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Ebrei e Rom

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Questo documento, serioso anche se un po’ azzardato, potrebbe essere fra i primi a occuparsi di alleanze possibili in luogo di inimicizie acclarate. Limitarsi a condannare l’antisemitismo moderno non serve a un granché se poi non si sa come combatterlo, e nemmeno a chi rivolgere lamentele (al governo?).

Potremmo intanto allearci con il popolo dei rom? Al comando della Senatrice a vita Liliana Segre? Nome di battaglia a Roma: “La Tosta”? 

 

Ecco qui dunque un elenco, per punti, di somiglianze e differenze fra ebrei e rom nel disordine in cui mi vengono in mente.

 

a) Noi oggi andiamo, almeno sembra, meglio dei rom (poverini!).

 

b) La strage nazista accomuna i due popoli dal punto di vista emotivo ma può anche essere oggetto di studio comparato per meglio esaminare le ossessioni genocide, a tutt’oggi ben lontane dall’essere spiegate con la precisione dovuta. Se non altro perché si possono ripetere, come diceva Primo Levi a ogni piè sospinto. Sappiamo a memoria tutti i punti nefandi della ideologia antisemita nazista: noi ebrei siamo un corpo estraneo all’umanità, infettante il sangue ariano, siamo il non-essere, agenti bolscevichi e di Wall Street ... Invece una volta sola mi è capitato di leggere da qualche parte che Hitler e i suoi specialisti criminali classificavano i rom un popolo di razza ariana, sì, ma degenerato a tal punto che occorreva amputare il Pianeta dalla loro presenza. 

Bastava che qualcuno avesse un paio di nonni ebrei per essere considerato ebreo; non so nulla della legislazione nazista antirom, ma ho l’impressione che dovesse essere più disordinata e approssimativa di quella antiebraica: visti gli sforzi ben riusciti per sistemare il giudaismo una volta per tutte, perché non aggiungerci anche quei cenciosi degli zingari? Poi dopo si penserà agli Slavi…

Ho sentito, una volta, la testimonianza di alcuni Rom su particolari vicende della loro tragedia: hanno raccontato il caso di giovani della loro tribù arruolati per essere spediti al fronte orientale… Una condanna quasi a morte che per un ebreo sarebbe stata un inammissibile favoritismo. Nelle camere a gas sono finiti in massa ebrei, rom, e prigionieri sovietici (alcuni dei quali certamente ebrei), ma all’arrivo nei Lager non mi risulta che venissero selezionati i rom da uccidere seduta stante. E infatti so da parecchie testimonianze, tra le quali quella del mio amico Terracina, che le famiglie rom non venivano separate all’arrivo e, con un trattamento di straordinaria umanità, i Rom internati tutti assieme venivano poi gasati famiglia per famiglia. Certo, nudi e a spintoni, dopo che gli sgherri avevano sequestrato e ammonticchiato chitarre, fisarmoniche, violini e scacciapensieri. Spero che le mie lacune nel genocidio dei rom vengano presto colmate da qualche lettore. 

Una delle tesi sullo sterminio hitleriano è che esso fu reso pensabile, possibile e realizzato in virtù del progresso tecnologico, a dimostrare la degenerazione della tecnica, della scienza (vedi Hiroshima), del capitalismo (vedi colonialismo e i suoi ignorati stermini). Sono portato a pensare che i genocidi della Seconda Guerra Mondiale siano in parte conducibili all’infezione psichica conseguente al macello di trincea della Prima e al collasso culturale, anzi mentale, dell’Europa, oltre al diffondersi incontrollato dei pagamenti a rate: Borges in un suo commento rileva che l’entrata trionfale della Wermacht a Parigi fu pagata a rate con le successive inevitabili sconfitte. Il che non è affatto da confondere tout court con capitalismo, tecnologia e scienza, stante quel che poi è avvenuto per gli Usa e per l’Europa stessa (XX sec. seconda metà) e oggi per la Cina (XXI sec.).

 

c) I rom arrivarono in Europa fra il VI e il XVI secolo, e non furono considerati estranei alla società almeno per qualche tempo. Svolgevano infatti mestieri utili: calderai, arrotini, spazzacamini, nelle montagne boscaioli (li ho visti io nell’inverno 1944-1945), liutai, suonatori, ballerini, canterini, ciarlatani, cartomanti, chiromanti, caldarrostai. Erano nomadi, ma nel Medioevo il nomadismo era ancora assai diffuso: studenti, girovaghi, altri popoli in cerca di una sede in cui stanziarsi, compagnie teatrali, monaci che raccattavano elemosina, cavadenti da fiera, mercanti di cianfrusaglie, cavalieri e truppe mercenarie in cerca di qualche acquirente. In un simile caos, l’arrivo dei rom poteva diventare un’allegra festa popolare.

Anche gli ebrei giravano qua e là, e, oltre ai mestieri degli zingari, ne svolgevano altri: commercianti di tessuti, fabbricatori e venditori di funi e cordame, medici, aruspici. 

 

d) I rom, per le loro abitudini avite rimanevano diversi dagli altri, ma divennero insopportabili e inutili quando persero la privativa sui loro mestieri e non ne trovarono altri di legali. Si diedero all’accattonaggio e ai furtarelli. Gli ebrei, cultori anch’essi della propria diversità invece, dopo aver svolto il ruolo dei borghesi che ancora non c’erano, si trovarono assai male a partito quando, con lo sviluppo dei tempi (il Rinascimento e così via), parecchi loro mestieri furono soppiantati dalle borghesie nazionali: vennero classificati usurai succhiasangue in un mondo ormai pieno di banchieri lombardi e fiorentini, armati di cambiali. Furono pertanto sprangati nei ghetti a sognare chissà che cosa. 

 

 

Ma agli ebrei toccò qualcosa di peggio che ai Rom: con la Rivoluzione Francese ottennero il diritto all’assimilazione, e fulmineamente ne approfittarono. Il peggior crimine ebraico, accanto a quello tradizionale di esser diversi, fu quello di sapersi camuffare da uguali per meglio infettare le società sane, prospere e pacifiche che parassitavano. Carrieristi senza scrupoli o, come si dice oggi nel mondo populista, élite disumane e spietate sprezzanti della miseria generata dalle loro malversazioni.

Questo inquietante fenomeno non sembra essere avvenuto ai rom, i quali inoltre, paghi del loro accattonaggi, non hanno sviluppato un sionismo zingaro e perciò oggi non corrono il rischio di essere accusati di colonialismo, pulizie etniche, guerra eterna, apartheid, e tanti altri difettucci spiccatamente ebraici (emersi nel 1948); ma anche loro vanno male, santiddio!

 

e) Dal punto di vista demografico i due popoli risultano quasi identici: una dozzina di milioni di esseri umani che ne infastidiscono alcuni miliardi. Ma, mentre i rom sono rimasti quasi esclusivamente europei, la maggior parte degli ebrei è fuggita a gambe levate in America e in Asia. La quasi totale assenza di ebrei provoca vive preoccupazioni in diversi Paesi dell’Europa orientale, che non sanno più chi perseguitare.

 

f) Le differenze culturali sono eclatanti: mentre gli ebrei sono infaticabili narratori orali e scritti, la cultura dei rom, a quel che mi risulta, eccelle nella musica, peraltro ben praticata anche dagli ebrei. Nell’Europa orientale nacque la musica ebraico-tzigana, chiamata klezmer, con orchestrine miste e girovaghe che rallegravano matrimoni e altre feste di tutti i popoli di quelle inospitali regioni. È forse attraverso la musica klezmer che quei trafficoni degli ebrei hanno potuto ottenere un loro posto nell’empireo nero della musica jazz americana.

 

g) Gli ebrei praticano una sola religione. La religione ebraica ha sopperito allo Stato mancante fino alla Rivoluzione Francese e poi alla fondazione dello Stato di Israele. 

Con scarsi risultati positivi i rom professano le religioni dei Paesi che li ospitano: cattolici nell’Europa occidentale, ortodossi nell’Europa orientale, islamici nei Balcani e nell’Africa settentrionale: sembrano peraltro per lo più mantenersi inadatti a comportarsi come si deve nelle religioni che professano. Vedasi in proposito l’elicottero che spargeva quintali di petali di rosa mentre sorvolava il funerale sfarzoso di un ricco Casamonica: stava per essere schiaffato in galera anche il parroco…

 

h) Sta di fatto che sia gli ebrei che i rom sono considerati ganghe, lobbie, mafie, a causa del loro interclassismo.

 

Conclusione: quando i luridi campi rom vengono spazzati via dalle ruspe statali, comunali o prefettizie, dobbiamo dispregiare gli applausi del popolaccio. E questo non solo in nome di una doverosa solidarietà, ma anche perché i pericoli rom sono anche i nostri in un modo o nell’altro, anche se ci sembra impossibile finché non capita. 

Quando una famiglia rom, scacciata da un campo, ottiene una casa popolare con tutti i crismi della legalità, la gentaccia del desolato quartiere insorge al grido: “Prima gli italiani!”, e nessuno gli dice che gli zingari senza casa erano italiani come loro, sozzi come loro, nella loro sozza città altrimenti chiamata Caput Mundi.

 

Quando i bambini rom vengono rifiutati dalle nostre raffinate ed eleganti scuole perché pidocchiosi e puzzolenti, qualcuno dovrebbe raccontare agli ebrei nati adesso che gli ebrei vecchi come me hanno subito, a partire dal 1938, lo stesso trattamento. I pidocchi ce li siamo presi dopo, sfollati all’epoca dei bombardamenti.

Solidarietà con le minoranze dunque (anche di quelle eventualmente oppresse nello Stato di Israele?) per motivi di dovere ma anche di interesse.

E se questo atteggiamento rendesse indispensabile schierarsi solo con alcuni Partiti politici e non con altri? Com’era una volta, tanti anni fa? E come sembra aver scelto la Senatrice a vita Liliana Segre?

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Il rumore del mondo

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Inoltrandosi nelle pagine dell’ultimo libro di Benedetta Cibrario, il lettore di romanzi – il lettore, o la lettrice – non può sfuggire alla confortante sensazione di trovarsi a casa. Il rumore del mondo (Mondadori, pp. 736, € 22) è un romanzo storico nel senso più tradizionale del termine: ci sono personaggi a tutto tondo, tratteggiati e lavorati con cura; l’io narrante segue la prospettiva ora dell’uno ora dell’altro, evitando avvicendamenti troppo bruschi; gli antefatti sono narrati con generosa chiarezza; sullo sfondo dell’azione prendono forma ambienti ben definiti, e non si fatica a indovinare che l’autrice si è documentata con appassionato impegno sull’epoca e sui luoghi di cui parla. Che sono, a proposito, sostanzialmente due: l’Inghilterra, o meglio Londra, e il Piemonte sabaudo, nel decennio 1838-1848. 

In breve, la trama. Anne Bacon, secondogenita di un ricco mercante di seta londinese, ha sposato il giovane Prospero, ufficiale e diplomatico, figlio unico del marchese Casimiro Vignon, discendente d’una delle più antiche famiglie del Piemonte. Entrambi sono cresciuti senza madre: rimasta orfana presto, Anne e la sorella erano state affidate alla premurosa e disinvolta Miss Jenkins, mentre il padre si dedicava anima e corpo al lavoro; Prospero, legatissimo alla madre Adele, era stato collocato in un collegio militare fin dall’età di nove anni per volontà del padre, legittimista, tradizionalista e ferocemente antinapoleonico – decisione che aveva provocato la rottura fra i due coniugi (Adele era tornata nella sua città natale, Ginevra, ed era morta poco prima del congedo del figlio). Dopo le nozze Anne ritarda di qualche giorno la sua partenza per Torino; durante il viaggio, in Normandia, si ammala di vaiolo. Sfugge alla morte, ma il suo viso rimane deturpato. Il padre Huntley, prevedendo che il matrimonio ne sarebbe riuscito compromesso, si dichiara pronto a farla rientrare a Londra; il marchese Casimiro, che pure aveva disapprovato le nozze del figlio, rifiuta con sdegno la proposta. Di fatto, l’unione tra Anne e Prospero sarà un guscio vuoto. Accampando pretestuosi impegni di servizio, Prospero è quasi sempre lontano, anche perché dal padre lo divide un antico rancore; più tardi si scoprirà che intrattiene una relazione con la giovane vedova Ortensia, anch’essa discendente di una nobile famiglia torinese. Afflitta e sola, rassegnata a un’esistenza diversissima da quella che s’aspettava, Anne trova inatteso conforto nella residenza estiva della famiglia, al Mandrone, nei pressi di Mondovì, dove i Vignon hanno estese proprietà terriere. Un vicino, Enrico Verra, coinvolge Casimiro in un’iniziativa imprenditoriale alla quale Anne collabora con entusiasmo, e che sulle prime è coronata da grande successo. 

 

Il lettore di romanzi storici, specialmente se si sente a casa, tende ad aspettarsi colpi di scena: che però in questo caso non ci sono. L’attrazione reciproca fra Anne ed Enrico non supera l’ostacolo della di lei onestà; il legame fra Prospero e Ortensia non dà adito a scandali, né segna la fine dell’unione (ormai solo formale) con Anne; l’incomprensione reciproca fra Prospero e il padre non divampa mai, né provoca clamorose fratture. A maggior ragione, non si verificano coups de théâtre, inopinate apparizioni di figli segreti o illegittimi, gravidanze accidentali: ogni sospetto di appendicismo o di romanceè bandito dal Rumore del mondo, mentre abbondano informazioni sui costumi del tempo, sull’industria e il commercio dei tessuti, nonché sulla botanica, senile passione di Casimiro, ammirato dall’essenza rara (la Zelkowa crenata, la Quercus pyrenaica) e disposto a spendere ingenti somme per il giardino del Mandrone allo storico vivaio Burdin. In sostanza, i fatti narrati rientrano nella categoria degli eventi silenziosi e poco appariscenti, delle trasformazioni lente e verosimili: la forestiera priva di titoli nobiliari si integra gradualmente nella società piemontese; il suocero, portatore di una visione del mondo radicalmente antirivoluzionaria e preborghese, impara ad apprezzarne le virtù; il vecchio Piemonte sabaudo dà chiari segni di trasformazione, sia in economia, sia in politica. Ma l’imprevisto è dietro l’angolo. Al Mandrone un incendio fortuito distrugge il nuovo filatoio, mandando in fumo i sogni di Enrico; nel frattempo Carlo Alberto si risolve a muovere guerra all’Austria, e nella vittoriosa battaglia di Pastrengo Prospero viene ucciso. Poco dopo morirà anche Casimiro; sul destino futuro di Anne, che rimane libera, ricca e sola, non viene fornita notizia alcuna. 

 

Importanti sono le figure di contorno del romanzo. La più notevole è senza dubbio la signora Theresa Manners, che compare nel ruolo di accompagnatrice di Anne durante il trasferimento da Londra a Torino: vedova, appassionata di viaggi, dotata di buona penna, diventerà autrice di guide turistiche per un editore inglese. Altri personaggi di rilievo sono il nonno materno di Anne, Henry Cline, medico e chirurgo, osservatore spregiudicato della società contemporanea, aperto alle novità, e la devota governante Eliza, che segue Anne in Piemonte, ma abbandona il servizio per sposare, non più giovane (almeno per l’epoca), un rustico e cordiale cocchiere dei Vignon. Vale la pena di notare, inoltre, che per lunghi tratti l’io narrante cede la parola ai personaggi, riproducendo diari e carteggi. A lettura conclusa, il titolo Il rumore del mondo risulta particolarmente appropriato: anche quando non accadano drammi e catastrofi, gli eventi pubblici sono fragorosi e estranei rispetto al silenzio dell’interiorità, dove covano genuine ma fragili gioie, e tormentose, durature sofferenze. In fondo ognuno è solo, e sa di esserlo. Quanto più la rappresentazione del reale si fa concreta e circostanziata, tanto più suggerisce l’idea di un vano, inconcludente agitarsi, come il suono che si produce battendo le nocche su una cassa vuota. 

Ciò detto, occorre chiedersi quale senso può avere soffermarsi su un romanzo come questo: che per quanto ben scritto, e alla lettura gradevole, benché mai (in senso etimologico) avvincente, può risultare innocuo e – come dire? – cognitivamente statico. Non sarebbe meglio, allora, rileggere una delle sorelle Brontë? Ebbene, io credo che Il rumore del mondo possa comunque suggerire alcune osservazioni. La prima: se volessimo collocare quest’opera all’interno di una visione sistemica della letteratura, non potremmo che collocarla in una fascia media.

 

 

Ma il termine «medio» ha valore solo se si rifugge dalla vieta semplificazione ternaria (alto/medio/basso), dalla quale possono discendere solo due orientamenti estetici, ideologicamente opposti e simmetricamente sterili: da un lato la svalutazione di tutto ciò che sa di programmaticamente non-sperimentale, di quieto e acquisito mainstream, di middlebrow, dall’altro la celebrazione di un’aurea medietas, rispetto alla quale ogni progetto innovativo viene degradato a voga effimera, buona giusto per sfaccendate élites intellettuali. In altri termini, ragionando di letteratura contemporanea un’imputazione di medietà può diventare utile solo evitando di sottintendere che quanto sta «in mezzo» sia uniforme, equipollente, omogeneizzato o predigerito.  

Seconda osservazione: Il rumore del mondo non sarà un capolavoro, ma ha il merito di tener viva una tradizione romanzesca dalla quale potranno (perché no?) sortire capolavori futuri. Se un giorno in Italia qualcuno saprà scrivere un grande romanzo di matrice (non dirò di scuola) manzoniana, insomma un romanzo storico di qualità eccelsa – e sarà forse uno scrittore o una scrittrice dal cognome non italiano – sarà anche grazie a libri come questo: non perché a costei o a costui non possa bastare la conoscenza delle pietre miliari del genere, ma perché nel frattempo il pubblico dei lettori di romanzi avrà continuato a esistere, a dispetto dei trionfi della civiltà visuale, digitale e transmediale (o meglio, semplicemente, all’interno di essa). Infine, la rilevanza e la memorabilità di un’opera letteraria non dipende tanto dalla sua ipotetica ubicazione in un’astratta tassonomia, quanto dalla sua capacità di far breccia nella coscienza individuale dei singoli lettori. Da questo punto di vista un discrimine decisivo è costituito dalla capacità di creare personaggi; e qui la Cibrario ha più d’una parola da dire.

 

Un personaggio almeno del Rumore del mondoè difficile da dimenticare. Non parlo della sfortunata e umbratile protagonista, Anne Bacon, né dell’energica e dinamica signora Manners, due figure nelle quali l’autrice, piemontese dal cognome risorgimentale emigrata da parecchi anni a Londra, avrà riversato buona parte della propria esperienza, e forse del proprio temperamento. Mi riferisco invece al suocero, il vecchio marchese Casimiro, che da quarant’anni porta in tasca una pallottola con tracce di sangue disseccato. Da quella pallottola era stato colpito nella battaglia del Brichetto, presso Mondovì, all’epoca della prima campagna d’Italia di Napoleone. Dalla ferita era guarito; immedicata rimane invece la lesione morale. Infatti, anche se nessuno se n’era accorto, quel proiettile l’aveva colpito non mentre stava difendendo la posizione, come egli poi avrebbe raccontato, bensì mentre stava scappando. Di qui la sua ostinazione a imporre al figlio una rigida educazione militare, contraria alla sua indole. Il figlio era poi diventato davvero quello che lui gli aveva imposto di essere, cioè un ufficiale zelante e disciplinato, devoto alla monarchia, che perpetua la visione e i limiti della vecchia aristocrazia sabauda: l’unico suo gesto effettivo di ribellione consiste nello scegliersi una moglie borghese e straniera, cosa di cui si pente quasi subito, e non solo perché la deliziosa e spigliata inglesina conosciuta a Londra si trova poco dopo le nozze con il viso butterato dal vaiolo. Quando Casimiro si rende conto di avere sbagliato i calcoli, è troppo tardi per rimediare, anche al netto della sua padronale resistenza a riconoscere gli errori. Mentre, paradossalmente, è proprio lui ad accettare alcuni aspetti della modernità – dall’inattesa sintonia con Anne agli investimenti finanziari nel ramo tessile – il figlio affronta nel 1848 un cimento simile a quello da lui vissuto nel 1796. Casimiro gli consegna la pallottola, e gli confessa come erano andate veramente le cose. Ma il cimelio non diventa un amuleto. Prospero dimostra di avere il coraggio che era mancato al padre, e così è sancita l’estinzione del casato. 

 

In questo motivo, di sapore vagamente conradiano, mi pare consista l’elemento di maggior efficacia del romanzo della Cibrario. E, certo non a caso, è anche la principale connessione tra la vicenda inventata e la dimensione della storia, dove il rilievo maggiore – fantasma di Napoleone a parte – tocca all’amletica figura di Carlo Alberto. Essere all’altezza di un compito che non si è scelto, e che nel proprio intimo, forse, si rifiuta: questo è il problema. D’acchito parrebbe una questione poco attuale; anzi, diciamo pure anacronistica. Ma il lettore e la lettrice di romanzi sanno bene che non è saggio fermarsi alla superficie; specialmente quando ci si sente a casa. È a casa – at home– che si cela l’Unheimlich.

Infine, non si può parlare di un romanzo storico senza dire almeno una parola sull’epoca in cui la storia è ambientata. Il decennio 1838-48 ha poco risalto nella memoria collettiva, specialmente rispetto al successivo, in cui si realizza l’unificazione nazionale: è un’epoca di transizione, fra Restaurazione e Risorgimento. Ma nel Rumore del mondo di politica si parla complessivamente poco. Molto maggiore spazio è dedicato agli albori di un’era nuova sul piano economico e sociale: l’industrializzazione delle manifatture, l’illuminazione a gas, l’incipiente rivoluzione dei trasporti. Ovviamente, la parte del leone spetta alla seta (Anne a un certo punto pensa a sé stessa come a una «figlia della seta»). Valga per tutti l’elenco declinato da un entusiasta Huntley Bacon al genero (per parte sua affatto disinteressato), durante il ricevimento nuziale. «La seta è dappertutto: cappellini, vestiti, cravatte, tube, panciotti, fazzoletti, gale, nastri, fodere di divani e poltrone, tappezzerie, tendaggi, bottoni, guanti. E ancora non basta: sono di seta le fodere dei bauli e delle valigie, i baldacchini dei letti, le camiciole dei neonati e il rivestimento delle culle; i cuscini delle carrozze. Le scarpe, le pantofole, gli scialli. Le vesti da camera e da notte. I paralumi, i tappeti, i ventagli». Un romanzo, storico o no, è fatto anche di cose. E può apprezzarlo anche chi, come il sottoscritto, sa che non imparerà mai la differenza fra l’organzino e i velluti di Genova e di Scozia, né mai ricorderà cosa sia il raso operato. 

 

Benedetta Cibrario, Il rumore del mondo (Mondadori, pp. 736, € 22).

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L’Umanesimo secondo Massimo Cacciari

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L’ultima fatica di Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo (Einaudi, Torino 2019), è un saggio che ha lo scopo di ripensare l’Umanesimo del Quattrocento. Ripensarlo per riconoscergli la piena dignità di pensiero filosofico che finora gli è stata negata. In modo intenso e originale, il filosofo veneziano compie la sua raffinata meditatio in omaggio a chi, come Eugenio Garin, lo ha illuminato e avviato sul rovesciamento di un canone o, sarebbe il caso di dire, stereotipo interpretativo, che ha sempre ricondotto la rilevanza dell’esperienza culturale dell’Umanesimo, in quanto sprovvisto di un’identità filosofica, all’ambito artistico-letterario e alla pratica erudita e filologica degli studia humanitatis. Non si tratta, allora, solo di recuperare, seguendo le indicazioni di Garin, la filosofia depositata proprio nella filologia, nella pittura, nell’architettura, nella storia, degli umanisti e il modo vivificante in cui essa le innerva, ma di allontanare l’ombra di eclettismo sulle stesse dispute e sui sincretismi filosofici di quel tempo, considerandoli, invece, in stretto rapporto con l’autocoscienza della crisi della cristianità, e quindi dell’Europa, e della conseguente esigenza di renovatio, avvertite in un secolo cruciale che si apre e si chiude, drammaticamente e simbolicamente, con due roghi, quello di Jan Hus e quello di Girolamo Savonarola, con al centro la caduta di Costantinopoli. Parimenti, per Cacciari, diventa preliminare “distruggere” l’idolum theatri che, complice più di ogni altro la filologia tedesca di fine Ottocento, impegnata nelle controversie pedagogiche dell’età guglielmina, ha ridotto l’Umanesimo a Humanismus, cioè alla definizione di un’essenza dell’uomo, orientata dall’esaltazione antropocentrica della nobilitas umana, a partire dallo studio dei classici greci e latini. 

 

Il che spiega anche la stupefacente miopia di Martin Heidegger, il quale, accodandosi a questa scia, nella sua Lettera sull’umanismo del 1947, non riesce a cogliere la sintonia della libertà umana descritta nell’Oratio pichiana con la natura ek-sistente del suo Dasein, l’esserci umano “gettato” nello sforzo costante di determinarsi, o a non avvertire l’eco della “grammatologia” di Valla o Poliziano nella sua concezione del linguaggio come “dimora dell’Essere”, enunciata solennemente nel testo. Al contrario, Heidegger si affretta a catalogare ogni umanesimo (sia quello storico, sia quello recente, esistenzialista e sartriano, con cui la Lettera direttamente polemizza) nella rubrica della metafisica moderna della soggettività.

 

 

Cionondimeno, l’agorà filosofica umanistica che Massimo Cacciari disegna in cinque magnifici paragrafi-tableaux, rimane composita e polifonica, a cominciare dalla dissonanza tra l’“ottimismo” edonistico di matrice epicureo-lucreziana di Valla e l’umanesimo tragico di Alberti e Machiavelli, e giungere alla tensione di quest’ultimo con la linea neoplatonica di Ficino e Pico, e, all’interno di questa, alla divaricazione tra l’aurea catena teologico-platonica del primo e la concordia discors tra le tradizioni (in primis, platonismo e aristotelismo) intessuta dal secondo. A conferma di come nessun’altra epoca come quella dell’Umanesimo corrisponda meglio all’immagine del grande storico e critico d’arte tedesco Aby Warburg di un ‘arazzo’ composto da più fili e di più diversi colori e materie. E, pur nella sintesi, il saggio riesce mirabilmente anche a ricostruire nel Dante del De vulgari eloquentia e nell’antiaverroismo e nell’idiosincrasia per un’etica intellettualistica del Petrarca il retroterra dei nuclei filosofici dell’Umanesimo, così come a segnalarne in modo chirurgico i riverberi in Bruno, Vico, Leopardi. 

 

Il primo grande nucleo del pensiero “forte” degli umanisti si può rintracciare, secondo Cacciari, nel nesso profondo stabilito tra ratio e oratio, tra filosofia e filologia, che discende dal concepire il pensiero come sempre incarnato dalla parola, il cogito come sempre pensato dalla parola: Dico ergo cogito. Come il demone Eros del Simposio platonico è l’intermediario tra ignoranza e sapienza, tra i mortali e gli immortali, così il dio Ermete è intermediario tra Filologia e Filosofia: “Filologia resterebbe cieca senza orientarsi attraverso la fatica dell’esegesi a Filosofia, senza osare spingersi, guidata da Ermete, verso i ‘misteri di Platone’. E un Ermete, anche se tentato da Saturno, è lo stesso Ficino, l’insuperabile ‘traduttore’. Ma Filosofia, d’altra parte, non sarebbe che vuoto esercizio scolastico se non l’alimentassero continuamente le scienze particolari e le arti tutte, cioè l’autentica anthropine sophia. Filosofia si ingravida dei pragmata che Ermete le trasmette da Filologia e, a sua volta, di essi illumina, fa comprendere il significato più essenziale e riposto” (p. 39). Ma, ancorché inestricabile dalla parola, ogni pensiero, ogni cogitatioè sempre ‘agitazione’. È il sintomo dell’inguaribile irrequietezza e instabilità dell’uomo, sempre insoddisfatto dello “stato” raggiunto. L’esercizio filologico, la fedeltà ai testi antichi e al loro récit, conducono al realismo antropologico, sia per Leon Battista Alberti sia per Niccolò Machiavelli. Da questa inquietudine nascono la virtù e la malvagia, la pace e la violenza, la creazione e la distruzione, la trasparenza e la dissimulazione, in breve, l’eterna vicissitudo umana.

 

Cosicché, se trovasse miracolosamente la quiete e l’appagamento, l’uomo cesserebbe di essere vulnus per l’altro, ma anche di essere ancora ingegnoso, produttore, ‘civile’: “Destino è l’esserci inquieto e insaziabile; a noi tuttavia spetta la decisione in quale forma assumerlo, come prendervi parte, conoscerlo e affrontarlo” (p. 59). Il magnum miraculum dell’uomo è allora proprio quel non essere fissato ‘naturalmente’ in nessuna condizione o essenza, quell’essere aoikos, celebrato dall’Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola, che si traduce nel portare con sé i semi e l’apertura a diversi possibili, tutti egualmente ‘possibili’: ferinitas, humanitas, divinitas. Certo, mai assolutamente ‘angelico’ o ‘divino’ potrà essere l’uomo, mai l’ascendere e la resistenza all’abbrutimento potranno diventare definitiva ascesi, mai potrà raggiungersi la pace. Quindi, la libertà non sarà mai la possibilità del trascendimento della sua condizione tragica, che gli umanisti Alberti e Machiavelli avevano rappresentato e “dipinto” con toni più cupi e disincantati come incurabilis. Ma il tentativo indefesso di Pico di trovare la ‘pace impossibile’ (è il titolo dell’ultimo paragrafo del libro) tra le tradizioni, le dottrine, le filosofie, le religioni, le civiltà, testimonia di come l’uomo possa dimostrare tanto la potenza del dialogo interculturale, dell’unificazione attiva dei distinti, quanto l’impotenza della divisione ‘bruta’. L’‘estremo’ impossibile dell’indiamento diventa così misura e pungolo per una possibilità umana.

 

Verrebbe da chiedersi se non parla di noi ancora questo “umanesimo tragico” di Cacciari. Pace, unità molteplice, resistenza della virtù di fronte ai colpi della fortuna, lotta all’estenuarsi del linguaggio nel vortice della comunicazione, progetto rinnovato per conoscere, raccontare e dipingere ciò che siamo: non sono aspetti e volti sempre da assumere, altrettanto possibili peraltro come quelli opposti, orizzonti “celesti”, detto pichianamente, di cui essere ancora affamati e assetati, nella nostra inestinguibile insaziabilità? E lo spirito umanistico non è la volontà eroica, mai illusa, di continuare a “nutrire” la fame e “dare da bere” alla sete? Di continuare ad “armarsi” contro la violenza, a domarla, come la Minerva della Pallade e il Centauro di Botticelli (una delle sedici icone illustrate da Cacciari in appendice al libro)? L’ostinazione a voler uscire da una tragedia che non ha via di uscite, che si radica nell’ontologia umana. Ecco, forse, umanesimoè, in ogni tempo e in ogni luogo, anche questo: trarre il meglio dal peggio. 

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La morte del poeta. Potere e storia in Pier Paolo Pasolini

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Fin dalle prime pagine la lettura del libro di Bruno Moroncini, La morte del poeta. Potere e storia in Pier Paolo Pasolini, viene presa dentro a una domanda: può il potere colmare tutto lo spazio della scrittura poetica oppure ci sono delle possibilità sottili, impercettibili, effimere, di manovra per la poesia? 

Il grido “È morto un poeta!”, che l’amica Elsa Morante aveva levato durante i funerali di Pasolini, sembra essere rimasto senza lutto in uno scenario storico politico, letto sulla scorta delle analisi di Michel Foucault, in cui la politica del potere ha disarmato tutto e tutti. 

 

Nessuna parola, politica o filosofica, sembra avere qualche possibilità di manovra, diventando invece l’arma più efficace di un potere microfisico. Eppure quel grido di Morante che Moroncini sceglie di porre in esergo alla sua introduzione fa precipitare il lettore e la lettrice dentro l’impasse di una contraddizione fondamentale. Da un lato la forma del potere è radicalmente cambiata: non si presenta più come legge, ma come norma; non è più repressiva, ma tollerante; non stigmatizza il sesso, ma lo promuove purché non sia smodato e non ecceda nella gioia e nel dolore. Tutte le forme di ribellione, persino lo scandalo, vengono normalizzate. Dall’altro lato, però, si avverte in Pasolini, letto attentamente da Moroncini, il rifiuto di una conclusione sconsolata e cinica. Invece di lasciarsi andare al silenzio mortifero a cui il potere politico condanna, scrive romanzi, poesie, saggi, film, mettendo in atto altre forme di scritture. Scrive persino un’abiura – Abiura dalla Trilogia della vita– di cui Moroncini sottolinea, riprendendo le parole del poeta, che l’essere accorti non preserva affatto dall’adattamento alla degradazione e dall’accettazione dell’inaccettabile. 

È un punto importante, questo. L’impasse del poeta non si risolve con la consapevolezza, tanto meno con facili e rassicuranti spiegazioni che la inscrivono in passaggi logici e temporali. Dalla morte del poeta alla sua vita nuova oppure da una vita consumata alla morte tragica. Pasolini prende atto invece che la scrittura poetica è un gesto tra vita e morte. Nel testo Abiura scrive: “Manovro per risistemare la mia vita”.

 

 

La manovra che Pasolini intende è il suo gesto di una scrittura poetica, la quale ha sempre cercato di essere una pratica di disseminazione dell’istituzione letteraria, un esercizio della lettera come scrittura del godimento. All’interno di un ordine quindi, non solo letterario ma anche politico, sempre più asfittico e chiuso, è possibile, nei suoi interstizi, un gesto che resiste facendosi scarto, residuo: il resto di una vita. 

Proprio quando Pasolini cerca di non scrivere un romanzo storico o realistico, almeno nella loro definizione canonica, proprio allora scrive Petrolio. Non un racconto, ma uno schema di viaggio. In quello scritto il poeta non è morto: non eclissa, non sprofonda, non scompare; anzi, il lettore deve fari i conti con l’autore, le sue scelte, le sue preferenze, la sua storia. Scrive, quindi, un romanzo che, come dice Moroncini, è “non solo per il lettore ma anche e soprattutto per sé, qualcosa da interrogare e anche confutare se fosse necessario, mettendolo in tal modo tra sé e il lettore”. Il gesto della scrittura di Petrolio apre allora uno spazio in cui viene meno la figura del nemico, contro cui opporsi, ma uno spazio tra sé e sé, tra sé e il lettore.

Prendendo in mano il libro di Moroncini, non appena lo sguardo ha sfiorato il titolo, mi è venuto in mente il momento in cui Barthes, dopo aver parlato nel 1968 della “morte dell’autore”, scrive a distanza di tre anni, nel 1971, di “un amichevole ritorno dell’autore”, espressione che compare nel libro Sade, Fourier, Loyola

 

L’autore che ritorna non è quello identificato dalla filosofia, dalla letteratura, dalla biografia. Non ha unità perché è costituito da una pluralità di tenui dettagli, di “incanti”, diceva Barthes nella “Prefazione” al suo libro. Queste vivide luci che durano un istante incontrano l’immagine del brulichio: Moroncini la riprende da Petrolio, perché essa evoca il principio stesso di composizione del romanzo di Pasolini. Il brulichio non è che un movimento caotico di elementi infinitamente piccoli, sospesi nell’aria, tra cielo e terra; elementi corporei, lucenti, creativi. Il loro movimento, che costituisce la scrittura poetica, li mescola e li smembra, impedendo così l’unità del testo.

Non si può non notare il modo in cui Barthes definisce il ritorno dell’autore – amichevole – a voler dire che il ritorno, in questo caso del poeta, è compiuto dall’amicizia. Non è solo Elsa Morante che grida la morte del poeta, ma, a mio avviso, è anche Moroncini stesso, che con il suo libro, si unisce a lei a distanza di anni.

 

La politica dell’amicizia, con cui Moroncini apre la sua riflessione e di cui teme il declino, va allora ripresa per farne il senso non solo della poesia ma anche della filosofia. Quindi della scrittura. La sua necessità deriva proprio dalla capacità di tentare la via del dispotismo, sia quello della legge o quello della norma. Essa si misura continuamente con il rischio di trasformare la relazione d’amicizia in qualcosa di unitario, di chiuso e di identico a sé in quanto fondato sull’identità. La figura dell’amico e dell’amica è allora una presenza imprescindibile che non designa una circostanza di poco conto situata al di fuori del pensiero, ma intrinseca al pensiero che si fa scrittura. 

Se la scrittura poetica può compiere delle manovre di pensiero, seppur minime, lo fa quando predispone al suo interno lo spazio dell’amicizia, dell’incontro, del rapporto con l’Altro. Uno spazio in cui è possibile farsi amici anche nell’inimicizia, nella distanza e nella separazione.

Quindi anche chi scrive della morte del poeta compie questo gesto amichevole. Scrivendo questo libro, Moroncini opera una trasformazione nella sua lingua, facendo un viaggio nell’estraneo, nella lingua dell’altro. Trasforma l’unica lingua, che ha e che parla, nella lingua dell’altro per diventare poeta nella propria.

 

Bruno Moroncini, La morte del poeta. Potere e storia in Pier Paolo Pasolini, Cronopio, Napoli 2019. 

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Jonathan Franzen e Martin Amis

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La fine della fine della terra | L’attrito del tempo

Per un narratore, diversamente che per un critico, scrivere un saggio vuol dire esporsi direttamente, senza i filtri che la scrittura di un romanzo impone. Tutto, in un saggio, può essere rilevante, tutto può interessare l’io, che una volta tanto non deve preoccuparsi troppo di dare senso e coerenza alla vita di un personaggio immaginario. Ciò vale soprattutto per gli scrittori capaci di rappresentare caratteri diversi e ulteriori rispetto alla proiezione del sé, dominante e a volta ingombrante nella letteratura contemporanea. 

Naturalmente, bisogna intendersi sul significato da dare alla parola ‘saggio’ o essay: è un genere che non corrisponde a un’interpretazione critica oggettivamente documentata (ci sono scrittori e poeti che sono anche ottimi critici in questo senso per così dire tecnico, ma è un’altra cosa). Il saggio è una forma di espressione libera, senza rigidi vincoli tematici o codici stilistici. Esempi efficaci di questo tipo di scrittura sono offerti dai due volumi recenti di Jonathan Franzen, La fine della fine della terra (‘The End of the End of the Earth’, 2018) e di Martin Amis, L’attrito del tempo. Bellow, Nabokov, Hitchens, Travolta, Trump. Saggi e reportage, 1986-2016 (‘The Rub of Time. Bellow, Nabokov, Hitchens, Travolta, Trump. Essays and Reportage, 1986-2016’, 2017), usciti entrambi da Einaudi nei primi mesi di quest’anno nelle traduzioni rispettivamente di Silvia Pareschi e di Federica Aceto. 

 

 

 

Sono due opere molto diverse: tematicamente più coesa quella di Franzen, che è un libro nel senso pieno del termine; più composita quella di Amis, che ha piuttosto la forma di una raccolta di pezzi scritti lungo un arco di tempo molto esteso (trent’anni), anche se attraversati da temi e figure ricorrenti. In entrambi i casi però, com’è richiesto dal genere, l’io – o diciamo pure l’autore – si porta anche fisicamente nel cuore delle situazioni e delle idee di cui discute, assume biograficamente l’impegno di confrontarsi con la porzione di realtà di cui vuole dar conto. La prospettiva perciò non è quella del critico né del cronista, ma di un soggetto che saggia innanzitutto sé stesso, le proprie esperienze e convinzioni, attraverso l’incontro e l’attrito con il mondo esterno. L’essay è un impegno che gli scrittori contraggono verso loro stessi e che è rivolto tanto verso il self quanto verso il mondo degli altri con cui si entra in relazione. È emblematico, in questo senso, il titolo di un’altra raccolta recente di saggi d’autore: The Source of Self-Regard (‘La fonte dell’autostima’, 2019) di Toni Morrison. 

 

 

A prima vista, La fine della fine della terraè un libro sull’ecologia: già il titolo porta su questa strada, anche se il doppio genitivo lascia subito sospettare che qualcosa non andrà come ci aspetteremmo. Non si parla infatti di ‘fine della terra’, cioè di quell’apocalisse che occupa oggi molta parte del nostro immaginario, ma di ‘fine della fine’. Cosa vuol dire quel titolo? Che non dobbiamo temere nulla, che l’emergenza climatica è finita o promette di farlo grazie a illuminati provvedimenti adottabili nel prossimo futuro, come prevede lo studioso indiano Prem Shankar Jha nel suo libro L’alba dell’era solare. La fine del riscaldamento globale e della paura (appena uscito in Italia per Neri Pozza)? Oppure dobbiamo pensare che Franzen è diventato ecoscettico, forse addirittura econegazionista? Non è così ovviamente: il libro prende il titolo dal saggio conclusivo, in cui lo scrittore racconta di un viaggio in Antartide (la fine del mondo in senso geografico) e degli effetti del riscaldamento globale sui ghiacci e gli ecosistemi di quel continente. Ma la formula ‘fine della fine’, promossa a insegna dell’intero volume, esibisce un connotato straniante, da cui occorre partire per comprendere la vocazione di questi scritti; l’ambiguità del titolo, infatti, corrisponde all’atteggiamento dello stesso narratore, che adotta la forma-saggio per dare voce a idiosincrasie, conflitti (anche con sé stesso), ripensamenti, denunce dei propri errori e ammissioni dei propri limiti. 

Il rapporto di Franzen con l’ecologia, del resto, non è mai stato irenico. Nei suoi romanzi (come Libertà e Purity) e nei suoi libri non-fiction (Più lontano ancora), il tema della natura è presente non solo come valore ma soprattutto come tensione. Franzen è un osservatore e un narratore dell’Umwelt, umana e animale, che rappresenta come scenario di crisi e contrasti; ma il suo sguardo non è solo quello dell’ecologista allarmato: nelle sue opere emerge anche il senso del collasso inevitabile, vissuto in prima persona e non solo deprecato dalla posizione di spettatore esterno. Anche l’influenza di Thoreau, evidente soprattutto in Libertà, non viene passivamente recepita, ma inserita in una dialettica che ne contempla lo scacco e il travisamento. Libertà è un romanzo ecologico, infatti, non solo e non tanto perché parla di natura, ma soprattutto perché mette in scena la difficoltà di far interagire ecosistemi sociali diversi e lo sforzo di sopravvivere evolvendosi all’interno di un’Umwelt più ideale che vitale, tanto più artefatta quanto più aspira alla purezza originaria. 

 

 

Nei saggi di La fine della fine del mondo, quella difficoltà e quella tensione sono incarnate dallo stesso narratore, che mette in scena il conflitto innanzitutto facendo reagire e cozzare tra loro due scritti inclusi nel libro, l’uno palinodia dell’altro. Il primo (ma quarto nell’indice del volume) s’intitola Salva quello che ami e si basa su questo ragionamento: visto che non possiamo fare nulla contro il riscaldamento globale, tanto vale concentrare gli sforzi sul salvataggio di ecosistemi e specie animali, come le numerose varietà di uccelli minacciati dai felini, dalle auto, o dalla caccia indiscriminata molto più che dal cambiamento climatico: 

 

se da un lato autorevoli ricerche scientifiche stimano che ogni anno, solo negli Stati Uniti, le collisioni e i gatti uccidono più di tre miliardi di uccelli, dall’altro nessuna singola morte di uccello può venire attribuita con certezza ai cambiamenti climatici. 

 

Il problema, insiste Franzen, è che «per il clima non fa alcuna differenza se un individuo, me compreso, va al lavoro in macchina o in bicicletta». Ora, contro questo genere di argomenti, peraltro diffusi anche in certi ambiti del pensiero ecologico, possono essere mosse varie obiezioni. La prima, direi, è questa: se anche i comportamenti dei singoli fossero irrilevanti, le loro scelte non lo sono; per esempio, il voto a favore dei candidati politici più attenti all’ambiente può incidere, eccome, a livello globale. Il punto è che Franzen sa che il punto di vista che ha espresso nel suo saggio è parziale ed elitario, oltre che condizionato dalla sua ben nota passione per il bird watching. Così, nello scritto di apertura (Scrivere saggi in tempi bui) replica a sé stesso: «Per lo scrittore, un saggio è uno specchio, e ciò che vedevo riflesso in quello specchio non mi piaceva. Perché me la prendevo con i progressisti come me, quando i negazionisti erano peggiori?». «Il saggio che venne pubblicato allora» conclude Franzen 

 

rispecchiava un furibondo disadattato amante degli uccelli che si considerava più furbo degli altri. […] Soprattutto avrei provato a ricordare tutti coloro per i quali avere speranza è più importante di quanto lo sia per un pessimista depresso, tutti coloro per i quali la prospettiva di un futuro torrido e funestato da calamità è intollerabilmente triste e spaventosa, e che possono essere perdonati se preferiscono non pensarci. Avrei continuato a riscrivere il mio saggio. 

 

Proprio queste frasi finali aiutano a capire che, se l’ecologia è l’argomento preminente e unificatore, la sostanza tematica del libro risiede in un concetto non del tutto diverso e autonomo, ma sovraordinato rispetto al motivo ambientale. Questo tema è l’empatia, che ricorre come parola-chiave in diversi saggi. Empatia come difficile relazione con gli abitanti di un ecosistema da intendersi non solo in senso ecologico o biologico, ma anche ideologico, sociale e affettivo. Potremmo parlare anche di una sorta di ecologia esistenziale, che è il vero ponte che collega i saggi ambientali a quelli di contenuto politico, letterario e personale. In Manhattan 1981 (il secondo scritto del libro), ad esempio, l’ecosistema in questione è quello della società urbana newyorkese, in cui il narratore è calato. In The Regulars (sulle fotografie di Sarah Stolfa), l’empatia è quella di scrittori come Čechov, Trevor e Welty, dotati di «curiosità all’altezza dell’infinita specificità della vita delle persone ordinarie». Più avanti, nel finale di Un’amicizia, l’ambiente che Franzen rimpiange, l’eden perduto, non è quello della wilderness ma coincide con le relazioni umane e creative che lo legavano un tempo a due altri grandi scrittori americani della sua generazione, William (Bill) T. Vollmann e David Forster Wallace: 

 

Avrei tanto voluto poter entrare, per qualche giorno, in un universo alternativo nel quale mi accampavo laggiù con i miei due amici di talento, un universo in cui entrambi erano ancora vivi e potevano diventare amici a loro volta, perché ormai, nell’universo in cui sto raccontando questa storia, David era morto e io e Bill ci eravamo persi completamente di vista. 

 

 

Se per Franzen l’empatia è una condizione elegiaca e fondamentalmente autoriflessiva, per Martin Amis invece è una forma di curiosità più autentica perché più disinteressata. Per questo la sua scrittura è più ‘simpatica’ (sia nel senso etimologico del termine, sia in quello comune) in confronto a quella di Franzen, pur sembrando più snob. Nella nota iniziale del suo volume, anche Amis dà un’interpretazione del genere-saggio come ‘specchio’, cioè come espressione dell’io e dei suoi dubbi, come forma ideale della dialettica interiore che movimenta e sovverte le idee del soggetto: «la prosa discorsiva (lo stesso genere dei saggi e dei reportage presenti in questo volume) non può essere affrancata dall’ego, ed è illimitatamente perfettibile». 

Rispetto al libro di Franzen, L’attrito del tempo ha un’architettura più elaborata e una maggiore varietà tematica; il volume è infatti scandito in sezioni dai titoli spesso paralleli, che si succedono sulla base di una serie di motivi o ambiti ricorrenti, ma inframmezzati da sezioni più libere o stravaganti: Twin Peaks –1, Politica – 1, Letteratura – 1, La casa reale di Windsor – 1, Più personale – 1, Twin Peaks – 2, Americana (andando verso ovest), Letteratura – 2, Sport, Più personale – 2, Politica – 2, Letteratura – 3, Più personale – 3, Twin Peaks – 3. In realtà, a ben guardare, gli ‘ambienti’ principali in cui si situa la gran parte delle osservazioni di Amis (la politica, la letteratura, le esperienze personali e tra queste il dialogo privilegiato con altri scrittori amici, come Christopher Hitchens) sono più o meno gli stessi in cui si agitano le contraddizioni di Franzen. Manca solo l’ecologia in senso proprio, cioè ambientale (Amis vi fa solo qualche accenno, secondario ma originale: «adesso ci viene naturale identificarci con il pianeta, perché il pianeta sembra invecchiare di pari passi con noi»). Anche se non è rivolto verso la natura, lo sguardo è però costantemente puntato verso gli esemplari più curiosi di altre specie umane e sociali: tra gli articoli memorabili del libro ci sono ad esempio un’intervista a John Travolta (il cui nome, non a caso, figura nel sottotitolo del libro accanto a quello di Hitchens) e un reportage sul mondo dell’industria pornografica, che Amis riesce a scrivere con partecipazione priva sia di moralismo sia di adesione.

 

 

Il tono di questi saggi è sempre brillante, spesso ironico e, se non fosse uno stereotipo, sarebbe appropriato evocare il famoso sense of humour britannico, che lo scrittore mette alla prova con particolare acume nei confronti della politica americana («Mitt [Romney] è un mormone, ma non ne parla volentieri. E nemmeno io se fossi un mormone ne parlerei volentieri»). È vagamente umoristica anche la scelta di intitolare Twin Peaks, come la celeberrima serie di David Lynch, le sezioni in cui Amis interpreta e mette a confronto (molto seriamente) due vette della letteratura in lingua inglese: Vladimir Nabokov e Saul Bellow, autori-faro che dominano un canone personale di cui fanno parte anche DeLillo, Updike, Ballard e i due grandi Philip: Larkin e Roth. 

 

La pratica di modificare il canone per motivi estetici o etici (oggi questi motivi sarebbero politici, e cioè improntati all’egalitarismo) è stata magistralmente ridicolizzata da Northrop Frye nel suo Anatomia della critica (1957). […] Propongo comunque di fare delle previsioni a ragion veduta sul futuro della letteratura: personalmente sono convinto che la figura di Bellow emergerà come quella del romanziere americano per eccellenza.

 

 

 

Il brano è tratto da uno scritto del 2003: Saul Bellow vs Henry James. Se per Amis le «voci della narrativa e della saggistica di Bellow si intrecciano e si fecondano a vicenda» (Le belle lettere di Bellow) si capisce perché l’autore delle Avventure di Augie March occupi nel pantheon letterario un posto centrale, contesogli solo da Nabokov. I due maestri sono i protagonisti di una sorta di libro nel libro, ricostruibile mettendo in fila i brani dei molti saggi in cui Amis parla dell’uno, dell’altro o di entrambi. Il tema di questo libro ideale è la parabola del Grande Scrittore, dal massimo grado della sua forza espressiva fino alla decadenza, che nel caso di Nabokov (e di Joyce, a cui Amis lo accosta) consiste in un «deciso disamoramento nei confronti del lettore», nella «perdita di ogni riguardo e cortesia» nei suoi confronti (Twin Peaks - 1). Se è vero che il genere-saggio dà a uno scrittore l’occasione di vedersi attraverso le immagini che i libri, i fatti, le persone gli rimandano, possiamo pensare che per Amis il ritratto dell’artista da vecchio assomigli sempre più a un autoritratto. 

È anche questo a rendere decisivo e toccante il dialogo in assenza con Christopher Hitchens (1949-2011), che non ha fatto in tempo ad assumere i tratti dello ‘scrittore da vecchio’. Il saggio su Hitchens, pubblicato l’anno precedente alla sua morte, è il terzo e ultimo della serie Più personale. Amis vi rievoca un periodo preciso, l’estate del 1986 durante la quale stava «leggendo e rileggendo» uno studio famoso dello storico Robert Jay Lifton, I medici nazisti. In quei mesi, lo scrittore era assalito da un dubbio profondo: avrebbe avuto il coraggio di scrivere un libro sull’Olocausto? 

 

Christopher lo sapeva ed era a conoscenza dei miei scrupoli. […] “In fondo ci restano così poche aree di trascendenza. Lo sport. Il sesso. L’arte…” “E non dimentichiamo le sofferenze altrui”, disse Christopher. “Non dimentichiamo la languida contemplazione delle sofferenze altrui”. Alla fine scrissi quel romanzo.

 

E «quel romanzo» si sarebbe intitolato, in omaggio a Primo Levi, La freccia del tempo: o La natura dell’offesa (‘Time’s Arrow: or The Nature of the Offence’, 1991). “The Hitch” è stato anche questo per Amis: un reagente più che un interlocutore. Potremmo quasi dire: un ‘saggio’ incarnato, uno specchio che restituisce l’immagine di un altro sé stesso. Per questo, essere in disaccordo con Hitchens vuol dire per Amis fare i conti con le proprie idiosincrasie, per arrivare a cogliere, se non una verità, almeno una forma di adempimento, e di gratitudine:

 

Negli ultimi dieci anni Christopher ha scritto tre recensioni aspramente ostili: una su Ravelstein (2000) di Saul Bellow, una su Terrorista (2006) di John Updike e una su Il fantasma esce di scena (2007) di Philip Roth. […] Se sei uno scrittore, tutti gli scrittori che sono stati per te fonte di gioia […] sono come dei parenti onorari; e gli attacchi di Christopher erano freddamente privi di spirito filiale. Qui la mancanza di rispetto diventa il vizio che tanto assillava Shakespeare, quello dell’ingratitudine. E come Re Lear (che pensava alle sue figlie), ogni scrittore sa che un lettore ingrato causa un dolore più acuto di un morso di serpente. 

 

[Immagine 7: Hitchens&Amis]

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Natura, il nuovo film di Artavazd Pelešjan

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Una nascita senza genitori. Immaginate un mostro che divora chi gli ha dato la vita. O ancora un processo in cui, gli uni, morendo, non sanno a chi danno la vita, gli altri, nascendo, ignorano a chi l’hanno tolta”. 

 

A scriverlo è il cineasta armeno Artavadz Pelešjan (Leninakan, oggi Gyumri, 1938), oggetto di culto di generazioni di cinefili in tutto il mondo, inventore di quello che ha definito “montaggio a distanza”, contrapponendo al montaggio lineare e simbolico di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn e al cine-occhio di Dziga Vertov, suoi genitori/maestri, la fluida, torrenziale circolarità di un tempo-spazio cinematografico che, come la realtà, sfugge a ogni evidenza cronologica e contesta il principio della sequenzialità.

 

Fino ad oggi, oltre ai primi lavori realizzati negli anni di studio presso il VGIK (Vserossijskij Gosudarstvenn’ìj Institut Kinematografii) di Mosca, Pelešjan aveva congedato poco meno di tre ore di cinema (Il principio, 1967; Noi, 1969; Gli abitanti, 1970; Le stagioni, 1972; Il nostro secolo, 1982-1990; Vita, 1993; Fine, 1994) e un libro, Moë Kino, pubblicato in Armenia nel 1988. Con che sorpresa dunque, il 29 maggio scorso, a conclusione di una retrospettiva della sua opera e alla presenza dell’autore, il pubblico estatico della cineteca di Lisbona si è visto proporre, fuori programma e in prima mondiale, il suo nuovo film, Natura: durata sessanta minuti, un terzo della sua intera opera filmica, ventisei anni di lavorazione e un promettente, quasi imperioso, “continua” finale, destinato all’homo sapiens a venire.

 

Preceduto dalla pubblicazione in russo e in inglese di un volume intitolato My Universe and Unified Field Theory, a differenza di tutti i suoi lavori precedenti, girati in 35 mm. e (ad eccezione di Vita) rigorosamente in bianco e nero, Naturaè a colori e in digitale, un formato nuovo, forse ostico, per Pelešian, abituato alla ‘sensualità’ della pellicola, la propria e quella dei materiali d’archivio, alla sua resistente e al contempo duttile materialità, alla sua manipolabilità. 

 

 

Primo scoglio: come si parla del lavoro di un cineasta che ha messo a tema l’impossibilità di descrivere a parole il proprio cinema, di usare il linguaggio verbale per darne conto? Come si fa a raccontare un’opera filmica in cui non ci sono dialoghi, non c’è trama, non ci sono un inizio e una fine, non ci sono personaggi, e che tuttavia parla di noi, di noi nel mondo, sulla Terra, nel cosmo, dunque della nostra comune storia passata e futura, di noi nel Tempo mai solo individuale della vita? Come illustrare il titanico tentativo pelešiano di creare attraverso il linguaggio filmico l’equivalente di una “teoria del tutto” o “teoria del campo unificato”, in grado di spiegare interamente e di riunire in un unico quadro tutti i fenomeni fisici conosciuti, collocando in quell’ordine anche gli esseri umani e la loro durevole impermanenza?

 

Tentiamo una descrizione: sessanta minuti di immagini di repertorio o girate dallo stesso Pelešian, “truccate” – per citare le parole dell’autore – “dalla prima all’ultima”, non solo perché accostate tra loro secondo un montaggio dichiaratamente emotivo, ma perché ripetute più e più volte, talora in modo quasi impercettibile, rallentate, accelerate, capovolte, negativizzate, rifilmate ingrandendole e re-inquadrandole. E le immagini non sono mai sole o solo se stesse. Formano una sorta di unicum con il suono o la musica che in esse sembra addensarsi, traducendosi in un terzo segno che non è la somma di questi due componenti, ma un significante nuovo già carico di un duplice potenziale significato: quello attribuitogli dal regista e quello che gli riconosceranno spettatori e spettatrici, coinvolti in un lavoro di lettura del “testo filmico” giocato sulla memoria. E la memoria, per Pelešian, non è mai solo il ricordo cosciente di un’esperienza vissuta, bensì l’insieme di frammenti di vita, nostri e altrui, privati e collettivi, reali e immaginari, che si depositano in noi nel corso del tempo e ai quali cerchiamo di dare un ordine, un senso riconoscibile.

Ecco perché Natura, che a un primo sguardo si presenta come una raffigurazione dei “tempi della fine” in cui saremmo entrati, come una presa d’atto della potenza distruttrice della Natura, della sua lenta rivolta nei confronti dell’umana arroganza, va guardato e ascoltato attentamente per non rinchiudere nel binomio caos-politica il magnifico tentativo pelešiano di non ridurre la Vita a vita umana e Gaia all’in/disciplina impostale dalla risacca dell’antropocene. 

 

 

“L’opzione drammaturgica e di messa in scena cosciente” teorizzata e perseguita da Pelešian fin dai suoi primi lavori, apprezzabile tenendo conto non solo del “chi-soggetto”, “che-oggetto”, “chi-oggetto”, ma anche del”come”, raggiunge in Natura una misteriosa, rarefatta intensità. Il “cardiogramma” da lui realizzato facendo convivere e confliggere la realtà delle immagini (che della Realtà non sono che la pelle) accosta e separa, scompone e increspa, ripete e moltiplica in una struttura circolare e tuttavia mai chiusa i fotogrammi digitali del morenico e istantaneo mutare della natura: eruzioni vulcaniche, terremoti, tsunami, trombe d’aria. 

 

Gli esseri umani e i loro manufatti, gli animali, le piante fanno parte di questi paesaggi in trasformazione, ne sono semplicemente l’elemento più fragile e effimero. Siamo noi a percepire come improvviso e terminale l’impatto dei fenomeni naturali di grande scala. Sotto la crosta della terra o nell’alto del cielo l’energia vitale degli elementi, l’allegra potenza di Gea, prepara nel corso del tempo mutazioni che solo la cecità umana può considerare imprevedibili, perché non le ha previste. 

 

Nella scelta delle immagini selezionate, nella loro manipolazione e disposizione, nella tessitura suono-musica-immagine che induce lo spettatore a guardare con le orecchie e ad ascoltare con gli occhi, Pelešian ha ancora una volta puntato sulla risonanza immaginativa, sulla capacità del testo filmico di suggerire una generalizzazione, di farci letteralmente vedere e ricordare immagini fisicamente assenti, di farci sentire parte di una storia ‘non nostra’, che invece è di tutti e ci riguarda da vicino.

 

Forse per capire un’opera filmica che solo oggi, a ottantuno anni, il regista riconosce “compiuta”, bisogna rivolgersi a Adorno e a quanto scrive sullo “stile tardo” di Beethoven, “un processo, ma non inteso come sviluppo, bensì come accensione tra estremi che non sopportano più nessun centro sicuro”. Neppure nelle pagine di Natura“è concepibile alcuna sintesi”. Anche qui si tratta in effetti delle “reliquie di una sintesi, della traccia di un singolo soggetto umano fortemente cosciente dell’interezza, e perciò della sopravvivenza, che gli è sfuggita per sempre”. Anche qui c’è un’“eccedenza di materia.” 

 

“È la soggettività”, scrive Adorno, “che nell’attimo unisce forzatamente gli estremi, che carica con le sue tensioni la polifonia messa alle strette, la spezza nell’unisono e si dilegua, lasciando dietro di sé il suono messo a nudo; che impiega la formula retorica come monumento di quanto è stato, in cui entra la stessa soggettività pietrificata. Le cesure, però, l’interruzione improvvisa, che più di ogni altra cosa caratterizzano l’ultimo Beethoven, sono quei momenti dell’esplosione; l’opera tace quando viene abbandonata, e rivolge all’esterno il suo vuoto”.

 

Per esprimere le idee che “lo emozionano”, Pelešian usa il montaggio negandolo, inserendo tra i due elementi contigui “un terzo, un quinto, un decimo elemento”, perché “non è la giustapposizione tra elementi, ma la loro interazione” a consentire di esprimere al meglio quell’idea emozionata che è – come diceva lo scrittore palestinese Mahmud Darwish – la poesia. Forse l’arte che, nella sua temporalità, più si avvicina all’opera colossale del regista armeno.

 

 (Lisbona, 6 giugno 2019

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Il testimone, il chimico, lo scrittore, il narratore fantastico, l'etologo, l'antropologo, l'alpinista, il linguista, l'enigmista, e altro ancora. Primo Levi è un autore poliedrico la cui conoscenza è una scoperta continua. Nel centenario della sua nascita (31 luglio 1919) abbiamo pensato di costruire un Dizionario Levi con l'apporto dei nostri collaboratori per approfondire in una serie di brevi voci molti degli aspetti di questo fondamentale autore la cui opera è ancora da scoprire.

 

Nel secondo paragrafo della prima pagina di Se questo è un uomo Primo Levi scrive che il suo libro non aggiunge nulla in fatto di particolari atroci sui lager. Tutto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo. E poi specifica: Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi d’accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano.

Sono parole molto conosciute, su cui molte altre parole sono state spese. Contini direbbe che non è più possibile operarvi “a caso vergine”, oppure che esse sono occultate dal bagliore della loro stessa familiarità con il lettore.

Ma forse è possibile tentare qualche ipotesi inedita.

Prima però partiamo dall’edito. E qui non si può che far riferimento all’opera imprescindibile su Levi, cioè Primo Levi di fronte e di profilo di Marco Belpoliti. A pagina 107 Belpoliti si pone la domanda se effettivamente Se questo è un uomo sia uno studio pacato dell’animo umano. Dato che subito dopo le righe introduttive sopra citate, girando pagina, in esergo, il lettore s’imbatte in una poesia, anch’essa celeberrima, dove Levi invoca terribili maledizioni su chi non dovesse meditare sui fatti accaduti, su chi non scolpirà nel cuore e non ripeterà ai suoi figli le parole che quei fatti raccontano. (Maledizioni bibliche o, come direbbero i Romani, autentiche dirae).

 

Si tratta di una palese contraddizione, evidenziata anche da Mario Barenghi, con la pacatezza invocata all’inizio. O forse, più in generale, di un’ambivalenza che potrebbe caratterizzare l’opera di Levi nella sua interezza, divisa com’è tra il distacco dell’osservatore scientifico e la passionale partecipazione del profeta biblico.

 

Noi per parte nostra vogliamo soffermarci un momento sulla parola studio, sulla parola documenti e sull’aggettivo pacato.

Questa costellazione lessicale rimanda in modo irresistibile a due altrettanto famosi testi di Verga.

La prefazione ai Malavoglia, innanzitutto: Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini per il benessere…

E poi la dedicatoria della novella L’amante di Gramigna: Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso avrà il merito di esser brevissimo, e di esser storico – un documento umano, come dicono oggi – interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore…

L’ordine delle citazioni andrebbe a rigore invertito, dato che la prefazione (1881) segue di un anno la dedicatoria (1880).

Comunque Levi sembra porsi nell’ordine d’idee verista, dell’arte come studio, documento, osservazione impassibile dell’umano. Si sa che Verga derivava da Zola e dai Goncourt queste convinzioni. La celeberrima prefazione a Germinie Lacerteux riportava la precisa nozione di romanzo come étude littéraire et enqu^ete sociale.

 

Anche D’Annunzio, nel suo primo romanzo, Il piacere naturalmente, si serve di un’analoga terminologia di ascendenza verista. Nella dedica a Francesco Paolo Michetti, artista che studia (a te che studii tutte le forme e le mutazioni dello spirito come studii tutte le forme e le mutazioni delle cose), il libro dell’amico è indicato come particolarmente adatto proprio perché in esso D’Annunzio dice di sé: io studio, non senza tristezza, tanta corruzione e tanta depravazione e tante sottilità e falsità e crudeltà vane

Si nota però subito come alla parola studio qui, nel Piacere, non corrisponda nessuna pacatezza o distacco, ma tutta una serie di oggetti con connotazioni dichiaratamente negative, accompagnati inoltre da un atteggiamento anch’esso fortemente connotato, la tristezza, indicante una partecipazione emotiva che il narratore verista bandisce o dovrebbe bandire programmaticamente.

Insomma, già dalla dedica, appare chiaro come D’Annunzio usi la parola studio ma svuotandola di senso. Semplificando molto: finge di esser verista, ma è già decadente. Oppure: è un decadente travestito da verista.

C’è un episodio che pare confermare quest’analisi. 

 

A un certo punto, nel romanzo, Andrea Sperelli, a proposito dei caduti di Dogali, “quel primo sangue italiano versato in guerra dopo anni di pace e pel quale tutta l’Italia patriottica dolorava e chiamava vendetta” (Benedetto Croce), se ne esce con la cinica battuta: quattrocento bruti morti brutalmente!

Ne nacque un grande scandalo. Naturalmente era quello che D’Annunzio voleva. Ma, al suo editore, Treves, così si giustificò: Quella frase, caro signore, è detta da Andrea Sperelli, non da Gabriele D’Annunzio… voi avete capito che, studiando quello Sperelli, io ho voluto studiare, nell’ordine morale, un mostro…

Pur essendo in piena temperie decadente, una delle cui caratteristiche salienti, è la confusione procurata tra personaggio e autore, lo scrittore invoca lo studio verista, più precisamente le “ragioni di studio”. Non sono io, dice D’Annunzio, che pronuncio quella provocazione, ma è il tipo umano che studio, a pronunciarla. E tutto ciò sapendo benissimo che è lui, l’autore, a servirsi dello scandalo suscitato a bella posta. Mente sapendo di mentire.

(Incidentalmente osserviamo come quella che, scolasticamente, viene percepita come una successione, Verismo prima, e poi Decadentismo, è in realtà una compresenza: nel 1881 escono sia I Malavoglia sia Malombra; nel 1889 Il Piacere e Mastro-don Gesualdo; sempreché queste misteriose entità, Verismo e Decadentismo, abbiano poi una loro esistenza reale e non siano, come altri –ismi, creature puramente ipotetiche).

 

Forse anche Levi usa la parola studio nel modo di D’Annunzio, togliendole il suo senso verista, di mera registrazione di eventi, priva di coinvolgimento emotivo.

Forse il suo studioè più vicino allo studium latino, con tutta la sua carica di passionalità, parzialità, emotività.

Del resto anche Tacito, nel famosissimo primo capitolo degli Annales, si proclamava storico sine ira et studio (ossia senza rancore e senza adesione preconcetti) eppure il suo ritratto di Tiberio gronda indignazione da tutti i pori e ci inquieta ancor oggi.

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La pizza prima degli esami | una notte nel loro quartiere

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Siamo stati nella stessa stanza 350 ore. Ci siamo visti ogni giorno per 144 giorni; con gli esami arriveremo a 200 giorni con il pensiero della scuola in testa. Nella classe possiamo personalizzare qualcosa: parlarci negli intervalli, ricucire le risse, sedare gli insulti, avviare raffinati processi di giustizia riparativa. Possiamo fare in modo che non vengano bocciati, e che il loro 6 non sia finto ma sia almeno il frutto di un loro sforzo di apprendimento che non è in fondo minimamente paragonabile alle ore di studio che noi professori abbiamo speso alla loro età, ma che per loro, chi con il padre in galera, chi senza padre, chi senza madre, chi senza soldi, chi senza cittadinanza, chi senza ambiente sociale, risulti il massimo dello sforzo per loro possibile. Questo chiediamo: che in un mondo di ego che sbraitano e sprezzano altri ego in realtà esistano ancora delle prove individuali in ogni singola vita: misurarsi su un progetto etico che ignori la cagnara pubblica; costruirsi mattone su mattone capendo che il branco non avrà l’importanza che ha ora; minimi obbiettivi, minimi termini: oggi ho fatto più di ieri e sono soddisfatto di me, perché sto meglio con me stesso, mi stimo un poco di più, mi rispetto e ti rispetto. Qualcuna (più che qualcuno) capisce che studiando il suo pensare si espande sino alla costruzione di opinioni personali, fondate su dati non fittizi; tre o quattro per classe a fine anno riescono a ingaggiare una conversazione su palestinesi e israeliani distinguendoli da shoah e nazismo; molti di loro capiscono che è puro nonsenso che il loro compagno dalla prima elementare in terza media non abbia la cittadinanza italiana mentre loro ce l’hanno solo perché un loro genitore aveva già la cittadinanza. Scoprono che la legge è scritta per tutti ma che le cose non sono affatto uguali per tutti.

 

Ma non ottieni la fiducia di nessuno di loro se non accetti dieci, venti rapporti individuali, ricordandoti i loro vissuti, essendo severo a volte su temi cruciali, essendo simpatico altre su temi informali. Quando è suonata l’ultima ora e l’ultima campanella ha trillato, si setaccia la verità di quello che hai fatto tu come professore e di quello che loro hanno accettato di fare con te. 

L’ultima valutazione di Geografia l’ho destinata a un lavoro peer to peer sui computer dell’aula “informatica”; ogni coppia poteva abbinarsi liberamente, scegliere un Paese dell’Africa, e preparare un PowerPoint in cui emergesse in particolare un’idea contemporanea, vissuta di quei Paesi. Molti Paesi scelti erano quelli di origine dei genitori e dei nonni: Egitto, Marocco, Tunisia, Senegal, Nigeria… Ho diffidato i post-egiziani di copiare e incollare nelle slide le piramidi di Giza; ho diffidato i post-tunisini dall’incollare datteri e resort; nel Marocco ho dovuto accettarlo: perché mentre raccontava il suo “paese natale” a Widad brillavano gli occhi di gioia e commozione: «In questa piazza c’erano le tintorie, oggi le hanno chiuse, sono solo per i turisti, ma c’è ancora un odore terribile; mio nonno ha lavorato lì tutta la vita»; e il villaggio apparentemente turistico con le case tutte blu per lei non è turistico affatto; «quando ci vai chi ci abita ti accoglie con il cuore in mano, ti invita in casa a bere un the alla menta e a mangiare un dolcino; a me piace tanto tornarci ogni anno». E a te, Widal, che sei così intelligente, graziosa, coraggiosa, non piacerebbe tornare a vivere in questo Marocco che ci dici in «pieno sviluppo economico»? Tornare lì e diventare una leader della tua nazione? «No: che ci torno a fare? Ormai tutte le mie amiche sono qui, in questo quartiere, i miei genitori sono qui; là sarei sola! Le vacanze le farò sempre là, però, questo sì».

In queste ricerche per favore nessun luogo comune! Niente che sappiamo già tutti! Scegliete una canzone che cantate voi, traducete il testo che capite voi, scegliete il cibo che vi piace di più: l’ultima ora dell’anno andremo sotto il nostro noce del Caucaso e mangeremo quello che avrete cucinato voi. 

 

 

L’ultima ora dell’anno alle 8 in classe l’unico fagottino ce l’ha Aurelia: dice che non poteva fare una ricetta del Madagascar perché non sapeva dove trovare la manioca e altre strane spezie; «e poi lì mangiano solo pollo tutti i giorni!». Grazie allora per queste specie di semolini dolci fritti a forma di quaglia decapitata; ce ne sono due a testa; avete invitato gli altri prof? Sì, ma solo i due o tre che sono simpatici. Domani sera c’è la “pizzata”; Aurelia ha prenotato nell’unica pizzeria aperta in questa landa di barriera; dentro ci sono altre classi ululanti, quando arriviamo tardi perché abbiamo dovuto aspettare i ritardatari. Mariella non c’è perché sua madre le ha dato 30 euro per tutte le attività di fine anno e lei preferisce spenderli per la piscina e la discoteca, e così non ha più soldi per la pizzata: balza. Gli altri ci sono quasi tutti. Hanno invitato tre prof della classe e uno della scuola, il loro preferito, perché è giovane e scherza con loro assaissimo; gli saltano in groppa, fanno la lotta. Nella tavolata io non capisco una parola: ridono tutti a crepapelle, in continuazione, passano dagli smartphone a barzellette a volte divertenti a volte terribili, e io cerco di ridere anche se odio le barzellette da sempre. Mi indigno quando il padano biondo rugbista dice: «Sai quanto è alto un ebreo? Così», e fa il saluto nazista: gli urlo di vergognarsi e scende il gelo sulla tavolata per alcuni secondi, poi ripartono sciocchezze o teatrini spontanei. 

Quando siamo seduti a tavola Mwaka arriva con un fagottino per me e uno per un altro prof: «I dolcini che ha fatto Aurelia non erano buoni – mi sssibila come al solito (sembra Sir Biss del Robin Hood della Walt Disney –; questi sono i veri dolcini fritti che facciamo in Senegal: li mangi domani a colazione!» Che gentile! La stagnola che avvolge i dolcini è avvolta in un sacchetto di plastica. La mattina dopo mangio i beignet e sono davvero buonissimi!

 

Durante la cena vanno e vengono di continuo fuori: Anna mi racconta tutta eccitata che ha appena incontrato al “parco” (che sarebbe un giardino con qualche pianta) questo ragazzino marocchino dalla faccia buona che fuma sigarette e che ha già lavorato a Monaco di Baviera con il fratello e ora sta per arruolarsi nell’Esercito perché ha 18 anni; si tengono per mano e si sbaciucchiano. Anna se ne sta fuori tutto il tempo e se lo sbaciucchia. Quando arriva la sua pizza margherita è gelida, dice che fa schifo e quella di sua madre è tutt’altra cosa, ne lascia metà e riesce. Poi la cena finisce, e c’è il gran finale: andiamo a prendere il gelato in piazza! Va bene. Comincia una marcia interminabile, fatta di stop continui, risate, casse portatili che sparano canzoni cantate a branco a squarciagola; sono le 23: il quartiere è abbastanza pulito, ordinato, ma in giro non c’è un’anima; è sempre così deserto?; «sì». Ci sono casermoni e alberelli, alberelli e casermoni. A un certo punto comincia tra urletti di schifo femminili e risate maschili il salto dello scarafaggio: orde di blatte stanno risalendo dai tombini dirigendosi verso i praticelli degli alberelli dei casermoni. Loro ci sono abituati.

Cammina cammina cammina. Finché capiamo che la gelateria è il top place del quartiere, dove come api si posano sul cono le ventenni sui trampoli a spillo e minigonna con fidanzato dalla camicia aperta sul petto depilato che parcheggia la 500 Fiat Abarth. Capiamo che quella gelateria è il loro centro lontano dal centro, è il massimo, l’epicentro della loro vita. Si comprano i coni da 1,80 euro tutti blu e se li mangiano contenti.

 

 

Infine, c’è il ritorno. I mei colleghi quarantenni scherzano di nuovo con loro. Io sono stanco. Mwaka due o tre volte mi trotterella a fianco e mi chiede: «Professore, perché se ne sta tutto solo e zitto? In classe parla sempre e stasera non parla?». Hai ragione – gli dico – ma proprio perché parlo e parlo ogni mattina la sera sono stanco e non so più cosa dire, e me ne sto un po’ in disparte, ma non sono triste! (invece non è vero, perché mi è presa un po’ di malinconia degli adieux imminenti…)

Una per volta consegnamo alla madre con il velo, che attende come vedetta sul balcone la figlia: è l’una di notte! Non hanno mai fatto così tardi in vita loro! Padri fanno la ronda in auto cercando la loro figlia-gioiello sparita nella landa desolata con quegli scriteriati professori nottambuli. Una ad una vengono risucchiate dai casoni e dalle loro famiglie oneste, impegnate a preservare la virtù delle ragazzine in questa Europa immorale. Quando arriviamo al punto di partenza, la scuola, sono esausto. Ma ripenso a quella interminabile marcia verso il gelato; con il mio giovane collega capiamo che i ragazzi l’hanno allungata apposta, rallentata apposta, facendoci prendere viuzze a noi sconosciute per prolungare quella loro bellissima serata di festa, a ridere e cantare in un quartiere muto. Ci hanno proprio portati in giro, i furbacchioni!

 

13 giugno 2019

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Roy Lichtenstein: la creatività nel grande acquario dei cliché

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Mudec, Milano

Perché un'altra mostra su Roy Lichtenstein? Perché per il grande pubblico è la Pop Art per antonomasia: facile, colorata, divertente, positiva, spettacolare, popolare. E non importa se per i critici apocalittici rimane il caso più paradigmatico di «predazione generale sfrenata delle immagini della cultura pop commerciale e pubblicitaria americana» (Marc Fumaroli, Paris-New York e ritorno, Adelphi, 2011). Questa è un'arte ancora oggi di successo e di facile richiamo, un'arte che i mercanti d'aura hanno osannato e l'immaginario collettivo ha fagocitato con voracità. Quei fumetti e quei frammenti di immagini pubblicitarie ingigantiti e dipinti in modo freddo e distaccato, ce li ricordiamo bene. E non c'è niente da capire.

Eppure ci sarebbe molto da capire, perché Lichtenstein ci ha spiattellatto davanti agli occhi, e quindi nascosto nel modo più subdolo, una questione che riguarda da vicino la nostra cultura e il senso dell'arte in essa: noi viviamo letteralmente immersi nei cliché. Come si fa ad essere artisti in un mondo di cliché? C'è davvero differenza tra le immagini prodotte da un grafico “creativo” e quelle prodotte da un artista “creatore”? E se sì, qual è? 

 

Nei testi di presentazione della mostra da poco inaugurata al Mudec (Roy Lichtenstein, Multiple Visions, 1 maggio-8 settembre) uno degli aggettivi ricorrenti è “iconico”, usato nel senso di qualcosa che si riconosce immediatamente, un'immagine talmente nota da esser colta in un colpo d'occhio e far scattare automaticamente una serie di associazioni: una tavola di fumetto stilizzata e ingrandita è ri-conosciuta subito come “Pop Art”, “America anni sessanta” e, per i più colti, “un Lichtenstein”. È quel senso di déjà vu che fa dell'icona un'immagine “consumata” e la trasforma in un logo, un brand: un cliché appunto. (Sull'opera di Lichtenstein come «immagine-cliché» è illuminante Hal Foster, Pop Art, Postmedia, 2016).

 

Per cominciare bisognerebbe dunque cercare di disattivare l'effetto-icona che ha colpito pesantemente l'artista-dei-fumetti, come molti altri artisti famosi che sono stati inglobati nell'immaginario mediatico contemporaneo: Picasso, Pollock, Magritte, Dalì, Mondrian, Mirò (per citare alcuni nomi omaggiati dal nostro). Cosa nient'affatto facile nel caso di Lichtenstein, proprio perché tutto il suo lavoro è una parodia dell'immagine mediatica e gioca col paradosso della copia che diventa originale e dell'originale che aspira all'impersonalità della copia. (Un discorso analogo, ma con differenze sostanziali, vale anche per Warhol). 

 

«Riprodurre un Lichtenstein è come ributtare un pesce nell'acqua», ha scritto Richard Hamilton, il precursore inglese della Pop art americana. Oggi però siamo tutti dentro un grande acquario in cui sembra ci siano solo pesci-copia (le stampe firmate e numerate esposte al Mudec, i manifesti della mostra affissi in città, i quadri fotograti milioni di volte e messi in rete... E questo non vale solo per l'artista pop). Eppure c'è stato un momento in cui, a dispetto della sua apparente banalità, Lichtenstein ha pescato qualcosa di veramente sbalorditivo, che oggi non riusciamo più a vedere e sentire. Dobbiamo immaginarcelo, facendo un salto nel tempo e mettendoci nei panni dei frequentatori d'arte moderna a New York, quasi sessant'anni fa.

 

Alla metà del secolo scorso la grande pittura americana, quella che aveva spostato a New York il baricentro del mondo dell'arte, è violentemente espressiva o profondamente metafisica, piena di pathos e drammi individuali, anche se priva di figure. È la pittura di Pollock, de Kooning, Barnett Newman, Kline, Rothko... Altrettanto drammatica e sofferta è la grande arte esistenzialista europea, come quella di Alberto Giacometti e Francis Bacon, esposta al MoMA nel 1959. 

Ci sono poi alcuni giovani rivoluzionari che cercano di spodestare il predominio dell'espressionismo astratto: i più famosi sono Bob Rauschenberg, che accumula detriti di realtà imbrattati di pittura in composizioni caotiche, e Jasper Johns, che dipinge enigmatici bersagli e piatte bandiere americane. Le loro opere suscitano molto scalpore e mettono in crisi l'idea stessa di arte.

Nessuno però avrebbe potuto immaginare un oltraggio più blasfemo di quello che l'appassionato si trova di fronte, nel febbraio del 1962, varcando la soglia della galleria di Leo Castelli: sulle pareti, allestite con tutta la cura riservata ai capolavori, ci sono grandi tele sulle quali campeggiano solo fumetti e frammenti di immagini pubblicitarie, ingigantiti e dipinti coi colori squillanti e piatti della stampa dozzinale. Qui non solo non c'è più traccia di Arte con la maiuscola, ma nemmeno dell'alterità rivoluzionaria dell'arte moderna. Dov'è finita la visionarietà che la eleva al di sopra del banale immaginario quotidiano? La profondità e l'originalità dello sguardo dell'artista? La sua passione incarnata in una forma?

 

La reazione dei critici è dura: banalità e plagio sono le accuse più ricorrenti. Eppure una porta è stata sfondata e una corrente artistica irrompe sulla scena con una rapidità mai vista prima. Come voltando la pagina di un libro pop-up, nel giro di pochi mesi e indipendentemente l'uno dall'altro, assieme a Lichtenstein spuntano fuori (per citare solo i più famosi) Claes Oldenburg, James Rosenquist e infine Andy Warhol, destinato a diventare l'incarnazione più sfacciata e radicale della Pop Art. Le opere di Lichtenstein vengono esposte in varie collettive in tutto il paese e vendono benissimo, anche senza il sostegno di critici o curatori ben disposti. Alla fine del 1962 il MoMA organizza perfino un simposio sulla Pop Art, ma il coro degli addetti ai lavori è pressoché unanime: quella non è arte. (Il museo comunque si accaparra presto un Warhol e un Lichtenstein).

 

Col senno di poi, potremmo dire che lo shock di Lichtenstein non è altro che una variante commerciabile dello shock tentato da Duchamp in quella stessa città trentacinque anni prima con il famigerato orinatoio. Solo che questi sono readymade “fatti a mano”, immagini pronte all'uso ma ridipinte accuratamente. In quei quadri è dunque ben presente la pittura “retinica” aborrita da Duchamp; però è usata nel modo meno artistico, meno emotivo, meno soggettivo: una riproduzione meccanica (almeno apparentemente: in realtà le differenze rispetto agli originali ci sono e non sono irrilevanti).

L'effetto è reso ancora più violento dal fatto che quella tecnica artistica “alta” (la pittura su tela e il quadro con la sua unità formale) è applicata a un soggetto e uno stile “basso” (fumetti, pubblicità e grafica commerciale). Per il mondo dell'arte del tempo è una blasfema introduzione del Kitsch consumistico e commerciale nel recinto sacro dell'arte d'avanguardia, un recinto ben fortificato dal grande sacerdote del modernismo Clement Greenberg col suo Avanguardia e Kitsch del 1939. E il fatto che le opere vendano, non fa che confermare il giudizio di condanna. 

Ma forse c'è una colpa ulteriore. Se l'uso anti-artistico della riproduzione di immagini commerciali è evidente anche in Warhol, in Lichtenstein c'è un ossimoro più urticante: da una parte, una fedeltà piena e consapevole alla tradizione della pittura modernista, con un'attenzione rigorosa alla forma (i colori primari di Mondrian, il contorno marcato dei cubisti, l'insistenza sulla superficie materiale della tela dei minimalisti); dall'altra, una drastica rinuncia a un assunto profondamente radicato in quell'arte: la “creazione” di qualcosa di assolutamente originale, che prima non c'era.

 

 

Il concetto di creazione è antico e impegnativo, impregnato di implicazioni mitologiche e teologiche. Quello di originalità è legato soprattutto all'estetica sette-ottocentesca. Entrambi si fondono nella figura del genio, culmine di quel processo di “sacralizzazione” romantica di cui è ancora impregnato il nostro modo di pensare l'artista. Nel genio si realizza in pieno la grande analogia che fin dall'antichità è stata proiettata sull'abile artefice di immagini: quella col Sommo Creatore, con la sua capacità di far esistere dal nulla qualcosa che prima non esisteva. L'analogia ha assunto varie forme, anche contraddittorie: dalla “divina mania” di Platone alla possessione diabolica di Paganini. 

Col passaggio al Novecento e la nascita della psicoanalisi, l'idea di un'ispirazione soprannaturale ha finito per identificarsi con l'inconscio. La forza trascendente dell'artista-genio, pur rimanendo “altra”, estranea alla coscienza dell'artista, non viene più da fuori, ma è tutta dentro di lui. Quando Pollock dice “Io sono natura”, riecheggia sia la definizione kantiana di genio, sia l'idea junghiana di quella “natura più profonda” dentro di noi, in cui dominano gli archetipi.

Duchamp aveva cercato di sbarazzarsi di questo nucleo mitico; ma i suoi readymade erano troppo lontani dal senso comune. In ogni caso, le avanguardie non avevano mai smesso di creare immagini originali e innovative che si contrapponevano al mondo degli oggetti e delle immagini quotidiane. La loro diversità era una ribellione alle regole delle “belle arti” e rivendicava il suo antagonismo al mondo dell'utile, della decorazione, dell'intrattenimento, del commercio e del filisteismo borghese (il Kitsch di Greenberg).

Ora, invece, ecco un artista che rinuncia alla creazione e spaccia per arte i sottoprodotti visivi della società dei consumi.

 

Per una coincidenza significativa proprio nel momento in cui Lichtenstein sferra il suo pugno in faccia al mondo dell'arte contribuendo all'esplosione della Pop Art, in America comincia ad affermarsi, a partire dal campo della psicologia, un concetto che sembra un aggiornamento “scientifico” della vecchia idea di creazione artistica: la creatività. Nel 1950 Joy Paul Guilford, presidente della American Psychologists Association, inaugura il congresso annuale con una relazione intitolata proprio Creativity, sostenendo che quel tema, fino allora trascurato dagli psicologi, era importante per educare e promuovere lo sviluppo di personalità creative. E due anni dopo Brewster Ghiselin, poeta e accademico, pubblica una fortunata antologia intitolara The Creative Process. A Symposium. Da allora la “creatività” è dilagata nella cultura americana, trovando terreno fertile nell'età d'oro della pubblicità, e poi in tutto il mondo, diventando la parola feticcio che conosciamo oggi (Stefano Bartezzaghi, Il falò delle novità, Utet, 2012).

Il concetto è troppo vago e ambivalente per non generare una matassa ingarbugliata di definizioni. Tutte comunque concordano su un'idea di fondo: in quanto disposizione, potenzialità che precede il risultato effettivo, la creatività è una dotazione psicologica comune a tutti gli individui; e può essere sviluppata favorendo certi fattori ambientali ed educativi. (Un'esauriente introduzione al tema della creatività è La trama lucente di Annamaria Testa, Rizzoli, 2010.)

 

All'inizio degli anni sessanta questa idea trova una perfetta sintonia col manifesto estetico-politico di un gruppo eterogeneo di artisti che si riconoscono nel movimento Fluxus: “Tutto è arte e chiunque la può fare”. I loro nomi non hanno mai raggiunto neanche lontanamente la fama degli artisti pop (tranne il tedesco Joseph Beuys, che è una figura a sé). Quasi tutti però hanno subito, più o meno direttamente, l'influenza di un mentore celeberrimo che è uno dei grandi punti di catastrofe del Novecento: John Cage, il quale a sua volta ha tra i suoi mentori Marcel Duchamp (su Duchamp, Cage e gli altri “punti di catastrofe” mi permetto di rimandare al mio Catastrofi d'arte, Johan&Levi, 2019). 

Nel 1956 Cage inizia a insegnare alla New School of Social Research a New York. Il corso si chiama “composizione sperimentale”, ma per Cage la musica è solo uno dei modi di declinare il fare artistico: il suo intento esplicito è quello di stimolare a cambiare il modo di fare le cose, di giocare col cambiamento. Chiede ad esempio di disegnare qualcosa che possa servire come partitura musicale e poi invita qualcun altro (come succede a George Segal, il futuro scultore pop dei calchi bianchi) a cantare improvvisando su quel disegno. Oggi si direbbe un corso di creatività. Tra i suoi allievi c'è Allan Kaprow, l'inventore degli happening, che insegna alla Rutgers University, vicino a New York, dove bazzicano altri allievi di Cage e futuri esponenti di Fluxus.

 

 

E proprio alla Rutgers University, nella primavera del 1960, arriva come assistente il trentaseienne Roy Lichtenstein. Il suo percorso fino ad allora era stato tutt'altro che rivoluzionario: dopo aver studiato arte alla Ohio State University, aveva cominciato seguendo le orme dei maestri del modernismo (Klee, Picasso e i cubisti soprattutto) con lavori che traducevano i loro stilemi in rivisitazioni di temi della cultura popolare americana. Era poi passato all'astrazione pura sulla scia degli espressionisti astratti. Alla Rutgers si trova improvvisamente in contatto col gruppo di “creativi” che, stimolati da Cage, stanno rompendo tutti i limiti. Partecipa anche ai primi happening di Kaprow, apprendendo da lui l'idea che «l'arte non deve sembrare arte». Ed è lì che raggiunge il suo personale punto di catastrofe: il suo primo dipinto pop, Look Mickey, nasce nel giugno del 1961. Nell'autunno Kaprow gli organizza l'incontro da Castelli, che fiuta la novità esplosiva e lo lancia.

 

Ovviamente l'opera di Lichtenstein non ha niente a che vedere con quelle degli artisti di Fluxus, in cui domina il concettualismo duchampiano, l'utopia cageana della vita come arte e uno spirito violentemente anti-commerciale. Ma è indubbio che il contatto con quel punto di catastrofe abbia contribuito alla nascita dell'immagine-cliché. E mette in evidenza come l'invenzione di Lichtenstein sia dovuta anche – e forse soprattutto – a quella ristrutturazione concettuale che per i teorici della Gestalt rappresenta il culmine del processo creativo.

 

Se questo è vero, allora la blasfema rinuncia alla profondità della “creazione” artistica può essere invece vista come una sua sostituzione con una diversa idea di “creatività”. 

Purtroppo, il successo e l'abuso di questa parola nella cultura di massa ha alimentato una reazione di rigetto, soprattutto nel mondo degli artisti. Ai loro occhi è colpevole di una duplice connivenza col “nemico”: con la comunicazione pubblicitaria, settore in cui il termine ha ricevuto una specie di imprinting tecnico, e col mondo imprenditoriale in generale, che l'ha adottato con entusiasmo apologetico. Con quest'ombra negativa, la creatività che prende il potere in nome dell'arte per tutti e di tutti finisce per risultare generica, superficiale e brillante come una trovata pubblicitaria. 

 

In un libro dedicato a Picasso (Il demone di Picasso, Quodlibet, 2017), Gabriele Guercio parla proprio di «creatività generica» definendola come l'«indistinzione, potenziale e programmatica, tra arte e non arte», una «libertà illimitata di scelta» che «acutizza l'ansia di produrre (e) rende incapaci di decidere di fronte all'illimitatezza delle opzioni». A suo parere costituisce un vero e proprio nuovo «paradigma» nella storia dell'arte occidentale, la cui apparizione risalirebbe a un bizzarro esperimento che Picasso realizza nel suo studio nel 1913. Ma la definizione calza a pennello al fermento generato intorno al 1960 dai batteri seminati da Cage e Duchamp. 

Come antidoto a questa creatività generica, che si sarebbe impossessata di tanta arte contemporanea, egli propone una «creazione ex nihilo», smarcata però dalle tradizionali implicazioni teologiche o mitologiche e definita variamente come «qualcosa di originale e originario, senza condizioni, genealogie o radici accertabili», «stupefacente manifestarsi di qualcosa che prima non c'era», «surplus d'essere» che ha «il senso di un'origine ignota». 

Ed è ancora Picasso, secondo Guercio, a offrire questo antidoto: quando dice che la sua arte è il risultato di un “trovare” e non di un “cercare”, ed esprime «quello che la natura nonè», intuisce che «l'ex nihilo arriva quando ci si arrende alla contingenza e alla pura casualità. Cercare implica supposizioni e calcoli. Il trovare occorre senza causa o ragioni accertabili. Attiene a tutto quanto nonè natura, non segue una supposta regolarità di cause ed effetti» 

 

Questo cercare contrapposto al trovare richiama sia lo sperimentalismo continuo sollecitato da Cage e messo in pratica dagli artisti di Fluxus, sia quell'idea di creatività che gli psicologi americani individuano in tutti i campi dell'innovazione scientifica e artistica. È dunque questa sperimentazione creativa basata su una progettualità, uno scopo, un problema da risolvere partendo da elementi esistenti, ciò a cui si dovrebbe opporre la creazione come irruzione improvvisa del nuovo.

A ben vedere, però, la contrapposizione è artificiosa e inconsistente. Anche il trovare presuppone infatti uno sfondo di aspettative, come dimostra il fenomeno della serendipity. Perché l’incontro casuale diventi fortunato, cioè “serendipico”, non basta il caso: ci vuole anche un occhio attento che lo noti, un occhio che, attingendo intuitivamente a un vasto serbatoio mnemonico di esperienze, riconfiguri in modo nuovo un vecchio schema e riconosca la tessera mancante del puzzle. Il trovare non dipende da una lacuna nell'ordine naturale delle cose, ma dall’intuizione improvvisa di una mente preparata e attenta che stava cercando qualcosa (anche se altro). 

Per un artista quel serbatoio è riempito di vita e di storia dell'arte. Entrambe sono uno sfondo fatto di elementi esistenti e anche di schemi e regole, da seguire, rompere o reinventare. Per questo lo slogan “Tutto è arte e chiunque la può fare” rimane un'utopia e proietta un'immagine del tutto fuorviante – un altro cliché – sull'arte contemporanea e sulla sua creatività tutt'altro che facile e generica. (Se intesa con attenzione e discernimento, l'arte di Fluxus, come pure molta Pop art, non è affatto popolare).

 

 

A questo punto possiamo riprendere la domanda dell'inizio: come si fa ad essere artisti in un mondo in cui tutte le immagini sono continuamenter ri-prodotte e sembra non esserci alcuna possibilità di distinguere tra un grafico “creativo” e un artista “creatore”?

La risposta di Lichtenstein è stata una semplice, rigorosa e paradossale riconfigurazione del problema: anziché uscire dal mondo dei cliché, lo ha dipinto in tutta la sua piattezza asettica, impersonale e anaffettiva, rendendolo assoluto, formalmente impeccabile e spettacolare. 

 

Lo si vede bene nelle parole con cui Roy racconta a David Sylvester com'è nato il suo primo “fumetto” pop (Interviste con artisti americani, Castelvecchi, 2012; traduzione modificata in alcuni punti). In quel periodo stava facendo una specie di Espressionismo astratto usando anche i fumetti, e improvvisamente gli viene l'idea di dipingere un fumetto senza alcuna apparente alterazione:

 «Ne ho parlato, c'ho pensato su un po' e poi ne ho fatto uno con intenzioni quasi serie per vedere come veniva. Mentre lo dipingevo ha cominciato a interessarmi l'idea di organizzarlo pittoricamente, di portarlo a una specie di dichiarazione d'intenti estetica, a cui non avevo pensato all'inizio. Poi sono tornato al mio modo precedente di dipingere, che era più astratto. […] Ma avevo lì nello studio questo dipinto del fumetto, ed era incredibile. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso». 

Quello che lo attrae è...

 «l'impressionante qualità dello stereotipo visivo e il senso del cliché, il fatto che un occhio si debba disegnare in un certo modo […] Erano idee del tutto antitetiche a quelle che erano la base dell'arte all'epoca. E la cosa ha cominciato a emozionarmi».

Poi spiega come il suo lavoro punta a enfatizzare l'aspetto di cliché attraverso cambiamenti minimi ma essenziali, e allo stesso tempo cerca di dare un ordine e un senso estetico agli elementi formali (dimensione, posizione, colore) che mancano alle immagini originali:

«Io sono interessato a quelli che normalmente verrebbero considerati gli aspetti peggiori dell'arte commerciale, alla tensione fra ciò che sembra così rigido e stereotipato e il fatto che l'arte non può essere così. […] È la qualità altamente restrittiva dell'arte che mi interessa. E il cliché – il fatto che un naso sia disegnato in un certo modo – fa parte dello stesso tipo di restrizioni che aggiungono tensione al dipinto.»

«Non è un problema puramente formale […] lo faccio per stabilire un archetipo nel modo più rigoroso possibile. C'è una specie di epifania, quando questo si realizza. […] il fumetto ingrandito di per sé non farebbe nulla; sarebbe una specie di presa in giro. Ma quando centri sia la forma che questo modo di disegnare per cliché, allora hai in mano qualcosa. 

Penso davvero che in questo c'entri Picasso. Anche se sapeva fare qualsiasi variazione su qualsiasi tipo di occhio o orecchio o testa, ce ne sono alcune potentissime e fortissime per il simbolismo che utilizzava. [...] È quello che sto cercando di fare».

«È molto diverso dal tipo di lavoro che facevo prima, (che) era l'opposto del cliché; per cui è stato una specie di processo di apprendimento per me. Credo che l'idea non sia tanto di sconcertare gli altri quanto di pormi un problema interessante da risolvere. Forse è interessante perché è così diverso da quello che mi hanno insegnato a fare».

 

È molto significativo lo stretto rapporto che Lichtenstein sente con Picasso, l'artista che per Guercio ha saputo meglio contrastare la «creatività generica» con la sua «creazione ex nihilo». Guardandolo al lavoro nel 1956, in quello straordinario pezzo di cinema che è Il mistero Picasso di Henri-Georges Clouzot, si vede bene come anche lui lavorasse attorno ai suoi stessi cliché. La maestria e la straodinaria capacità eidetica è sempre dissimulata dall'immediatezza e ingenuità della figurazione, che sembra conservare la magia del tratto infantile. Ma è una magia “ricostruita” grazie alla sintesi efficace del disegnatore esperto, che utilizza elementi stilistici del suo repertorio (i propri cliché) e li varia e li adatta lasciandosi guidare anche dagli “errori”, come un'improvvisatore jazz.

 

Quando Roy “lichtesteinizza” Picasso (nelle serie di omaggi ai suoi artisti di riferimento, ben presente anche nelle stampe esposte al Mudec) rende evidente che non soltanto i fumetti, ma anche l'Arte con la maiuscola si basa in fondo su cliché. E così facendo degrada l'arte e allo stesso tempo, paradossalmente, la trasforma creativamente in un’arte al quadrato. «È un modo per dire che in realtà Picasso è un fumettista», dice Lichtenstein. «Penso sia un modo per rendere i cliché presenti in Picasso ancora più stereotipati, un modo per riaffermarli ma anche di non farne dei cliché».

 

 

Tra la creatività di Lichtenstein e quella di Picasso ovviamente c'è una differenza importante, che il film di Clouzot ci mostra. A un certo punto Picasso dice che i dipinti fatti fino a quel punto erano «un po' superficiali» e che vuole andare «più in profondità», prendendosi più rischi. Per «mostrare i quadri che ci sono sotto i quadri» deve dipingere veramente, coi colori a olio su tela e con tutto il tempo necessario, mentre fino a quel momento aveva lavorato col pennarello e i colori a inchiostro. La metafora spaziale della profondità appare allora in tutta la sua evidenza: quasi ogni fase è un'opera che viene sostituita in parte o in tutto da una nuova opera, ma la forma precedente rimane sul fondo e lascia la sua impronta, a volte quasi soltanto il suo fantasma, che si sente pulsare sotto strati e strati. È una continua metamorfosi, come se l'opera fosse un organismo vivente che si evolve nel tempo; tempo dell'opera e tempo di vita dell'artista, legati in un lungo amplesso.  

 

Questa lotta erotica con l'immagine è una creatività tipica dell'arte nel paradigma moderno. La riconfigurazione concettuale del cliché è una creatività tipica dell'arte nel paradigma contemporaneo. In un certo senso anche Lichtenstein ha lottato con l’idea della sua prima immagine pop. Il suo limite, forse, è che, diversamente da Picasso, ha lottato veramente solo una volta. Come sembra dire il suo ironico Selfportrait del 1978, con uno specchio da fumetto al posto della testa e una maglietta da fumetto al posto del corpo, ha inventato l'arte dell'immagine cliché e ne è rimasto felicemente vittima per tutta la vita, giocando sulle sue infinite variazioni.  

Oggi i suoi pesci nuotano nel grande acquario della mediasfera.

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Dell’unica verità possibile sul senso della vita

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La storia che sto per raccontare non si è ancora conclusa. La scrivo perché nella sua inconclusione c’è una certa bellezza, una bellezza che non ritroverei neppure nel più appassionante dei finali. Nella storia c’è un mistero che non si risolve, una curiosità che non viene soddisfatta e un dubbio che non viene dissipato. Ma la mia voglia di raccontarla non è alimentata dal mistero, dalla curiosità e dal dubbio. Piuttosto dalla volontà di riflettere sulle coincidenze che l’hanno condotta fino a me. 

Nel racconto Un uomo occupato, Nabokov scrive: “Quanto più si presta attenzione alle coincidenze, tanto più di frequente esse si presentano”. Io devo aver iniziato da qualche tempo a prestare attenzione alle coincidenze, se è vero che negli ultimi tempi mi sono imbattuto in una carambola di incontri e situazioni di una casualità impressionante. Questi incontri e queste situazioni hanno come filo conduttore un mio presunto bisavolo, un eroico motorista che quasi cent’anni fa morì – come recita una targa posata in sua memoria – “nell’immensa vastità dell’Artide”. 

Questa quindi non è né la storia del motorista, né la ricerca di un mio ipotetico grado di parentela con lui, né l’avventura degli uomini che parteciparono alla spedizione di Umberto Nobile al Polo Nord. Ma è la storia di come tutte queste storie si siano radunate per caso in un unico luogo, un luogo astratto che poi altro non è che la mia vita attuale.

 

La storia ha inizio ai primi di maggio, nel Canton Ticino, dove mi trovavo per partecipare a un festival letterario. Una sera gli organizzatori mi hanno comunicato che nella sala ristorante dell’albergo in cui alloggiavo ci sarebbe stata una cena a cui avrebbero partecipato tutti gli ospiti del festival. L’appuntamento era previsto per le venti. Ma quando è arrivata l’ora ho aspettato nella mia stanza fino alle venti e cinque. Poi ho chiuso la porta e sono sceso. Erano cinque minuti di ritardo calcolati con assoluta cognizione. Avevo pensato che se fossi arrivato per primo sarebbe stato sconveniente sotto molti punti di vista, non conoscevo nessuno e avrei dovuto impersonare la parte di colui che aspetta non si sa bene chi. D’altro canto se mi fossi presentato con un ritardo maggiore avrei corso il rischio di trovare tutti i posti occupati, e magari un’unica sedia libera nel tavolo più svantaggiato, con i commensali meno ambiti, tra i quali a quel punto avrei dovuto annoverare anche me stesso. Ho pensato che cinque minuti di ritardo rappresentassero la giusta misura, perfino in Svizzera.

Quando ho varcato l’ingresso della sala ho avvistato uno sparuto capannello di persone. Tra loro c’era un uomo che confabulava col cameriere indicandogli i tavoli riservati agli ospiti. L’uomo aveva modi gentili, era alto e magro, vestito elegantemente, ma di quell’eleganza coscienziosamente sfatta, di chi ha lavorato per tutto il giorno e alla sera, fiero, ne esibisce i segni: la cravatta allentata, le falde del blazer stropicciate, la camicia avvizzita. Era il direttore del festival. Mi ha sorriso e mi è venuto incontro. Mi ha chiesto com’erano andati gli incontri della giornata (la mattina avevo partecipato a una diretta di due ore alla radio svizzera e nel pomeriggio avevo tenuto una conferenza pubblica per presentare il mio ultimo libro), poi mi ha invitato a sedermi al tavolo insieme a lui e a sua moglie. 

 

Era un tavolo da sei. Oltre a noi c’era una coppia di coniugi genovesi che mostrava di non avere troppa voglia di sprecarsi in convenevoli. Pochi minuti dopo si è aggiunto il sesto commensale: una donna scandinava dall’aria allegra e dai modi decisi. Appena la donna è entrata in sala, il direttore è scattato in piedi e le è andato incontro per aiutarla. La donna camminava con l’ausilio di una stampella, ma nonostante ciò sembrava in grado di sbrigarsela da sola. Malgrado avesse l’età di mia madre, aveva nel portamento uno sprezzo totale, o forse sarebbe più corretto dire un generico disinteresse per l’infortunio che l’aveva costretta a quell’improvvisa e parziale disabilità. Ci ha mostrato divertita l’estremità della stampella che terminava con una specie di rampone. “È un antiscivolo che mi serve per camminare sul ghiaccio”, ha detto. Era la scrittrice ed esploratrice norvegese Monica Kristensen.

Mi sono alzato e mi sono presentato pronunciando il mio cognome, il che ha provocato in lei una reazione inattesa. Ha sgranato gli occhi e ho visto comporsi sul suo viso un’espressione di divertita meraviglia. Ho dubitato che avesse scambiato il mio cognome con quello di un altro ospite del festival, qualcuno con una fama ben più consolidata della mia (al nostro stesso tavolo, per dire, la sera prima era seduto il premio Nobel nigeriano Wole Soyinka). Ma lei, incredula, ha ripetuto: “Pomella?”. Al che, cautamente, ho annuito. Ho pensato di dover indagare sul motivo di tanta meraviglia, ma non sapevo neppure da che parte incominciare. È stata lei che mi ha tolto dall’imbarazzo: “Ti chiami come uno dei personaggi del mio ultimo libro”.

 

Il suo ultimo libro è un romanzo documentario che indaga sul destino di uno dei grandi eroi dell’esplorazione polare, Roald Amundsen. Si intitola appunto L’ultimo viaggio di Amundsen. La storia è molto nota. Amundsen partì il 18 giugno 1928 a bordo di un idrovolante francese per soccorrere Umberto Nobile, il cui dirigibile, l’Italia, si era schiantato il 25 maggio sulla banchisa a nord delle Isole Svalbard. I sopravvissuti della spedizione di Nobile, feriti, affamati e sull’orlo della pazzia, avevano trovato riparo nella famosa tenda rossa. Ma l’idrovolante su cui viaggiava Amundsen si inabissò nelle acque del mare di Barents. Tra i membri dell’equipaggio di Nobile c’era un motorista che aveva già partecipato alla precedente spedizione del Norge, l’aeronave che nel 1926, con un equipaggio di diciassette uomini, tra cui gli stessi Amundsen e Nobile, aveva sorvolato il Polo Nord. Il motorista perse la vita nell’impatto del dirigibile Italia, fu scagliato sul pack dalla navicella di poppa e morì all’istante. Si chiamava Vincenzo Pomella.

Queste notizie me le ha riferite Monica Kristensen nel quarto d’ora di chiacchiere che è seguito a quella nostra prima stretta di mano, convinta fin dal principio che Vincenzo Pomella fosse un mio bisavolo. “Prima di scrivere il libro ho fatto tre anni di ricerche. So tutto dei membri della spedizione del dirigibile Italia. Quello che non ricordo è di dove fosse originario Vincenzo Pomella”, mi ha detto. “Forse di Milano”. 

 

 

Ma la sua supposizione era sbagliata. È bastato impugnare il cellulare e fare una semplice ricerca sul web per scoprire che in realtà il mio presunto bisavolo nacque nel 1896 in un piccolo comune di seimila abitanti vicino Cassino. Il nome del paese è Sant’Elia Fiumerapido. A tredici anni si trasferì a Roma nella casa di uno dei nove fratelli. Nella capitale iniziò a lavorare in un’officina meccanica. Poi allo scoppio della prima guerra mondiale si spostò a Torino, nel Genio Aeronautico, dove frequentò un corso per motoristi di dirigibili. Il 9 agosto del 1918 prese parte al volo su Vienna ideato da Gabriele D’Annunzio, durante il quale vennero lanciati migliaia di manifestini tricolori contenenti una beffarda esortazione alla resa. Alla fine della guerra venne assegnato allo Stabilimento Costruzioni Aeronautiche di Roma dove conobbe Umberto Nobile. Nobile lo volle con sé nella squadra del dirigibile Norge con cui, insieme a Roald Amundsen, nel 1926 sorvolò per la prima volta il Polo Nord. 

“Vincenzo non è nato a Milano, ma a Cassino”, ho detto a Monica, levando lo sguardo dal cellulare. “E indovina di dov’era il mio nonno paterno?”, ho aggiunto. Gli occhi dal tipico epicanto scandinavo le sorridevano. “Di Cassino?”, ha quasi implorato. Ho annuito: “E si chiamava Umberto, come il generale Nobile”.

Monica appariva visibilmente eccitata da tutte quelle coincidenze. Era arrivata a Chiasso nel pomeriggio direttamente dall’Inghilterra, dove vive, per raccontare in pubblico del suo lavoro di scrittrice e della sua vita da esploratrice (è stata a capo di diverse spedizioni al Polo Sud inseguendo le tracce di Amundsen), e credo che mai avrebbe immaginato di incontrare lì un probabile discendente di uno dei protagonisti del suo libro.

 

In L’ultimo viaggio di Amundsen, il motorista Vincenzo Pomella compare fin dal principio, quando viene descritta la partenza del dirigibile Italia da Kings Bay, il fiordo nella più estesa delle isole Svalbard che fu scelto come base di appoggio della regia nave Città di Milano durante la spedizione artica di Umberto Nobile: “Appena prima delle cinque, il dirigibile era finalmente fuori dall’hangar e aleggiava a pochi metri dal suolo innevato. Gli aiutanti mollarono anche l’ultima fune di traino e si misero a guardare sollevarsi lentamente l’aeronave a forma di sigaro, lunga più di cento metri e alta quasi venti. Il motore di poppa, con Vincenzo Pomella in cabina, si accese: provvedeva sia al sollevamento che a regolare la velocità di navigazione”. 

Parlando con Monica, mi è riaffiorato all’improvviso il ricordo di un messaggio ricevuto su Facebook qualche anno fa. Era il messaggio di uno sconosciuto che diceva pressappoco così: “Sapevi di avere un parente che ha partecipato alla spedizione di Nobile al Polo Nord?”. Il tono era così imperioso da non lasciare spazio ad alcuna replica. Eppure avevo tentato di ribattere lo stesso. Era il tempo in cui non avevo ancora fatto pace con mio padre e tendevo a rifiutare tutto ciò che proveniva da quel ramo della mia famiglia. Del resto non avevo neppure modo di appurare quella presunta parentela. Perciò avevo risposto che non ne avevo mai sentito parlare, e che del resto non credevo di essere l’unico al mondo a chiamarmi Pomella. Lo sconosciuto aveva risposto stizzito, con una sicumera davvero irritante, sostenendo che – volente o nolente – ero senz’alcun dubbio un discendente di Vincenzo Pomella. La cosa era finita lì e l’avevo archiviata come la sortita di un mitomane.

 

Ho riferito l’aneddoto a Monica Kristensen che si è messa a raccontarmi di Vincenzo Pomella. Ha detto che a bordo del dirigibile Italia svolgeva il lavoro più duro, che era un uomo molto intelligente, un vero e proprio sognatore, e che il suo corpo fu ritrovato tra i ghiacci nella posa del pensatore di Rodin. Ha aggiunto che probabilmente avevo sbagliato a giudicare in quel modo lo sconosciuto che mi aveva scritto, e che a conti fatti l’autore del messaggio avrebbe potuto essere lei stessa. Ha suggellato quest’ultima frase con una sonora risata. Poi mi ha chiesto di annotarle il mio indirizzo email sul suo biglietto da visita. “Ti scriverò tutto quello che so su Vincenzo Pomella”, mi ha promesso. Dopodiché è arrivato il cameriere; io ho ordinato asparagi e petto d’anatra, lei un improbabile piatto di spaghetti alla carbonara. 

Il giorno dopo, di ritorno a Roma, mentre il Frecciarossa fendeva la campagna toscana, una delle organizzatrici del festival mi ha chiamato al telefono: “Monica Kristensen chiede di te”, ha detto. “Vorrebbe farsi una foto insieme al nipote di Vincenzo Pomella”. 

 

Una settimana più tardi mi trovavo a Torino per il Salone del libro. Una sera stavo cenando con un gruppo di amici in un ristorante nel quartiere di San Salvario. Al tavolo accanto al nostro erano seduti gli editori italiani di Monica Kristensen. Per tutta la durata della cena ho pensato che forse avrei dovuto alzarmi, presentarmi e raccontare loro dell’incontro di Chiasso. Ma non ho avuto il coraggio, o piuttosto pensavo che quella storia sarebbe potuta sembrare loro inverosimile, o nel migliore dei casi che non vi avrebbero trovato nulla di interessante. E quindi ho lasciato correre. L’indomani in fiera sono passato al loro stand e ho comprato L’ultimo viaggio di Amundsen. Ma ho taciuto anche in quell’occasione, limitandomi a pagare e ad andarmene. 

 

Poi la sera del sabato mi sono ritrovato a partecipare a una di quelle feste che si tengono ogni anno nei giorni del Salone del libro e che richiamano tutto il mondo dell’editoria italiana, e ho incontrato T., un amico di Roma che fa lo scrittore. Con T. ho una rodata confidenza, e non avendo nulla di meglio di cui parlare ho iniziato a raccontargli della cena di Chiasso, di Monica Kristensen e di Vincenzo Pomella. Lui lì per lì ha taciuto, è rimasto ad ascoltarmi per tutto il tempo e a sorridere. Ma si è rifatto vivo la domenica pomeriggio mentre mi aggiravo nei pressi della stazione di Porta Nuova. Mi ha scritto su Whatsapp: “Una cosa incredibile: ho scoperto che quel Vincenzo Pomella era lo zio di un’amica di famiglia della mia ragazza. Questa donna è viva, ha novant’anni ed è di Cassino, si vantava sempre di una parentela con un membro della spedizione di Nobile”. 

A quel punto ho pensato che dovevo fare le uniche cose sensate che andavano fatte, la prima delle quali era telefonare a mio padre e chiedergli se avesse mai sentito parlare di tutta questa storia. Ma mio padre ha detto di non saperne niente. “La sola cosa certa è che la nostra famiglia è originaria di Cassino. I Pomella vengono tutti da là, e non è che ce ne siano tanti in giro”. In effetti aveva ragione. Esistono dei siti che generano mappe geografiche raffiguranti la diffusione di un cognome. Ho scoperto così che in Italia settantasei persone si chiamano Pomella, la maggior parte vive tra il Lazio, il Trentino Alto Adige e il Piemonte. Un numero che può far ragionevolmente pensare che si tratti dei discendenti di un medesimo ceppo familiare. 

 

Dopodiché ho cercato delle foto che ritraessero Vincenzo Pomella. Ne ho trovate tre. Nella prima è di tre quarti, vestito elegantemente, con giacca, papillon e fazzoletto da taschino. In lui non sembra esserci alcuna somiglianza né con me né con mio padre, a eccezione forse di una certa inquietudine che trapela dallo sguardo (tipica dei nostri geni), e di una ruga da occhiaie che possiede anche mio figlio di nove anni. Nella seconda è ritratto insieme ai compagni del Norge: il capo motorista Natale Cecioni, il motorista Attilio Caratti e il timoniere Renato Alessandrini. In questa foto si intuisce la sua bassa statura (la mia linea paterna è tutta sopra al metro e ottantacinque, tuttavia mio padre sostiene che il fratello di mio nonno fosse abbastanza piccolo di statura). La terza lo ritrae vestito con la pelliccia da Inuit.

Infine ho scritto una lettera al comune di Sant’Elia Fiumerapido: “Buongiorno, mi chiamo Andrea Pomella e sono uno scrittore. Di recente ho conosciuto a Chiasso la scrittrice Monica Kristensen, che è anche una delle più note esploratrici polari nordeuropee. Il suo ultimo libro – L’ultimo viaggio di Amundsen– è dedicato alla spedizione dell’esploratore norvegese Roald Amundsen in salvataggio del dirigibile Italia e del suo equipaggio, capitanato da Umberto Nobile e schiantatosi al Polo Nord nel 1928. Monica Kristensen mi ha messo al corrente che dell’equipaggio di Nobile faceva parte anche il motorista Vincenzo Pomella, di cui ho reperito qualche notizia in rete, tra le quali quella che si riferisce alla sua nascita nel comune di Sant’Elia Fiumerapido. So che mio nonno si chiamava Umberto Pomella ed era nato a Cassino il 3 marzo 1924. Vorrei capire se esiste una parentela tra mio nonno e Vincenzo Pomella. Non ho mai fatto ricerche anagrafiche o genealogiche per cui non conosco la prassi da seguire in questi casi. Confido in un vostro aiuto che sarebbe per me molto prezioso”.

Mentre scrivo sono passati ventiquattro giorni da quando ho inviato questa lettera, e dal comune di Sant’Elia Fiumerapido non è arrivata alcuna risposta. Monica Kristensen non ha scritto la mail che mi aveva promesso (“Ti scriverò tutto quello che so su Vincenzo Pomella”). Io non ho ancora trovato il tempo e la motivazione necessari per percorrere i centotrenta chilometri che separano casa mia da Sant’Elia Fiumerapido per visitare i luoghi in cui è nato Vincenzo Pomella e fare qualche ricerca che si possa dire risolutiva. Mia sorella per saperne di più ha scritto a un’associazione culturale locale che si fa gran vanto del concittadino che partecipò alla famosa spedizione polare con Nobile. Ma anche da lì nessuna risposta.

 

Nelle pagine de L’ultimo viaggio di Amundsen Monica Kristensen descrive così il momento in cui il comandante in seconda, Adalberto Mariano, e il ricercatore ceco František Běhounek, dopo lo schianto del dirigibile sul pack rinvengono il corpo di Vincenzo Pomella:

“Erano arrivati in una piccola area piena di rottami. Una delle grandi eliche era completamente distrutta e le schegge di legno erano sparse sul ghiaccio. Dalla neve spuntavano i pezzi di una cabina motore. Dietro un cumulo di neve ghiacciata intravidero una figura mezzo accasciata in avanti, con la testa appoggiata alla mano. Era il motorista Vincenzo Pomella. Morto. Rimasero a lungo lì, l’uno accanto all’altro, a guardare il motorista morto, che solo fino a qualche ora prima era vivo come loro, con i loro stessi pensieri e il loro stesso sogno di un ritorno a Kings Bay. Non sapevano cosa dire. Alla fine Mariano chinò la testa e mormorò un semplice «Addio»”.

 

Questa dunque è la storia inconclusa. Ricapitolando: un mese fa ho incontrato a Chiasso una scrittrice ed esploratrice norvegese che vive in Inghilterra la quale mi ha detto che forse il motorista di Nobile, morto nel deserto artico nel 1928, era un mio consanguineo, e ho scoperto poi, a distanza di una settimana, che la fidanzata di un mio caro amico conosce personalmente una donna di novant’anni che, lei sì, è di sicuro parente del motorista di Nobile. 

Da un mese a questa parte dunque mi ritrovo imbrigliato in qualcosa che in realtà è molto semplice, qualcosa che ha a che fare con le due domande in fondo più banali dell’uomo: Da dove veniamo? e Qual è l’unica verità possibile sul senso della nostra vita?

In filosofia il concetto di caso si contrappone a quello di necessità. La necessità è la condizione di ciò che non può essere diversamente da com’è. Il caso invece è una concatenazione di fatti di cui la nostra ragione è incapace di trovare le cause. Il caso quindi è nient’altro che una forma imperfetta di conoscenza, laddove la necessità è invece un attributo costitutivo della realtà.

Sarebbe stato sufficiente che io non andassi a Chiasso, o che non ci andasse Monica Kristensen, perché il caso non si concretizzasse. Ma si è concretizzato. Ciò che trovo bizzarro non è il fatto in sé, ma la forma che lo ha determinato. Se io mi fossi imbattuto da casa mia nella vicenda di Vincenzo Pomella, questa storia non avrebbe avuto fattezze così singolari. A renderla quasi incredibile sono i luoghi e i modi disparati attraverso cui tutte le informazioni si sono concatenate. 

 

Ma ciò che definisco quasi incredibile non è il ragionevole esito della storia (non riesco al momento a immaginare un finale diverso da me che scopro di essere o non essere consanguineo di Vincenzo Pomella, il che a conti fatti, al di là di soddisfare una mia legittima curiosità, non schiuderebbe alcuna prospettiva esaltante, né in un verso né in un altro). È piuttosto la piacevole sensazione di sentirsi incastonati in un meccanismo umano elaboratissimo che muove gli ingranaggi dello spazio e del tempo. Il caso forse è esattamente questo: qualcosa che viene a mostrarci in maniera inattesa il nostro essere parte di un gioco più grande, un gioco entro il quale la cosa che chiamiamo solitudine in fondo non è che una contorsione della mente, una visione senza riscontri nella realtà.

Ecco allora che le domande Da dove veniamo? e Qual è l’unica verità possibile sul senso della nostra vita? arrivano a toccarsi in un punto remoto della coscienza del mondo, in un angolo dell’immenso labirinto di cui tutti facciamo parte, e nei cui meandri misteriosi non smettiamo mai di sorprenderci quando ci capita di incontrarci.

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Vila-Matas, Il saccheggio come metodo di lavoro

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Enrique Vila-Matas è uno scrittore che piace ai lettori che amano essere disorientati, confusi e un po’ storditi, in un vertiginoso gioco di rimandi, ripetizioni e variazioni, ellissi e false piste; che si divertono a perdersi, e provano una vaga euforia nello smarrimento, nella paura di essere travolti dall’instabilità, di non riconoscersi e di non riconoscere, ma che alla fine ne sono contenti, liberati dalla prigione, e dal fardello, di credersi quelli che si è, unici, identici, catafratti, rinchiusi al sicuro nella propria Vergine di Norimberga.

 

I suoi libri sono così vari e stratificati (e divertenti), con una trama tanto semplice da riassumere quanto complicata se si entra nelle sue pieghe, che a scriverne si ha sempre il timore di tralasciare le cose più importanti. Poi si scrive: ma appena terminato, vien subito l’impulso di riscrivere; e lo stesso una volta riscritto. Sembra di non parlarne mai nella maniera giusta, ma già così, a ben guardare, lo si fa: già così ne sto parlando. Scrivere è sempre riscrivere, correggere il già scritto come diceva Ricardo Piglia. E sulla riscrittura e la correzione si basa anche Un problema per Mac, l’ultimo libro tradotto per Feltrinelli da Elena Liverani del grande scrittore barcellonese. Non c’è mai una maniera giusta e definitiva: la ripetizione e la falsificazione sono la regola e non evitare di affrontarle, e anzi assecondarle fino al loro limite, è la via migliore per avvicinarsi alla verità, che non può essere detta direttamente.  Sull’argomento, tra i suoi tanti testi, si veda anche la brillantissima conferenza Bastian Schneider, tradotta lo scorso anno dalla stessa Liverani per Humboldt in un unico volumetto con il diario Marienbad elettrico, che parla dei rapporti di lavoro e della reciproca influenza delle rispettive opere con l’artista Dominique Gonzalez-Foester, che ha coadiuvato Vila-Matas, travestita da Marlene Dietrich, quando ha pronunciato la conferenza il 24 marzo 2017 presso il Collège de France. 

Bastian Schneider, che ha molto in comune con il narratore di Un problema per Mac e offre nella sua prolusione molti spunti per capirne genesi e forma, parla della “riscrittura modificatrice come creazione infinita”; e nient’altro che questo è la letteratura per Vila-Matas: riscrittura, correzione, modificazione e falsificazione imperniate sulla consapevolezza “che il concatenamento con il passato è sostanziale per la materia narrativa. E’ questa coscienza a trasformare tali fiction in un terreno sperimentale”, come affermano Jordi Ballò e Xavier Pérez in Io sono già stato qui. Fiction e ripetizione, citato a p. 31. L’originalità è una priorità fasulla, e, come ricorda Isak Dinesen, cioè Karen Blixen, citata poco oltre, “la paura di ripetersi può sempre essere contrastata dalla gioia di sapere che si avanza in compagnia delle storie del passato”.

 

 

E’ per questa ragione che i libri di Vila-Matas non possono fare a meno di parlare sempre di letteratura, di altri libri, veri e inventati, di scrittori con o senza opere, e di lui stesso che si mimetizza e scompare nelle figure che li popolano e alla fine non fa che tornare a sé, alla sua vita che in essi è dispersa, disseminata in personaggi che spesso rinunciano a se stessi e scompaiono, che si cercano negandosi, o a loro volta si moltiplicano per provare a essere uno, sorpresi, talvolta con un senso di liberazione, di scoprire che uno non si può mai essere, ma tanti quanti sono quelli a cui diamo voce o che parlano attraverso di noi. Come tanti imitatori o ventriloqui. Come il ventriloquo protagonista del libro di un altro autore che il narratore di questo, Mac, intende riscrivere. Il libro in questione si intitola Un problema per Walter, che sarebbe in realtà uno dei primi libri di Vila-Matas (Una casa per sempre, del 1986, che proprio sulla storia di un ventriloquo si apre, e che l’autore ha affermato in un’intervista di aver sempre avuto intenzione di riscrivere), e il suo autore si chiama Ander Sánchez, che in certi tratti sembra Vila-Matas, ennesimo suo doppio o avatar, o maschera (il nome richiama “anders”, che in tedesco significa “altro”). Altro a tal proposito non aggiungo io per ora, invece, anche se sarei tentato, di scatola cinese in scatola cinese (come sono i romanzi che l’autore confessa di prediligere, perché “sempre pieni di racconti”, come i suoi del resto, incluso questo, ricco di figure e storie che toccano un ampio raggio di tonalità e argomenti), di ipotesi in ipotesi, di speculazione in speculazione, di fantasia in fantasia: ancora di letteratura in letteratura insomma… (E la realtà? Niente, la realtà è lì: basta leggere.)

Un problema per Macè strutturato come un diario, cioè un genere che si fonda per definizione sulla sincerità, che ovviamente, tanto per non smentirsi, Vila-Matas fa iniziare con due menzogne. La prima riguarda l’identità del diarista che afferma di essere un imprenditore edile fallito per la crisi che attanaglia anche la Spagna del nuovo millennio (tema che verrà a più riprese toccato in vari capitoli), e solo molto più tardi confessa di essere stato licenziato, sbattuto fuori per la verità, dallo studio legale in cui ha lavorato per oltre vent’anni, e che per questo si ritrova finalmente con tutto il tempo libero per dedicarsi quotidianamente alla scrittura, lui lettore avidissimo, come aveva sempre desiderato. La seconda è relativa al desiderio che muove Mac. Questi vorrebbe infatti scrivere un libro “postumo e incompiuto”, ma dice di accontentarsi di un “diario” (genere che Vila-Matas ha affrontato in altri libri, come Il mal di Montano, o scritto direttamente, sia pure sempre in modo poco canonico, come Diario volubile o il citato Marienbad elettrico), proprio come difesa “per allontanarsi dalla minaccia del romanzo”, come se non sapesse di andare anche qui incontro al fallimento. Fallimento del proposito che peraltro si risolverà, almeno ai nostri occhi (e conformemente al progetto sottaciuto del maliziosissimo autore), nella riuscita del romanzo che racconta la fuga dal romanzo, e da molte altre cose: un romanzo sui generis, come era prevedibile, al pari di tutti i libri dell’autore; e “postumo e incompiuto” solo all’apparenza, come tutti i libri di tutti, dal momento che l’autore muore ogni volta che termina un libro, che per arrivare al lettore e trovare in lui uno dei suoi compimenti, proprio dalla sua morte nasce. Tutto viene spiazzato o smentito. In Vila-Matas mai nessuna cosa è quella che è: cioè lo è, ma è anche altro, a volte la sua stessa negazione, in una convivenza sempre più promiscua e felice. La pluralità dei piani di scrittura rende indecidibile la lettura: lo statuto delle singole affermazioni è sempre incerto, c’è sempre il sospetto che siano ironiche e vadano quindi ribaltate, o relativizzate, quando non a loro volta falsificate. Spetta solo al lettore decidere: cioè riscrivere. Così almeno lascia intendere l’autore, che di fatto con mano invisibile lo guida come e dove vuole lui, come un cagnolino. Che può sempre scappare e filarsela per i fatti suoi, comunque.

 

 

Mac, quindi, si accontenta del diario, per cominciare, e con il diario vorrebbe finire. Finire senza finire, è facile supporre. Poi in una libreria del suo quartiere incontra uno scrittore molto noto, che gli è antipatico, di cui ha letto in parte un libro giovanile che non gli è piaciuto ma che a un certo punto decide di riscrivere e emendare, tagliando e aggiungendo a sua discrezione quanto necessario per “migliorare segretamente l’opera letteraria del vicino”. Il libro, il cui titolo è replicato da quello che stiamo leggendo, è composto di dieci racconti, alcuni dei quali hanno a protagonista appunto un ventriloquo, Walter, che ne costituisce il filo conduttore, come a formare un romanzo indiretto, obliquo. Walter è un imitatore di voci che – all’opposto di quello di Thomas Bernard che imita tutte le voci ma è incapace di imitare la propria, che quindi probabilmente nemmeno ha –, ha il problema professionalmente imbarazzante “di avere una sola voce” (quella che invece “gli scrittori sono così ansiosi di trovare”) che risolve solo “quando [riesce] a disgregarsi in tutte le voci, come pure storie o scaglie di vita, contenute [nelle sue] memorie”. 

E’ uno che vive delle voci altrui, che a loro volta danno vita ai racconti del libro, preceduti in esergo da una citazione tratta dallo scrittori (da Cheever a Borges; da Hemingway e Malamud; da Poe a Chesterton) delle cui opere ogni racconto è una  ripresa, pastiche, imitazione o parodia.  L’insieme di questi racconti va a formare, joycianamente direi stante la passione dell’autore l’autore dell’Ulysses di cui il suo romanzo Dublinesqueè solo la testimonianza maggiore, un repertorio di temi e stili che caratterizzano la modernità, o tante possibili trame esemplari: amore, tradimento, delitto, fuga, ricerca, ritorno, giovinezza, morte – il solito repertorio insomma. Vengono alla mente Se una notte d’inverno un viaggiatore, di Calvino, ma non altrettanto sistematico; o La zia Jiulia e lo scribacchino, di Vargas Llosa, con il quale condivide in parte la sovrapposizione e la confusione delle storie e la loro intrusione nella vita dei personaggi; o ancora e le tessere della combinatoria tipica dei libri di Perec, di cui viene evocato, quale esempio perfetto di opera postuma e incompiuta proprio il suo romanzo postumo, 53 giorni,  che in realtà  non è veramente tale perché “non era stato interrotto a causa della morte… era stato concluso con largo anticipo, ma aveva bisogno di un inconveniente serio come la morte … per essere davvero completato”. 

 

 

Dei racconti di Sánchez, il narratore fornisce nella prima parte riassunti, incluse lunghe pseudocitazioni e commenti, alternati all’interno dei singoli capitoli alle vicende della sua vita personale, dei suoi incontri, tra i quali merita di essere citato quello di un sedicente nipote di Sánchez, che lo odia (che replica l’hater “gratuito” del primo racconto, uno dei tanti “collezionisti di odio insensato” di cui i nostri giorni rigurgitano, che sarà oggetto dell’omicidio che metterà in moto tutta la storia di Walter), odioso a sua volta ma anche affascinante, e delle storie che la lettura dei racconti stimola a vivere, o induce a riconoscere nella sua quotidianità: come il presunto tradimento di sua moglie con lo scrittore dopo la lettura del capitolo in cui questi racconta di un’avventura giovanile con lei, prima che conoscesse il futuro marito; sospetto di tradimento e gelosia indotti dalla lettura di altri racconti del libro che si riversano nella “realtà”, come a rispecchiarsi in essa, o meglio: a segnarla, allo stesso modo in cui l’amore giovanile della moglie è rispecchiato da quello del narratore con una ragazza che poi diventerà autrice degli oroscopi che Mac legge ogni sera per vedervi, una volta di più, rispecchiato ciò che durante la giornata gli è successo (storia che ha un seguito gustoso che non rivelerò, all’interno di una delle sezioni in cui si divide ogni capitolo, prima chiamata beckettianamente “Puttanoroscopo”, e poi semplicemente “Oroscopo”, e infine abbandonata).

 

La stratificazione che la suddivisione dei capitoli segnala è solo quella più evidente di un libro in cui i vari livelli, in modo leggero e quasi impercettibile, si intrecciano in forme tutte diverse da un capo all’altro. 

Il romanzo rigurgita di queste sottigliezze, echi, raddoppiamenti e ribaltamenti, allusioni, reticenze, ironie, menzogne svelate o confessate, in un trionfo di inter- e intratestualità. Non è indispensabile riconoscere tutto, ma non sottrarsi a questo gioco contribuisce non secondariamente al piacere della lettura. Non si tratta di erudizione, vera o finta, come confessa l’autore con altrettanto finta modestia in Marienbad, ma di un elemento che funge da sintassi strutturale e contribuisce all’immaginazione: una festa per l’intelligenza.

Il tessuto connettivo sono l’uso delle citazioni distorte e la pratica della modificazione. “…la mia letteratura aveva portato al limite ultimo l’uso delle citazioni letterarie distorte nel tentativo, tra le altre cose, di far sì che la mia falsa erudizione fungesse da sintassi. “Può sembrare paradossale, ma ho sempre cercato la mia originalità come scrittore nell’assimilazione di altre voci”” (Marienbad elettrico, p. 71). Bastian Schneider aggiunge: ““proprio perché non c’è originale non c’è copia e pertanto nemmeno ripetizione” … non falsifico mai le citazioni, mi limito a modificarle … Sono un onesto modificatore infaticabile. Vedo, leggo, ascolto e ogni cosa mi sembra suscettibile di essere alterata. E io la altero. Altero di continuo. … la mia è un’autentica vocazione da modificatore”: esattamente quello che dice di sé anche Mac nelle prime pagine del suo diario: “ho una vocazione da modificatore. Anche da ripetitore”.

 

 

Modificare e riscrivere non sono che un aspetto della falsificazione, o viceversa questa non è che una componente di quello, della loro necessità. Essendo la letteratura riscrittura, tanto vale riscrivere qualcosa che non esiste, riscrivere qualcosa (il romanzo di Sánchez) che viene scritto nel momento in cui lo si menziona e riassume e cita: la scrittura è già citazione e quindi la citazione può essere benissimo scrittura di un testo che non le preesiste, ma viene in essere nel momento in cui viene citato.  Così come tanto vale riscrivere anche qualcosa che si è già scritto altrove, prima: che niente, qui, distingue da ciò che è inventato di sana pianta, che per definizione non può esistere.

Allora Vila-Matas riprende temi, personaggi, altre citazioni vere e inventate e situazioni, continuando e sviluppando storie altrove appena abbozzate o interrotte, mescolando, variando, capovolgendo e contraddicendo altre storie, e voci, generi e stili, restando appunto così Vila-Matas, un autore che proprio in quanto si nega, si dissemina e si moltiplica, resta inconfondibile, cioè unico. Una voce che attraversa tutte le voci senza soffocarle; ed anzi traendo il proprio timbro peculiare dalla loro autonoma pluralità. Che le modula, come il ventriloquo del libro di Sánchez. Come ventriloquo è anche il lettore a ogni libro che legge, a ogni personaggio che incontra in ciascuno di essi. Scrivere si prolunga nella sua vita, cambia i suoi rapporti con la moglie, gli amici e la gente del quartiere: ciò che a sua volta cambia quanto lui scriverà; e lo stesso fa con il lettore, prolungandosi e incidendo nella sua vita. Lo stesso che  dovrebbe fare, alemno: è questa la sua ambizione dichiarata, l’idea di letteratura che lui persegue – come era già nel libro di esordio, L’assassina letterata dove il libro prosegue a tal punto nella vita di chi lo legge da ucciderlo.

 

 

Anche le vicende di Walter incidono sulla vita di Mac, che ne segue le orme, fino a confondersi con lui e a condividerne il viaggio verso l’Arabia Felice, il luogo d’origine dei racconti, andando così ad aggiungersi alla galleria vila-matasiana dei personaggi che fuggono o partono alla ricerca di qualcosa di indefinito, o di solo genericamente definito; o solo per partire, per andare via e amen. E poi chissà.

Cosa che non si distingue, d’altra parte, da ciò che fa chiunque si metta a scrivere. Andare altrove. Essere un altro. Altro. Essere dove è e insieme da un’altra parte. Nel luogo da cui nasce il racconto che sta scrivendo, che non sa dove è e meno ancora quale è. Un luogo verso il quale si dirige essendo però sempre dove è, ogni momento, centrato nel suo stare e in viaggio. In fuga. 

Cercando così, o narrando, “la storia obliqua della sua vita”, all’interno della “lenta carovana di storie di voci anonime e di anonimi destini che sembrano confermare l’esistenza di racconti che si introducono nelle nostre vite e proseguono per la loro strada confondendosi con esse”, e in queste stesse storie vivendo. “Viviamo realmente solo a mano a mano che leggiamo la nostra storia, trascendendola” (Marienbad), ma questa storia la dobbiamo cercare nelle mille altre con cui si confonde e spesso, per poterla leggere in compagnia di queste storie, scriverla noi stessi.

 

Enrique Vila-Matas, Un problema per Mac, trad. it. Elena Liverani, Feltrinelli, 2019, p. 282. 

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Finzione e realtà, due vecchi coniugi
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Sciascia a Militello in val di Catania

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Sono trascorsi 30 anni da quel giorno di novembre in cui Leonardo Sciascia ci ha lasciati, trent'anni in cui il paese, che lui ha così bene descritto, è profondamente cambiato, eppure nel profondo è sempre lo stesso: conformismo, mafie, divisione tra Nord e Sud, arroganza del potere, l'eterno fascismo italiano. Possibile? Per ricordare Sciascia abbiamo pensato di farlo raccontare da uno dei suoi amici, il fotografo Ferdinando Scianna, con le sue immagini e le sue parole, e di rivisitare i suoi libri con l'aiuto dei collaboratori di doppiozero, libri che continuano a essere letti, che tuttavia ancora molti non conoscono, libri che raccontano il nostro paese e la sua storia. Una scoperta per chi non li ha ancora letti e una riscoperta e un suggerimento a rileggerli per chi lo ha già fatto. La letteratura come fonte di conoscenza del mondo intorno a noi e di noi stessi. De te fabula narratur.

 

Ricordo una gita, a Militello in Val di Catania. La visita a Militello era motivata dal desiderio di Leonardo di vedere il potente bassorilievo in marmo, scolpito da Francesco Laurana, ritratto di Pietro Speciale, che si trova nella cattedrale. Ci accolse il parroco, padre Sinopoli. Prete spassosissimo e molto anticonformista. In chiesa vedemmo in cima a un’alta scala a forbice il sagrestano che ripuliva una statua della Madonna, probabile opera del Gagini.

 

Ph Ferdinando Scianna.


Il fatto bizzarro è che il sagrestano era in mutande, e persino di precaria stabilità. Padre Sinopoli si accorse della nostra sorpresa e ci raccontò un aneddoto: quando sono andato soldato c’era tra noi una recluta con una gran zazzera di capelli alla quale teneva moltissimo. Un sergente gli intimò più volte di tagliarseli, ma quello non se ne dava per inteso. Una mattina il sergente lo fece condurre a forza dal barbiere, che lo rapò a zero. Il giorno dopo il soldato sparò al sergente. Commento di padre Sinopoli guardando il sagrestano: è testardo, per me può andare nudo.

Per anni quel per me può andare nudo!, diventò un nostro tormentone quando ci si trovava di fronte a personaggi di squilibrata testardaggine.

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Generare idee

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Il titolo non inganni. Qui non si danno né istruzioni per generare nuove idee né consigli per produrre innovazione. Non si offre nemmeno la ricetta della creatività, e questo non per egoismo o cattiveria, ma semplicemente perché tale ricetta, se esiste, non la conosce nessuno. Ogni tanto una beautiful mind propone qualche espediente per promuoverla, e più avanti ne incontreremo uno e ne diremo qualcosa. 

Qui affronto la tematica del generare idee in base alla mia sensibilità, alle mie conoscenze, ai miei percorsi e ai miei interessi, cercando di universalizzarli e estenderli ad altri esseri pensanti in base alla nostra comune condizione umana; del resto questo mi sembra essere l'unico atteggiamento serio, onesto e modesto del filosofo/a chiamato a confrontarsi con un tema dopo aver accettato la responsabilità di farlo. Niente ricette dunque, ma un percorso che vi propongo, spero, con serietà, onestà e anche modestia. Modesto, modestia: attenzione a questi termini perché fanno parte di una famiglia di parole sulle quali ci soffermeremo più avanti, ma che vi butto da subito, come sassolini da raccogliere per seguire la strada. 

 

Ecco le tappe del percorso, i sassolini, cinque. Partirò 1. dal significato di generare, mettere al mondo il nuovo, nella forma di figli e di idee. Noterò che in questo magma analogico è stata introdotta da sempre, 2., una discriminante di gender tra la funzione del femminile: generare e curare figli, e quella del maschile: generare e condurre stirpi popoli e nazioni da una parte, e dall'altra generare e promuovere idee, opere dell'ingegno, manufatti. Un'ulteriore ripartizione segue le età della vita e dice che 3. la generazione di idee è, come quella di figli, riservata ai giovani. Nella generale esaltazione del nuovo, giovane e recente (la cosiddetta età neotenica) si è imposto inoltre, ecco il punto 4., il principio di innovazione che risponde ai principi della novità e della moda, se innovare è modificare introducendo criteri di novità che sollecitano la curiosità. Concluderò, 5., con un cenno a criteri ed espedienti proposti per generare idee nuove, e con un vecchio criterio genesico. 

 

Il primo dei cinque sassolini dice che generare, dal latino generare, dal greco genos derivato dal verbo gignomai vuol dire produrre da se stesso. Generare, propagare la razza, produrre. Si avverte da subito una forte analogia tra il generare figli e il generare idee, basata proprio sul principio generativo di produrre qualcosa da se stessi, dal proprio corpo o dalla propria mente. E che cosa si genera? Il nuovo, il neos, il giovane, il recente. Che questo sia il neonato o l'idea innovativa, si tratta in ogni caso di un parto, fisico o mentale. Non di una nascita, se separiamo l'atto del venire al mondo da quello di far venire al mondo. Generare è l'atto di chi dà origine, di chi fa sorgere. Si tratta di un'analogia molto potente e che ha permeato e permea il nostro modo di pensare in diverse prospettive. 

Lo possiamo vedere prendendo in mano il secondo sassolino, quello dedicato alla discriminazione di gender. Che cosa dice questa in merito alla generazione nelle sue tre accezioni di figli, di stirpi e di idee? Che la prima spetta alle donne e le altre agli uomini. Lo sancisce, nella storia, il discorso che Platone mette in bocca a Diotima nel celebre dialogo Il Simposio. Nel Teetetoè invece presente l'analogia tra figli e idee, quando Socrate spiega che lui aiuta gli uomini (àndras) a partorire le idee dalla mente come sua madre Fenarete, che faceva la levatrice, aiutava le donne (gynaìkas) a partorire i bambini dal corpo. Le donne godono infatti della creatività fisica, possono generare figli; gli uomini della creatività spirituale, possono generare idee. Anzi, e qui interviene il Simposio, gli uomini, e soltanto loro, godono della doppia creatività. Il primo tipo di generazione vale, al maschile, in relazione alla riproduzione della specie, con la quale le città fioriscono e la stirpe umana si prolunga senza fine nel tempo. Generare la specie, non i singoli (che è invece compito delle donne), afferma Platone per bocca di Socrate, è una delle due maniere per gli uomini di essere immortali; l’altra è quella di generare secondo l’anima opere immortali in poesia, in musica, in politica. In questo modo gli uomini, esercitando la fecondità secondo la carne, lasciano dietro di sé figli materiali destinati a perpetuare la specie immortale, ed esercitando la fecondità secondo lo spirito, superiore a quella carnale, danno luogo alle immortali opere dell’ingegno. Idea destinata ad avere grande successo e a durare fino ad oggi, tanto che c’è chi sostiene che le donne non sono creative a livello artistico, letterario, musicale, ecc. perché la tensione creatrice nel loro sesso si realizza grazie alla capacità, esercitata o anche soltanto posseduta come dotazione fisica, di mettere al mondo figli. 

 

La discriminazione genesica, e siamo al terzo sassolino, non riguarda soltanto il sesso ma anche l'età. L'analogia su cui si basa è sempre la stessa: generare le idee è come generare i figli (dal punto di vista maschile, ça va sans dire). Si tratta dunque di una faccenda di giovani, soprattutto ai nostri giorni. Su questo punto gli antichi erano più cauti, e qualche credito alla sapienza e alla creatività degli anziani lo concedevano. Ma questo accadeva nei tempi d'antan. La nostra non è un’epoca per vecchi, No old men country: viviamo anzi in un’orgia di giovanilismo. È nella giovinezza che zampilla la fonte generativa dell'immaginazione creativa, che il vulcano della mente emette fuochi d'artificio, dice la leggenda basata sull'analogia tra creatività e procreatività. Il giovane maschio genera l'idea nuova, spodestando da tale attività oltre alla donna, giovane e vecchia, anche l'uomo in età. E lo fanno anche le nazioni giovani, non nel senso mussoliniano ma in quello culturale delle nazioni che sarebbero da poco giunte alla ribalta della storia. Dunque, oggi, gli Stati Uniti, l'unico paese oggi, a detta di Pogue Harrison (L'era della giovinezza, 2016), in grado di generare idee nuove e accattivanti. Anzi, gli USA sono il luogo della rivoluzione neotenica – un concetto biologico che designa la ritenzione nell'adulto di fattezze infantili – applicato alle società umane secondo il quale negli USA e soltanto lì le antiche eredità assumono nuove forme coniugando le forze della saggezza con quelle del genio. È il fenomeno che Pogue Harrison definisce americanizzazione, in virtù del quale si assiste al trionfo planetario e al destino universale di quella cultura, invero del modo di essere americano. Perché nessuna potenza sulla terra si avvicina nemmeno alla lontana alla giovanile immaginazione, alla liberazione di energie giovanili, ai suoi colori, forme, prodotti e narrazioni, insomma tutto ciò che di più neotenico, giovanile, infantile c'è nella cultura americana (p.147). La generazione di idee è prodotta oggi dal pensiero americano, al punto che, scrive Pogue Harrison, «our juvenescent age is not just another stage of cultural development...but represent a momentous, yet chaotic event in the evolution of humanity itself» (148). E con questo la vecchia Europa e la vecchissima Asia sono sistemate. 

 

 

Nella generale esaltazione del nuovo, giovane e recente si è imposto anche ai nostri giorni bizzarri il principio dell'innovazione. Il quarto sassolino. Innovazione. Concetto un po' nebuloso quanto onnipresente, sia nel linguaggio comune sia in quello economico, dove sta a indicare la trasformazione di nuove idee in prodotti di consumo, prestazioni di servizio, modalità di presentazione etc. L'innovazione non è l'invenzione, la quale presuppone una scoperta, un prodotto dell'immaginazione che prima non c'era, anche se spesso tali termini vengono confusi o sovrapposti. L'innovazione si riferisce al cambiamento di un prodotto, un’idea, un campo già esistente. Il telefono fu un'invenzione, forse lo fu anche il telefono cellulare: lo smartphone è un'innovazione. Da un punto di vista filosofico mi sembra che si possa dire, seguendo Fabio Merlini, L'estetica triste, Torino, Bollati Boringhieri, 2019), che l'innovazione risponda a due principi: al principio di novità e al principio della moda: dunque in-novare e modi-ficare. Non c'è gloria nel conservare il mondo, soltanto nel modificarlo. Innovate, innovate, è l'imperativo dell'economia diretto ai produttori; consumate, consumate, quello per gli acquirenti. Ora, il nuovo sicuramente attrae. Non perché sia migliore del vecchio: talvolta lo è, talvolta no. Eppure, soltanto per il fatto di non esserci stato prima, il nuovo solleva curiosità, che non a caso in una lingua precisa come il tedesco si chiama Neugier. Neu-gier, avidità del nuovo. La lingua tedesca mette l'accento sulla novità, la quale suscita il sentimento della curiosità, mentre le lingue neolatine, ispirate dal latino, lo mettono sulla cura. Curarsi di una cosa, curarsene con sollecitudine, questa è la curiosità, e anche se il nuovo non vi compare esplicitamente, si può ben immaginare che si voglia prendersi cura del nuovo, soprattutto se questo è un nuovo bimbo, bisognoso proprio di quella cura che si desidera porgergli.

 

Il nuovo tiene desta l'attenzione, scriveva Kant nell'Antropologia dal punto di vista pragmatico (1798) ricordata da Merlini, la scuote, suscitando stupore e meraviglia con l'arrivo dell'inatteso [§76]. Chi più di tutti si stupisce e si incuriosisce per il nuovo è – scrive Kant – il neuling, il novellino potremmo tradurre, per mantenere l'accento sul nuovo; ed è la infatti facoltà di continuare a stupirsi e meravigliarsi che Kant raccomanda di coltivare, per non cadere nell'atonia o nella monotonia, stato in cui le sensazioni sono infiacchite dalla quotidianità e dall'abitudinarietà: abitudine, abito, habitus, participio passato del verbo latino habeo, habere, ciò che già si ha ed è scontato. Habere, habitus, in greco echein. Da cui hexis, l'ottava delle categorie aristoteliche che dirigono tutte le riflessioni sul mondo. Habitus, l'abito, è il nostro modo di essere, la figura che ci portiamo dietro continuamente, il nostro vestito, quello che siamo soliti avere con noi e su di noi. L'abito che è divenuto sempre più soggetto di modifiche e alimenta oggi quell'industria della moda che è tragicamente diventata la seconda più inquinante del pianeta. 

Ora, l'antica saggezza stava nello scoprire i modi e i motivi immutabili delle cose e le loro conseguenze. Il contrario, la smoderatezza, porta a errore e a corruzione. La moderazione è stata in larga misura la visione del mondo premoderna; parola d'ordine della modernità è invece il superamento dei confini e l'audacia necessaria a farlo, sorretta dalla tecnica. Nel moderno è entrata la stessa radice di modus (ciò che regola e ordina, modera e misura) ma il significato si è modificato. Il mondo del moderno non è più il contesto dell'immutabile, delle forme eterne e del motore immobile bensì l'ambito del mutevole, del plastico, del modellabile e del modificabile, della rapidità e dell'accelerazione. Nell'epoca del moderno prevalgono, rispetto alle verità eterne e immutabili, i modelli e le mode che si susseguono secondo il principio dell'immediatezza; il continuo processo di modernizzazione e aggiornamento che ci sottopone al «principio-moda [in cui] tutto si prepara a essere sostituito in tempi brevi» (Merlini, p. 13). L'innovazione diventa un imperativo imprescindibile, che è governato e governa la moda, in una dimensione temporale che azzera il passato ma anche il futuro, giacché nulla è più pensato «per la vita»: né il lavoro, né la casa, né i rapporti familiari. La generazione di idee al servizio dell'innovazione e della moda ha annullato il senso delle generazioni che si passavano il testimone dal passato al presente e ha compresso il tutto su un immediato presente.

 

L'ultimo sassolino è dedicato a criteri e espedienti pensati per generare nuove idee che generino a loro volta nuovi prodotti e servizi. Il visionario di oggi è chi forma e trasforma in maniera ingegnosa, chi escogita e fabbrica, non chi preserva e perpetua. E chi è l'eroe di questo processo, il visionario che ha trasformato l'età digitale, se non Steve Jobs? E dove ha iniziato a immaginare e a lanciare Apple, se non dal garage della casa dei suoi genitori? Ed ecco dunque che le beautiful minds dei nostri tempi si dedicano a costruire garage fittizi che servano da pensatoi, incubatori di idee, al servizio delle capacità del nostro tempo. I garage-pensatoi-incubatori di idee per l'innovazione e la modificazione sono aule superattrezzate situate all'interno di edifici di formazione e dotate di ogni comfort: poltrone, pouff, macchine del caffè, computer e attrezzature di tutti i generi. Non sono laboratori, che potrebbero indurre all'idea che lì si lavora e si fatica. Sono posti in dipartimenti di tecnologie innovative, riservati a giovani menti brillanti delle quali si intende sollecitare la creatività offrendo loro una poltrona. 

 

Forse questa è la strada giusta, corretta, efficace. Forse. Ma c'è anche un altro modo per generare che è legato alla generazione fisica dal peso, dalla fatica e dal travaglio. Forse la generazione dei figli può avvenire in un garage, perché no; se poi il garage è attrezzato con tutte le comodità, ancora meglio. Ma la gestazione, anche se avviene nelle comodità del garage alla moda, è faticosa e pesante, perché in quella condizione, per ora ancora femminile, la donna è gravida, porta un peso, un grave. Nella pesantezza della gravidanza (essere gravide vuol dire essere pesanti, tendere verso terra grazie alla forza di gravità). Il mistero della creatività mi appare risiedere nella gravità e nella pesantezza, nella tremenda gravità, nella grazia della pesantezza. Perché, per citare le parole di un poeta, il sapore più gustoso è quello dei «frutti più pesanti» (R. M. Rilke, Lettere a un giovane Poeta, Milano, Mondadori, 1994, p. 49).

Vorrei raccontare una storia, in conclusione. Non la conoscevo, fino a poche settimane fa, l'ho letta nel romanzo Orfeo, del 2014, dello scrittore nordamericano Richard Powers. È la storia della nascita del Quartetto per la fine del tempo, di Olivier Messiaens. Siamo nel secolo scorso, nei primi anni della seconda guerra mondiale. In un lager per prigionieri di guerra si incontrano quattro musicisti. Grazie alla carta e alle matite fornite da una guardia carceraria, il giovane avvocato tedesco Carl Albert Brüll, Messiaens compone in condizioni impervie un pezzo per clarinetto, violino, violoncello e pianoforte, della durata di 50 minuti circa. Il quartetto venne eseguito su strumenti decrepiti, procurati dallo stesso Brüll, davanti alle guardie e agli altri prigionieri del campo, circa 400 persone, il 15 gennaio 1941. Non era un garage, eppure generava una visione. 

 

Francesca Rigotti sarà ospite del Festival dei Filosofi Lungo l'Oglio, dal 5 giugno al 21 luglio, il 1° luglio alle ore 21.15.

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Io romantico

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Il 6 e il 7 giugno, all’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles, si è tenuto un convegno sulla nostra letteratura contemporanea. A partire dall’ultimo numero di CARTADITALIA, la rivista diretta da Paolo Grossi e curata nel caso da Emanuele Zinato, Valentino Baldi, Marianna Marrucci e Morena Marsilio, una quindicina di critici e studiosi ha commentato la situazione di poesia, narrativa e saggistica. In tutte le sessioni si è molto discusso del rapporto tra valore letterario e industria editoriale: tema vecchio ma sempre attuale, che però per non rimanere astratto richiede una critica dell’ideologia capace di esercitarsi in concreto anche su chi la compie. Apriamo con questo di Matteo Marchesini una serie di articoli nati sulla scia degli interventi al convegno.

 

Se c’è un modo sbagliato, oggi più di ieri, d’impostare il dibattito sul romanzo, è quello di chi parte dalla dicotomia tra “scrivere bene” e “scrivere male”. Non perché i romanzi, e la letteratura, non siano fatti di scrittura, ma perché la loro sostanza si avvicina solo asintoticamente al corpo del testo; e appena proviamo a trasformare l’asintoto in una coincidenza, per dirla con Edward Morgan Forster, ci resta in mano solo un mazzetto avvizzito di parole. Come accade in politica, ogni tentativo di ridurre i problemi che riguardano il valore e la visione del mondo a questioni tecniche nasconde una scelta ideologica. Francesco Orlando, non certo sospetto di simpatie per l’Ineffabile, ricordava il prezzo eccessivo pagato dal Novecento che ha imposto il tabù sul referente. Anche quando negli anni Sessanta hanno recuperato la retorica antica, osservava Orlando, le culture egemoni sono state costrette a ignorare l’inventio, il primo passo della composizione, che precede il lavoro sulla struttura e sullo stile e che consiste nell’atto di ritagliare una propria prospettiva, ossia un proprio mondo, all’interno del caos fenomenico. Un romanzo può essere scritto “impeccabilmente”, ma rimane un testo inerte se la sua scrittura aderisce a blocchi stereotipi già dati, cioè se questi blocchi non vengono sciolti in molecole né riassemblati dalla comprensione del romanziere, oppure se là dove vengono utilizzati non sono contraddetti da una risultante generale dell’opera in grado di mutarne il senso. 

 

Questa irriducibilità dell’arte alle ragioni tecniche si può verificare attraverso un sintomo che dice molto del contesto sociale e culturale in cui cresce la letteratura contemporanea. A cavallo tra Otto e Novecento, le grandi fabbriche romanzesche che producevano cicli narrativi come fossero un’estensione diretta dell’esistenza hanno chiuso i battenti. Allora le due esperienze si sono separate: o si vive o si scrive, ci hanno ripetuto le generazioni assolutamente moderne da Cechov a Montale; e già due scrittori così diversi come Verga e Proust devono i loro capolavori all’epochè gettata sulle aspirazioni mondane. Ma negli ultimi decenni le cose sono cambiate ancora. Una letteratura indebolita, che trova sempre meno ascolto ed è apprezzata per motivi estrinseci, si sta ritrasformando da risarcimento della vita a risarcimento nella vita: viviamo, si direbbe, in uno pseudo-Ottocento perversamente narcisistico e virtuale. Non a caso torna a dilagare l’io romantico di cui parlava René Girard. Nel suo memorabile Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), Girard spiegò che il romanzo autentico mostra la complicità hegeliana del soggetto con la società che lo circonda, mentre il romantico fa dell’opera «un’arma contro gli altri». Il romanziere vero sa che «tra Don Chisciotte e il piccolo borghese vittima della pubblicità, non vi è quella lontananza che il romanticismo vorrebbe far credere», e attraverso il suo personaggio-cavia compie un’operazione di cataratta: magari in delirio, o prima di una decapitazione, in punto di morte o comunque al momento di salutare il lettore, la cavia passa dall’illusione alla disillusione, dal sogno drogato al riconoscimento della “banale” realtà. È un sogno che si esprime nel desiderio mimetico, cioè nella volontà d’identificarsi con persone socialmente prestigiose, di realizzarne le ambizioni e di possederne gli status symbol. A mano a mano che la società borghese, di cui la storia del romanzo è lo specchio letterario per eccellenza, acquisisce un’apparenza democratica, queste persone si fanno via via più simili al soggetto che le imita. Non sono più cavalieri da poema, ma gente che s’incontra a ogni angolo di strada, ipocriti fratelli. Così i modelli diventano al tempo stesso dei rivali. Insieme con le differenze entrano in crisi le identità: i simili si scambiano continuamente le parti nel gioco sadomasochistico del desiderio, e la mimesi si estende come un contagio senza limiti fino a penetrare nel cuore dei rapporti erotici o famigliari. 

 

Oggi che media onnipervasivi, e ingannevolmente orizzontali, hanno condotto l’angoscia da confronto e la cattiva infinità del processo d’identificazione a un livello ancora più intimo, una letteratura ormai ignara della tradizione moderna rinasce come strumento e certificato d’esistenza, compromettendo alla radice prima di tutto le possibilità conoscitive del romanzo. La tendenza all’autofinzione indica senz’altro un reale sintomo storico, e nei casi migliori riesce a dar conto del contagio mimetico, ossia a estrarne il contenuto di verità. Ma molto più spesso, chi si muove nell’alone di questo continente creativo dai confini incerti subisce inconsapevolmente il nuovo clima. La menzogna romantica è subito riconoscibile là dove l’autore e il narratore – o comunque il personaggio protagonista – fanno immediatamente tutt’uno. Non importa qui il grado di sovrapposizione con lo stato civile, il rapporto tra autobiografia e immaginazione. Ciò che conta è che per atteggiamento mentale, esistenziale e culturale, le due figure tendono a coincidere. La cavia narrativa, che di solito parla in prima persona, è qui evidentemente il portavoce dell’autore, e la visione del mondo che ci è consegnata dal libro nel suo complesso non contraddice quella del portavoce ma anzi la rafforza, la moltiplica. Manca insomma una dialettica capace di relativizzarla. Il soggetto trionfa su una realtà troppo poco resistente per poter fare attrito con la sua azione: e trionfa, s’intende, anche quando è sconfitto, dato che risulta immancabilmente più nobile degli avversari in cui s’imbatte nel proprio cammino. 

 

 

Il fenomeno riguarda le poetiche e gli scrittori più lontani. Scegliamo due esempi agli estremi dello spettro: da una parte Francesco Piccolo, che con le sue schematizzazioni umoristiche prende il romanzo per così dire sottogamba; dall’altra Antonio Moresco, che con il suo Io espanso da consigliere Schreber lo prende, come dire?, sopraggamba. Dagli Esordi agli Increati, il portavoce moreschiano si finge costantemente inerme, trasognato, distratto, a fronte di interlocutori cui viene attribuita una malignità misteriosa che sembra sempre di aver già incontrato altrove, anche perché è la caricatura un po’ grossa dei più proverbiali spettri novecenteschi. È chiaro che il suo io rimane dall’inizio alla fine il Christus Patiens, cioè in verità Triumphans, della situazione romanzesca: si pensi a quanto facile è la satira dell’editoria, col suo rovescio meccanico e perfino imbarazzante di autorisarcimento. Moresco riflette poi in forma acritica un altro tratto caratteristico dello spirito del tempo, che è strettamente connesso alla divisione romantica tra “io e gli altri”. Al di là dell’alone onirico in cui avvolge ogni cosa, la sua prospettiva sdoppia infatti la realtà in un insieme di suggestioni eteree, che alludono al mistico o al rituale, e in una serie di quadri che grondano viceversa di brandelli naturalistici dove tutto è putrefazione, decadenza, rifiuto organico (entrambi i poli sono investiti da un pathos dell’Oltranza tanto più esibito quanto più impotente: vedere la ricorrenza, condivisa con i gerghi filosofici alla moda, delle metafore dello sfondamento, dello «sbrego», ecc.). Come in molta letteratura recente, ci ritroviamo qui davanti alla Corruzione e al suo contrario, l’Ostia; al Sangue dei riti sadici e alla Purificazione monacale.

 

Tutto è feroce, tutto è vellutato. Tutto è splatter e tutto è diafano – tutto è sacro. Si può parlare di dannunzianesimo metastorico: un dannunzianesimo che ovviamente, essendo di per sé camaleontico, si colora via via delle retoriche d’epoca e assume le droghe messe sul mercato la sera prima. Il naturalismo panico e decadente non si riflette più nel lessico del vate, ma attinge metaforicamente dalla nebulosa delle scienze biologiche, chimiche, neurologiche, informatiche. Resta però l’enfasi estetizzante sull’Opera, l’esaltazione di chi s’immerge nel brulichio dell’universo in decomposizione per redimerlo, e svetta sulle sue bolge; resta, ancora, un alter ego destinato a pronunciare i discorsi che l’autore vuole esprimere a ogni costo, ma che sospettando non siano abbastanza solidi immette a forza nella cornice del “romanzo”. 

Diverso è il caso di Francesco Piccolo. Non si potrebbe immaginare autore più distante da Moresco: la pagina tipica di Piccolo somiglia all’alzata di spalle di chi non vuol mai rischiare di prendersi troppo sul serio. Eppure anche in lui fa capolino l’io romantico; solo che arriva da una strada opposta. Davanti al suo libro più fortunato, Il desiderio di essere come tutti, si potrebbe pensare che girardianamente abbia le carte in regola. A cominciare dal titolo, e quasi a ogni capoverso, esibisce infatti la consapevolezza della mimesi, della compromissione: mette in scena un io imperfetto, prosaico, e ne elenca le debolezze di continuo. Ma le cose non stanno veramente così. Nel suo elogio dell’impurità – della sua parte infingarda e italiana contro la sua parte berlingueriana e virtuistica – l’io di Piccolo è più puro che mai. Vince su alcune mezze verità sbiadite con l’aiuto di altre mezze verità più confortevoli; e se per un lungo tratto lo fa velando appena la soddisfazione che prova guardandosi allo specchio, alla fine abbandona il galateo umoristico e si lancia in un’autoapologia con fanfara. Mentre tanti si esiliano dal Paese, o per tutta la vita si propongono di farlo, «Io invece resto qui. Perché non mi voglio salvare», conclude il narratore. L’unico modo di abitare un’epoca, ci dice, consiste nel saperla accogliere: rifiutarla è inutile, retorico, infantile. “Che vi agitate?”, ripete la sua voce qualunque cosa ci stia raccontando.

 

Il fatto però è che questa accettazione della “realtà” non si prende né le responsabilità del cinismo aperto né quelle del fatalismo triste: trasuda invece un agio compiaciuto, e al tempo stesso rivela un sottofondo rivendicatorio che incrina la superficie dell’understatement. L’autore e il narratore vogliono convincerci delle loro ragioni ritagliandosi un avversario su misura, un protogrillino troppo moralista e misoneista per costituire un serio ostacolo alla legittimazione di ciò che sono. Così non si supera l’ideologia romantica, ma si schiva la critica della vita tout court, liquidata come incapacità di accettare la mutevolezza ingovernabile del reale. E in più lo si fa da una posizione conformista, perché a differenza di quel che è accaduto tra Otto e Novecento oggi non sembrano darsi alternative credibili al mondo in cui viviamo. Non a caso se il romanticismo, nel senso storico del termine, insieme a Don Chisciotte ha eccessivamente esaltato anche Alceste, da qualche generazione si eccede nella tendenza contraria, trattando il critico a disagio in società come un imbecille o un malato delirante da sottoporre a cura. Mi sembra che Piccolo la pensi allo stesso modo. Spende buona parte delle sue energie nel giustificare un adattamento a ciò che non ha alcun bisogno del suo sì per imporsi, dato che ci domina già tutti. Ma dire questo significa affermare che lo scrittore ha evitato la nekyia necessaria al romanzo, che non è andato a fondo in quell’analisi dell’io che sola può renderne feconda la disillusione; anche perché una tale analisi, ovvero la critica del soggetto romantico, è inseparabile dalla critica della società di cui il soggetto fa parte. L’autentico riconoscimento della realtà non coincide con la soddisfatta e ideologica accettazione di ciò che mai come in questi anni sembra fatale, ma implica il passaggio attraverso una ferita che per quanto liberatoria non può non compromettere l’identità. Nel Desiderio di essere come tutti, invece, l’identità non subisce scosse: e dunque anche su questo piano, anziché condurci nei dintorni di un aspro vero, l’autore ci propone di fermarci a una verità dimezzata, cioè a una menzogna. 

 

Chi voglia controllare questo giudizio sul testo ha solo l’imbarazzo della scelta. Prendiamo una scena di adolescenza. Il narratore, coetaneo di Piccolo e casertano come lui, esce con una compagna di liceo che si fa sempre un po’ pregare, perché essendo una gruppettara dura e pura considera l’aspirante fidanzato un borghesuccio. Anche a Caserta arrivano gli anni Ottanta, rappresentati qui dai negozi di ninnoli foderati in rosa. Un 14 febbraio il narratore regala alla sua pasionaria un peluche di Snoopy, e prevedibilmente lei se ne sdegna: «Anche il giorno di San Valentino, se non lo sai, succedono cose nel mondo», lo gela sbattendogli la sorpresa sullo stomaco, «e quindi anche il giorno di San Valentino noi siamo impegnati a fare politica». «Sentivo di essere inadeguato al mondo, alle persone che amavo, alla politica che mi appassionava. A tutto. Non lo sentivo, lo ero. Era evidente», commenta l’alter ego di Piccolo abbandonato al buio. Ma non è evidente neanche un po’. Sfido chiunque a non leggere questa scena pensando invece che la ragazza è rigida e ottusa, e che il ragazzo, proprio grazie alla sua fragilità, avverte precocemente come la vita sia uno gliommero di fili dai colori incompatibili eppure inscindibili, in cui quello di Lenin s’intreccia anche a quello del kitsch sentimentale. Il velo della presunta inadeguatezza non serve se non a far risaltare la sua maggiore umanità. 

Tra questi due estremi dello spettro, ognuno può scegliere a piacere innumerevoli romanzi più o meno visibili e rappresentativi che testimoniano l’attualità del problema. Poco importa che siano libri a dominante intimista, sociale o “metafisica”: quel che conta è che il portavoce non mette in discussione né sé stesso né la realtà circostante – ad esempio l’Italia, che appare quasi sempre canonicamente devastata, fascistoide, corrotta, e inquadrata da un io che ha subito chiaro dove stanno le malattie, le cause e le colpe della situazione. Il tono, che permea in altro modo anche molta poesia, è quello retoricamente amaro di chi fin dalla prima riga fa capire che si sa già tutto, che ci si è già intesi tra noi: il tono, in definitiva, di chi tratta la propria materia come un oggetto già dato da sottoporre a mere trasformazioni strutturali. La posta in gioco della letteratura, e di qualunque prodotto culturale vivo, ossia la definizione di ciò che è reale, viene così preventivamente rimossa. 

 

Oltre che nella scrittura, il carattere romantico-risarcitorio lo si può riscontrare naturalmente nel modo in cui si legge, ad esempio nella comune ricezione di autori anche non contemporanei più o meno grandi. Si pensi alle ragioni per cui il medio letterato del Duemila s’entusiasma di fronte a certi pezzi di Céline o Bernhard, alla maniera in cui li cita e alle parole bombastiche con cui li commenta e magari li riecheggia. Di solito ne ammira i passi più stilizzati, le invettive lisce che potrebbero proseguire all’infinito senza trovare ostacoli sul loro cammino; e proponendole o chiosandole, sfoga sia un bisogno d’identificazione sia un bisogno di stile che né da soli né giustapposti fanno la letteratura. In questo senso, si capisce perché tra gli italiani molti leggano o rileggano con entusiasmo il Curzio Malaparte riedito da Adelphi. Oltre al populismo estetizzante, avvertono come congeniale proprio l’apparente onnipotenza del suo Io. Malaparte è qui il gemello diverso di Carlo Levi, altro modello implicito o esplicito di non poca narrativa che si muove tra fiction e reportage. Si potrebbe dire che Levi è un Malaparte che si è messo dalla parte giusta, un Buonaparte. Né il narratore malapartiano né quello leviano vengono mai colti di sorpresa dalla realtà: gioveschi, affascinanti, sentenziosi, la domano e la dominano con l’olimpicità di un gesto o di un bon mot. Mentre un Proust o un Saba fanno del narcisismo un mezzo di conoscenza e un oggetto d'analisi, loro lo subiscono senza staccarlo mai da sé. Se una larga zona della letteratura contemporanea li sente vicini dipende dal fatto che nei suoi prodotti accade qualcosa di simile: un essere umano sublimato e irresistibile, malgrado tutte le sue possibili pecche o appunto grazie a quelle, passa in rassegna truppe di omini, paesaggi e conflitti ridotti a dimensioni da giocattolo. Senza averne la statura, a inizio XXI secolo i letterati si innamorano di Malaparte o ricalcano le orme di Carlo Levi perché non considerano la scrittura come una dolorosa operazione di cataratta che ci mostra la natura delle nostre illusioni, ma al contrario come un risarcimento, una droga, una fuga nell’immaginario e un alibi. E se non cambia questo modo di vedere, nessuno “scrivere bene” potrà garantire per i loro libri. 

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Letteratura contemporanea: un dibattito
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“Juliet, Naked”: apologia della normalità

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Se c'è un trailer da non guardare è quello di Juliet, Naked (Jesse Peretz, 2018). Perché se c'è un film da guardare per la gestione dei suoi imprevedibili risvolti di trama è proprio Juliet, Naked. C'è dentro una sorprendente potenza dell'intreccio. Potrebbe comparire di diritto in un manuale di sceneggiatura, nel capitolo dedicato agli incastri inaspettati tra i personaggi; su come questi, nella migliore delle ipotesi, rappresentino ciascuno un significato in senso funzionale nella vita dei restanti, calibrando così al meglio ogni snodo di trama.

 

 

 

 

Al di là dell'ottima concertazione, c'è da dire che la storia in sé ha il vantaggio intrinseco di non essere banale: eppure, il trailer riesce incredibilmente a indebolirla. Da un lato vi inserisce una stupidissima voce fuori campo, completamente assente nel film, che gli dona una semplicistica connotazione diaristica; dall'altro – più grave – racconta i fatti per come questi si concatenano nel film senza quasi alternarne l'ordine cronologico, svelando cioè quelle stesse sorprese che abbiamo detto essere il suo punto forza e suggerendo una decisione finale da parte di Annie, che, in questo caso come vedremo, non è solo una chiusura di trama (di eventi), quanto una conclusione in termini di senso del film. È lì infatti che capiamo una volta per tutte in che direzione intendesse andare Juliet, Naked.

 

Come spesso accade, anche questo film si regge sullo sviluppo parallelo di due storie principali. E se è vero che un film si intende riuscito quando l'una rafforza l'altra, il nostro ha la stoffa giusta. E, anche se alla fine l'una passerà in secondo piano in favore dell'altra, il movimento non verrà percepito dallo spettatore come stridente rispetto alle premesse. Anche perché il film non intendeva parlare di nessuna delle due.

Come già è evidente nel trailer, le due trame di cui parliamo, qui chiamate a intrecciarsi, sono quelle della fissazione di Duncan (Chris O’Dowd) per Tucker Crowe che porta con sé il tema del fanatismo musicale (e della musica, il sottotitolo è infatti “Tutta un'altra musica”) e relative ridicolezze connesse nonché l'impatto delle stesse sull'infelice vita di Annie (Rose Byrne), e quella dell'incontro, questa volta nella vita reale di lei, proprio con Tucker Crowe (Ethan Hawke). Tra queste due, si intravede la pulsazione insistente di un terzo nodo: l'idiozia di lui ha inciso sulla vita di lei al punto tale da intaccare anche un'evoluzione in senso filiale della coppia (cosa sulla quale fin dal trailer la donna ci appare essere piuttosto contrariata). Il trailer ci avverte però che la musica della sua vita stava per cambiare e che ciò avrebbe generato una trasformazione talmente netta nella sua vita da spingerla a rivedere le sue posizioni in senso radicale.

 

 

Rispetto al quadro schematico presentato dal trailer, diverso sarebbe stato constatare fin dall'inizio l'impasse senza speranza di una coppia fortemente intaccata, se non minata, da un divertentissimo tema (il fanatismo) incarnato brillantemente dal personaggio di Duncan, per poi lasciarsi sorprendere dalla piega inaspettata assunta dalla vicenda. Per chi non avesse visto il trailer, era verosimile supporre che, passati i primi minuti, il film avrebbe anche potuto andare avanti così, traendo perle di raffinato umorismo da questa inesauribile linea narrativa. Invece, quasi senza che lo spettatore se ne accorga, il film ha poste le basi perché per un nuovo, inatteso, sviluppo. Annie, esasperata dalla mania del compagno, lascia un commento negativo sul sito di fan di Tucker Crowe, a proposito del brano del cantante, “Juliet, Naked” appunto. Ed è proprio Crowe in persona a risponderle, entrando finalmente in scena in carne e ossa. L'oggetto del fanatismo di una cerchia di disperati che lo davano per disperso, forse morto, non solo è una persona reale, ancora in vita, per quanto lettore dello stesso fanclub a lui dedicato e, sebbene caduto in disgrazia dal punto di vista artistico, straordinariamente pieno di figli avuti da donne diverse. Il ribaltamento della situazione di partenza svela il magico meccanismo a incastro.

 

Come se non fosse già bastata la rappresentazione di una grigia vita di coppia, ecco che il film dispiega l'obiettivo a cui puntava: sfatare i miti l'uno dopo l'altro, infrangendo il luogo comune. Già dai tempi di Alta Fedeltà (anche quello tratto, come questo film, da un romanzo di Nick Hornby), la normalità è più vera della felicità, e la sfiga è più vera della coolness. È il rovesciamento del luogo comune a contenere in sé il germe della sorpresa. A cominciare dall'aura di mistero che avvolgerebbe le star, passando per l'automatismo con cui si dovrebbe finire al letto al primo incontro dando per scontata un'attrazione fisica che non bada a imbarazzi, finendo con il mettere al mondo dei figli come naturale conseguenza di una relazione di coppia, magari stabile. Più che il rovesciamento in sé, è proprio il “come” ci si arriva a fare la qualità di un film come Juliet, Naked. Al contrario, nel trailer tutto questo risulta (parzialmente) chiaro da subito, smorzandone la carica d’imprevedibilità.

 

 

Neanche Tucker Crowe però sarà la soluzione definitiva. Chi ha visto il film sa che a conti fatti, più che una storia d'amore, Juliet, Naked parla della possibilità di un'evoluzione personale verso la felicità, qualcosa che ha più a che fare con una scelta individuale che con una realizzazione di coppia. Quando la costruzione del senso è procedurale, non stupisce che il film tratti con estrema cura l’insieme dei personaggi e i relativi incastri, per poi farli sparire spostando il focus esclusivamente sulla vita della protagonista, che fa le sue scelte indipendentemente da tutti. Così come non stupisce che la storia vada a terminare spontaneamente, a imbuto, sul tema filiale, senza che ciò metta in crisi quello che è venuto prima, come se questo e quello fossero due rami originati dalla stessa radice e viceversa; due fiumi che convergono appena prima di sfociare nel mare. La storia ne appare rafforzata e giustificata: se le cose non avvengono mai per caso, allora vuol dire che tutto è collegato.

 

Dunque la musica, come l'amore, era solo un pretesto. Che smette di esser tale quando ci si accorge che, come in tutte le sceneggiature ben strutturate, anche il pretesto ha il suo valore. Accettare per esempio l'amarezza che non tutti i grandi amori arrivano per restare; che alcuni piombano nelle vite come l'atterraggio di un meteorite al centro del cuore, ma al solo scopo di condurre da qualche altra parte. Viatici per la felicità. È questo che ci piace di più nelle storie, quando ci dicono che molte delle cose che (ci) accadono servono solo ad agevolare il passo successivo. Proprio come in una buona sceneggiatura.

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La meccanica delle passioni: una caduta

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È uscito di recente, per Einaudi, La meccanica delle passioni, nuovo libro di Alain Ehrenberg, sociologo, direttore emerito di ricerca al Cermes3 di Parigi, autore del testo La fatica di essere se stessi, una tra le più interessanti opere sulla diffusione sociale della depressione come categoria diagnostica.

Questo nuovo libro è un lungo e complicato saggio in cui l’autore sviluppa un ragionamento storico sull’approccio alla salute mentale. Le origini vengono individuate in due – in qualche modo opposte – tradizioni del pensiero moderno. Ehrenberg regredisce fino all’Illuminismo: da una parte la tradizione francese, individuata nel pensiero di Jean-Jacques Rousseau, dall’altra quella anglosassone, o meglio scozzese, individuata nel pensiero di David Hume.

 

Da quel che ho compreso, secondo l’autore, il contemporaneo trend “cognitivista” o “neuropsicologico” deriva dall’egemonia culturale del “pensiero anglosassone” che pone nell’individuo un “potenziale nascosto”. L’individuo, con questo potenziale, sarebbe in grado di rendersi capace di evolvere, creando una sorta di “naturale” armonia cooperativa con gli altri. L’elenco delle condizioni cliniche che hanno contribuito al dominio del cognitivismo neuropsicologico è lungo e controverso, per esempio le nuove correnti di pensiero sull’autismo, soprattutto i contributi di persone autistiche, le tecniche di neuro-immagine che hanno individuato aree cerebrali alla base di alcuni deficit, come la prosopoagnosia – l’impossibilità di osservare i limiti di movimento del proprio corpo – l’amnesia o l’afasia, ecc. Tutto questo e altro sembra, in un colpo, contribuire all’affermazione di un trend “liberale” di salute pubblica. Da ciò scaturiscono tecniche terapeutiche, neuropsicologiche, riabilitative e diagnostiche che corroborano, per dir così, la moderna “teoria della mente”. 

Invero la “teoria della mente” descrive la mente come un contenitore composto da moduli che producono rappresentazioni: se un modulo della mente non funziona, quel tipo di rappresentazione risulta distorta. In particolare, secondo questa teoria, ci sarebbe un modulo essenziale che risponde alla questione delle relazioni umane: il modulo che rende possibile all’individuo “rappresentarsi la rappresentazione mentale dell’altro”, si tratterebbe della radice dell’empatia, alla quale, secondo alcuni, corrispondono determinate aree del cervello.

Al contrario, ma ciò appare meno chiaro nel testo, la tradizione francese, partendo dall’idea rousseauiana del contratto sociale, porrebbe in luce il primato della società sugli individui e, se non intendo male, farebbe da premessa per una società che regola gli individui a partire da un patto; un orizzonte morale e giuridico. Benché Rousseau, ma questo Ehrenberg non lo scrive, manifesti una certa nostalgia per il “buon selvaggio”.

 

 

Negli stessi mesi, due studiosi, Francisco Ortega e Fernando Vidal, hanno pubblicato un altro libro, che non è stato tradotto in italiano, dal titolo Being Brains. Ho trovato questo libro più interessante e utile in relazione al mio osservatorio clinico. La tesi di Being Brainsè chiara fin dal titolo: le moderne neuroscienze riduzioniste – non tutte le neuroscienze dunque, ma quelle che sembrano avere la meglio nel panorama “scientifico” contemporaneo – stanno cercando di creare un nuovo orizzonte morale. La sede delle responsabilità viene spostata dalla persona al cervello. In altri termini, Ortega e Vidal sottolineano un preoccupante passaggio da un orizzonte morale fondato su ciò che in inglese vene definito nei termini di personhood, a un orizzonte tecnologico in cui la sede decisionale viene definita nei termini di brainhood. La disposizione morale, in questa ipotesi, non apparterrebbe più alla persona, ma al cervello.

Il discorso di Ehrenberg si muove in altra direzione. Sia perché, come ho riassunto sopra, descrive una sorta di “conflitto di civiltà” iniziato nel secolo XVIII, sia perché nella sua descrizione di questo “processo di lunga durata” mette insieme approcci e autori che, a mio avviso, hanno posizioni differenti l’una dall’altra. 

Ho letto anch’io qualcosa delle opere di Hume, il quale, come molti filosofi, ha scritto molto ed è stato interpretato in modo diverso dagli studiosi che lo hanno analizzato. In questo senso, l’interpretazione di Ehrenberg su Hume non mi sembra rendere conto in modo corretto del suo pensiero. Secondo l’autore, Hume sarebbe un pensatore proto-liberista perché applica il metodo sperimentale ai fatti morali. In altri termini, la sfida di Hume alla metafisica religiosa viene interpretata come una specie di proto neuro-etica, saltando tutti gli innumerevoli passaggi intermedi che hanno condotto il suo pensiero verso una molteplicità di direzioni. 

 

A me non consta che Hume sia un precursore della moderna “teoria della mente”, semmai il lascito di Hume può essere attribuito a opere come le Ricerche filosofiche, e le Lezioni sulla filosofia della matematica di Wittgenstein, da un lato, o, in direzione diversa, nell’opera di Gilles Deleuze Empirismo e soggettività. Wittgenstein sottolinea l’importanza della scepsi, la messa in questione del meccanismo di causa-effetto, definito come frutto di abitudine, dunque alla base di un’inferenza logica erronea. Quando Hume dice che la natura è essenzialmente regolarità, non intende affatto naturalizzare le abitudini, al contrario, intende de-naturalizzare un’idea che confonde i nostri habitus con la “natura”. Questa è, a mio avviso, l’essenza della scepsi, lo scetticismo, di Hume.

Deleuze, in altra direzione, sottolinea la filosofia di Hume come filosofia delle “affezioni della mente”, che fa di Hume uno “Spinoza empirista”. Quale empirismo? Un empirismo del soggetto che attraversa l’esperienza, niente affatto l’empirismo oggettivante delle moderne scienze evidence based; semmai il contrario. Mi domando se Ehrenberg non abbia confuso David Hume con Adam Smith, contro il quale, a torto o a ragione, lanciava i suoi strali Karl Marx quando criticava la teoria della mano invisibile, ossia l’idea che il libero mercato contiene una sorta di meccanismo autoregolatore che produce una sorta di armonia economico-sociale. 

 

A pagina 71, Ehrenberg afferma: “La modalità anglo-scozzese [sic], riconducibile a David Hume, Adam Smith e ad alcuni altri filosofi e pubblicisti, per lo più scozzesi, parte dal dato individuale, si riferisce a una logica delle parti e concepisce i concetti morali come se fossero meccanismi”. Con questa affermazione si può contenere una sorta di “mano invisibile” cognitivista: tutto e il suo contrario.

Secondo punto da discutere: Ehrenberg mette insieme, in un unico movimento senza contraddizioni, Oliver Sacks e Antonio Damasio, Francisco Varela e Michael Gazzaniga. Tutti, nessuno escluso, sembrano concorrere a formare un movimento assoluto, indifferenziato, che spinge l’epoca contemporanea a creare un modello di salute pubblica basato sulla premessa che la manipolazione della meccanica del cervello è la promessa per creare una società giusta, in cui si riducano i conflitti, le violenze e le sopraffazioni. 

Che in questi trent’anni abbia preso piede un pensiero riduzionista nell’ambito delle neuroscienze, non c’è dubbio. Che da parte di molti seguaci di questo riduzionismo Oliver Sacks sia considerato un buon romanziere e Francisco Varela del tutto ignorato, è però altrettanto vero. La tendenza riduzionista neuro-cognitiva è dominante, siamo d’accordo. 

Tuttavia io penso che sia destinata allo scacco. Siamo sul punto di accorgerci che questo grande movimento riduzionista e scientista è fallito. Da quando dominano le tecniche di neuro-immagine – che sono una sacrosanta invenzione! – applicate ai comportamenti, le nuove sostanze psicotrope sempre più individualizzate, le tecniche di intervento cognitivo-comportamentale volte a cambiare le mappe cerebrali dei soggetti sono ritornati, nel mondo, gli antagonismi radicali, i sovranismi, i neofascismi e i nazionalismi estremi. 

Non è che queste tecniche non funzionino, spesso funzionano in modo eccellente, vengono per esempio adottate dai creatori di sale da gioco per rendere dipendenti dalle macchine i loro frequentatori. Ma non hanno impatto sul miglioramento delle relazioni tra le persone, persino nelle istituzioni di salute pubblica. Dove queste tecniche sono dominanti, spesso l’accoglienza dei pazienti è scomparsa e i diritti dei malati ignorati “in nome della scienza”.

Il problema è che, nonostante gli sforzi di pensare in termini di neuro-etica, l’etica è altrove. Questo è ciò che, a mio avviso, insegnano autori come Oliver Sacks, o il suo maestro Alexandr Lurija – fondatore della neuro-psicologia – che per avere coniugato in una scienza romantica gli studi neurologici con la vita e l’esistenza reale dei suoi pazienti, fu espulso, nel 1953, dall’Istituto di Neurochirurgia di Mosca dai seguaci di Pavlov.

 

In una presentazione del suo libro presso la librarie mollat Ehrenberg parla di due mitologie: quella di un monismo materialista e quella del bio-potere foucaultiano, entrambe al servizio del liberalismo, la dicotomia sembra, per lui, essere presente negli opposti tra l’idea delle scienza come strumento per l’emancipazione, tipica del liberalismo, e la scienza come strumento del controllo sociale, tipica degli studiosi che si rifanno a Foucault. Ormai, nel suo paese, sono in tanti a sputare sulla tomba del più grande pensatore del secolo breve.

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Alain Ehrenberg
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Made in Italy

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Il tema del Made in Italy è particolarmente rilevante per le numerose implicazioni sociali che lo caratterizzano. Eppure, la letteratura scientifica su tale tema è estremamente limitata. E soprattutto è limitata quella prodotta dagli studiosi di tipo accademico. Sembra che il tema sia poco interessante per l’università italiana, forse perché è strettamente legato a un altro tema tradizionalmente poco praticato dai ricercatori universitari: quello della moda. Ora ci prova Carlo Marco Belfanti con il suo volume Storia culturale del Made in Italy (Il Mulino). Però Belfanti è ordinario di Storia economica all’Università di Brescia e quindi da storico si interessa poco del Made in Italy odierno. Va alla ricerca delle radici del Made in Italy e si ferma sostanzialmente agli anni Cinquanta del Novecento. Comincia la sua analisi chiedendosi che cosa rappresenti il concetto di “Made in” e la sua risposta è che l’immagine di una nazione solitamente è determinata dai fatti storici che riguardano tale nazione. Ma poi rinuncia ad approfondire tale questione sostenendo che si tratta di qualcosa di troppo complicato. Gli interessa infatti prima di tutto criticare la tesi, sostenuta in precedenza da molti autori, che alla base di quei caratteri di creatività e buon gusto tipici dei prodotti italiani odierni c’è l’influenza esercitata da una secolare storia di creazione di prodotti artigianali raffinati e soprattutto di eccellenze artistiche. Ci sono cioè il costante confronto e la familiarità con la grande ricchezza del patrimonio di bellezza del nostro Paese, che hanno fortemente stimolato lo sviluppo di un’elevata sensibilità estetica negli individui. 

 

Belfanti però non è d’accordo con questa tesi, anche se, come si diceva, è stata sostenuta da molti studiosi. Nicola Squicciarino, ad esempio, ha sottolineato tempo fa, nel volume Il vestito parla. Considerazioni psicosociologiche sull’abbigliamento (Armando), l’importanza rivestita a questo proposito dall’egemonia culturale esercitata in Italia nel corso dei secoli dal Cattolicesimo, il quale ha saputo dare valore a degli elementi apparentemente in contraddizione con la sua morale, ma centrali per il pieno manifestarsi del Made in Italy e della moda: la dimensione sensoriale del corpo, la ricerca della bellezza e del piacere. Si pensi, ad esempio, a come all’interno delle sue chiese abbia valorizzato l’arte o a come spesso gli abiti dei suoi rappresentanti spicchino per la loro eleganza. Al contrario, la religione protestante, dominata dall’idea di dovere e da una concezione profondamente austera e puritana della vita, non ha lasciato spazio a manifestazioni estetiche di questo tipo.

Altri autori hanno aggiunto a queste considerazioni il ruolo svolto dall’abitudine sviluppata dagli italiani nel corso della loro storia a essere in contatto con una grande varietà di climi e paesaggi, ma soprattutto di popoli e culture. È l’opinione, ad esempio, di Stefania Saviolo nel volume di Corbellini e Saviolo La scommessa del Made in Italy e il futuro della moda italiana (Etas). E, secondo lo storico francese Pascal Morand che ha scritto un saggio contenuto nel volume curato da Ampelio Bucci Moda a Milano. Stile e impresa nella città che cambia (Abitare Segesta), l’atteggiamento di grande apertura verso gli altri popoli che caratterizza da sempre la cultura italiana è influenzato da uno sviluppo storico basato su rapporti di costante relazione con il resto del mondo. Rapporti che vanno, ad esempio, da quelli di dominio dell’Impero Romano sino a quelli drammatici dell’ondata migratoria rivolta soprattutto verso l’America sviluppatasi nel periodo a cavallo tra l’Ottocento e il primo Novecento, passando per le intense attività di scambio dei commercianti rinascimentali e le grandi scoperte di navigatori come Vespucci e Colombo. Insomma, in generale, gli italiani si sono sempre sentiti “cittadini del mondo”. 

Morand ha affermato inoltre che l’Italia è un Paese estremamente disperso sul suo territorio e ciò ha stimolato, fin dall’epoca dell’affermazione delle città-stato nel Quattrocento, la creazione di un’intensa specializzazione industriale su base regionale. Da ciò probabilmente è derivato quel ruolo fondamentale che i distretti hanno saputo svolgere nella storia del Made in Italy. Gli oltre 200 distretti produttivi italiani hanno già da molto tempo infatti adottato un modello unico al mondo fatto di specializzazione, ma anche di collaborazione e di flessibilità. Un modello grazie al quale nel corso dei decenni le piccole aziende italiane hanno potuto unire i loro sforzi e affrontare così a testa alta la difficile sfida dell’internazionalizzazione. 

 

 

Morand ha individuato infine un altro fattore che può essere considerato particolarmente significativo per lo sviluppo del Made in Italy: «l’Italia è particolarmente sensibile a una certa arte del vivere – come lo è la Francia, ma in una forma diversa. È più disposta a condividerla con il resto del mondo» (p. 160). La società italiana cioè è stata in grado di creare nel tempo un proprio particolare stile di vita particolarmente orientato verso l’arte del ben vivere, verso la capacità di godere dei piccoli piaceri quotidiani, e non ha mai avuto dei problemi a condividere tale stile di vita con altri popoli, forse anche per quella notevole apertura culturale di cui si diceva in precedenza. Morand ha fatto derivare tutto ciò anche dall’orientamento degli italiani verso il gusto di socializzare e intrattenere rapporti cordiali. Il che, sempre secondo Morand, deriverebbe a sua volta dal ruolo centrale che la famiglia svolge nella cultura del Paese. È noto del resto come diversi studiosi abbiano messo in luce da tempo il ruolo essenziale ricoperto in Italia dalla famiglia, a cominciare dal politologo americano Edward C. Banfield, che ha parlato tempo fa di «familismo amorale»: la famiglia si concentra su se stessa e sul suo privato, trascurando il senso di fedeltà allo Stato e il senso di appartenenza al Paese inteso come comunità di individui.

Tutto ciò sembra essere poco significativo per Belfanti, il quale tenta inoltre di mettere in discussione l’idea molto condivisa oggi che le radici del Made in Italy contemporaneo possano essere rintracciate all’interno di quel rivoluzionario movimento estetico e culturale che è stato il Rinascimento italiano. Belfanti fa partire il suo libro Storia culturale del Made in Italy da un’approfondita analisi della natura del Rinascimento, ma la sua opinione è che su tale periodo storico sia stata creata una specie di “mitologia” e soprattutto che non sia possibile accettare che esista un percorso storico lineare che dal Quattrocento arriva sino ai prodotti del Made in Italy di oggi. I quali pertanto sarebbero stati indebitamente associati all’elevata qualità estetica delle opere d’arte del Rinascimento italiano. 

Ciò è avvenuto soprattutto negli anni Cinquanta del Novecento allo scopo di legittimare e valorizzare la prima forma di moda italiana. Infatti, le nostre case di alta moda hanno prodotto sino alla fine degli anni Quaranta i loro abiti copiandoli dai bozzetti “rubati” o acquistati a caro prezzo nei più celebri atelier parigini e dalle riviste femminili, le quali del resto proponevano alle loro lettrici solamente i modelli provenienti da Parigi. Ma poi è iniziato un processo di emancipazione progressiva dei sarti italiani di alta moda dal modello dominante parigino e tale processo ha potuto svilupparsi nel corso dei decenni successivi anche richiamandosi al mito dell’eccellenza rinascimentale, sinonimo di prestigio e di sapienza artistico-artigianale.

 

L’opinione di Belfanti è che quel periodo d’intenso declino dell’Italia sul piano economico e culturale che si è presentato tra il Seicento e il Settecento abbia pesantemente indebolito l’eredità del Rinascimento. Nell’Ottocento, si è progressivamente diffusa, soprattutto presso un’élite sociale e culturale presente negli Stati Uniti, un’immagine seducente del Rinascimento, la quale ha favorito il consumo in tutto il mondo di prodotti e opere d’arte provenienti dall’Italia, ma il fatto che, con la crisi del Seicento e del Settecento, si sia interrotta la continuità sul piano storico tra l’epoca del Rinascimento e i prodotti del Made in Italy di oggi determina, secondo Belfanti, uno scorretto collegamento di tali prodotti italiani al loro passato rinascimentale. 

Probabilmente, sul piano dell’evoluzione storica Belfanti ha ragione, ma ciò interessa pochissimo ai consumatori di prodotti italiani, soprattutto a quelli stranieri, che trovano invece da sempre estremamente affascinante l’idea di poter acquistare un capo d’abbigliamento che contenga al suo interno un po’ di quella genialità che esprimevano nelle loro opere i grandi artisti del Rinascimento. Va considerato inoltre che storicamente il Made in Italy non avrebbe raggiunto il successo che ha ottenuto se non avesse saputo essere anche estremamente competitivo sul piano del rapporto qualità-prezzo dei prodotti offerti sul mercato. L’alta moda italiana, ad esempio, negli anni Cinquanta, grazie ai costi ridotti della sua manodopera, poteva praticare dei prezzi finali che erano circa il 50% di quelli dei concorrenti francesi. Oggi il Made in Italy non può più vantare dei prodotti con un rapporto qualità-prezzo competitivo, perché le imprese delle economie più povere possono disporre di un costo del lavoro notevolmente più basso. La risposta del Made in Italy, allora, non può che muovere dalla costruzione di barriere simboliche basate sull’attribuzione di significati di prestigio ai prodotti, i quali vengono in tal modo tolti dal rischioso terreno della competizione basata sul prezzo. E per realizzare tali barriere il patrimonio artistico del Rinascimento italiano può essere ancora estremamente prezioso. 

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Prestigio e Rinascimento
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Levi e il gufo

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Mario Monge

Chiunque ha visto questa fotografia di Primo Levi scattata da Mario Monge nel giugno del 1986 ha avuto un sussulto. Impressiona. Sembra che indossi una maschera, anche se in realtà non si tratta di una maschera. Come la farfalla appesa sopra la sua testa, è invece una scultura realizzata con il filo di rame. Il materiale lo ricavava dalla Siva, l’azienda chimica dove ha lavorato dal 1947 al 1975. Si trattava di scarti della produzione. Alla Siva si realizzavano vernici per ricoprire i cavi. Le sculture ritraggono per lo più animali: coccodrillo, canguro, formica, civetta, farfalla, camaleonte, gabbiano, pinguino, insetti e altre creature. Philip Roth, venuto a trovarlo a Torino, a casa sua, aveva notato questi animali misteriosi e gli era sembrato anche di distinguere “un ebreo che suonava il suo naso”. Possibile. I destinatari di questa attività sono stati prima di tutto gli amici e i parenti, cui le regalava, e nelle cui case mi è capitato di vederli nel corso degli anni. Gli animali sono uno dei temi ricorretti della sua narrativa e della poesia: citati, analizzati, raccontati. Ci sono tantissimi animali nelle pagine di Levi.

 

Era una passione giovanile, che si è protratta nel tempo, perché la prima vocazione del giovane studente torinese era stata per la biologia; poi, più avanti negli anni, si era interessato di etologia leggendo Konrad Lorenz. Gli animali hanno un valore naturalistico, ma sono anche metafore potenti della relazione degli uomini tra loro. In una pagina memorabile di Se questo è un uomo, parla dell’animale-uomo, quello che è rinchiuso nel Lager e su cui si esercita l’esperimento biologico-sociale dei nazisti. Quello che colpisce in questa immagine è ovviamente il travestimento. La scultura è tridimensionale, ma diventa bidimensionale e ricopre il viso dello scrittore. Gli occhi dell’animale non sono perfettamente allineati con gli occhi di Levi e questo crea un leggero spaesamento, suggerisce un senso di inquietudine. Ma è anche la postura che colpisce, per via delle sue braccia sollevate. Infine, la maschera è “trasparente”: si sovrappone al volto di Levi, lo nasconde e al tempo stesso lo mostra.

 

Il gufo è una figura abituale per lo scrittore. In più di un’occasione ha detto: il gufo sono io. Sulla copertina della prima edizione di L’altrui mestiere figurano tre disegni del gufo realizzati da Levi con il suo Mac, uno sotto l’altro. Monge ha fatto vari scatti con questa scultura; ne esiste uno in cui Levi tiene in mano la “maschera”, a fianco di sé, e non la “indossa”, come qui. Il gufo è un animale simbolico che assume vari significati nelle diverse culture. Prevale spesso quello negativo, che lo collega a qualcosa di funesto, alla malasorte, come in Shakespeare o presso gli antichi romani. Ma è anche il simbolo collegato ad Atena glaucopide, la Nottola di Minerva, simbolo della filosofia e della saggezza. Penso che sia a questo significato che si riferisca indirettamente Levi, quando dice: sono io. A partire da Auschwitz, non gli è mai mancato l’aspetto di preveggenza che appartiene a questo animale notturno; è la sua capacità di anticipare i temi che saranno dopo poco al centro dell’attenzione; la capacità d’indicare le questioni centrali della sua e della nostra epoca.

 

È stato così anche con il disastro della centrale nucleare di Chernobyl, su cui ha scritto un importante articolo sul pericolo che la scienza rappresenta per gli uomini. Che Levi avesse poi un aspetto artistico nella sua personalità a dirlo è stato tra i primi Philip Roth nel corso della sua visita torinese. Ha scritto: “Di tutti gli artisti intellettualmente dotati del XX secolo – e l’unicità di Levi consiste nell’essere più il chimico artista che lo scrittore chimico – lui è probabilmente quello che si è più adattato all’ambiente circostante in tutti i suoi aspetti”. Cosa significa essere “chimico artista”? Non è facile dirlo. Certamente lo scrittore americano coglie nel segno quando indica questa valenza artistica e la collega all’aspetto intellettuale di Levi. Si può desumere che è un artista da queste sculture? Probabilmente no. Un dilettante? Probabilmente sì, e tuttavia, come aveva visto Roth, la sua capacità artistica va ben al di là di questa attività col filo di rame e anche al di là dello scrivere stesso. C’è infatti qualcosa di artistico nel suo sapersi adattare all’ambiente circostante, a partire da Auschwitz. Sopravvivere è un fatto artistico. 

 

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Biennale: contraddizioni latinoamericane

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Opera illustre del genio modernista di Carlo Scarpa inaugurata nel 1956, il padiglione del Venezuela si presentava durante la vernice della 58esima Biennale di Venezia con l’ingresso sbarrato e ingombro di spazzatura, in apparente stato di abbandono. I visitatori, ignari della chiusura, si avvicinavano chiedendosi se quei rifiuti non fossero proprio l’opera in mostra, magari un tributo a una certa estetica poverista che sembra non passare mai di moda. Sono state invece le agitazioni politiche che tormentano il paese sudamericano e l’agonia del regime chavista capeggiato da Nicolás Maduro ad aver ritardato l’apertura del padiglione curato da Oscar Sotillo, poi inaugurato il 19 maggio con i lavori degli artisti Natalie Rocha Capiello, Ricardo Garcia, Gabriel López and Nelson Rangelosky. L’assenza temporanea del Venezuela è diventata così paradossalmente lo statement politico più forte tra i padiglioni latinoamericani, che in questa edizione della Biennale curata da Ralph Rugoff peccano per la mancanza di spessore sia dei temi trattati che degli allestimenti, in cui la molteplicità di rimandi intertestuali “affatica” le opere in mostra. L’inevitabile confusione linguistica che ne deriva maschera in effetti la perdita di un qualsiasi coinvolgimento politico autentico, sia pure spesso dichiarato in forme sin troppo esplicite. Un surplus di significanti che denuncia un vuoto di significati e di idee.

 

In questo panorama poco entusiasmante fa forse eccezione il solo padiglione del Brasile, che con Swinguerra propone un’analisi estetica e antropologica della regione a nord del grande paese sudamericano. Commissionato dal curatore Gabriel Pérez Barreiro – già direttore della collezione Patricia Phelps de Cisneros, una delle più importanti di tutta la regione, e curatore della 33esima Biennale di San Paolo (2018) –, Swinguerraè una doppia videoproiezione opera degli artisti Bárbara Wagner e Benjamin de Burca (1980; 1975). Wagner è di Brasilia ma ha studiato al Dutch Art Institut di Arnheim, in Olanda, mentre de Burca, nato a Monaco di Baviera, ha frequentato la Glasgow School of Art e l’università dell’Ulster; i due hanno iniziato a lavorare insieme nel 2015 con l’opera audiovisiva Faz que vai. Proprio in questa occasione Wagner e de Burca sono venuti in contatto con le comunità di swingueira di Recife, la città in cui è nata come genere di danza popolare in cui gruppi costituiti da dieci fino a cinquanta persone si sfidano in competizioni annuali. Come spiega Bárbara Wagner “La swingueira è una sorta di aggiornamento di una serie di tradizioni come la quadriglia, la scuola di samba e il trio elettrico, praticate in modo indipendente dai giovani che si incontrano regolarmente negli spazi sportivi alla periferia di Recife. È un fenomeno che nasce dall’esigenza di integrazione sociale, si snoda attraverso l’esperienza dell’identità e arriva sul palco e su Instagram come una forma di spettacolo alimentato dal mainstream, ma che sopravvive assolutamente al di fuori di esso”.  

 

Nei video, preceduti da una serie di fotografie dei partecipanti, tre gruppi – uno di swingueira, un altro di brega e uno di batidão de Maloka (due generi musicali imparentati con il reggae) – composti per lo più da adolescenti di colore, si sfidano su ritmi di musica hip-hop con testi che testimoniano invariabilmente l’imperante forma mentis machista e i suoi pregiudizi misogini, ma che nel complesso documentano un fenomeno, spiega ancora Wagner, che sembra marginale ma che occupa un ruolo centrale nella società brasiliana contemporanea. La danza costituisce un tratto distintivo della cultura brasiliana: i gruppi di swingueira raccolgono ciò che rimane di questa tradizione e del suo aspetto identitario contaminandolo con nuove forme culturali influenzate dalla predominante cultura mediatica globale. Non manca una riflessione sulle questioni di classe – i piedi scalzi e sporchi, l’aspetto esageratamente pop dei vestiti, la desolazione della periferia urbana – e di genere: i corpi sinuosi dei ballerini spesso sfuggono a questa definizione, aggiungendo a una molteplicità di forme culturali, un aspetto sessuale ibrido. Un tratto in comune con l’opera del brasiliano Hélio Oiticica, che già mostrava una fascinazione per la marginalità queer.

 

Bárbara Wagner & Benjamin de Burca, Swinguerra, 2019.


Proprio nel tentativo di rendere visibile la condizione emarginata delle bidonville di Rio, nel 1964 Oiticica crea i suoi primi Parangolés, vesti di materiali “poveri” di vario genere fatti indossare a ballerini di Samba provenienti dalla favela di Mangueira. I Parangolés rifiutano categorizzazioni di genere e di media, attuando una fusione tra corpo, pittura, architettura, danza, linguaggio e musica. Non sono oggetti statici ma aventi qualità performative; la danza che ne emerge ricorda i movimenti serpentini di Annabelle Moore, immortalati dai fratelli Lumiére all’inizio del secolo. In questo lavoro, Oiticica si propone di trasformare il ruolo dello spettatore in quello di “partecipante”; e coerentemente con l’idea di “morte dell’autore” reclamata da Roland Barthes negli anni Sessanta, propone la trasformazione dell’artista in “istigatore alla creazione”. Lo spettatore diventa così partecipe di una collettività unitaria, apparentemente realizzando l’utopia tardo-modernista del rifiuto di un’esperienza puramente estetica in favore di un coinvolgimento tout-court del pubblico. L’opera prospetta la nascita di una identità collettiva potenzialmente capace di superare differenze di etnie e di genere. Al pari dei Parangolés, Swinguerra vuole insistere sulla messa in scena di una pluralità di voci e sull’aspetto collaborativo con le comunità della periferia di Recife alla base del progetto. Ma la staticità degli scatti che immortalano le prove dei ballerini e la qualità stessa dell’opera – un po’ troppo ricalcata sullo stile dei video musicali della fine degli anni Novanta– rischiano di ridurre un progetto promettente all’istantanea letterale di un fenomeno che tradisce un approccio etnografico assai convenzionale. 

 

Nel testo Contro il vizio interpretativo che accompagna la mostra nel padiglione dell’Argentina la curatrice Florencia Battiti si interroga a sua volta sulla possibilità di fornire una risposta alla “povertà ideologica” che caratterizza la contemporaneità attraverso il progetto poetico di Mariana Telleria El nombre de un país, famosa per le installazioni e gli interventi volti a ri-concettualizzare la “cosa pubblica”, come nel caso di Les noches de los días (2014), in cui l’artista dipinge di nero la facciata del museo Juan B. Castagnino di Rosario, o Dios es un inmigrante (2017), nell’area dove sorgeva l’Albergo degli Immigranti a Buenos Aires, oggi Museo dell’Immigrazione e Centro di Arte Contemporanea dell’UNTREF. Nel primo caso, il tentativo di occultamento, di far sparire il museo dalla “trama” urbana della città, lo rende ancora più visibile, generando polemiche sia tra il pubblico che nella giunta comunale; nel secondo, alberi maestri di barche a vela vengono disposti fino a formare delle croci sovrapposte: un’installazione in situ, che raggiunge il significato desiderato solo nel luogo per cui è stata concepita, al di fuori dello spazio museale. Al contrario, nel padiglione della Biennale, Telleria (1979) rivendica l’assenza di significati predefiniti della sua installazione, e sembra praticare una esplicita dialettica di resistenza alla significazione,. Un approccio che richiama alla lontana la polemica anti-estetica rivendicata da tanti artisti tardo-modernisti, per cui un oggetto artistico è tale in quanto semplicemente è; l’essere acquista la doppia natura ambivalente di significante e significato. A Venezia, Telleria costruisce un’atmosfera cupa, in cui tronchi d’albero che sfidano lo spazio e sono fiancheggiati da colonne di specchi si vestono di ipertrofici materiali eterogenei: frammenti di macchine smantellate, tessuti, mobili, pneumatici, spine, medaglie, cornici di quadri a forma di croci, e così via. Un accumulo indiscriminato di materiali che sembra richiamare i colchones colorati (dal 1962 in poi) dell’argentina Marta Minujin – installazioni di materassi ready-made – ma che manca dell’intrinseco aspetto partecipativo e dei riferimenti all’erotismo, all’intimità e al corpo. 

 

I mostruosi assemblages di Telleria sono evidentemente costituiti da oggetti trasferiti dal loro contesto originario. E tuttavia questa deterritorializzazione, l’oggettualità volutamente ‘sporca’, caotica, la presunta assenza di significati non fanno altro che generare un grande pasticciaccio iconografico – accomunando il padiglione argentino a molti altri in questa Biennale – che finisce ironicamente per ribadire proprio quella mancanza di spessore politico cui si cercava di far fronte in primo luogo. Una processione di sculture monumentali in cui si affaccia, con rinnovata vitalità, una abusata estetica del trash, una forma di estetizzazione del rifiuto che non smette mai di mietere vittime anche tra artisti delle generazioni più giovani, per i quali fallisce in anticipo il gioco di matrice dada di creazione dell’inaspettato. 

 

Pastiche verbo-visuale è quello che sembra caratterizzare anche il padiglione del Perú curato da Gustavo Buntinx, in cui viene presentato Indios Antropófagos, un progetto di Christian Bendeyán (1973). L’opera si propone di richiamare l’attenzione sulla regione amazzonica di cui è l’artista è originario, sui suoi simboli, le sue tradizioni e mescolanze culturali; “un’esplorazione post-concettuale dell’impatto sensoriale della cultura amazzonica su determinati orizzonti neobarocchi dell’arte contemporanea peruviana”, come la definisce il curatore. Il titolo rinvia a una terminologia poco nota in Italia ma ormai abusata in ambito latino-americano, quella appunto di “antropofagia”. Le origini della fortuna di questo termine risalgono al 1928, quando il poeta Oswald de Andrade scrive il Manifesto Antropófago, testo cruciale in cui vengono delineate le caratteristiche peculiari del modernismo brasiliano. Pubblicato nelle pagine del Jornal do Brasil, il manifesto era accompagnato dalla riproduzione di un’opera di Tarsilia do Amaral, Abaporu (1928), che in tupi-guarani significa l’uomo cannibale. È proprio l’iconografia ideata da Tarsilia – una figura con gambe e braccia allungate che si staglia su un essenziale paesaggio tropicale – in cui temi indigeni si mischiano a stilemi desunti da Picasso e Leger, a ispirare il manifesto antropofago. De Andrade rivendica al modernismo brasiliano un atteggiamento cannibale: la vorace ingestione di tratti stilistici internazionali che vanno a mescolarsi con la cultura autoctona è l’unica strategia capace, secondo de Andrade, di creare un’arte moderna brasiliana che sia al pari delle avanguardie europee. 

 

E tuttavia, quello che vorrebbe essere un inno alla mestizaje (“meticciato”), resa attraverso la combinazione di stilemi e riferimenti eterogenei, nel padiglione peruviano si trasforma nell’apoteosi del kitsch: in una delle opere di Bendeyán, un quadro di grande formato dipinto a colori sgargianti, Indios Antropófagos, Río Amazonas (Perú), un gruppo, un “trenino” di donne di etnia india circondate da una vegetazione lussureggiante si staglia su una casa coloniale, un night club di Quito, come si legge sull’insegna. Le donne, con il corpo tatuato di simboli tribali, hanno in mano delle lance colorate; una di loro si fa un selfie, le altre assumono pose lascive e guardano ammiccanti verso lo spettatore. Similmente, l’opera Fila India (Recuerdos de Iquitos), adotta la stessa costruzione iconografica e lo stesso stile pop, ma utilizzando azulejos, piastrelle di ceramica importate dall’Europa - un dettaglio che enfatizza lo stratagemma ‘cannibale’, idea chiave di tutto il padiglione. In questo preludio orgiastico sembra che l’aspetto antropofagico sia andato ad intaccare il piano socio-culturale, lasciando quello stilistico ed estetico alla mercé del caso e del cattivo gusto. Ma non era kitsch indiscriminato da cartellone pubblicitario quello che de Andrade prescriveva come strategia di creazione di un’arte nativa ma moderna, e viene da chiedersi perché la contemporaneità dell’arte latinoamericana senta ancora il bisogno di rifugiarsi nelle idee moderniste degli anni trenta, che non mancarono di raccogliere nuova linfa vitale a partire dagli anni sessanta, ma che oggi patiscono una trasformazione manierista data dall’usura del tempo. 

 

I concetti, altrettanto abusati, di “egemonia”, “subalternità” ed “emancipazione” sono invece le idee chiave di Altered Views, l’opera di Voluspa Jarpa nel padiglione del Chile (curato da Augustín Pérez Rubio), che sembra non aggiungere stimoli interessanti se l’ulteriore insistenza su una presunta (auto)marginalizzazione dell’arte contemporanea latinoamericana. una retorica che poteva forse funzionare come strategia di differenziazione negli anni Novanta-inizi Duemila – si pensi al discorso critico sviluppato da Mari Carmen Ramírez in occasione della mostra Inverted Utopias, del 2004 – ma che ora non basta a stimolare una produzione davvero originale.

 

Da questo panorama peraltro solo parziale dei padiglioni sudamericani di questa edizione della Biennale, emergono dunque numerose contraddizioni. L’argentina Telleria rifugge un approccio troppo esplicitamente politico solo per ricadere nel vuoto di contenuto, che nonostante le pretese, non giustifica la presenza di significanti eterogenei, del caos materiale del suo lavoro. Bendeyán nasconde un’individualità artistica mascherandosi dietro un pastiche di retoriche ormai consumate. I soli Wagner e de Burca sembrano capaci di interpretare lo scenario contemporaneo enfatizzando il contesto storico e sociale dell’opera – che lo spettatore lo vorrebbe vedere in maniera più convincente, ma non se ne può negare la presenza – contaminato con la cultura mainstream e l’estetica kitsch contemporanea. Il duo artistico brasiliano sembra in effetti il solo in grado di conservare un equilibrio tra la necessità di interrogare i conflitti dell’attualità e quella di conservare alla ricerca artistica un proprio spazio di discorso e di azione.

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Venezia
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Maturità: tracce tendenziose?

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Non seguo le vicende della scuola se non attraverso il percorso dei miei figli e quindi non so davvero come si sia arrivati a produrre tracce che si estendono per nove pagine. Le domande sono così articolate e precise che, lungi dal valutare le capacità espressive dei candidati, un premio andrebbe attribuito a quelli che riescono a giungere in fondo alla lettura di queste proposte, così diverse tra loro e così tendenziose nelle conclusioni che suggeriscono. 

Volendo riconoscere ai commissari le migliori intenzioni, la prima domanda che dovranno porsi i professori che correggono le prove sarà: premiare l’ascolto dei candidati, e quindi la loro capacità di entrare in sintonia con le intenzioni suggerite dalle tracce, o la preparazione e l’immaginazione di chi scrive?

La prima proposta è una poesia di Ungaretti. Piuttosto difficile. Faccio un esempio sulla parte iniziale che mi sembra piuttosto misteriosa: ogni mio momento/ io l’ho vissuto/ un’altra volta/ in un’epoca fonda/ fuori di me.

 

I suggerimenti interpretativi chiedono proprio cosa significhi un’epoca fonda/ fuori di me. Googlando la poesia su skuolanet viene fuori che Ungaretti in diverse interviste ricorda di aver incontrato degli ingegneri francesi che gli parlarono di un porto sepolto ad Alessandria d’Egitto. Si riferisce a questo? E se è così, che possibilità ha un ragazzo di arrivare al sottotesto cui fa riferimento Ungaretti se non ha già studiato la poesia nel corso dell’anno o se non ha, come me da casa, accesso a internet? Ed è importante riferirsi a questo dettaglio biografico o ci si deve invece rivolgere alla potenza evocativa e metafisica del verso? Anche le altre domande mi sembrano piuttosto difficili (la versificazione, che mi sembra un terribile modo di esprimersi di derivazione industriale, anzi falso, come se la poesia nascesse in qualche altro modo e poi venisse trasformata in versi da un mestierante), e quindi, anche se tra le tracce proposte questa è quella che sentirei più vicina, temo che la sceglierei e farei un compito poco apprezzato.

Più semplice è la traccia su Bellodi e Sciascia, dove le domande hanno il merito di riferirsi al testo proposto che è abbastanza semplice. Anche qui, nell’interpretazione del brano, si danno per scontate delle contrapposizioni (onestà e legalità da una parte contro illegalità e omertà dall’altra) che sono solo l’ingresso nelle opere di Sciascia. Il mondo che ci presenta Leonardo Sciascia è più profondo e complicato. Bellodi è uno straniero e questo stratifica il suo sguardo sulla Sicilia che lui comprende e non comprende. Però è una traccia che si può seguire e se, come suggerisce Luca Serianni, bisogna tenere in mente i commissari (si dice ancora così? Altra traccia semisovietica della nostra scuola!), si possono scrivere delle cose ordinarie, pertinenti, che mettano al sicuro la prova di maturità.

 

 

C’è poi un lungo passaggio di Tommaso Montanari sul patrimonio culturale e il futuro della democrazia. A parte il fatto che avrei messo breaking news e fantasy in corsivo, ma immagino che ci sia stato un ragionamento più sofisticato del mio al Ministero, il brano è sentito e le domande indirizzano i candidati a risposte semplici e chiare. Mi sembra ci sia una vena piuttosto polemica nella domanda in cui si dice che il passato trasmesso dalla televisione è diverso da quello che ci si conquista imparando a conoscere e interpretare i monumenti. Se si suppone che i ragazzi guardino troppa televisione, è questo il momento per fargli una ramanzina? O si vuole dare un’opportunità a chi ha già a diciotto anni la maturità per fare questa distinzione di brillare di fronte ai compagni? Anche qui, come distinguere la piaggeria di un primo della classe da un genuino interesse per il passato che poi passato non è? Anche il fatto di ricordare che si è stati battezzati come Dante sette secoli prima (quando Dante ricorda anche, e assai più significativamente, che da quel battistero salverà un bambino!) a me pare poco gentile nei confronti dei tanti italiani ebrei, mussulmani, agnostici o comunque non cattolici che non vengono battezzati. Non so che percentuali ci siano oggi riguardo al battesimo, ma forse l’identificazione che sente l’autore non è universale come crede. Comunque le intenzioni sono buone, è giusto salvare il patrimonio storico, anche questa traccia si può fare.

Anche la traccia su Bartali mi sembra densa di un dibattito storico e ideologico che ci farà capire poco di quale mondo si affacci attraverso i diciottenni di oggi, e ci racconta invece molte cose che già sappiamo sulla generazione che ha steso le tracce.

Così per il brano sulla guerra, l’umano stolto e geniale di Fernbach, per l'eredità del novecento e per l'orazione di Luigi Viana per il generale Dalla Chiesa.

 

Non invidio i ragazzi che hanno affrontano questa prova. Conclude il percorso scolastico, e questa è una buona cosa. Della scuola italiana si possono dire molte cose, positive e negative, e non è questo il luogo. Quello che mi sembra salti fuori da queste tracce, ed è un difetto del nostro sistema, è che la comunità che la frequenta ogni giorno è molto più determinata dai docenti che dai ragazzi. Incoraggia poco a diventare adulti e suggerisce forse un po’ troppo quali risposte bisognerebbe dare alle domande. I professori sono anche spesso genitori, e genitori ansiosi, e il passaggio generazionale avviene in un clima (quello scolastico) che fa poco spazio alle necessità di rottura e confronto che sono così necessarie a crescere. Più ancora che dalle scarse opportunità professionali, a me pare che molti giovani decidano di partire per sottrarsi a uno sguardo piuttosto oppressivo di genitori che faticano a sentirsi contraddetti, a vedere che le opinioni che hanno sul mondo sono storiche e quindi destinate a venire superate. Questo purtroppo continua anche nelle università e nei dottorati, che in Italia si chiamano scuole di dottorato perché in fondo continuano l’affiliazione passiva così nociva per lo sviluppo critico e creativo di un’intelligenza. Parlo della mia generazione e forse oggi anche di quelli più giovani di me. E quindi parlo anche di me. C’è così tanta bellezza nei bambini e nei giovani, tanto vero futuro, primavera, promesse… se solo sapessimo ascoltare, forse anche la voce che racconta il passato verrebbe ascoltata in modo diverso, non come la norma che opprime ma come le altre forme che il mondo ha preso in precedenza e che spiegano certo ulteriori metamorfosi dell’arte, della lingua, della storia. 

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