lavorazione.

 

Più che l’autentico, Leone vuole l’esatto, l’aderenza alla realtà della New York dell’epoca, e, se la realtà non esiste più, alla sua idea originaria.

“Diciamola tutta: in un sogno del genere serve il realismo”, racconta a Simsolo. “È necessario che sia credibile! Ed è per questo che tutti i luoghi sono reali. Sono andato a cercarli. […] La stazione centrale di New York di quell’epoca non esiste più, è stata distrutta. Ma sapevo che si trattava solo di una replica della Gare du Nord di Parigi, e così ho girato quelle scene alla Gare du Nord di Parigi. Le stesse vetrate, le stesse colonne di cemento e di pietra: gli stessi materiali. Stessa cosa per l’hotel di Long Island, dove Noodles porta Deborah. Quel luogo non esisteva più, ma assomigliava molto ad alcuni palazzi di Venezia. […] Seguendo il mio intuito, ho girato all’interno di modelli originali. […] Tutto è perduto, dimenticato, distrutto… E io, per fare un film sui ricordi e sulla memoria, dovevo ritrovare delle vestigia della realtà”.

 

Elizabeth McGovern e Robert De Niro in “C’era una volta in America” (© Fondazione Cineteca di Bologna / Fondo Angelo Novi).


E, naturalmente, a essere ammobiliati, ricostruiti, ripensati non sono solo oggetti e luoghi, ma anche gli attori – impolverati e imperlati di sudore per la Trilogia del Dollaro, per esempio. (“Gli ho messo un cappello e un poncho per renderlo un po’ più grosso”, dice di Eastwood, e alla Cinémathèque si può toccare con mano questa trasformazione, con i volti dei suoi attori prima e dopo il “trattamento” Leone).

Dettagli, dettagli, dettagli, ma mai fini a loro stessi. Dettagli, ma sempre al servizio di un universo ben preciso. Il riverbero – quello che vediamo luccicare, e che istintivamente ci attira – di un pensiero per immagini, cui arriviamo soltanto un attimo dopo.

È grazie a questa chiave che quella che sarebbe potuta diventare una mostra sul dietro le quinte dei film di Leone diventa una mostra sull’immaginario di Leone, meglio ancora su Sergio Leone come grande macchina dell’immaginario, oltre che sulla sua presenza nel nostro immaginario collettivo, sulla sua mitologia. Per questo Leone stesso è il primo protagonista della mostra, a partire dalla grande sala che lo proclama direttamente “cittadino del cinema” per diritto di nascita, allevato fin da subito in una mangiatoia di celluloide, con una madre attrice del muto (Bice Waleran, al secolo Edvige Valcarenghi) e un padre regista (Vincenzo Leone, ma nei titoli di testa sempre Roberto Roberti).

Bambino prima e adolescente poi sempre sul set, a sbirciare dietro la macchina da presa del padre, il piccolo Leone non può che cercare la sua strada nel mondo del cinema, ed eccolo assistente alla regia, giovanissimo, per De Sica in Ladri di biciclette ma anche per Aldrich e Wise: “nel 1945 ero stato il più giovane assistente alla regia d’Italia”, ricorda, e per più di dieci anni continuerà a essere conteso per la sua capacità di dirigere attori e maestranze sul set, di esaudire le richieste più improbabili, e di stare all’occorrenza, e molto bene, anche dietro la macchina da presa.

 

Quando finalmente, nel 1964, si dedica al progetto del Magnifico straniero, che poi sarebbe diventato Per un pugno di dollari e il primo film della sua prima Trilogia (altro sintomo di un immaginario molto consapevole è questo raccontarsi in prospettiva, snodando il proprio percorso tappa per tappa) dietro l’obiettivo di Leone si sono già srotolati – e sedimentati – metri e metri di peplum, film d’avventura, in costume, e western.

La macchina dell’immaginario si mette in moto ancora prima della macchina da presa, e afferrata ben salda la storia – l’uomo tra due bande in guerra tra loro che finisce per sgominarle entrambe, proprio come l’Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni – dalla Sfida del samurai di Kurosawa prende la decisione di farne un western, ma a modo suo, sui generis e fuori dal genere. Niente folclore, niente indiani, ma Omero e la commedia dell’arte come riferimento. “Attraverso il filtro di Goldoni, avevo intenzione di lavorare sul gioco delle maschere”: e così procede, anche con l’aiuto dell’accompagnamento musicale di Ennio Morricone, i cui temi si rincorrono anche alla Cinémathèque, tra una sala e l’altra.

(In uno dei montaggi video più di successo della mostra, a giudicare dalla quantità di persone che ci sostava davanti, il personaggio Leone racconta Per un pugno di dollari tra una forchettata di fettuccine e l’altra, subito di seguito all’intervista in cui definisce Omero il primo e il più grande scrittore western, e Achille, Ettore e gli altri – sporchi, sudati e diritti al loro obiettivo – come i primi modelli del suo cinema).

 

Sergio Leone e Robert De Niro sul set di “C’era una volta in America” (© Fondazione Cineteca di Bologna).


Film dopo film, e sala dopo sala, l’immaginario Leone prende sempre più corpo e consapevolezza: si svelano riferimenti incrociati tra cinema e pittura, da Goya a De Chirico passando per Hopper, che mostrano una cultura visiva ampia e coraggiosa, per non dire sfrontata; esaurita la prima trilogia se ne apre una seconda, la Trilogia del tempo, con C’era una volta il West (1968), Giù la testa (1971) e C’era una volta in America (1984); la collaborazione con Morricone si fa così stretta e fondante da chiedergli di scrivere la colonna sonora a partire dal solo soggetto e da far recitare gli attori sul set con in diffusione la musica – e così è anche per il percorso in mostra, contrappuntato e costruito anche dall’accompagnamento musicale, che da una sala spesso si riverbera nelle altre. A completare l’immaginario, a saldare il racconto in una mitologia, la fusione esplicita tra aderenza al reale e anti-verismo che si fa sempre più forte.

 

Leone vuole un mondo credibile, verosimile, sporco e impolverato, ma anche grandemente simbolico: un mondo continuamente sull’orlo dell’anacronismo, in cui i massacri della guerra civile messicana possano farci tornare alla mente le Fosse Ardeatine, con la mediazione di Goya; un mondo in cui dietro ai Buoni, ai Brutti e ai Cattivi del genere possano intravedersi gli archetipi che si portano dietro. 

Alla Cinémathèque, un’intera parete di Il était une fois Sergio Leoneè dedicata a riassumere il culmine della scena finale, il celebre duello a tre, di Ilbuono, il brutto e il cattivo.

Di fronte alla parete, quando ho avuto occasione di visitare la mostra, a fine ottobre, un padre giocava con i tre figli, due maschi e una femmina, a fargli impersonare le espressioni di quelle facce enormi, tagliate così strette, che forse vedevano per la prima volta. C’era una volta Sergio Leone, ed ecco che c’è ancora.

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Il regista italiano in mostra a Parigi
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Nanni Moretti. Elogio della parzialità

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Per la proiezione di Santiago, Italia, la sala del cinema Palestrina di Milano è stracolma: un cartello all’ingresso dichiara sold out. Per fortuna, G. e io abbiamo prenotato i biglietti una settimana prima (il bigliettaio: «Faccia attenzione, ché i posti non sono numerati: chi primo arriva…»). Moretti non si è fatto attendere troppo, forse perché nella stessa sera ha in programma due altre presentazioni (al più prestigioso e noto cinema Anteo). Parte l’applauso di prammatica. Poi Moretti esordisce: «Questo è un film in cui vedrete che la Chiesa cattolica fa una gran bella figura».

 

La solita “finta” morettiana: dopo le dichiarazioni, le criticatissime interviste esclusive, i botta-e-risposta a distanza con il ministro degli interni (tutte cose che mi sono sforzato di non seguire, in attesa di vedere il film), ecco che lui si smarca parlando di cardinali e suore. Una boutade da mangiapreti pentito? In realtà, a Moretti preme più parlare di individui: «A volte le singole persone fanno la differenza».

 

Moretti al 36mo Torino Film Festival, in occasione della prima del film.

 

Ecco, la prima osservazione che si può fare a proposito di Santiago, Italia è il modo con cui l’esperienza collettiva (che ci fu, eccome!) viene messa fra parentesi. La dimensione del film è individuale. Anche visivamente: macchina fissa, testimonianze riprese a mezzo busto, ogni tanto con la voce di Moretti che fa capolino. Nient’altro che “teste parlanti”, come si dice in gergo. Uno stile essenziale, quieto, persino sottotono. I volti di oggi si alternano alle immagini girate ieri: un infuocato comizio di Salvador Allende (in cui, profeticamente, annuncia che lascerà la Moneda «soltanto crivellato di colpi»), il comunicato con cui Pinochet annuncia l’avvento del regime militare, l’interno dell’Estadio Nacional de Chile trasformato in campo di concentramento, alcuni soldati che danno fuoco a libri e volantini dei partiti d’opposizione, un’intervista al cardinale Raúl Silva Henríquez, il cui impegno attivo contro il regime gli costò la muta ostilità delle alte gerarchie vaticane, Wojtyła incluso. Un’impaginazione dei materiali quasi scolastica, dove le grandi masse sono perlopiù assenti. Santiago, Italia, che pure sciorina date e compara opinioni (i cileni erano davvero tutti con Allende? Il presidente è morto suicida o assassinato? Quanto ha contato l’apporto degli USA?), non vuole essere un affresco storico, né un film d’inchiesta.

 

Una scelta “intimista”, mai gridata ma ferma. Davanti a un ex-militare incarcerato, che invoca imparzialità «perché lei non è un giudice né un prete», Moretti, fino a quel momento quasi assente, passa davanti alla macchina da presa e si rivolge all’interprete fuori campo: «Io non sono imparziale, lo traduca». Qualcuno ha scritto che con Santiago, Italia Moretti ha voluto parlare soltanto “ai convertiti”. Ma se questo succede (semplificazioni e retorica incluse) è perché non rinuncia al punto di vista forte, dichiarato senza infingimenti né possibilità di equivoci. E in ciò, occorre dirlo, è lontano anni luce dagli equilibrismi e dall’equidistanza di molti progressisti nostrani: quel “partito della morale” che, come ricordava Rocco Ronchi su Doppiozero, preferisce parlare per universali tanto generici quanto vacui: la Giustizia, il Bene, l’Uomo… Moretti non lascia spazio agli universali. Il film vive tutto nel racconto dei testimoni, si tratti di vittime o di carnefici, con tutto quello che una scelta del genere può comportare, incluse le rimozioni e le deformazioni della memoria.

 

 

Santiago, Italia, e questa è un’altra osservazione che si può fare, è anche un film sul ricordo di quegli anni e su coloro che li hanno vissuti. «È una storia dei miei vent’anni», ha detto Moretti (classe 1953) durante la presentazione milanese, forse strizzando l’occhio ai coetanei in sala (l’impressione è che, oltre a G. e me, non fossero molti i venti-trentenni). Nostalgia? Nella prima parte del film, il regista domanda a uno dei testimoni come siano stati quegli anni di militanza a favore di Allende. L’intervistato si commuove, esita a rispondere. Poi dice semplicemente: «Belli». Non mi è parso di trovare autocommiserazione o rimpianto. Anzi, mi è sembrato che il tono generale del film fosse estremamente vitale, anche nel racconto delle difficoltà: lo sforzo di dover scavalcare il muro dell’ambasciata italiana per chiedere asilo politico (per il quale, raccontano, ci si allenava apposta); il disagio di ritrovarsi in duecento a condividere spazi comuni, letti, cucine; lo smarrimento all’arrivo in Italia. Anche quando si trova a raccontare, per bocca di chi le ha subite in prima persona, le vessazioni psicologiche e le torture del regime, il film non perde mai questa singolare leggerezza: una donna ricorda di aver chiesto a uno dei suoi aguzzini di smetterla di strapparle il nastro adesivo incollato sugli occhi, perché «magari mi ammazzano, ma almeno avrò ancora le ciglia!» (il critico di un noto quotidiano vicino al governo le ha definite, vai a capire perché, «evocazioni pulp al femminile»). Santiago, Italia parla di vita, non di morte.

 

L’aspetto più delicato del film (e anche quello per cui è stato più criticato) è il rapporto con l’oggi. I lavori di Moretti hanno sempre dialogato con il proprio presente, spesso in modo obliquo (La messa è finita, Caro diario), più raramente in modo diretto (con risultati variabili: La cosa, Aprile, Il caimano). Come in altre interviste di queste settimane, anche durante l’incontro con il pubblico milanese Moretti ha ribadito di aver girato un film sull’accoglienza quasi senza rendersene conto, aggiungendo che, a suo avviso, «in questi ultimi tempi, un gran pezzo della società italiana è andato in direzione opposta ai valori della solidarietà e della curiosità verso gli altri». Ovviamente non metto in dubbio la buona fede di Moretti quando insiste sul termine “accoglienza”, né quando sembra far proprio, sia pure “da sinistra”, il luogo comune sul “bravo italiano”, che accoglie e dà asilo ai rifugiati («Una bella storia italiana di cui, una volta tanto, andare orgogliosi»). Mi sembra però che, dalle testimonianze che il film colleziona, emerga un'altra parola: “antifascismo”.

 

È una parola che, di questi tempi, in tanti non amano sentire («È una parola che non si porta...», mi dice G.), forse perché troppo connotata rispetto al più generico ed ecumenico “accoglienza”. Eppure, è in nome di una profonda convinzione antifascista che i rifugiati cileni trovarono ospitalità in Italia; è in nome della comune lotta antifascista che tutti i partiti dell’epoca (dai repubblicani ai democristiani ai comunisti, come ricorda uno dei testimoni) decisero di non riconoscere il governo dittatoriale di Pinochet; ed è stato (anche) grazie a una diffusa cultura antifascista che i rifugiati godettero del supporto e della vicinanza della popolazione comune – e non solo nelle regioni “rosse” – nonostante quegli anni fossero tutt’altro che facili, anche nel nostro Paese. Santiago, Italia non è tanto una “bella storia”, quanto la storia di un “tessuto umano” unito, compatto, solidale. Ciò che aveva reso “belli” gli anni della militanza socialista, ricorda uno dei testimoni, era stata la capacità di agire collettivamente per spendersi a favore degli altri. Con “parzialità”, naturalmente: perlomeno nella misura in cui si è deciso di compiere una precisa scelta politica. Forse è di questo, sembra suggerire il film di Moretti, che dovremmo avere una grande nostalgia, oggi.

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Il pendolo di Zygmunt Bauman

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Modernità liquida, ovvero il mondo sottosopra

 

La canzone di Peter Gabriel Downside Up, dell'album Ovo, costituisce, secondo me, una sintesi appropriata dell'incessante lavoro di decostruzione e ricostruzione effettuato da Bauman in tutta la sua lunga avventura intellettuale e contiene in nuce le caratteristiche salienti della modernità liquida. Gabriel esprime nel testo il senso di straniamento al cospetto di un mondo che si trasforma fino a rovesciarsi: l'edificio più alto e l'impressione che stia crollando, un equilibrio interno che si polverizza, la percezione che tutto si stia muovendo attorno, uno scenario di cose stabili e solide che si sfilacciano, si frantumano, mentre qualunque cosa su cui si poteva contare svanisce. E mentre il corpo si svuota del suo peso e viene attratto dal cielo, scivolando nell'ignoto, chi era straniero ci appare familiare, mentre quel che davamo per acquisito assume un aspetto minaccioso, e l'unica costante di cui possiamo essere certi è un'accelerazione inarrestabile del cambiamento. Vi ritrovo l'eco delle parole di Bodei nel suo saggio sul sociologo da Bauman più amato, Georg Simmel: “la meraviglia che si avverte dinanzi al realizzarsi di possibilità ritenute remote e il fascino che promana dall'osservare come, con doppio movimento, i nostri interessi e desideri, in precedenza emarginati, si spostano verso il centro, proprio mentre la nostra vita abituale retrocede verso la periferia” (Remo Bodei, Destini personali. L'età della colonizzazione delle coscienze, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 174.). 

 

Ho sempre considerato Peter Gabriel un artista “sociologico”, oltreché uno splendido artista tout court, perché trascorreva regolarmente alcuni mesi ogni anno a esplorare i talenti musicali dell'Africa e dell'Oriente: imparava da loro (basta pensare all'ineguagliabile ricchezza percussiva dei suoi brani) e li strappava all'oblio facendoli conoscere al ricco Occidente. Era vorace, oltreché creativo. Si applicava di buona lena per poi mettere in discussione ciò che sarebbe potuto sembrare intangibile e incontestabile. Allo stesso modo, Bauman studiava in continuazione, era assetato di conoscenza, leggeva almeno cento libri all'anno e poi, indugiando sugli aspetti più popolari che altri sociologi trascurano, osservando da vicino le persone, fermandosi a parlare con loro, annusando i cambiamenti che erano sotto gli occhi benché in boccio o in filigrana, scopriva i fili più decisivi e meno visibili della vita in cui era immerso.

Provo ammirazione per l'autore inglese Mark Fisher e per il suo libro Realismo capitalista (Milano, Nero, 2018). Questo versatile filosofo che si occupava di punk (il suo blog era K-Punk) e di cinematografia allo scopo di gettare luce sulla contemporaneità, era convinto che quel che i pazienti ci portano in analisi non sia limitato a un disagio squisitamente individuale ma dipenda dallo Zeitgeist, dallo spirito del tempo, da qualcosa di più vasto, diffuso, capillare, che investe l'insieme delle persone: un paradigma individualizzato, cinico, narcisista, un destino comune gravido di tristezza, cupezza, preoccupazione livorosa, risentimento canalizzato indebitamente verso il colpevole sbagliato. Non è un caso che le patologie psichiche più diffuse siano oggi gli attacchi di panico e le depressioni, come era stato antivisto da Deleuze e Guattari in Capitalismo e schizofrenia. Mark Fisher soffriva di depressione e si tolse la vita l'anno scorso, non aveva ancora cinquant'anni ed era troppo fragile per resistere all'onda d'urto di questo tempo. Ma le parole che ci ha lasciato sono di speranza e di resistenza.

Bauman invece, seppur sottile come un giunco sormontato dal ciuffo a sua volta esile di capelli bianchissimi, era fortissimo. Aveva compreso fin dalla più tenera età l'irriducibile prismaticità del mondo, l'incancellabilità del dolore, la vulnerabilità della condizione umana. 

 

Dalla modernità liquida alla retrotopia

 

A me preme in questa sede smentire i detrattori – spesso fintamente amabili, spesso sotto mentite spoglie – che hanno cercato di ridurre Bauman al conio di “modernità liquida”, ridotto a uno slogan e ripreso da chicchessia negli adattamenti più svariati, che è solo un tassello della sua grande costruzione. Mi è capitato con sgomento di sentir dire: “Ormai Bauman ha fatto il suo tempo, ormai il mondo si sta solidificando nuovamente, rinascono gli Stati nazione più forti di prima, gli arroccamenti più strenui e severi che mai”, dimenticando che questo nuovo assetto parziale del mondo Bauman ha iniziato a illustrarlo da anni e a preconizzarlo ancor prima che si manifestasse quando insisteva sulla fase di interregno che stiamo vivendo e sul pendolo che oscilla fra libertà e sicurezza, due necessità umane che non possono trovare entrambe piena soddisfazione. Si assiste così a un desiderio sempre più intenso di libertà allorché viene garantita la sicurezza ma viene impedita la libera espressione di sé, e senza scomodare l'ancien régime basta ricordare il pugno di ferro del padre o della scuola prima del Sessantotto per averne la percezione e la testimonianza. Una volta ottenuta una libertà assolutamente inedita nei costumi e nelle scelte come quella di cui godiamo oggi, non possiamo però non accorgerci che alla celebrazione dell'individuo “libero” si accompagna la sua sempre più estrema fragilità e l'erosione della sua capacità di coalizzarsi, di solidarizzare, di fare gruppo o partito anziché sciame, di riuscire a dare delle risposte sociali che salvino la cittadinanza oltreché il singolo individuo, che garantiscano welfare e propositività e non solo la facoltà di continuare a cambiare identità e a ubriacarsi di novità. Consideriamo l'indebolimento della situazione individuale, tanto ingigantita nelle potenzialità e nella libertà d'azione quanto scompaginata, angosciata e deprivata nei conseguimenti oggettivamente negativi della ricaduta sociale. È infatti avvenuta una retrocessione da una classe media solida, florida e stabile a uno scivolare incessante in una sottoclasse pauperizzata, privata del lavoro, confluita nella nuova legione tremante che ospita in sé la classe media e il proletariato: questa nuova classe ha nome “precariato”. In tutto questo si manifesta “la nuova inversione di rotta del pendolo della mentalità e degli atteggiamenti pubblici: le speranze di miglioramento, a suo tempo riposte in un futuro incerto e palesemente inaffidabile, sono state nuovamente reinvestite nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità” (Zygmunt Bauman, Retrotopia, Roma-Bari, Laterza, 2018). La parola decisiva è “nostalgia”, definita da Svetlana Boym “un sentimento di perdita e spaesamento, ma anche una storia d'amore con la propria fantasia”, la “promessa di ricostruire una casa ideale” confondendo quella vera con quella immaginaria, una versione “restauratrice” della nostalgia tipica dei “risvegli nazionali e nazionalistici in corso in tutto il mondo, dediti alla mitizzazione della storia in chiave anti-moderna attraverso il recupero di simboli e miti nazionali” (Svetlana Boym, The Future of Nostalgia, New York, Basic Books, 2001). Purtroppo però questa nostalgia è illusoria e rischia di diventare una trappola per topi.

 

C'era una sorta di prefigurazione della “nostalgia” in un libro del 2007 in cui Bauman parlava dell'essere blasé di Simmel a cui “tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco”, al cui sguardo le cose “galleggiano con l'inarrestabile peso specifico nell'inarrestabile corrente del denaro” (Consumo, dunque sono, Roma-Bari, Laterza, 2008)” e introduceva il concetto di “malinconia”: “Nel linguaggio di Simmel, quell'idea rappresenta la transitorietà intrinseca e la deliberata irrilevanza degli oggetti che vagano, affondano e riemergono  nella marea crescente degli stimoli. Tale irrilevanza si traduce, nel codice di comportamento dei consumatori, in ingordigia indiscriminata e onnivora: una forma radicale ed estrema di strategia esistenziale da ultima spiaggia che scommette su più tavoli”.

Accanto a questa “malinconia” che perdura, la nostalgia assume però un significato differente, un anelito a una riappropriazione dell'identità perduta, dell'Heimat smarrito, del riconoscimento di sé grazie a un'adesione rassicurante e salvifica. “La gente non vota necessariamente per il proprio interesse [...]. A volte può identificarsi con il proprio interesse, può succedere [...]. Ma tutti votano per la propria identità”. 

 

 

La nostalgia così come viene declinata negli Stati-nazione che più se ne imbevono, soprattutto la Russia di Putin, è l'utopia dell'età dell'oro di cui ha parlato Ágnes Heller nel saggio che abbiamo scritto insieme. “L'età dell'oro era tutto quel che l'età presente non era. Era l'incarnazione della soddisfazione di tutti i bisogni, di tutti i desideri. Un mondo libero da ogni male, odio, conflitti, dalla morte definitiva, dagli espedienti, la gelosia, l'inimicizia, la fame. Un mondo in cui gli umani vivevano in armonia sia con la natura sia fra di loro. In cui tutti gli alberi offrivano dolci frutti per ciascuno, bastava coglierli. In cui gli uomini e le donne non si vestivano in modo artificioso, in cui cantavano, danzavano e si amavano nudi” (Ágnes Heller e Riccardo Mazzeo, Il vento e il vortice. Utopie, distopie, storia e limiti dell'immaginazione, Trento, Erickson, 2016). Il problema è che Le metamorfosi di Ovidio sono e resteranno vive e pulsanti come utopia rivolta a un passato mitico e mai esistito, insieme alle utopie rivolte al futuro che al momento sono azzerate perché oggigiorno non si riesce a immaginare il futuro se non in termini distopici.

Un'altra declinazione della nostalgia è quella menzionata a proposito del turismo nell'ultimo avvincente libro di Marco D'Eramo, dove la si descrive come una “malattia sociale” che “ha contagiato la modernità contemporanea al propagarsi del turismo. Nostalgia dell'autentico in un mondo inautentico, nostalgia del non alienato in un'epoca alienata. […] L'antitesi tra viaggiatore e turista è omologa a quella tra esperienza autentica e inautentica; tra comunità e società; tra solidarietà organica e meccanica” (Marco D'Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull'età del turismo, Milano, Feltrinelli, 2017). D'Eramo in questa sede in realtà intesse un panegirico dell'alienazione, di quell'alienazione “necessaria” “in cui il soggetto si realizza perdendosi, diviene altro per divenire la verità di se stesso”. Con coraggio coglie l'abbaglio di Hegel e soprattutto di Marx mostrando che in realtà l'alienazione è imprescindibile dal raggiungimento di un risultato eccellente quanto ambito, con la differenza che l'alienazione positiva coincide con il perseguimento del proprio desiderio, della propria vocazione, mentre Marx parlava dell'alienazione decisa dai datori di lavoro che assoggettavano l'operaio alla ripetizione dello stesso compito senza un obiettivo esorbitante dal mero pagamento della performance prestata: “Ovviamente tra l'alienazione della pianista che ripete ossessivamente le scale a lunghezza di giornate, mesi e anni, e quella dell'operaio nella catena di montaggio che avvita sempre la stessa vite c'è un abisso, anche se la ripetitività, la specializzazione estrema, è sempre la stessa. Ma è il baratro che separa l'alienazione scelta da quella subita”. Ed è proprio questo baratro che caratterizza l'alienazione della nostalgia delle masse eterodirette che abboccano alle lusinghe dei grandi pifferai alla Le Pen e alla Salvini, masse che si illudono di poter fare ritorno all'età dell'oro di quando non c'erano immigrati messaggeri di sventura nei nostri lidi, di quando tutto era perfettamente ordinato, e scandito, e salubre. 

 

Lo Stato-nazione di un tempo non esiste più, è un Leviatano difettoso e inane. In proposito, Bauman scrive: “Un Leviatano dai confini porosi e facilmente permeabili non può essere che una contraddizione in termini. Ma tale porosità e permeabilità dei confini, ormai, non è più solo un'anomalia locale contingente, ma la norma – o quasi – del nuovo (dis)ordine mondiale generato dalla progressiva globalizzazione del potere e, insieme, dal fatto che la politica conserva ancora una dimensione locale. […] La politica […] ha perso i denti che le avrebbero consentito di afferrare e maciullare forze turbolente e recalcitranti, mentre le protesi che avrebbero dovuto sostituirli si sono dimostrate deboli e facili a rompersi” (Zygmunt Bauman, Retrotopia, op. cit.). Trump, che aveva annunciato il suo sostanziale disimpegno in politica estera allo scopo di salvaguardare la sua “America First”, ha venduto 110 miliardi di dollari di armi all'Arabia Saudita. E, a proposito del pragmatismo anglosassone che dovrebbe proteggerci dalle derive del mondo, Bauman scrive: “Viviamo in un mondo in cui il pragmatismo è il massimo della razionalità: Un mondo dove 'posso, dunque devo e voglio'. Un mondo in cui la 'razionalità strumentale' di Max Weber è stata capovolta: anziché essere i fini alla ricerca dei mezzi più efficaci, ormai sono i mezzi a cercare (e di solito a trovare) le applicazioni appropriate”.

Vale la pena notare che le analogie fra il libro di D'Eramo e l'opus baumaniano sono molteplici giacché Bauman aveva più volte apparentato la figura dell'uomo della modernità liquida al turista, che fa incetta non solo di oggetti ma anche di “esperienze”, in un'ansia di inseguimento del capitale simbolico della classe immediatamente al di sopra della propria nei termini descritti da Pierre Bourdieu: se nel passato (in particolare dal Settecento) i figli dell'aristocrazia dovevano effettuare il grand tour, visitando con un precettore già edotto i luoghi che dovevano essere visti, dall'Ottocento sono i borghesi a inseguire i nobili andando a visitare (freneticamente) i luoghi d'elezione, e dal Novecento perfino gli operai, con particolare impulso dagli anni Novanta grazie ai voli low cost, si assoggettano a questa ingiunzione. Ricordiamo però che un conseguimento un tempo d'élite, una volta diventato di massa, viene svalorizzato, come la maturità classica che prima era un vessillo da tesaurizzare mentre oggigiorno neppure una laurea assicura un posto di lavoro decoroso.

 

D'Eramo comunque affronta anche un altro dei topoi baumaniani, il rovescio oscuro del turista cioè il migrante: “Un fantasma si aggira, evitato da tutti i discorsi sul turismo. E questo fantasma è il migrante. Non solo perché in prima istanza migrante e turista sono le due facce complementari, simmetriche del viaggio moderno: il turista è lo straniero che l'autoctono serve, mentre il migrante è lo straniero che viene a servire l'autoctono” (Marco D'Eramo, Il selfie del mondo, op. cit.). È senz'altro vero che l'Occidente sfrutta la manodopera a bassissimo costo degli immigrati ridotti spesso al ruolo di schiavi, e questa è una motivazione che viene addotta da taluni contrari all'approdo dei migranti nelle nostre terre. E però non si può dimenticare che proprio l'Occidente scatena le guerre per scopi economici in territori remoti da cui estrae materie prime, tesori che poi mette in viaggio per i nostri lidi, consentendo il viaggio alle merci ma non alle persone che si ritrovano senza risorse perché l'Uomo Bianco se le è portate via. Siamo al paradosso per cui si consente di viaggiare soltanto alle merci e a quegli individui del Sud del mondo che possono esserci utili: perché sono ricchi, o particolarmente intelligenti, o giovani e belli, mentre a tutti gli altri si intima di restare dove si trovano, fra conflitti e carestie.

 

Il ritorno a Hobbes, alle tribù, alla disuguaglianza, al grembo materno

 

A un certo punto della Storia Hobbes identificò nel Leviatano l'unica possibilità di sottrarsi all'homo homini lupus, alla guerra di tutti contro tutti: lo Stato. Come abbiamo visto, però, lo Stato un tempo solerte, provvido, garante, ha oggi abbandonato i suoi sudditi ciascuno al proprio destino individualizzato, precipitandoli in una condizione di incertezza, paura, angoscia, impotenza. Le due modalità più tipiche di reagire a questo stato d'animo sono la depressione e la rabbia, il passaggio all'atto: “La morbosa forza d'attrazione esercitata dalla violenza sta nell'offrire un temporaneo sollievo al proprio umiliante senso d'inferiorità (debolezza, sventura, indolenza, irrilevanza)” (Zygmunt Bauman, Retrotopia, op. cit.). Ogni settimana in Italia leggiamo delle aggressioni di insegnanti da parte di genitori che li puniscono per essere stati ingiusti o “cattivi” con i loro figli, o di pazienti o loro familiari ai danni di medici, con una riproposizione del mondo che esisteva prima di Hobbes in cui ciascuno di noi è in guerra con tutti gli altri, in cui ci si coalizza solo temporaneamente, e “mentre gli americani non hanno ancora capito da dove piovono i colpi e chi è a infliggerli, i palestinesi hanno almeno la fortuna di poter ricondurre le loro sofferenze a un unico colpevole, denominatore comune di tutti i loro guai: l'occupazione israeliana”. 

Assistiamo alla rinascita delle tribù proprio in quanto la protezione dello Stato è venuta a mancare, e Bauman menziona in proposito Luc Boltanski a proposito del modello tribale francese caratterizzato da anticapitalismo, moralismo e xenofobia, sottolineando l'avversione di questi neoconservatori per l'État-providence troppo benevolo con gli stranieri.

La voragine di disuguaglianza che deriva dalla cancellazione progressiva di posti di lavoro trova in Bauman un sostenitore deciso della proposta avanzata dal giovane brillante Rutger Bregman del reddito universale di base, ovvero di dare direttamente il denaro a chi ne ha bisogno, poiché “i geni non si possono cancellare, ma la povertà sì”. 

 

L'ultimo disperato tentativo di “ritorno” è quello al grembo materno. Di fronte a tutti gli stimoli incessanti, le pressioni, le ingiunzioni prestazionali che si ricevono, aumenta la propensione a ricercare un proprio nirvana: “Nel buddhismo – da cui il termine deriva – 'nirvana' significa l'annullamento di aspirazioni, desideri, voglie e smanie, ma anche seccature, fastidi, assilli e tormenti: anzi, indica lo 'spegnersi' (come una candela) di tutti gli stimoli e le passioni, positivi o negativi, piacevoli o dolorosi, gratificanti o sconfortanti”. A parte l'aumento esponenziale di casi di anoressia, che consiste in un arroccamento, in una cementificazione rispetto a tutte le sollecitazioni da parte dell'esterno, è in atto un incremento significativo di persone che scelgono l'astinenza sessuale come barriera all'irrompere della sessualità tumultuosa, proteiforme e onnipresente di questo tempo.

Bauman conclude: “I fenomeni del 'ritorno alle tribù' e del 'ritorno al grembo materno'– due grandi affluenti del fiume in piena del 'ritorno a Hobbes'– sgorgano sostanzialmente dalla stessa fonte: dal terrore del futuro, incorporato nell'imprevedibile, esasperante e incerto presente. E si perdono nello stesso dedalo di vicoli ciechi. Non penso ci siano molte speranze di prosciugarli, a meno di riuscire a bloccare la sorgente da cui nascono, ossia di convincere, o costringere, l'Angelus Novus – l'angelo della storia – a voltarsi di nuovo”.

 

Questo saggio è la versione ridotta dell’Introduzione a AA: VV. “Zygmunt Bauman. I cancelli dell’acqua”, a cura di Riccardo Mazzeo, Franco Angeli Editore, 2018

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Il pensiero tragico di Thomas Ligotti

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Di Thomas Ligotti si sa poco, quasi niente: qualche piccola, sfocata fotografia in bianco e nero su Internet; qualche rara intervista e qualche ancor più raro aneddoto; un (probabile) autoritratto scorciato nel faceto raccontino L’interminabile soggiorno degli amici di casa Usher: «È malatissimo. I suoi sensi e il suo sistema nervoso patologicamente sensibili sopportano soltanto i rumori più lievi, la luce più bassa e una routine di generica immobilità». Il suo nome è lampeggiato nelle cronache pop – certo non per sua responsabilità – per via dell’accusa di plagio che i suoi devoti ammiratori hanno lanciato contro Nic Pizzolatto, autore della serie cult True Detective. Mike Davis ha infatti sostenuto, fonti alla mano, che Pizzolatto avesse plagiato interi brani di La cospirazione contro la razza umana di Ligotti senza citarne la fonte.

 

Il personaggio di Rust Cohle, sosteneva Davis, esprime le stesse idee pressoché nella stessa forma. La HBO ha replicato seccata che la tradizione nichilista non è patrimonio esclusivo di questo o quell’autore, e la cosa è (anche piuttosto rapidamente) finita lì: Ligotti, premiato (o punito) da questo sussulto di notorietà, ha orecchiato la cosa da lontano, ovviamente senza mai intervenire. Thomas Ligotti, infatti, non parla in pubblico, non presenta i suoi libri, non riceve premi, rilascia pochissime interviste (rigorosamente via email), non si fa fotografare. Ha insomma deciso di restare sommerso. Vero e proprio autore di culto, specialmente nel mondo dell’underground (anche italiano), la vera notorietà non gli è stata ancora concessa: forse per l’oggettiva difficoltà della sua opera, spesso astratta da una logica narrativa tradizionale; forse per la sua reticenza verso la forma-romanzo a favore del racconto breve; forse più semplicemente perché, come scrive lui stesso, «il pessimismo senza compromessi manca di attrattiva per il pubblico». Tuttavia la sua presenza nella letteratura contemporanea è pervasiva, tenace e trasversale, perennemente inclassificabile: da un lato sembrerebbe uno di quegli “scrittori del massacro”, prevalentemente est europei, come Cartarescu o Krasznahorkai, e dall’altro si presenta come un alfiere della cultura urban, ascrivibile alle più sfrenate scorribande weird; da un lato si mostra come un tenace propugnatore della filosofia pessimista e antinatalista sulla linea di Peter Zapffe ed Eugene Thacker, dall’altro appare come una figura sciamanica e invisibile, un mistico invisibile e negativo, una sorta di Cormac McCarthy infero. Ma soprattutto, Thomas Ligotti è uno scrittore horror, o almeno così si suole definirlo; lui stesso, parlando di sé, parla di «letteratura del soprannaturale». Ma che horror è quello di Ligotti, ed è corretto definirlo tale? 

 

 

Ci aiuta a capirlo l’ultimo suo libretto appena uscito con Il Saggiatore (editore italiano dello scrittore), La straziante resurrezione di Victor Frankestein, una breve raccolta di minuscoli rifacimenti di grandi incipit della letteratura horror e gothic (ma non solo) – un gioco forse ironicamente metaletterario da cui capiamo molte cose. Si va da Dracula di Bram Stoker a Frankestein di Mary Shelley, da L’isola del dottor Moreau di Herbert George Wells a Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyde di Stevenson, da Giro di vite di Henry James a Ligeia di Edgar Allan Poe, passando per invenzioni fulminee e straordinarie, come alcuni rifacimenti da Lovecraft e da Kafka. Ma Ligotti compie l’operazione inversa a quella che ci si aspetterebbe in un libro del genere: non chiarisce, non esplica, non “rende contemporaneo”: al contrario oscura, intorbidisce, confonde, cercando di conferire a questi ironici sprazzi la nera perfezione di una metafora fuori dal tempo, una scheggia impazzita all’interno di un nero labirinto. A Ligotti non interessa la storia (intesa come plot) né la Storia: i suoi racconti avvengono in uno spazio virtuale e metafisico, le sue figure sono cavie da laboratorio priva di qualsiasi personalità psicologicamente connotata. Non siamo davanti a uno scrittore horror come possono esserlo King o Koontz, formidabili e muscolari narratori di un’epica rovesciata che resta però sempre epica, cronisti di una polarità del Male e del Bene in cui sappiamo ancora riconoscerci, dove è riconoscibile un ‘noi’ e un ‘loro’, un ‘qui’ e un ‘oltre’, un ‘di qua’ e un ‘di là’ dal naturale.

 

Con Ligotti siamo nella scia di Poe e di Lovecraft, ma anche di Kafka e di Beckett: non c’è narrazione ma situazione, non ci sono personaggi ma figure, non c’è evento ma teatro. Rappresentazione dell’indicibile, sospensione dalla cronologia – il tentativo, insomma, di un’oscura mitologia, una forma di nera leggenda contemporanea. Uno dei suoi libri più potenti, Teatro grottesco, altro non significa che questo: lo scatenamento che rivela la realtà a se stessa. Il mondo infero è questo che abitiamo, e nessun rito, nessuna separazione, nessuna regolamentazione di alterità lo separa dal caos. Il precipizio del mondo è un’insensatezza non della mente, ma della materia stessa. Ciò che chiamiamo “orrore” non è che la manifestazione di questo squilibrio ontologico, l’estrema applicazione di una disperante assenza di principio, così come la tempesta è la dimostrazione del movimento elementare. 

 

Ligotti è uno scrittore eminentemente filosofico: rigoroso costruttore di un antipensiero, prosecutore e punto di convergenza di una filosofia spudoratamente e violentemente nichilistica. Si veda La cospirazione contro la razza umana: un saggio poderoso e lucidissimo, dove Ligotti espone molte direttrici teoriche del proprio sentire. Direttrici che hanno, ognuna, una precisa tradizione: nichilismo, pessimismo, antinatalismo, in una linea che dai classici Schopenauer, Nietzsche, Unamuno porta ai più vicini e meno conosciuti Julius Bahnsen, Philipp Mainländer, Richard Double, William Brashear. Ligotti possiede, a differenza di molti anche grandi scrittori contemporanei, un forte impianto teorico; non lo nasconde e anzi lo esibisce, costruendo a sua volta figure di straordinaria forza allegorica. La sua più importante “figura filosofica” è senza dubbio la Marionetta: metafora dell’uomo convinto di essere qualcuno, d’interpretare un ruolo, di godere del proprio libero arbitrio, quando è invece abitato solo da un cieco flusso vitale, che di fatto lo vive, e lo parla: 

 

«Attraverso il profilattico dell’autoinganno, teniamo nascosto quello che non vogliamo finisca nelle nostre teste, come se rivelassimo a noi stessi un segreto troppo terribile da conoscere. Le nostre vite abbondano di domande sconcertanti a cui qualcuno si sforza di dare una risposta, mentre il resto di noi lascia correre. Scimmie nude o angeli incarnati, possiamo credere di essere le une o gli altri, ma non marionette umane. Crediamo di essere noi stessi a far funzionare tutto, e chiunque contraddica questa convinzione viene accusato di essere matto o di volerci immergere nella macchinazione dell’orrore. Come prendere sul serio un marionettista che è passato al nemico?» 

 

Ligotti vuole dar voce a un “pensiero intollerabile”: l’assurdità, non frivola né chiacchierata, di tutta l’esistenza umana: 

 

«L’insensatezza della natura, l’insensatezza di Dio. Quante insensatezze possiamo sopportare in una vita? C’è possibilità di fuga? No, non c’è. Siamo condannati a insensatezze di tutti i generi: l’insensatezza del dolore, l’insensatezza dell’incubo, l’insensatezza del sudore e dello schiavismo, e altre forme e dimensioni di insensatezza insopportabile. Ci viene servita sul vassoio, e dobbiamo mangiarla, o affrontare l’insensatezza della morte». 

 

È però nella narrativa che tutto questo grande pensiero tragico si fa apotesi, inno nero, poema genetico, icona negativa, parabola rovesciata. Una costruzione narrativa la cui lingua stessa, barocca e sinfonica, roboante e feroce, costruisce una rigorosa resistenza sonora ad ogni convenzione vitale: «Ciò che è sinistro o terribile», scrive in Nottuario, «non tradisce mai: lo stato al quale conduce è sempre l’illuminazione. E soltanto questa condizione di brutale consapevolezza ci permette di cogliere appieno il mondo». In questo senso, il soprannaturale non è – come, appunto, in King o Koontz – l’innaturale che irrompe nel naturale e lo sconvolge, ma la scucitura stessa della natura, la materia della realtà che mostra il suo vero volto, l’anello che non tiene, l’effrazione in cui si mostra l’orrenda insensatezza delle cose: «…il perturbante paradosso, l’orrore visto di sfuggita. Un piccolo pezzo del nostro mondo è stato scorticato via e sotto c’è una desolazione cigolante, un luna-park dove tutte le giostre sono in movimento ma nessun visitatore occupa i loro sedili. Non siamo presenti nel mondo che abbiamo creato per noi stessi». È l’idea freudiana del Perturbante («Das Unheimliche») portata fino alle estreme conseguenze metafisiche, il ribaltamento del codice come svelamento del suo segreto: 

 

«Il Qualcosa ammette o rende necessaria l’esperienza del perturbamento. Che sia il risultato di un’evoluzione della natura o sia fabbricato dalle dita e dal pollice opponibile dell’umanità, che si tratti di qualcosa di animato o inanimato, questo Qualcosa può diventare per noi perturbante, una contravvenzione ai nostri convincimenti riguardi a ciò che deve o non deve essere. (…) Il perturbante genera una sensazione di erroneità. Traspira una violazione che allarma l’autorità interiore riguardo a come una certa cosa dovrebbe accadere, esistere o comportarsi. È inflitto un oltraggio all’idea che abbiamo del mondo o di noi stessi»

 

L’orrore secondo Ligotti è tale non in quanto soprannaturale, ma proprio perché non lo è: l’orrore è nelle cose, nella fibra intollerabile dell’essere, del cui volto non riusciamo nemmeno a sostenere lo sguardo. Ciò che non si può dire, lo si rivela cum figuris: il suo «teatro grottesco» è proprio questo: un palcoscenico dell’inaccettabile, lo spettacolo abbacinante del Terribile. Come per Hoffmann, per Lovecraft, per Kafka, la narrativa di Ligotti non è descrizione o convenzione: ma visione, luce crudele, rivelazione.  

 

Thomas Ligotti è uno scrittore immenso e impellente. Quasi in nessun luogo come nella sua opera troviamo la forza, la tenacia oltranzistica, la necessità eversiva di resistere all’ottimismo ottuso e sfrenato che ci assedia, il vangelo nevrotizzante e totalitario del nostro tempo. A questa forma di sclerosi permanente, di assordanti promesse di «magnifiche sorti e progressive», Ligotti oppone, leopardianamente, la vigorosa salute di un pensiero negativo, rivelandosi come uno dei pochi, veri autori tragici dei nostri giorni. 

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“Overload”: Forster Wallace nell’acquario mediatico

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Succede a tutti quanti. È più che normale: naturale. Guardare e non vedere, ascoltare e non sentire. Il corpo da una parte, la testa da un’altra. Distratta da un accidente del caso. Un pensiero, un ricordo, una sensazione improvvisa. Varchi su momenti o circostanze diverse da ora. Altrove, senza muoversi di un passo.

Andare e tornare in sé: dura lo spazio di un lampo. O meglio, durava. Perché con Internet e i Social lo sdoppiamento tra qui/adesso e ovunque/sempre è diventato una costante di vita giornaliera. Secondo l’inchiesta di PresaDiretta (Rai3) Iperconnessi, quotidianamente ci scambiamo 150 miliardi di email e 42 miliardi di messaggi su Whatsapp, che uno su tre controlla ogni 5 minuti. Tocchiamo il cellulare 2.617 volte al giorno. La linea del tempo non è più continua. È spezzata. Interrotta.

Siamo di fronte a un sovraccarico di possibilità di switchare, di saltare da un pezzo di informazione all’altro, con conseguente calo dell’attenzione a favore della rapidità e distanza del salto. In Overload, vincitore del Best of Be festival Tour 2016 e candidato ai premi Ubu e Rete Critica quale miglior spettacolo dell’anno, Sotterraneo fa scontrare questo stato avanzato di cose contro le scissioni dell’io di uno scrittore come David Foster Wallace, definito dal “New York Times” nel 2008, all’indomani del suicidio, un «Émile Zola post-millennio». In scena ci sono Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, Giulio Santolini. La scrittura è di Daniele Villa. L’entusiasmo attorno al lavoro è tale che dove l’abbiamo visto, al Teatro Cantiere Florida di Firenze, hanno addirittura aggiunto una data, l’8 dicembre, all’unica prevista, il 7, dato l’immediato sold out.

 

Il palcoscenico spoglio è punteggiato a sinistra da un acquario con dei pesci rossi e al centro da un’asta con microfono. Il contesto, da un lato, e il pretesto, dall’altro. In quella teca “nuotano” serie e concatenamento di idee e prospettive di cui si compone Overload, da cui scaturisce l’intera visione e intenzione dei Sotterraneo. Non per niente le luci di Marco Santambrogio, prima dell’inizio, ruotano quasi fossimo sott’acqua pure noi. Il microfono, invece, è lo strumento con cui rappresentano il motivo guida per cui sono in scena: dare voce all’autore di Infinite Jest (uscito in Italia per Einaudi), ai suoi multipli piani di esperienza e sistemi di ragionamento.

Ci spiega Villa: «C’è un saccheggio molto diversificato fatto di frasi e parole riassemblate da sorgenti diverse. Abbiamo riportato diverse riflessioni che Forster Wallace ha fatto in situazioni live (interviste, conferenze, incontri) e che si rintracciano su YouTube. Abbiamo riscritto a modo nostro, ma rimanendo fedeli ai fatti, raccontati nella biografia autorizzata Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi di D.T. Max (Einaudi). Infine, abbiamo parlato in modo diffuso e molto personale di alcune delle sue opere più importati, come InfiniteJest e Il re pallido, romanzo postumo e incompiuto (sempre Einaudi)».

 

Ph. Carolina Farina.


Nel teatro-gioco della compagnia fiorentina, che, per certi versi, fa proprie la non linearità e interattività del librogame, frequentato ultimamente in Il giro del mondo in 80 giorni, l’apparenza (re)inventa il vero e il reale (ri)afferma il falso.

Claudio Cirri, dritto in piedi davanti a noi, impareggiabile nella sua presenza piena e insieme sospesa, nonè David Foster Wallace. Lo scandisce chiaramente, una volta raggiunto il microfono. Basta già questo: parla italiano. L’americano non conosceva neanche una parola nella nostra lingua. Cirri, piuttosto, fa Foster Wallace. Presenta i dettagli che compongono le informazioni su di lui. Li elenca con fare disincantato, tra l’identikit e il quiz. È un autore americano. Porta gli occhiali. Ha scritto di tennis. Con la sua immagine (i costumi sono di Laura Dondoli) rivela altrettanto. Scarponi, calzini bianchi con righe, pantaloni corti, la t-shirt del Pomona College, a Claremont, in California, dove insegnava Scrittura creativa e letteratura inglese. E, soprattutto, l’iconica bandana. La indossa, tiene subito a precisare, per il sudore e non perché gli scoppiano i pensieri.

 

Viene riconosciuto quasi subito. L’attore e lo scrittore sono simili, in qualche modo affini. Lo scarto di differenza tra la copia e l’originale è perfettamente conforme a una conoscenza non sistematica, ma costruita, appunto, per frammenti. La parte è il nostro tutto. L’interpretazione è la realtà. Ed è tanto più evidente nel formidabile uso che i Sotterraneo fanno dello specchio del teatro, in cui l’essere rimbalza di continuo nel non essere, e viceversa, quanto la pallina da tennis nella mano di Claudio Cirri. Allora, anche se questo David Foster Wallace non è vero, per noi è come se lo fosse. Anzi: lo è.

Allo stesso modo, poiché l’acqua è reale i pesci sembrano vivi, eppure non lo sono affatto. Sono finti. Giocattoli. Overload comincia con loro alla stregua della storiella apologetica, citata espressamente sul palco, che apre il discorso di Foster Wallace ai neolaureati del Kenyon College, a Gambier, Ohio, il 21 maggio 2005. Si tratta di Kenyon College And Me, noto come This Is Water (Questa è l’acqua, presente nell’omonima raccolta, ancora per Einaudi, fonte di altrettanta ispirazione per Roberta cade in trappola di Cuocolo/Bosetti): «Ci sono questi due giovani pesci che nuotano e incontrano un pesce più vecchio che nuota in senso contrario e fa loro un cenno, dicendo: “Salve ragazzi, com’è l’acqua?” e i due giovani pesci continuano a nuotare per un po’ e alla fine uno di loro guarda l’altro e fa: “Che diavolo è l’acqua?”».

 

Ph. Filipe Ferreira.


L’«acqua» è la realtà più ovvia e per questo più difficile da vedere, dal momento che ci siamo immersi fin dalla nascita. Per lo scrittore, è la consapevolezza di capire che io sono il centro soltanto del mio mondo, non di tutto il mondo. Ciò significa riconoscere a ciascuno la propria umanità e dignità, scegliere l’empatia su una «modalità automatica», una «configurazione di base» secondo cui non esisto altro che io: io e i miei problemi, io e le mie idee, io e le mie ragioni. Il regista Carlo Mazzacurati invitava a praticare la gentilezza: «Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre».

Di contro, per i Sotterraneo l’acqua è un acquario, ristagna chiusa tra quattro lati trasparenti. È quasi «una pozza di paura e rabbia e frustrazione e desiderio e adorazione di sé», per citare ancora l’orazione al Kenyon College, nella quale ci crediamo e mostriamo liberi e veri, e invece siamo prigionieri e falsi, quanto i pesci di Overload. La distrazione, dunque, non è più normale, né naturale: la casualità è manipolata ad arte da algoritmi che stimolano, creano e autoalimentano abitudini, gesti, azioni rituali, monetizzate da poche aziende, ormai monopolistiche.

 

In un ambiente siffatto, la nostra capacità di attenzione è ridotta alla soglia di 8 secondi, avvertono studi più severi dei dati riportati (e smentiti, per la logica del vero-non vero) dai Sotterraneo. Perfino quella dei pesci rossi sarebbe più alta: 9 secondi. Articolare alcunché è improponibile. Allora il pubblico, ovviamente quando gli viene concessa l’opportunità (la drammaturgia sta agli algoritmi), può interrompere il monologo di Claudio Cirri/David Foster Wallace e attivare dei contenuti nascosti. I secondi che un qualunque spettatore ha a disposizione per rendere palese, alzandosi in piedi, la sua scelta, sua e per tutti, sono ampiamente sotto la soglia minima di concentrazione: si contano sulle dita di una mano.

 

Ph. Filipe Ferreira.


L’arrivo di uno dei performer con un cartoncino con su disegnata una freccia indica l’avvento di una nuova, imminente, possibile via di fuga. Stop alla difficoltà delle parole, avanti con l’immediatezza delle immagini. Il testo si trasforma in ipertesto, il teatro in iperteatro. Il panorama si modula sulla dimostrata incapacità di essere presenti a sé stessi troppo a lungo. Cirri continua a parlare, ma Foster Wallace non si sente. È in “modalità silenziosa”: muove solo le labbra. Inviate tv, giocatori di football americano, tenniste, soldati antichi o black bloc. Figurazioni di ogni genere e sorta gli passano davanti, dietro, accanto, lo spingono, spostano, placcano. Lo mettono a tacere. Il rumore di fondo prende il suo posto sotto i riflettori.

 

Il dispositivo (si) diverte a sfidare l’attore/scrittore, sollecitando gli spettatori a innescare i contenuti nascosti con l’aumento della posta in gioco: velocità, impatto, originalità. Apparizioni o metafore che siano, nate dal monologo o meno, per associazione, assonanza o invenzione, tali intromissioni producono su di lui un effetto fisico, peraltro senza essere, nemmeno loro, davvero reali. Non usano parole, unicamente suoni. L’azione è identificata dall’aspetto. Possiamo quindi considerarle alla stregua delle notifiche dei social network, che soddisfano il bisogno-ansia di costruirci un’autonarrazione pubblica.

Il sovraccarico, però, non appartiene soltanto a noi, ma anche a David Foster Wallace stesso. I suoi racconti prendevano la vita e la portavano allo stremo: ugualmente operano i Sotterraneo. La rapidità di Overload sul palcoscenico fa il paio con le idee nella sua testa. Al punto che l’impianto complessivo pare voglia riprodurre pure il rapporto tormentato tra un autore e la sua creatività, in cui l’uno non riesce a controllare l’altra, fino in fondo. L’ispirazione, una volta sulla carta, non è mai perfetta com’era nella mente. Da lì, come se non bastasse, si consegna all’interpretazione altrui e, di conseguenza, alla massima distorsione possibile.

Questa potente e inesorabile incomunicabilità con sé e con gli altri ci riporta a quello che il Padre espone al Capocomico nei Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello: «Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre, chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!»

 

Ph. Filipe Ferreira.


Ai livelli di senso riscontrati finora, Overload ne aggiunge uno ulteriore. Come diventare sé stessi. Lo indichiamo così riprendendolo dal titolo del libro (edito da minimum fax) di David Lipsky, l’inviato della rivista “Rolling Stone” che, in occasione dell’uscita americana di Infinite Jest, trascorse 5 giorni ininterrotti (dal 5 al 10 marzo 1996) al fianco di Foster Wallace.

Claudio Cirri è ben consapevole delle interruzioni che subirà. Non sa quante saranno, poiché variano da sera a sera, a seconda dell’intraprendenza della sala. Comunque, sa che ci saranno. E tuttavia, prova, fallisce e riprova a formare o almeno affermare sé stesso, ovvero David Foster Wallace. A un certo momento, gioca la carta di chiamare in prima persona i contenuti nascosti. È inutile. Il sistema si dimostra ben più forte e finisce per inglobarlo nel suo meccanismo. Tanto «io è un altro». I Sotterraneo dimostrano di pensarla come l’Arthur Rimbaud delle Lettere del Veggente: lo scrittore americano può farlo un altro, che differenza fa? È sufficiente che lo ricordi vagamente e attiri l’attenzione. Pertanto, la bandana e il resto passano a Daniele Pennati. Per poi ripresentarsi come prima, addosso a Cirri. Quando pensi di averli afferrati, i Sotterraneo ti sgusciano via sotto gli occhi.

 

Un temporale, una specie di piena riporta a galla un po’ tutte le intromissioni visive passate in rassegna. Quasi che Overload voglia riprendere il filo iniziale del discorso. Tornare a quel 12 settembre 2008, alla morte di Foster Wallace, impiccato a una trave di casa sua. Il suicidio compare in quasi ogni sua opera e in particolare in Infinite Jest. Ai neolaureati del Kenyon College, 3 anni prima, ne parlava in questi termini: «Pensate al vecchio luogo comune della “mente come ottimo servitore, ma pessimo padrone”. Questo, come molti luoghi comuni, così inadeguati e poco entusiasmanti in superficie, in realtà esprime una grande e terribile verità. Non a caso gli adulti che si suicidano con armi da fuoco quasi sempre si sparano alla testa. Sparano al loro pessimo padrone. E la verità è che molte di queste persone sono in effetti già morte molto prima di aver premuto il grilletto».

 

Ph. Filipe Ferreira.


Perciò, Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, Giulio Santolini, consegnano la scena al dopo (spettacolo). Sono tutti vestiti semplicemente di nero. Si chiamano per nome. Usano dalla prima alla terza persona, come le marce della macchina della distrazione che li condurrà al di là di sé stessi, con sottofondo di Where Did You Sleep Last Night nella versione dei Nirvana. D’altronde, a David Foster Wallace veniva attribuito il carattere di “romanziere grunge”.

Quadri di narrazione e azione. Verso l’abisso di un trapasso finale e disturbante, che non lascia scampo a nessun essere umano. All’attore e allo scrittore. Stavolta perfettamente uguali. «Il suicidio di David – ha dichiarato la vedova Karen Green a “The Guardian” nel 2011 – lo ha trasformato in quel tipo di celebrità letteraria che lo avrebbe fatto rabbrividire.» Questa è l’acqua che si vede in giro, fuori dal finestrino delle nostre “vite di corsa”. E non fa che salire.

 

Qui il calendario di Overload e di altri spettacoli di Sotterraneo

La foto finale è di Carolina Farina

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