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“Il mucchio selvaggio”: cominciare e finire insieme

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Cinquant’anni sono molti, o forse si dovrebbe dire abbastanza, per valutare un film o un libro. Non basta sopravvivere, si deve stabilire se il farmaco che conteneva è ancora efficace. Con la velocità contemporanea il mezzo secolo si è ridotto a una manciata di anni. Comunque deve passare del tempo. Non è soltanto la corda estetica a suonare e a risuonare, conta anche il valore generazionale: un fenomeno di identificazione collettiva talmente forte da trasformarsi in mito. Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch) è uscito nel giugno 1969, e rivederlo è piacevole per entrambi i motivi, estetici e generazionali. È ambientato nel 1913, la ferrovia sta raggiungendo gli estremi confini verso il Messico, iniziano a circolare le automobili, ci sono armi fuori ordinanza per un classico western. L’avanzare inarrestabile del progresso spinge questa storia di banditi verso il sud, nel Messico devastato da rivoluzioni e controrivoluzioni. Più che di razzismo antimessicano si potrebbe incolpare il film di apologia mitologica, con qualche licenza al luogo comune. 

 

Sam Peckinpah sul set.


Ritornando solo per un attimo agli anni della sua prima uscita trascrivo un mio ricordo personale: The Wild Bunch, già negli anni ’70 e prima delle proteste settantasettine, era film di culto tra estremisti di sinistra, in particolare nei vari (si chiamavano così) Servizi d’ordine. Ci sarebbe da riflettere su questa categoria allora diffusa e popolare (“il mio ragazzo è prima fila del servizio d’ordine…”) ma qui ci interessa soltanto perché in sintonia con il tema vero del film: la violenza. Il sangue sgorga a fiumi, in The Wild Bunch. Ricordo che da ragazzini uscendo dal cinema contavamo i morti ammazzati. Peckinpah annuncia la morte sin dai titoli di testa. Con una morte insolita: quella di un temuto predatore. Uno scorpione viene sbranato dalle formiche. Un divertimento per i bambini straccioni che appariranno in quasi tutte le sequenze, sfondo costante di un mondo miserabile, ai confini estremi da tutto, sprofondati da sempre nel caos. 

 

Le immagini dei titoli di testa si trasformano all’improvviso in un fermo immagine “disegnato”, in stile fumetto. E questa è la prima chiave interpretativa del film, una vera dichiarazione di poetica, si sarebbe detto una volta. Lo spettatore viene catapultato indietro nel tempo, torna ad essere l’adolescente senza barba che divorava Tex Willer e sta al gioco. Ogni enormità è lecita. Se al mondo non c’è altro che male allora l’unico valore è quello dell’essere insieme. La banda si riassume in due facce, o meglio in due icone: William Holden e Ernest Borgnine. Che trasmettono la sensazione di divertirsi come matti nel gioco degli estremi inventato da Peckinpah. La violenza e la morte sono subito ovunque. La cittadina di frontiera è squallida quanto basta. La mobilitazione delle vecchine, con i canti dell’Esercito della Salvezza, ci dice tutto del tasso alcolico generale.

 

 

“Chi si muove è morto” è la prima battuta di Pike/Holden. La rapina è una trappola, e naturalmente scoppia una prima carneficina. Tutti sparano a tutti, travolgendo donne e bambini. Si spara per un buon quarto d’ora. Un’inquadratura per colpo, centinaia di inquadrature, una giostra di colpi, un massacro. I cacciatori di taglie, che dovrebbero rappresentare la legge, sono in realtà più farabutti dei banditi e noi facciamo il tifo per la Banda. I bambini bruciano le formiche divoratrici, ridono. Sangue e morte dovunque. Quel che resta della banda si allontana.

È il concetto di “Bunch” il cuore emotivo del film. Selvaggi ma pur sempre Banda, Mucchio, Branco. Chi prende sottogamba i fenomeni giovanili contemporanei dovrebbe riconsiderare la forza implicita nel concetto di “Bunch”. L’unico uomo di qualche spessore tra i cacciatori di taglie è infatti un ex membro del Mucchio: tema che tornerà con prepotenza in Pat Garrett e Billy Kid. Dopo la strage, gli sciacalli scendono dai tetti e si litigano le taglie da riscuotere. 

 

Lontano, quel che resta della banda, fa i conti con le batoste prese. Sta per scoppiare una lite. “Se non sappiamo stare insieme siamo peggio degli animali” dice Pike. E all’improvviso si ride, la banda è riunita. Il capo è sempre più dolorante per una sua antica ferita e qualcuno già lo mette alla prova, ma Pike è un comandante naturale, forte e misterioso come si conviene. Molti di loro sono morti nella sparatoria ma la morte è parte del gioco e merita poche parole. Resta sempre la Banda. “Adesso vado a prendere il diavolo per la coda” sono le ultime parole di uno di loro, sforacchiato da decine di colpi. Fuggono verso il vicino Messico e si immergono in un mondo che è la loro stessa materia. Anarchia, alcol, feste, orge, massacri, miseria. Hanno soltanto due modalità: o sono rapinatori e assassini o si divertono come matti nelle ammucchiate, sparando alle botti di vino par fare una bella doccia con le ragazze. I bambini assistono sempre, sin da neonati, vengono anche allattati per strada. Non ci sono spazi riservati, tutti vedono tutto.

 

 

Appare la sbirraglia del solito dittatore locale, il superfumettistico Mapache, interpretato da Emilio Fernández. Nemico di Pancho Villa e si direbbe del popolo in generale. Mentre la Banda si dissolve nella popolazione minuta del villaggio, l’accordo che raggiungono con il potere del ridicolo generale non è autentico. Di ogni potere è giusto diffidare. Inizia il gioco del più furbo. Ma il più furbo è sempre Pike: “È il migliore”, dicono di lui i suoi nemici. Anche la sua forza è espressione della banda, non potrebbe prescinderne. I valori sono enunciati chiaramente: “Abbiamo cominciato insieme e insieme finiremo”. Sono delle belve, certo, ma nascondono una follia particolare, un’inquietudine, un passato.

 

Come in un fumetto partono dei rudimentali flashback su Pike, che quasi si trasforma in eroe romantico. Sì, c’era una fanciulla, assai graziosa peraltro, ma sposata: così Pike ha rimediato la fastidiosa cicatrice che lo tormenta. Insomma, il segreto di Pike è una banale, truculenta storia di corna. Ma non c’è soltanto il fumetto: nel film confluisce anche la grande letteratura western, una letteratura che arriva sino a Cormac McCarthy, e a questo genere alto è giusto che il film appartenga. Su una sceneggiatura di genere, ridotta all’osso, si innesta con straordinaria bravura il valore aggiunto del Peckinpah più visionario. Restano molte immagini negli occhi, cavalli e cavalieri che rotolano in una duna di sabbia, per esempio. Una scena stupenda. L’intero film è un trionfo Panavision. Il montaggio a tratti si mostra quasi con ingenuità narrativa, ma poi sembra farsi da parte e si trasforma in frenesia visiva, in musica, in allucinazioni.

 

 

I set di guerra sono sostanzialmente tre: il secondo è un assalto al treno. Come sorride Dutch/ Borgnine quando spiana il Whinchester davanti ai soldati: sembra il suo solito accattivante sorriso ma non lo è, avverte il suo interlocutore che sta per sparargli in bocca. È soltanto un anticipo del finale addirittura esplosivo: lo scontro aperto nel villaggio messicano, che finirà in macerie. I cattivi, che sin dall’inizio abbiamo cominciato a considerare i buoni della storia, si trasformano addirittura in eroi. Anche se sono in pochi, il “Wild Bunch” torna in azione contro un esercito intero, con il sorriso sulle labbra. Il movente non è il denaro, ma la vendetta. Mapache ha torturato e ucciso uno di loro. Non importa come andrà a finire, non importa se saranno tutti sterminati dopo aver ammazzato decine, forse centinaia di nemici. Dopo il passaggio dell’Apocalisse, sul villaggio ormai distrutto scendono gli sciacalli pronti a riscuotere le taglie.

Sembra tutto finito. Ma in questo film anche la redenzione è a rovescio: alla fine è il traditore diventato capo dei cacciatori di taglie a scegliere di nuovo la banda. Perché la banda vince sempre. Quelli che erano soltanto figure secondarie hanno preso il posto di Pike e degli altri morti: Pike non c’è più, ma il suo mito vive ancora nel Mucchio.

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A 50 anni dal capolavoro di Peckinpah
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Riprendiamoci la nostra attenzione!

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“Come ha notato Jeff Hammerback, il primo ricercatore di Facebook: “Le migliori menti della mia generazione stanno pensando a come far sì che la gente clicchi sulla pubblicità... che schifo”.  (p. 71)

 

Il libro di Williams, Scansatevi dalla luce, parla di una particolare luce, la luce della nostra attenzione, che secondo Williams, ci sta venendo sottratta dalle corporation tecnologiche globali, corporation per le quali l’autore ha lavorato, contribuendo a mettere a punto proprio quelle tecnologie che oggi rubano la luce agli utenti e dalle quali sta cercando di prendere le distanze, come un pentito della mafia che fa outing e pubblica un libro per esprimere la propria vergogna e il proprio senso di colpa.

Williams ha lavorato per Google, come designer. Fa parte di quella lunga lista di interaction designer pentiti, che improvvisamente, come fulminati sulla via di Damasco, si accorgono di aver partecipato allo sviluppo di tecnologie che fanno deragliare intenzionalmente la nostra attenzione verso obiettivi di profitto di grandi corporation globali. 

La cosa buona è che Williams sembra davvero sincero, nel suo tentativo di pentimento. E il libro che scrive è godibile, informato, utile. È un libro che il lettore distratto, ma curioso di capire come mai non riesce più a finire un romanzo e passa così tanto tempo su Instagram, troverà utile per mettere a fuoco qual è il suo problema: il tuo problema, caro lettore, è che la tua attenzione è diventata una merce per la quale competono troppi attori, e tu, da solo, non sai più a chi dare attenzione, o meglio, stai perdendo il controllo sulla tua attenzione:

 

“Invece di sostenere le nostre intenzioni, hanno largamente cercato di impossessarsi e di mantenere la nostra attenzione. Nella competizione spietata tra di loro, con il sempre più misero traguardo di ‘persuaderci’, di dare forma ai nostri pensieri e alle nostre azioni in funzione dei loro obbiettivi predefiniti, sono state costrette a ricorrere ai più scadenti e gretti trucchi da manuale, a fare appello alle parti peggiori di noi, a quei sé inferiori contro cui la nostra natura superiore costantemente lotta. E per di più esse schierano ora, a servizio di questa cattura e sfruttamento dell’attenzione, i più intelligenti sistemi informatici che il mondo abbia mai visto” (Williams, p. 24).

 

L’autore enfatizza moltissimo questa importanza dell’attenzione, come fosse un nuovo terreno di conflitto politico (lo è): “Credevo non ci fossero più grandi battaglie politiche da combattere. Come mi sbagliavo. La liberazione dell’attenzione umana potrebbe essere la battaglia morale e politica centrale del nostro tempo.” (p. 25). 

È una bellissima intuizione, questa: la liberazione dell’attenzione, il reclamare il controllo su di essa, può essere una grande battaglia morale e politica del nostro tempo. Dopo aver reclamato il controllo sulla terra (This land is your land, cantava Woodie Guthrie), sulle fabbriche, sullo spazio pubblico (il movimento inglese Reclaim the streets, contemporaneo dei movimenti no global, le critical mass in bicicletta...), ora è il tempo di reclamare il controllo non più su beni o spazi materiali, ma su risorse “immateriali”. Questo perché anche il capitalismo si è, in parte, “smaterializzato” e dopo aver messo a valore terre comuni, fabbriche e spazio pubblico, ora ha iniziato a divorare anche la nostra attenzione. E per difenderci da questa fame illimitata di attenzione, Williams fa bene a mettere al centro del dibattito il tema dell’auto-controllo: “Le nuove sfide che affrontiamo nell’Età dell’Attenzione, sia a livello individuale che collettivo, riguardano l’autocontrollo. Avere alcuni limiti è inevitabile nella vita umana. I limiti sono infatti necessari se vogliamo essere liberi. Come dice il filosofo americano Harry Frankfurt, “ciò che non ha confini non ha forma”. La ragione, le relazioni, i circuiti per le corse, le regole dei giochi, gli occhiali da sole, le pareti degli edifici, le linee su una pagina: le nostre vite sono zeppe di utili limitazioni alle quali ci sottomettiamo liberamente affinché possiamo attingere a obbiettivi altrimenti irraggiungibili. Quando ci imponiamo dei vincoli che dirigono le nostre azioni verso degli scopi più elevati – qualcuno chiama tali vincoli “dispositivi per l’impegno” – raggiungiamo delle vette altrimenti inaccessibili” (p. 58). 

 

 

È innegabile che spesso telefoni, tablet e social media ci distraggano dal fare quello che vorremmo o dovremmo fare. Una mia studentessa, dopo una settimana di monitoraggio del proprio uso dello smartphone, mi ha detto: “il giorno in cui mi sono disconnessa sono finalmente riuscita a fare quelle cose che necessitano di più di 15 minuti di attenzione di fila, tipo studiare e pulire la camera”. È giusto, ma anche molto facile, da parte di Williams, criticare tutto ciò che è immediatamente appagante. Giustamente l’autore ricorda Neil Postman e il suo Divertirsi da morire del 1985, in cui immaginava che i rischi alla democrazia del futuro sarebbero arrivati dalle cose che ci avrebbero procurato più piacere, piuttosto che da quelle di cui avremmo dovuto avere paura. Le ricompense immediate fornite dalle notifiche dei social media distolgono la nostra attenzione da compiti cognitivamente più faticosi ma più remunerativi sul lungo periodo. Ma questo potremmo dirlo anche per la televisione, in fondo. Chi oggi passa 4 ore al giorno su Instagram si perde qualcosa della vita, così come chi passava 4 ore al giorno davanti alla tv. La critica è la stessa: la solita critica al tempo sprecato davanti a contenuti poco educativi, offuscati da suoni, colori e sfolgoranti tintinnii pubblicitari. Tutto vero, tutto giusto, eppure, mentre proseguo la lettura, sento che qualcosa non torna, anche quando l’autore fa emergere un altro punto notevole: “Se il primo divario digitale ha emarginato coloro i quali non potevano avere accesso all’informazione, il divario di oggi emargina quelli che non riescono a prestare attenzione (p. 61). Giusto! Ma anche qui, di nuovo, mi chiedo, non poteva essere valido anche per la critica della tv?  

 

L’enfasi che Williams pone sulla peculiarità di questa fase di trasformazione tecnologica è eccessiva. L’autore spende 150 pagine su 200 a convincerci che viviamo nell’Età dell’Attenzione e che “All’alba del ventunesimo secolo un nuovo insieme di forze meravigliose, progettate dall’uomo, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ha trasformato la vita umana.” Questa versione della storia è ridotta e scorretta. Come ci ha ricordato Tim Wu, che pure Williams cita, l’età dell’attenzione è iniziata molto prima di Facebook, almeno da quando è nata la Penny Press, nel 1839, ovvero da quando qualcuno ha avuto l’idea di trasformare la nostra attenzione in merce. Il punto dove siamo oggi non è, e lo ripeto sempre, la conseguenza di questo ennesimo cambio tecnologico, ma semplicemente la conseguenza di un modello economico di distribuzione dei media fondato sul capitalismo, che oggi, più che nel Novecento, sta diventando endemico e ha più infrastrutture tecniche (piattaforme, algoritmi, dati) per valorizzare al meglio l’attenzione.

 

 

Williams rivolge lo sguardo alla tecnologia, non all’economia politica che la governa. Compie lo stesso errore dell’automobilista lasciato a piedi dalla propria auto che se la prende con il design della macchina e del motore, non con l’industria delle automobili che gli ha fatto credere di avere una Porsche sotto il sedile al posto del macinino che in realtà ha acquistato.

Dopo 160 pagine (su un totale di 200) passate a descriverci quanto siamo stati derubati di questo bene prezioso, l’attenzione, negli ultimi due capitoli prova finalmente a proporre delle soluzioni per una possibile cura. Ma se finora ha guardato solo alla carrozzeria dell’auto, è prevedibile che andrà a cercare la soluzione proprio lì, nella carrozzeria, e non nel sistema che la produce. Infatti Williams, da designer, propone dei nuovi principi che dovrebbero guidare i designer nella progettazione delle interfacce e delle piattaforme online e si spinge, in maniera molto originale e brillante, a stilare un “giuramento del designer” (p. 190), sullo stile del giuramento di Ippocrate, nella speranza di rendere più “etico” il mestiere del designer, così come il giuramento di Ippocrate ha fondato le vasi dell’etica medica. È interessante riportare qui questi principi:

 “Per quanto riguarda la sostanza di un ‘Giuramento del Designer’ – une versione ‘alfa’ iniziale che possa funzionare come un minimo comune denominatore su cui poi costruire – io suggerisco che un buon approccio possa assomigliare a quello che segue (benché molto più poetico e memorabile di questo): 

Come persona che dà forma alle vite degli altri, io prometto di: 

 

Aver cura sinceramente del loro successo;
Comprendere le loro intenzioni, obbiettivi e valori quanto più completamente possibile; 

Allineare i miei progetti e le mie azioni alle loro intenzioni, obbiettivi e valori;
Rispettare la loro dignità, attenzione e libertà, e di non usare mai le loro debolezze contro di essi; 

Misurare l’effetto complessivo dei miei progetti sulle loro vite, e non solo quegli effetti che sono importanti per me; 

Comunicare chiaramente, onestamente e frequentemente le mie intenzioni e i miei metodi; e 

Promuovere la loro capacità di indirizzare la propria vita incoraggiando la riflessione sui propri valori, obbiettivi e intenzioni. 

 

Tutto bello, tutto giusto. Come dargli torto? D’altronde, ben prima di Williams, nel design da anni si insegna e si parla dello human centered design, che si fonda sugli stessi principi. Eppure, non sentite anche voi qualcosa che stride? Uno scarto tra le parole belle di un libro, e la realtà delle industrie dove lavorano i designer?

 

Poniamo che un designer voglia seguire i principi di Williams, secondo voi Google o Amazon o Spotify o Facebook, glielo permetteranno? Se l’obiettivo è massimizzare l’attenzione, costi quel che costi, nessun designer, anche il più etico e ben intenzionato, potrà mai rispettare questi principi se vuole tenersi il posto di lavoro. 

Williams ha una visione troppo “americana” delle soluzioni per uscire dal regime di distrazione di massa. Crede che le soluzioni risiedano negli individui, sia i designer, che possono diventare più etici, sia gli utenti, a quali chiede lo sforzo titanico di “chiedere a quelle forze a cui è oggi soggetta la nostra attenzione di cominciare a scansarsi dalla nostra luce. Ciò comporta rifiutare l’attuale regime di schiavitù attenzionale, rifiutare l’idea che non abbiamo nessun potere, che i nostri impulsi di rabbia ci debbano controllare, che la nostra sofferenza ci debba definire o che dobbiamo affogare nel senso di colpa per aver permesso alle cose di andare così male” (p. 200).

 

Mai, in tutto il libro, parla di regolare queste piattaforme, mai parla del ruolo dello stato o delle istituzioni, ma solo del ruolo che designer e cittadini hanno nel rifiutare questa schiavitù dell’attenzione. Ma come rifiutarla se è quella che dà lavoro ai designer e quella che dà ricompense più immediate agli utenti? Certo, potremmo accusare tutti coloro che fanno uso massiccio di social media di essere “soggiogati”, avere una “falsa coscienza”, essere “etero-diretti” e che devono “svegliarsi” dal loro “torpore”. Tutte parole già sentite nel Novecento, e che ora ritornano come se fossero nuove, come se quei dibattiti non fossero già avvenuti. Ma le persone non sono tutte uguali, né tutte “soggiogate” allo stesso modo, né è vero che non ci siano pratiche resistenziali in corso, all’epoca ed oggi. E non serve a nulla chiedere loro di svegliarsi (individualmente) dal torpore e ribellarsi. Questa è una battaglia che nessuno vince da solo.

 

Alle possibili soluzioni proposte da Williams, io insisto con qualcos’altro, che, timidamente e umilmente su queste “pagine” e su Che Fare vado scrivendo da tempo. Concludo ripetendo quello che ho scritto un anno fa in questo articolo, e non ho cambiato idea da allora:

 

Da questo regime di distrazione permanente, di intrattenimento collettivo, a volte intelligente, a volte demenziale, ci si scuote soltanto attraverso un intervento politico contemporaneamente dal basso e dall’alto: dall’alto, attraverso una riforma strutturale delle telecomunicazioni (vedi per esempio la discussione su cheFare intorno al “pluralismo di piattaforma”), e dal basso, attraverso una politicizzazione delle piattaforme esistenti, una presa di coscienza collettiva dei meccanismi di valorizzazione dei nostri dati, un’attivazione collettiva che richieda alle piattaforme esistenti maggiore responsabilità e, solo in uno stadio successivo, quando questa consapevolezza sarà di massa, l’articolazione di altri strumenti, non commerciali, di natura pubblica o no profit, non progettati per tenerci attaccati alla macchina, ma lo stesso utili per intermediare relazioni sociali che riteniamo significative.

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Paolo Poli: pezzi, contraddizioni, scarti

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È il 20 giugno 2015, la scena si apre sullo studio dieci della rai in via Teulada a Roma. Uno studio piccolo, un po’ a scatola, con tanto soffitto, pareti azzurre retroilluminate, un grande schermo, delle seggiole e un pianoforte bianchi. L’inquadratura porta su una tenda rossa di velluto, di lato: da lì esce Paolo Poli. Evocato dal composto e grazioso Pino Strabioli viene avanti un vecchio alto, con il papillon, canuto, scarpe lucide, le gambe molto secche. Bello, bellissimo – come da più parti definito nei decenni –; difficile, complicatissimo, come ne parlarono in epoche diverse Rodolfo di Giammarco e Mariapia Frigerio. Conduce il suo ultimo programma, ci avrebbe lasciati nemmeno un anno dopo. È anche il primo programma tutto suo dal tempo di Babau ‘70, registrato nel 1970 e mandato in onda solo sei anni più tardi. 

 

Il lupo non ha perso il vizio, anzi ha deciso di scriverci sopra otto puntate di una trasmissione che si chiama, in onore di Aldo Palazzeschi, “E lasciatemi divertire”. Ogni puntata è dedicata a un vizio capitale, e l’ultima è un elogio del peccare. Strabioli fa il conduttore, il domatore, l’amico, l’allievo. Due cose che fissano l’organizzazione di tutte e otto le puntate sono Poli che legge Boccaccio e recita Palazzeschi. Interpretazioni strabilianti, con cui rubare qualcosa di questo genio rapido e bizzoso. Per il Decameron va davanti a un leggio e si mette gli occhiali: nella puntata sulla gola Federigo degli Alberighi sacrifica il suo animale più caro, oggi per noi un cagnetto o un gattino, per far mangiare quella di cui si è innamorato. Per Palazzeschi Poli va a memoria: nella puntata di chiusura recita una splendida poesia sul meretricio (prostituzione di tutti i sessi) dei fiori. 

 

Avvicinato a David Bowie, accostato persino a Roland Barthes, che lui leggeva, messo accanto a Pier Paolo Pasolini per il ruolo che ha avuto nella cultura italiana del secondo Novecento, è andato in scena con più di quaranta spettacoli, attingendo, insieme a Ida Omboni, a una sterminata vastità letteraria e musicale. L’ultimo spettacolo l’ha fatto nel 2012 su Pascoli, “per pigrizia”, mentre dell’altro illustre contemporaneo Guido Gozzano, ha detto che gli piaceva “quel firmarsi minuscolo guidogozzano, anch’io ogni tanto mi firmo paolopoli, come se fossi una città greca”.

La canonizzazione di Poli si è svolta forse in due atti: un primo quando nel 1978 vide la luce una nuova edizione dello spettacolo teatrale Rita da Cascia, che godette molto felicemente della fama datagli dalla censura; un secondo atto, a partire da dieci anni fa, cioè da un libro pubblicato nel 2009 per i tipi di Giulio Perrone Editore. Il titolo era Siamo tutte delle gran bugiarde, il biografo un brillante scrittore umbro, Giovanni Pannacci, e il contenuto una serie di memorie del nostro, tra l’efferato, il lirico e l’esilarante. Vi si apprendeva sia che l’attore amava Chagall, Bacon e la pittura più di tutte le altre arti, sia che in vecchiaia apprezzava anche l’architettura poiché “non potendo più penetrare le persone, penetro il Pantheon”. Sebbene il libro presentasse un percorso interessante e documentato sul lavoro teatrale di Poli, spiccava la sua pronunciata vena aneddotica  e sbirciare tra gli episodi della sua storia personale risultava oltremodo gustoso. Persino troppo. 

 

 

C’è infatti chi ha lamentato che Poli fosse “logorroico” e avesse dato vita a una “mitopoiesi” dai tratti “ripetitivi”, un racconto del sé divenuto “recita inflazionata”.  Non siamo d’accordo, ma è vero che quella biografia così buffa mise in moto un fenomeno agiografico. Poli fu ospite alla Rai di Fabio Fazio, quattro volte, sulla 7 di Daria Bignardi, e poi fu protagonista di una puntata di una trasmissione condotta da Strabioli nel 2014, “Colpo di scena”, nonché di un secondo libro-intervista in cui sempre Strabioli lo portava a pranzo per quasi due anni e registrava i suoi racconti, Sempre fiori mai un fioraio.

La voglia di parlare di lui è una fame difficile da saziare, come dimostra uno speciale di Raitre realizzato a un anno dalla morte, “Quella donna ero io”, in cui con un’impressionante partecipazione una galleria di critici, attori e conduttori piange la perdita e se possibile la avversa. C’è Riccardo Muti, il direttore d’orchestra, che ricorda in modo nitido come Poli una volta l’avesse oscenamente pescato dal palco con una canna da pesca sulle note di “Pesciolino mio diletto vieni”, furto che Poli sostiene di aver compiuto a partire dalle performance di Maria Campi. Ci sono tra gli altri Corrado Augias, Natalia Aspesi, Filippo Timi, Marco Messeri, Arturo Brachetti, Lucia Poli; c’è anche Rodolfo di Giammarco, che forse è stato il più abile, il più profondo interlocutore di Poli. È sua infatti la prima idea di un archivio: nel 1985 di Giammarco curò un saggio critico, edito da Gremese, dove compilava un ritratto acuto, Poli è “un alfabeto che danza”, e riuniva la rassegna stampa dei commenti ai suoi spettacoli, primo notevole altarino che non bisogna correre il rischio di dimenticare. 

D’altronde c’è anche chi forse se l’è goduta più di tutti: è Luca Scarlini, curatore per Einaudi, nel 2013, di un Alfabeto Poli ottenuto da un’immersione, che è anche una cura di bellezza, nello sbobinamento di interviste e letture di articoli e conversazioni. Poli, “comunista e pederasta”, l’abbiamo dunque esaurito? Giammai! Su Doppiozero Scarlini stesso nel 2016 invitava a iniziare un lavoro per “definire l’integrale della sua attività”. 

 

A questo punto vorremmo marcare un avviso. Incitare alla foga, ma suggerire la prudenza. A Poli piaceva Umberto Eco, lo recitava in “Babau ‘70”, adattava con lui Queneau per il teatro, lo spettacolo era “Bus”, sempre in “Babau ‘70” dialogava con lui di conformismo, in radio per lui fu Erostrato, nella serie di “Le interviste impossibili”. In una delle ultime riflessioni – Eco, Poli e un altro monumento del teatro del Novecento, come Fo, se ne sono andati nello stesso anno – Umberto Eco dichiarò che la vita serve solo a mettere insieme un passato e a dargli un senso. Una delle frasi più scientifiche della sua lunga produzione scientifica. Per parte sua, nel libretto di sala di “Giallo!!!”, con Omboni Poli scriveva: “Campare è una specie di indagine piena di suspense e piuttosto faticosa, visto che il geniale poliziotto non è mai lì a darci una mano, e solo lentamente, tra continui voltafaccia, colpi di scena e occasionali spaventi, veniamo a sapere chi siamo noi, chi sono gli altri e cosa diavolo sta succedendo”. 

 

Nell’intreccio di queste due sagge dichiarazioni sta forse il consiglio. Non bisogna cercare un solo Paolo Poli, un’essenza, una faccia, perché di sé le cose lui le ha dette a pezzi, per contraddizioni, in scarti continui l’una rispetto all’altra. Se Poli si diverte a pensarsi a volte come una città greca, assomiglia anche a un’orchestra barocca, viva di ritardi, tessuta nelle stonature, attuale perché sbilenca. È vero che la madre di Poli era una maestra montessoriana che lo crebbe restando devota a Rousseau, ma è vero anche che per lui Rousseau era “una scema” che “credeva alla spontaneità”. È vero che l’anno in cui fece il professore di francese a Firenze portò le sue allieve liceali a conoscere le professioniste del sesso in un casino di lusso, appena prima della legge Merlin, ma è vero anche che per questa visita comprarono “uno champagne schifoso”. Laura Betti, sua sodale di lungo corso, gli mancava, ma è vero anche che “da vecchia era diventata insopportabile”. E forse tutto è chiarito dal fatto di esser stato cresciuto da una nonna geniale, che a volte è bellissima, nei suoi ricordi, e altre è orrenda, la quale nonna il giorno in cui sua figlia diventò vedova, – perché il padre di Poli morì quando lui era un ragazzino e sua madre ancora giovane – , da una parte cercava di staccare la propria figlia dalla veglia del suo uomo, dall’altra avrebbe dichiarato: “Oggi farò le cotolette alla milanese, ai bambini piacciono tanto. E i bambini debbono mangiare!”. 

 

In “E lasciatemi divertire” c’è anche un momento più bizzarro, profondamente anacronistico, durante il quale Poli parla del santo del giorno secondo il calendario cattolico. Nell’ottava puntata, l’ultima, Poli parla di San Lorenzo, “che per far dispetto al Papa predicava alle bestie”. Inoltre giunto alla fine della sua vita Lorenzo “poteva benissimo morire zitto, e invece no, ha voluto la graticola, e dice – Signori, da questa parte sono già cotto, voltatemi di là, e mangiatemi pure –”. 

Noi Poli mangiamolo pure, è questo che ha predicato per tutti i rimasti, ma farlo in modo scemo sarebbe un peccato tremendo. Non faremmo onore a un’altra stupenda intervista in video del 2009, a firma di di Giammarco, “I mille mondi di Poli” in cui Poli, spontaneamente “scema”, come Rousseau, a un certo punto ride: – Tagliaaa tutto. Tutto ciò che è personale –.

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20 giugno 2015
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Gina. Diario di un addio

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È un giorno come un altro, nello scorrere lineare del tempo, quando la madre anziana telefona al figlio e chiede di essere riportata a casa sua. Perché quella in cui abita, da quaranta e passa anni, non la riconosce più. Non sa di essere a Torino, crede di trovarsi a Savona, ma vuole andarsene per tornare a Roaschia, il paese dove è nata e dove è rimasto il suo mondo bambino. Dove sua madre ancora l’aspetta. 

La vita di Gina alla moviola è ritornata al suo inizio. Il mondo esterno è sempre quello. La casa gli oggetti i parenti non sono cambiati, ma è lei, Gina, che si è trasformata, è diventata una donna senza identità. In affanno, con l’urgenza di fare, di muoversi, andare lontano dal qui, dove non si raccapezza più. Così “È ancora lì, tra il già e il non ancora. Un limbo sconosciuto”. 

La donna che è stata moglie e madre, e adesso è nonna, ha perso il filo, le connessioni con la sua esistenza, il significato e il significante si sono scompaginati, le parole sono suoni che non corrispondono più al mondo esterno. La realtà, ora, si è spostata, è tutta nella sua testa che produce emersioni, bizzarri capovolgimenti, accostamenti sorprendenti.

 

In Gina. Diario di un addio (Ponte alle Grazie, 2019), Marco Aime ricostruisce il mutare degli stati d’animo − dallo stupore alla rabbia, dall’accettazione alla tenerezza –, con i quali lui e suo fratello e la peruviana Carolina accompagnano sua madre in questa nuova dimensione. Sostenuta dall’amore filiale, affinata dallo sguardo da antropologo, nasce una scrittura che permette di mettere di nuovo in fila la storia di un’esistenza che la malattia, azzerate le coordinate del tempo e dello spazio, ha privato del suo orientamento. “Pasticcio, pasticcio, non fa che ripetere questa parola. Tutte le sue storie, i suoi racconti finiscono in un pasticcio. Il suo orizzonte si è allontanato, nessun segno ne interrompe l’infinito. Senza una fine ogni storia rimane lì, sospesa, con il capo, ma senza coda. Un pasticcio, insomma”.

Il logico è diventato illogico, l’andirivieni di Gina crea situazioni che muovono al riso e al pianto, le sue espressioni verbali poggiano su una grammatica straniera. Ma è la forma del diario che riesce a contenere l’insensato, che permette il ricordo, che dà la possibilità di rappresentare quell’io della madre che può ancora dialogare con il tu del figlio.

 

Perché quello che sconvolge è l’assenza in presenza, l’impossibilità di una relazione, svanita insieme alla vita passata con gli altri. Gina non riconosce la foto del marito, non ricorda nulla della sua vita matrimoniale – come nel film La ragazza del lago, dove il commissario Giovanni Sanzio (Toni Servillo) va a trovare la moglie nella casa di riposo, ma lei non lo saluta, e sorride contenta a braccetto di un altro.

I due figli sono diventati i fratelli della sua infanzia, “ma papà e mamma dove sono?”. “Non ci sono più, hai ottantacinque anni, mamma, come fanno a essere vivi?” “Io però non ho saputo niente, nessuno mi ha detto che sono morti. Me lo dici adesso tu”. Ripetere, insistere, per spiegare e razionalizzare non serve, non riguarda Gina, smarrita, in perenne attesa: “ogni mattina tutto è da rimettere in ordine per Gina. Il suo oggi non è la successione del suo ieri, ma qualcosa di assolutamente nuovo. Nulla la lega al vissuto precedente”. In certi giorni è il corpo che funziona come allora, “quello stesso cuore e quegli stessi polmoni sembrano trovare un accordo, riconoscere una memoria perduta. I muscoli fanno per un attimo quello che la mente non sa più fare. Gina allora esce e scende a cercare casa sua”. 

 

È rimasto il dialetto. “Ora l’unico sentiero che sembra non essersi perso nei rovi della memoria è quello della lingua. Gina l’ha seguito a ritroso, in salita, verso il paese, verso la sua famiglia, verso l’infanzia. È ritornata lì, da dove è partita, è con sua mamma, con i suoi fratelli e parla come loro. Non è stato rapido quel cammino”. Il torinese l’ha scordato insieme alla parte di vita vissuta con il marito, il savonese è scivolato via, “solo il roaschino è rimasto a dare voce ai suoi pensieri scardinati”. 

 

 

Chi l’osserva e la cura, si interroga sul rapporto tra quel prima e questo poi. Il caratteraccio pare sempre il suo, poche carezze e nessuna smanceria, di gente dura fuggita dalla miseria dell’entroterra ligure verso la periferia ponentina che sbucava sull’Aurelia. E poi Torino, cambi di quartieri che indicavano un progresso sociale. Ma ora è una bambina spaesata finita in una prigione dalla quale non sa uscire.

Si sta al gioco, si asseconda, nella ripetizione di un eterno presente che snerva chi ci passa la giornata, a un certo punto si inizia a dubitare di tutto, anche l’ascoltatore si trova immerso in queste “Metastasi impazzite di una storia venuta da chissà dove”. Poi, in questi giorni tutti ammucchiati, improvviso, ecco un sorriso. Gina sente il contatto di una mano, ritrova “la felicità di essere”.

La madre diventa uno scricciolo. Nella casa di riposo, dove si è dovuto ricoverarla, tutto si riduce all’essenziale. In ascensore, c’è un grande specchio. “Guarda fisso il suo volto riflesso, poi sorride e saluta. Certo che ne ha di anni quella donna! Dice voltandosi”. 

 

Gina. Diario di un addio non è un libro sulla vecchiaia, ogni suo frammento tocca un aspetto di una condizione umana estrema sempre più diffusa, eppure ancora poco indagata. Una collettività che vive molto a più lungo − in Italia 13,5 milioni hanno più di 65 anni, gli over 80 sono 4,1 – interroga gli studiosi, ma ci coinvolge tutti. Perché non abbiamo il controllo sul nostro futuro da vecchi, perché già oggi ci capita di essere caregiver impotenti. Perché si può cercare di essere dolcissimi e affettuosi, severi e ironici, rimproveranti e spronanti, in queste situazioni, però il risultato non dipende da noi, ma dalla chimica di un cervello che i medici spiegano a noi profani definendolo un emmenthal con i pieni e i vuoti distribuiti a casaccio. Con un altro linguaggio, Alberto Spagnoli in “… divento sempre più vecchio”. Jung, Freud, la psicologia del profondo e l’invecchiamento (Bollati Boringhieri), un testo utile per una riflessione sul tema, parla di una “corteccia cerebrale che a poco a poco sparisce, si spengono gradualmente le funzioni di adattamento e di orientamento della coscienza, mentre emergono contenuti psichici arcaici in forma di confabulazioni, deliri e immagini allucinatorie”.

 

Ma è forse ancora e soprattutto Freud che riesce a descrivere una condizione umana che appartiene alla sfera dello spaventoso. “La parola tedesca unheimlich (perturbante) è evidentemente l’antitesi di heimlich (confortevole, tranquillo, da Heim, casa), heimisch (patrio, nativo), e quindi familiare, abituale, ed è ovvio dedurre che se qualcosa suscita spavento è proprio perché non è noto e familiare”. Unheimlichè tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato. Significati opposti che però si possono anche incontrare. 

In una nota a Il perturbante Freud racconta una sua esperienza: “Ero seduto, solo, nello scompartimento del vagone-letto quando per una scossa più violenta del treno la porta che dava sulla toeletta attigua si aprì e un signore piuttosto anziano, in veste da camera, con un berretto da viaggio in testa, entrò nel mio scompartimento. Supposi che avesse sbagliato direzione nel venir via dal gabinetto che si trovava tra i due scompartimenti, e che fosse entrato da me per errore; saltai su per spiegarglielo ma mi accorsi subito, con grande sgomento, che l’intruso era la mia stessa immagine riflessa dallo specchio fissato sulla porta di comunicazione. Ricordo tuttora che l’apparizione non mi piacque affatto”. 

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Un cervello che si spegne
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Chernobyl, l’eterno ritorno

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Chissà se, come si legge in questi giorni, i russi realizzeranno davvero una contro-Chernobyl, la serie televisiva che sta andando in onda su Sky, nella quale racconteranno che l’incidente nucleare è colpa della CIA. Se lo faranno, non credo sarà peggio di questa produzione HBO, scritta e diretta da Craig Mazin, almeno a giudicare da quello che si è visto nelle prime due puntate. Personalmente, non condivido i peana di critici e pubblico. Chernobyl mi sembra un prodotto di assoluta medietà, più vicino all’ispirazione di certi film americani anni ’50 che non all’originalità a cui ci hanno abituato molte serie di questi anni. Un esempio per tutti: il tecnico che muore colpito dalle radiazioni la notte dell’incidente e che al collega che lo soccorre non trova di meglio che chiedere un’ultima sigaretta non sembra uscito dai film sui marines con John Wayne degli anni ’50? E la caratterizzazione dei personaggi appare veramente programmatica: ci sono i buoni, i cattivi, e quelli che abbiamo capito saranno l’“elemento umano” sballottato dalla furia degli eventi. Insomma, il tipico approccio degli americani quando si impadroniscono di una storia fuori dalla loro cultura: un metodo meravigliosamente descritto in Il simpatizzante di Viet Thanh Nguyen, quando il protagonista, un vero profugo vietnamita (ma anche spia comunista), si trova catapultato a fare il consulente in un kolossal hollywoodiano sul Vietnam. Sarebbe interessante vedere un film su Chernobyl fatto dai russi anche solo per osservare il taglio culturale e antropologico che gli darebbero. Al momento (e a mia conoscenza) qualcosa di simile esiste solo in The Russian Woodpecker (distribuito in Italia col titolo Il complotto di Chernobyl), una singolare produzione anglo-ucraina in cui l’artista Fiodor Alexandrovic cerca di dimostrare che l’incidente fu in realtà provocato a bella posta dai russi per punire gli ucraini. Il documentario è un vortice di complottismo e sospetto degno di certi deliri staliniani.

 

Per il resto, a parte i numerosi documentari e reportage, nella fiction Chernobyl è dominio dell’immaginario americano. A lungo tema off-limits, dopo la caduta dell’URSS furono proprio quelli di Hollywood a lanciarsi sulla storia, declinandola subito all’occidentale. In rete si trova ancora Chernobyl – Un grido dal mondo (1991), un film di Anthony Page girato on location con protagonista Jon Voigt nei panni di un dottore americano mandato lì a studiare le conseguenze del disastro. Pian piano l’aspetto umanistico-umanitario è slittato verso una dimensione più fantastico-spettacolare. La serie HBO-Sky è stata preceduta, nell’ultimo decennio, da film come Chernobyl Diaries di Bradley Parker (2012) o dall’ultima temporanea puntata della saga di Die Hard con Bruce Willis, intitolata Un buon giorno per morire, nella quale tutta l’ultima sequenza di sparatorie ed esplosioni è ambientata tra le rovine di Prypiat, la città fantasma a poche decine di kilometri dalla centrale. Nel primo (prodotto da quelli di Paranormal Activity…) ci si immagina invece che sei giovani turisti americani in visita a Prypiat vi si perdano, come nel più classico degli horror, e siano fatti a pezzi uno alla volta da una popolazione di mutanti che vive tra le macerie.

 

Da questo punto di vista, la serie tv, benintenzionata e realistica, suona come una specie di compensazione allo sfruttamento di un immaginario che avrebbe richiesto ben altro rispetto. Quello che ha cercato La supplication del lussemburghese Pol Cruchten, adattamento di Preghiera per Chernobyl, il bellissimo libro di Svetlana Aleksievich: anche se il film, per volare troppo alto, finisce molto lontano dall’intensità delle parole della scrittrice. Però anche il mesto realismo stilistico della serie è una scelta a mezzo servizio. Rispetto alla verità, la fiction ha le sue esigenze. Vedi la sequenza dell’elicottero che cade, ascritta alle conseguenze della nuvola sul reattore, mentre si trattò di un tragico incidente causato dal contatto dell’elica con i cavi d’acciaio penzolanti dalle macerie. O il modo in cui si racconta la storia dei tre volontari che andarono manualmente ad aprire i serbatoi che evitarono una seconda ancor più tragica esplosione.

 

 

Uno di loro, Alexei Ananenko, ancora vivo e apparentemente in salute, ha dichiarato in un’intervista alla stampa occidentale che non si offrì volontario, con gesto eroico, come vediamo sul piccolo schermo, ma semplicemente eseguì un ordine senza che gli venisse detto che rischio correva. Ma d’altra parte c’è chi sostiene che l’uomo intervistato non sia il vero Ananenko, ma una controfigura pagata dal governo che lo impersona da anni. Quello vero sarebbe, con tutta probabilità, morto da tempo.
Tutto questo sembra indicare che Chernobyl non è più un fatto, è una storia. Qualcosa di cui ci si impossessa per trarne un piacere “estetico”. Leggo che a Prypiat, da quando ci andai 15 anni fa, è cresciuta in maniera esponenziale l’industria del turismo dell’orrore. Ormai, moltissimi gruppi di occidentali (e non solo) comprano tour guidati nella “zona” per sperimentare in diretta il frisson dell’apocalisse; e hanno dato vita a un indotto in cui è possibile incontrare dei sopravvissuti che raccontano la loro storia dietro pagamento, un po’ come farsi un selfie con i gladiatori del Colosseo. Forse oggi questo sarebbe il modo più crudamente realistico per raccontare cosa è diventata Chernobyl: ma ci vorrebbe la cattiveria di un Risi o di un Monicelli.

 

La domanda è: cosa ci interessa davvero in Chernobyl? Cosa ci spinge a dissotterrare periodicamente questa storia terribile? E, anche, e in modo molto personale, cosa mi convinse ad andarci due volte una quindicina di anni fa? E cosa pensai? Certo, ci dovevamo girare una sequenza importante di La strada di Levi, il film che io e Marco Belpoliti realizzammo ripercorrendo l’itinerario narrato in La tregua. Levi, più o meno quarant’anni prima del disastro, ci era passato vicinissimo e la coincidenza – in quel film che metteva in corto circuito programmatico passato e presente – non appariva casuale. Anzi, ci si vedeva la longa manus del destino. Ma nel profondo del cuore so che non andai là solo per necessità professionali e artistiche, ma per vedere con i miei, i nostri occhi la realtà della catastrofe nucleare. Una catastrofe che viene spesso evocata, minacciata e anche corteggiata: ma che solo in quel remoto angolo di pianura ucraina si è messa in mostra nella sua evidenza pratica. Tanto per cominciare: uno dice “Chernobyl”, ma dovrebbe dire “Prypiat”. Chernobyl, con i suoi reattori spenti e quello esploso coperto dal “sarcofago”, è ancora lì, piena di gente che ci lavora, occupata a tenere in qualche modo sotto controllo il dopo-incidente, a cominciare dalla gestione della cupola che ha bisogno di continuo monitoraggio. A Chernobyl non si respira aria da disastro nucleare, nemmeno sotto le ciminiere. Cogli semmai l’instancabile attività dell’uomo che reagisce ai peggiori disastri come le formiche quando gli si distrugge il formicaio. La cosa che mi colpì di più fu trovare, davanti agli edifici dei laboratori, una statua di Prometeo, in perfetto stile sovietico. Nemmeno l’incidente ne aveva consigliato la rimozione: anzi, restava lì come una silenziosa sfida al destino, surreale e insieme audace.


Il villaggio di Chernobyl, vicino alla centrale, non era granché. Non lo era mai stato. Nella pianificazione socialista, alla centrale nucleare venne affiancata una città modello, nuova di zecca: Prypiat, che prese il nome dal fiume omonimo che scorre lì vicino. L’ex-abitante che ci accompagnò nella visita (e che non volle essere pagato, perché suo figlio era stato adottato da una famiglia italiana…) ci raccontò di come tutto fosse bello e felice, lì. Quasi tutti, come lui, erano personale specializzato che lavorava alla centrale, ben pagati e inseriti in un sistema funzionante. Più tardi avrei trovato dello struggente materiale filmato d’archivio sulla vita quotidiana di Prypiat: in qualche maniera, lì il socialismo rappresentava non solo una promessa, ma una realtà. E sembra davvero una nemesi da tragedia greca che da lì sia cominciato il suo fallimento definitivo.


Per arrivare a Prypiat passammo paesaggi sempre più desolati: ma non perché quello che vedevo fosse triste o distrutto. Anzi, era proprio la portentosa riscossa della vegetazione sulla civiltà umana a marcare il disagio: sentivi di entrare in un luogo da cui l’umanità era stata bandita. E un sentimento conseguente provai entrando in città: non già il senso della storia che passa che si respira davanti alle rovine antiche, ma la folgorazione di un luogo in cui – di colpo – l’umanità non c’era più. Prypiat non fu abbandonata lentamente, ma in pochi giorni, e “temporaneamente”. Nessuno pensava che non avrebbe più rivisto casa sua. A Prypiat non sentivi la compassione per una tragedia, ma l’angoscia ancor più inquietante di una sospensione infinita. Il tempo, il tempo umano a Prypiat si era fermato per sempre. E se ci penso ora, forse capisco meglio cosa stavo vedendo: il selfie definitivo della Storia, quella che comincerà quando noi non ci saremo più.

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Dell’invisibile

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L’altro giorno, a Brindisi, ho scoperto un mondo invisibile. Si tratta di una rovina imponente che si indovina appena da varie parti della città, ma che resta quasi totalmente sottratta alla vista. L’edificio in questione, il Collegio Tommaseo, ovvero l’Accademia Marinara dell’Opera Nazionale Balilla, è una realizzazione dell’architetto Gaetano Minucci. Edificato con la magna pompa tipica degli edifici di epoca fascista, l’insieme ha attraversato una lunga fase di decadenza. Oggi, chi si inoltra nella piccola giungla che lo circonda può scoprire un universo tarkovskiano, caratterizzato dalla rivincita della natura sugli artefatti umani, cioè dall’invasione della vegetazione sul corpo dell’immenso complesso abbandonato. La vera sorpresa, dopo una complicata deambulazione nella struttura, le cui innumerevoli finestre affacciano su un esterno quasi surreale, è data dal generoso cortile o “piazzale” del Collegio.

 

 

Sui muri pesantemente erosi dal tempo si intravedono segni strani. Graffi? Graffiti? Decorazioni? Pitture? Uno sguardo più acuto permette comunque di identificare questi segni di grandi dimensioni diventati inquietanti: si tratta di mappe che rappresentano – o meglio: che rappresentavano – fra l’altro, l’Europa, l’Italia e la stessa città di Brindisi. Di certo vedere l’Europa in tale stato di decadenza avanzata fa riflettere. Le isole britanniche sono già quasi staccate, mentre gli altri paesi europei sembrano perdere sostanza a vista d’occhio… Viene in mente il magnifico quadro di Hubert Robert che rappresenta il Louvre in uno stato di possibile futuro decadimento. Su questi muri anche l’Italia non se la passa bene: l’intonaco cede e vari pezzi sono lì lì per cadere, per dissolversi nella vegetazione che, lentamente, si appropria di tutto. Questo teatro geografico, che metteva in scena la grandeur dell’Italia e dell’Europa, si è trasformato nel palinsesto della loro decadenza non soltanto politica ma anche materiale.

 

Il peggio è toccato proprio alla città di Brindisi: ci vuole un lavoro di tipo archeologico su questi muri per distinguere la forma urbana distrutta dalle intemperie. Qui la cosa più interessante e l’elemento sorprendente è la verità che si esprime attraverso un’opera voluta come massima espressione del desiderio di rappresentazione e che viene man mano distrutta, pur se poi  ricreata a suo modo dalla natura. La grande mappa dell’Europa a pezzi racconta infatti lo stato attuale del nostro continente. E anche i resti della trama della bellissima città pugliese parlano della Brindisi odierna, indicano in fondo la necessità di reinventare un insieme urbano partendo dall’integrazione del suo porto. O meglio, dei suoi tre porti, una realtà che la città non sembra percepire più di tanto. Qual è l’unità di questa città che vive all’insegna della discontinuità spaziale invece di reinventarsi partendo dalla relazione con il mare? Vedere questi frammenti, ma pure la città ‘spezzettata’ di Brindisi, ricorda la grande tradizione italiana legata all’esposizione di mappe negli edifici emblematici del Rinascimento. Ciò che la stanza delle Geografiche o del Mappamondo, nel Palazzo Farnese di Caprarola, dimostrava solennemente, diventa nell’ambito semicircolare del Collegio brindisino una specie di film geografico, di cui sopravvivono soltanto alcuni fotogrammi. Una mappa su un muro è ormai un’esperienza altamente inusuale. Il nostro secolo, quello di Google Maps e del GPS, è caratterizzato dalla scomparsa generale delle mappe. Preparare un viaggio con la cartina geografica in mano, o viaggiare in macchina accompagnati da qualcuno che la sappia “leggere” sono azioni che appartengono ormai a un mondo passato.

 

 

La mappa, che fa parte delle grandi conquiste intellettuali e iconiche dell’umanità, sta per diventare un relitto museale. Per le generazioni predigitali consultare una mappa e, meglio ancora, un atlante, rappresentava un modo di viaggiare senza doversi spostare fisicamente. Muovendo gli occhi e le dita si era già altrove, in uno spazio mentale quasi illimitato. Con la scomparsa delle mappe se ne va anche un modo di essere-nel-mondo. Jed Martin, il personaggio principale di La carte et le territoire di Michel Houellebecq, giudica la mappa più interessante del territorio esperito; è una considerazione che ricorda quella di Robert Musil, il quale all’inizio del secolo XX osservava già come l’immagine (nel suo caso, la cartolina postale) avesse sostituito la realtà, sempre meno bella della sua rappresentazione. Cosa succede però con le mappe del passato, con tutti quei magnifici atlanti? Esiste da qualche parte nel mondo un cimitero delle mappe? O finiranno tutti termo-valorizzati o ammucchiati in qualche montagna di rifiuti? (Da alcuni anni l’oggetto stampato non riciclato invade le strade e i cassonetti.) I malinconici murales di Brindisi sollevano il problema del legame fra rappresentazione e realtà. In un regime mentale dove tutto può essere rappresentato in qualsiasi momento in modo numerico, mancano i mezzi per mettere in moto l’immaginazione. Spesso il digitale assorbe il mondo, lo prosciuga. Un incontro come il nostro, cioè l’irruzione nello spazio invisibile della rovina, permette di prendere le misure di ciò che perdiamo se continuiamo ad affidare il nostro presente al diktat del medium digitale.

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Mappe e territorio
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Dieci anni di immaginario gastronomico

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È da tempo che non si guarda in faccia il piatto per chiedergli la verità, per apprendere se il contadino è ricco o povero e quanto vino ha l'oste in cantina, per conoscere gli umori di chi ha cucinato, se triste o felice, per sapere, con sontuosa aderenza etimologica, se ha sapore, se il sale sala e soprattutto quanto sazierà e delizierà il palato. 

Tutta colpa della gastromania, un'esplosione di cuochi d'artificio che ha scomposto tutto, persino il cannolo conservatore, che ha destrutturato la zuppa del contadino e sferificato lo Spritrz; Masterchef, l'anno zero della nuova vita, prima un proliferare di cuochi timidi e riservati, bruttini e provinciali, dopo solo Cracco, Cracco, Cracco; ante Masterchef fanciulli con aspirazioni da astronauta, post Masterchef alla Bocconi si è preferita l'Accademia di Pollenzo; ante Masterchef la cucina, il sapore di aglio e le lacrime delle cipolle erano roba da donne, da massaia, da cuoca, post Masterchef, quando lo spignattatore si è eretto a giudice e la cucina è diventata il regno del potere, improvvisamente se ne sono appropriati gli uomini. Gastromania e il mondo in fila a Expò 2015 per parlare delle cavallette fritte e vivere lo spettacolo mirabolante del cibo che si fa circo. Cucine risuonanti di sifoni e cannelli, forni silenti e tv sempre accese e lo chef cerca la ribalta, avanza in prima fila e dalla sala arriva sul palcoscenico e ancora fino alla tribuna politica.

 

Di gastromania e, soprattutto, di post-gastromania racconta il libro del semiologo Gianfranco Marrone Dopo la cena allo stesso modo. Dieci anni di immaginario gastronomico, edito da Torri del Vento, una raccolta di articoli che profetizzano la fine dell'invasione barbarica di cuochi star e infernali, il passaggio che dalle Cucine da incubo ci lascia nelle braccia rassicuranti di Cannavacciuolo, la fine del cibo spettacolo per lasciare il posto a un po' di sana e buona verità.  Un libro acuto, ironico, pieno di intuizioni felici, ma soprattutto di letture precise che mettono a nudo la società italiana, provincia dell'impero, alle prese con una moda ossessiva, quella per "il discorso sul cibo"– e non per il cibo – che ha investito il Paese negli ultimi dieci anni, un auspicio di ritorno al buon senso.

 

 

Un titolo liturgico, che enfatizza la retorica altisonante della gastromania, ma che immediatamente ne annuncia il prossimo declino, un'ultima cena, il canto del cigno, pronti a ritornare al confortante rituale che si ripete identico da millenni e che esprime gratitudine al pezzo di pane che ci sfama tutti. 

La selezione di Marrone non segue un ordine cronologico, ma di urgenze, ed è presentata al lettore in due parti, la prima sottotitolata "Foodies" raccoglie le riflessioni più recenti, le radiografie delle mode più esasperate, dall'infondatezza culturale del km zero («Le stelle, ricordiamolo, le attribuisce un produttore di pneumatici» scrive Marrone), all'avanzata sul proscenio del cuoco stellato, passando e facendo una sosta d'obbligo per indagare la complessa rete di significati di Masterchef. Un viaggio nell'immaginario italiano in trasformazione che cerca di ridisegnare il suo villaggio gastronomico, alle prese con bevande al surrogato di qualcosa, di caponate fatte con il dado che diventano battaglie per l'identità nazionale, una sosta nei luoghi che cambiano, negli Autogrill che diventano spazi utopici all'interno dei quali il desiderio non si soddisfa mai, ma anzi cresce a dismisura. Si chiude con un capitolo di pura e necessaria antropologia "Siamo tutti cannibali", sintetico pamphlet sull'essere umano che diventa magnifico quando ripone in tasca il razionalismo e si affida al mito e alla magia. Marrone chiama in causa Lévi-Strauss e Calvino e tira un colpo da maestro: «Mangiare l'altro è prassi quotidiana: metaforica forse, ma non per questo meno fondamentale. L'uomo è ciò che mangia, ma ciò che mangia è sempre un'alterità che egli riduce, trasformandola, a se stesso». Vegetariani e vegani senza assoluzione.

 

La seconda parte del libro è un'osservazione al microscopio di quello che accade in Sicilia, la regione dell'autore, e si intitola, infatti, Chez moi. Nella ragione dove il cibo è sul santuario da sempre e dove la pianificazione del pranzo e della cena è l'unica estrinsecazione della progettualità ("che mangiamo oggi per pranzo?"è la domanda che segue il risveglio), l'indagine di Marrone diventa manifesto identitario, fuori dalle mode e dentro i tabù. Si guarda in faccia il marketing che non disdegna di sfruttare la mafia come brand per gastropadrini, e la retorica dei prodotti coltivati nelle terre confiscate ai cattivi (chi non li apprezza è colluso!), si indaga l'uso e abuso del cibo da strada, si racconta l'Expo dalla prospettiva Siciliana (metafora interessante che fa il paio con il primo degli articoli "Cucina politica") e si snocciolano tutti i grani antichi siciliani con le relative proprietà taumaturgiche, la risposta isolana all'avanzata dei celiaci (fatta la legge, trovato l'inganno!). 

In ogni capitolo un riferimento bibliografico o cinematografico, chicche specifiche che vien voglia di leggere o di guardare, possibilmente ordinando, senza sensi di colpa, cibo cinese sotto casa.

C'è anche una terza parte a chiusura del libro,"Gusti e disgusti", una raccolta di foto scattate dallo stesso autore in giro per il mondo che – per provare di non essere affetto da gastromania, ma al massimo di classificarsi come un portatore sano, o forse, per citare un aggettivo a lui caro, un gastromane "dilettante"– si è autoimposto solo scatti di materie prime, niente figure umane, ma soprattutto niente piatti impiattati. Il cibo da vicino, uno Zibaldone (Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento) visivo che mostra come alla lente di ingrandimento il disgusto possa affiorare da luoghi insospettabili.

Leggere Dopo la cena, allo stesso modoè terapeutico e liberatorio, è come il check-up per l'ipocondriaco che passa in rassegna tutte le malattie da cui teme di essere affetto e scopre – almeno per un attimo – che invece è sano come un pesce, che è guarito da tutto, salvo dall'ossessione per le sue manie che presto torneranno a bussare.

 

Dopo la cena, allo stesso modo. Dieci anni di immaginario gastronomico, di Gianfranco Marrone, Torri del vento Edizioni, pagg.187, euro 15,00

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Post-gastromania?
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La vera storia della Sala delle Asse

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Milano celebra il quinto centenario della morte di Leonardo da Vinci (1452 - 1519) con una serie di eventi, dal titolo Milano Leonardo 500 (maggio 2019/gennaio 2020) che, oltre al Museo nazionale della scienza e della tecnologia a lui dedicato, investono i vari capolavori che l’artista ha lasciato alla città, alcuni dei quali amovibili, come, ad esempio, i disegni contenuti nel Codice Trivulziano e nel Codice Atlantico e il ritratto di musico dell’Ambrosiana, e altri inamovibili, quali le pitture murali del Cenacolo in Santa Maria delle Grazie e quelle della Sala delle Asse al Castello sforzesco.

A proposito di quest’ultima, sono molte le storie interessanti che la riguardano, a partire da quella circa il suo nome. Nei documenti del Carteggio Visconteo Sforzesco (1282 - sec. XVII), conservato presso l’Archivio di Stato di Milano, essa è definita Camera Grande, per via delle sue dimensioni. Era infatti la stanza più ampia del castello, per tale ragione Ludovico il Moro (riscattandola dalla destinazione di Sala della Falconeria, voluta dal precedente duca, suo fratello Galeazzo Maria, appassionato di caccia al falcone) l’aveva adibita a sala delle udienze, in cui venivano ricevuti gli ambasciatori degli altri stati e si tenevano riunioni a carattere politico oppure concernenti le questioni della città. Sebbene essa sia ubicata nella torre nord, faceva comunque parte dell’appartamento ducale, ad esso collegata in quanto luogo di rappresentanza. Proprio in virtù di questa sua destinazione, doveva quindi simboleggiare anche nelle decorazioni la magnificenza del signore di Milano: Ludovico Maria Sforza, uno dei più potenti del suo tempo, a capo di un territorio tra i più ricchi del mondo.

 

Non è dunque un caso se Leonardo da Vinci, quando, nel 1482, dovette abbandonare Firenze, fra i tanti stati e staterelli dell’Italia disunita, scelse proprio Milano. Nella lettera di autopresentazione che indirizzò al Moro declinò le sue molteplici attitudini e capacità, che lo Sforza, accogliendolo, impiegò tutte quante, nessuna esclusa, dall’urbanistica, all’architettura; dall’ingegneria idraulica, a quella meccanica, fino all'arte bellica; dalla scultura, alla musica; dall'organizzazione di feste, alla moda, alla cucina e, naturalmente, alla pittura. Finito il Cenacolo e la Vergine delle Rocce (dipinta per la perduta chiesa di San Francesco Grande e oggi purtroppo non più a Milano) lo incaricò quindi di dipingere il luogo diplomaticamente più importante del ducato: la sala delle udienze. 

 

Dalla Camera Grande alla Camera dei moroni

 

Sulla sua volta, su una superficie di 400 metri quadrati, il maestro toscano andò a dipingere degli strepitosi intrecci di piante di gelso, e non già (e non solo) per l’amore scientifico che egli aveva nei confronti dello studio della natura, quanto, piuttosto in omaggio a Ludovico Maria Sforza, altrimenti detto 'il Moro'.

Questo soprannome, era derivato al signore di Milano non tanto (e non solo) dal colore scuro della sua pelle (che cosa mai sarebbe importato a uno degli uomini più intelligenti e potenti dell’orbe terracqueo del farsi chiamare con un epiteto allusivo al proprio aspetto fisico? E che gliene caleva poi ai suoi sudditi, che da lui si aspettavano un buon governo che portasse ricchezza materiale, della cromia della pigmentazione della sua epidermide?), ma per il grande interesse “imprenditoriale” da lui mostrato nei confronti delle piante di gelso, in dialetto milanese murùn, o moròn, a seconda della località, termine direttamente derivato dal latino morus

 

Milano, Castello sforzesco, Sala delle Asse come si presenta oggi ai visitatori di Milano Leonardo 500.


Bisogna infatti ricordare che Ludovico il Moro aveva grandemente potenziato l’industria serica milanese (introdotta dai Visconti) che, sotto il suo illuminato dominio, raggiunse apici mai toccati in precedenza. I tessuti milanesi auro-serici erano molto ricercati da tutti i signori d’Europa per la brillantezza dei colori e per la preziosità dei decori e portavano alla città un ingente volume di affari con il conseguente benessere diffuso. Siccome i bachi da seta si nutrono di foglie di gelso, ecco allora che, per potenziare l'industria manifatturiera della seta, era necessario incentivare la coltivazione dei murun. Ludovico Sforza era talmente patito dei gelsi, da aver voluto addirittura inserire l’immagine della sua tipica foglia nel proprio stemma gentilizio. Ciò detto, non risulta difficile comprendere la scelta simbolica operata da Leonardo di dipingere intrecci di gelso sulla volta della Camera Granda, che “rappresentassero" in effigie il Moro.

L’interesse incondizionato di Ludovico Maria Sforza per la seta e per i murùn indusse inoltre l’artista fiorentino, per compiacerlo, a dare il proprio contributo nel raffinare la produzione dei tessuti milanesi, sia nella tecnica, che nel progetto. A tale proposito, nel Codice Atlantico, è contenuto il disegno di un telaio meccanico, insieme ad altri di strumenti per la filatura e la torcitura della seta e c’è addirittura il progetto di un motivo decorativo per un panno di seta, con annotazioni tecniche sulla sua tessitura.

Dopo l’intervento di Leonardo, il popolo di Milano cambiò nome alla sala delle udienze, che da CameraGranda fu detta Camera dei moroni. E tale definizione dovette essere grandemente in uso, se persino Luca Pacioli, a quel tempo ospite del Moro, in un passo del De Divina Proportione, fa riferimento a una riunione tenutasi lì nel 1498, per discutere del tiburio del duomo di Milano, con queste parole:

«…a certi propositi del domo de Milano, nel 1498, siando nella sua inexpugnabile arce nella camera detta «de’ moroni», ala presentia delo excellente Domino de quello Ludovico Maria Sforza, con lo Reverendissimo Cardinale Hipolyto da Este suo cognato, lo illustre Signore Galeazzo Sanseverino mio peculiar patrone e molti altri famosissimi, comme acade in cospecto de simili, fra gli altri lo eximio utriusque iuris doctore e conte e cavalie[r]i Meser Onofrio de Paganini da Brescia detto da Ceveli, il qual ibi coram egregiamente exponendola, tutti li astanti a grandissima affectione del nostro Vitruvio indusse, nelle cui opere parea che a cunabulis fosse instructo». (Luca Pacioli, De Divina Proportione, Venezia, Paganino Paganini, 1509)

 

Tra i rami di questa selva campeggiano anche molte gasse d’amante dorate, messe lì da Leonardo per celebrare il legame nuziale stretto nel 1491 tra il casato degli Sforza e quello dei d’Este con il matrimonio fra Ludovico Maria e Beatrice. Sulle pareti nord e ovest, poi, il maestro ha disegnato in monocromo radici e rocce così fedeli al vero visibile come mai se ne erano vedute prima.

 

Milano, Castello sforzesco, Sala delle Asse. A sinistra: i lavori di restauro ai monocromi leonardeschi delle pareti. A destra: dettaglio.


Poiché i lavori d’esecuzione si sono protratti più a lungo dei cinque mesi previsti all'inizio (dal momento che Leonardo aveva deciso di ritrarvi anche delle vedute di Milano e trascorreva di conseguenza molto tempo in giro per la città a prendere appunti sul suo taccuino), essi sono stati giocoforza frequentemente interrotti dalle urgenze di stato che di volta in volta richiedevano l’utilizzo della Camera. E, come risulta dai carteggi, anche in quelle occasioni, come già in altre, era toccato al camerario del duca, Gualtiero Bascapè, di sedare gli accessi d’ira dell’illustre pittore, facendo ricorso a quella diplomazia per cui andava giustamente famoso. È stato proprio lui a scrivere questa lettera al Moro:

 “A la saleta negra non si perde tempo. Lunedì si desarmarà la camera grande da le asse, cioè da la tore. Magistro Leonardo promete finirla per tuto Septembre, et che per questo si potrà etiam goldere: perché li ponti ch’el farà lasarano vacuo de soto per tuto”. 

Il che significa che Lonardo per dipingere la volta, dopo aver liberato le pareti che il precedente duca, Galeazzo Maria, aveva voluto “foderate de asse” (ASM, lettera di Bartolomeo Gadio a Gian Galeazzo Sforza, 2 aprile 1473) deve aver montato degli speciali ponteggi che non invadevano tutta l'area sottostante così da consentire a chi lo volesse di ammirare il suo lavoro e magari anche di tenervici delle riunioni. Ed ecco che, due giorni dopo, il 23 aprile 1498, il Bascapè inviava una missiva allo Sforza in cui lo avvisava che la Camera ‘disconza' (leggi a soqquadro), era stata riordinata.

Purtroppo, a causa delle brusche vicende che posero fine alla dinastia sforzesca, la camera picta non fu mai ultimata.

 

Il declino e l’abbandono 

 

Il 2 settembre 1499, quando le truppe francesi invasero Milano e la soldataglia guascone distrusse “il Cavallo" che Leonardo stava eseguendo per la statua equestre di Francesco Sforza, padre del Moro, a nulla valse all’artista il rapido cambio di dedicazione a favore del reggente di Milano a nome a per conto di Luigi XII, quel Gian Giacomo Trivulzio, acerrimo nemico dello Sforza. Il Cavallo venne fuso e il metallo trasformato in palle di cannone. Analoga, infausta sorte toccò anche alla ‘camera dei moroni’, che fu fatta oggetto della damnatio memoriae del Moro, a maggior ragione in quanto ne riproduceva in nuce il simbolo. Per sommo dispregio fu allora trasformata in stalla, il che equivale a dire che il luogo simbolo del potere del Moro nonché del Moro stesso fu metaforicamente annientato, come si usava fare in antico con le spoglie del nemico vinto.

Nei secoli successivi, la volta fu ricoperta da uno scialbo bianco e sull’opera di Leonardo cadde l'oblio.

 

La riscoperta, i pesanti restauri ottocenteschi e la nuova denominazione di Sala delle Asse

 

Dovettero passare quattrocento anni, prima che qualcuno riportasse alla luce la camera picta. Fu grazie ai meticolosi studi condotti fin dal 1893 sui documenti conservati negli archivi milanesi dallo storico tedesco Paul Müler-Walde se, nel 1901, Luca Beltrami, allora impegnato nel restauro del castello (dalla torre del Filarete, alle merlature, al completamento dei torrioni) riscoprì il lavoro di Leonardo. Purtroppo, la concezione che il Beltrami aveva del restauro era interpretativa e non conservativa e fu così che affidò il compito di por mano alle pitture leonardesche, grandemente deteriorare dal tempo e dallo scialbo, a Ernesto Rusca che intervenne con pesanti ridipinture. Mancò all'epoca anche un rilievo fotografico dello stato dell'opera precedente all’intervento di Rusca, il che costituisce una grave lacuna per chi è impegnato oggi nella sua ripulitura nel tentativo di riportare alla luce la ‘mano' di Leonardo.

Ci fu allora, per nostra fortuna, un felix error da parte del Beltrami che non riconobbe la paternità di Leonardo sui monocromi delle pareti, attribuendoli invece a interventi spagnoli successivi. Così li escluse dal restauro e li fece ricoprire con delle assi, battezzando quindi la sala con il nome di Sala delle Asse che conserva tutt'ora. Questi preziosissimi disegni a carboncino oggi sono gli unici, se pure incompiuti, a recare intatto il tratto della mano del maestro.

 

I restauri in corso

 

Dal 2013 la Sala delle Asse è oggetto di una meticolosa campagna di restauro mirante a liberare le pitture dagli interventi ottocenteschi e dai successivi, del 1955, opera di Ottemi Della Rotta che a propria volta aveva già tentato di ripulire gli ornamenti quattrocenteschi dalle pesanti ridipinture di Rusca. Interrotti una prima volta nel 2015, per mostrare la sala al pubblico internazionale giunto in città per l'Expo, la Sala delle Asse è stata eccezionalmente riaperta in onore del cinquecentesimo anniversario della morte del suo autore ed è visitabile da maggio di quest'anno fino a gennaio dell'anno prossimo.

Per la rassegna “Leonardo mai visto", di cui la Sala delle Asse è il cuore, in quelle attigue sono esposti alcuni disegni autografi del maestro e un ologramma mostra ai visitatori una ricostruzione della Milano rinascimentale. 

Ma è per ammirare il capolavoro di Leonardo che non conviene perdere questa occasione.

Quando ricapiterà?

 

Nota: accenni alla storia della Sala delle Asse sono nel racconto L’affresco di Bernardo Zenale alla Gualtiera, edito nei Quaderni di Italia Medievale (2017) e nel romanzo breve Un filo di seta, Bolis Edizioni (2018), alla cui lettura l’autrice rimanda.

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Cercando un’economia per gli Appennini

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L’Italia profondaè espressione con cui significhiamo i sentimenti, i comportamenti, gli umori, “la pancia” degli Italiani che la modernità non riesce a comprendere; persone e genti che pur vivendo il presente ne sono in fondo solo sfiorate rimanendo attaccate alle inerzie, ai valori, alle abitudini, ai pensieri, alle tradizioni di un passato indefinito che però tutto trattiene.

Poi, la stessa espressione è anche sinonimo di aree interne, identità geografica vaga quanto evidente, almeno quando comprende luoghi lontani dalle coste, dalle grandi città, facilmente coincidenti con le provincie più sperdute o con ogni vallata di montagna che sia rimasta lontana dal turismo di massa. 

In pratica gli Appennini ci sono dentro tutti.

 

L’Italia profondaè appunto il titolo di un piccolo libro appena edito da Gog, giovane casa editrice romana. È un breve dialogo intervista con Franco Arminio e Giovanni Lindo Ferretti che rispondono su cosa negli Appennini sia la vita in montagna, su cosa resti, sui simboli, sui luoghi, sul lavoro dell’uomo, sul tempo visto da là e da lassù, sulla parola e la poesia intorno ai luoghi e alle persone...

Sguardi, quelli di Arminio e Ferretti, diversi nella sensibilità e nelle propensioni personali, ma accomunati dalla cura di ciò che è e che resta, dal privilegio di poter osservare il creato da luoghi in cui questo è ancora possibile. 

L’uno forse più attento alle diverse sfumature della concretezza del vivere, l’altro più sensibile alla ricerca del sacro e della fede.

Gli Appennini come luogo in cui poter osservare il creato dicevamo... privilegio di colti e di eremiti si direbbe ma certamente non solo.

Del resto, gli eremi, le abbazie, i conventi che storicamente hanno punteggiato la montagna appenninica forse rivelavano anche questo; luoghi di una montagna accessibile dove la vita si percepiva (e si percepisce) dentro la sacralità diffusa data dall’incontro tra l’uomo e la natura. Questo il tratto saliente di una montagna sempre possibile.

Gli alberi che mi emozionano non sono quelli dei boschi ma quelli coltivati nei campi arati. Se proprio devo scegliere un simbolo scelgo questo. È un’emozione che mi arriva sempre, con la pioggia, col sole e ancora di più quando c’è la neve ... gli alberi mi sembrano presenze a cui posso fare affidamento” scrive Arminio. Oppure: ama la tua città, ama il tuo paese, questo è il primo comandamento nella civiltà della geografia in cui ogni cosa va sistemata con cura nel suo spazio: pensa al muso delle vacche, al cuore di una donna, agli occhi di un gatto”.

 

 

“Coltivando vane speranze ed espletando un dovere verso la creazione ho allevato ed addestrato sull’Appennino cavalli di nessuna utilità. Come farne a meno?”

“Se il cavallo è il mio simbolo del passato, e con diverse motivazioni, del presente, è il lupo a candidarsi a simbolo del futuro. Il lupo è tornato e ci guarda con occhi nuovi e stupiti”.

“... La città e i paesi, in questo perfettamente sovrapponibili, hanno dimenticato la vita vera: nascere diventa l’eccezione. Generazione senza generazione” scrive Ferretti.

 

L’incontro tra l’uomo e la natura si diceva... ma certamente oggi quell’incontro si è fatto più raro per il vuoto di umanità che quasi tutti gli Appennini vivono e che si percepisce quotidianamente lungo i milleduecento chilometri delle sue montagne. È infatti quel “vuoto”, soprattutto nell’Alpe, a renderci più prezioso l’uomo e il creato, condizione con cui tutti quelli che vivono quella montagna, fanno quotidianamente i conti. Ed è quel vuoto che sta rendendo gli Appennini un intero grande parco, una gigantesca riserva naturale, con o senza certificazione di parco, dalla quale l’uomo lentamente è bandito e dal quale si bandisce...

Del resto sono il paesaggio, i paesi, la natura ormai straripante e un’umanità sempre più scarna, sempre più stanca... questo l’orizzonte comune di tutto l’Appennino e di cui anche le pagine di Arminio e Ferretti ne sono un’altra lirica testimonianza.

 

Ma sembra che non una, due, mille poetiche possono bastare per l’Appennino – come per qualunque altro luogo – per la vita che è e che verrà...

 

Oltre ogni poetica infatti, il problema del vivere, del vivere cioè il presente, è sempre un problema economico, anzi è un problema demografico, è demografico ed economico, e ancora è economico e demografico, perché senza demografia non c’è nessuna economia e viceversa, non c’è, alla lunga, alcuna vita.

Difficile poi immaginare nel tempo un’economia sostenibile in quelle piccole comunità residuali e a loro modo quasi autosufficienti di cui si sta punteggiando l’Appennino, soprattutto l’Alpe o le vallate più profonde.

I monasteri medievali come modello concluso di piccole comunità colte e autosufficienti (se mai oggi fosse una suggestione e una tentazione dell’epoca web e dell’economia immateriale) sono irrimediabilmente lontani. Quelle comunità finché la storia gli è stata benevola, hanno goduto infatti di una demografia favorevole; a lungo, uno stuolo di adepti è stato pronto a rinfoltire e rinvigorire le fila di chi se ne andava.

Ancora la demografia dunque. Cosicché nel presente, assai poco vale trovare consolazione negli eventi – più o meno grandi più o meno piccoli – per far rivivere un giorno o una settimana un borgo o un paese degli Appennini; una illusione, forse anche una speranza certo, ma che alla fine resta come un misero argine alla mancanza di senso, all’aumento di disordine in cui quotidianamente sono immersi gli Appennini, proprio mentre gli altri giorni, tutti, raccontano l’estrema fragilità degli equilibri demografici; equilibri sempre precari e che in realtà sono già precipizi che sanno di desolazione. Come chiamarli diversamente quando i nuovi nati in un borgo, ogni anno sono uno, due... niente, o quando i paesi del sud inesorabilmente continuano a spopolarsi...?

 

Dunque che fare...?

Domanda impossibile quest’ultima e “madre di tutte le domande” per gli Appennini.

Forse, come premessa e prima di improbabili risposte occorrerebbe guardare come la parola paesaggio derivi da paese quasi a rimarcare come non possa esistere separazione tra natura e civiltà.

Paesaggio infatti ha la sua origine in paese, la cui etimologia muove dal latino volgare pagensem e dal più antico pagus vale a dire villaggio; così come ancora l’etimologia riporterebbe al latino paco, ovvero chiudo, serro, ma anche concludo un accordo tra parti.

Un paesaggio insomma sarebbe sempre in qualche modo paese e sempre in qualche modo “occhio civile”. È la conferma di come in ogni paesaggio vivo, la mano dell’uomo sia necessaria, è la conferma di come da quando esistono le città, e insieme ad esse “occhi urbani”, per tutti sia cambiato il modo di vivere e vedere la natura; la conferma cioè di come fin da Gerico, da 

 

Ur, da Aleppo – piaccia o non piaccia – le città abbiano lentamente ridefinito il modo di vivere ma anche di guardare il mondo.

Ne sono consapevoli tutti quelli – come me – esuli di seconda generazione che periodicamente viaggiano dalla città in cui risiedono al borgo di provenienza. Transumanze minime in odor di modernità, pendolarismi esistenziali tra nostalgia, riconoscenza e inquietudine: condizione la cui non appartenenza a nessun luogo e nessuna patria è la cifra essenziale ma in cui è lo sguardo urbano ad arricchire di significati tutto quello che ancora è Appennino.

Del resto, oggi, nelle città, sulle coste o in pianura, dall'altro lato dove la storia ha tracciato le sue mutazioni, ognuno di noi conduce vite urbane, ormai le uniche possibili, aldilà di dove sia capitato di vivere. Ma in fondo, appartenenza o meno, non sono sempre occhi urbani quelli con cui ci guardiamo intorno anche quando abitiamo un paese, anche quando camminiamo il paese e il suo paesaggio...?

 

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via” scriveva Cesare Pavese. E ancora: “Un paese vuol dire ... sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

Eppure non è dalla poetica, non è certamente solo dalla poetica, che potranno trovare linfa nuova gli Appennini. Quella linfa potrà arrivare solo dal cercare e dal trovare la possibilità di un’economia che sia anche il tentativo di ricostruire una demografia, un’economia che possa ridare sangue alla vita che rimane e che verrà.

 

Anche quando poi saremo stanchi 

Troveremo il modo per 

Navigare nel buio... canta in Poetica Cesare Cremonini. 

Sì, l’umanità scarna e stanca degli Appennini ha bisogno di un orientamento e di una qualche luce prima che sia troppo tardi, prima che tutto diventi un gigantesco inutile parco. 

Chi avesse idee per rischiarare quel buio ne parli, le racconti, le gridi, ne scriva anche qui su queste pagine...

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E se? (Arrivasse la fine del mondo.)

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La mostra fotografica Anthropoceneè una iniziativa organizzata dall’Art Gallery of Ontario (AGO) e dal Canadian Photography Institute (CPI) della National Gallery of Canada (NGC) in collaborazione con il MAST, manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia di Bologna. I co-curatori della mostra sono Sophie Kackett, Andrea Kunard e Urs Stahel. Film di Jennifer Baichwal, fotografie di Edward Burtynsky e di Nicholas de Pencier. Fondazione MAST [Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia] di Bologna, fino al 22 settembre. 

 

Edward Burtynsky, Coal Mine #1, North Rhine, Westphalia, Germany 2015.


Il progetto fotografico Anthropocene nasce nel 2014 da una domanda della regista Jennifer Baichwal al fotografo Edward Burtynsky durante le riprese sul delta del fiume Colorado a Washington DC per la realizzazione del film Watermark. Baichwall era rimasta colpita dalle condizioni del delta del fiume le cui ramificazioni dei suoi affluenti affioravano dal suolo alla ricerca di un delta che non esisteva più a causa di un accordo che prevedeva la deviazione del fiume per irrigare i grandi raccolti distribuiti tra il Colorado e la California. La scena che si presentava agli occhi di Baichwal, Burtynsky e de Pencier era l’ennesimo esempio di impatto negativo del lavoro dell’uomo sull’ambiente. La domanda su cui gli autori innestarono la loro elaborazione metodologica e progettuale nel dare avvio al progetto Anthropocene che documentasse, nel mondo, gli impatti negativi, è stata: “ E se?”. Già: ese si fosse fatto diversamente, o se non fosse stato fatto per nulla? Sarebbe stato possibile fermare il progresso? O più semplicemente è possibile rinunciare a parte di esso? Ma quanto è costato il progresso in termini di sfruttamento delle risorse naturali ? E quanto ancora dobbiamo togliere alla natura per dare al genere umano? Gli autori si sono basati, rigorosamente, sulle ricerche scientifiche condotte da Anthropocene Working Group (AWG) nel 2009. Anthropocene nasce all'interno della comunità di Earth System Science (ESS), un gruppo di scienziati e geologi che studia la storia della terra attraverso la stratigrafia e i fossili e come questi, una volta sfruttati, vengono dispersi nell’atmosfera.

 

Edward Burtynsky, Phosphor Tailings Pond #4, Near Lakeland, Florida, USA 2012.


Anthropocene è infatti un termine della geologia che ha rapporti con la stratigrafia. L’affascinante teoria è stata propugnata dal Premio Nobel per la chimica Paul J. Crutzen. Gli scienziati appartenenti all’Anthropocene Working Group hanno messo a punto un metodo di analisi che si basa, appunto, sulla stratigrafia come potenziale aggiunta formale alle scale temporali geologiche, esso, inoltre si basa sul confronto con altre metodologie scientifiche per lo studio della Terra. In pratica gli scienziati, attraverso le diverse e numerose stratigrafie della Terra che l’uomo modifica profondamente estraendo materie prime come litio, carbone, petrolio, gas naturali ecc. studiano l’accelerazione della fine di un’era, che questi fanno risalire dalla metà del XVIII secolo con l’inizio della Rivoluzione industriale. Rivoluzione che ha avuto una forte accelerazione a causa dei fabbisogni energetici dell’America del Nord e dell’Europa dall’immediato dopoguerra ad oggi. L’impatto è assolutamente negativo e influisce, ad esempio, sullo strato dell’ozono, sulla natura in generale, sul clima, sul futuro delle specie: sostanzialmente sulla vita dell’intero pianeta. La comunità internazionale degli scienziati, in particolare dei geologi, è stata piuttosto critica sull’impostazione di Anthropocene, con la motivazione che non vi sarebbero dati sufficientemente significativi per determinare il futuro della Terra. La teoria Anthropocene appare, ai loro occhi, più una dichiarazione che scientifica e nulla racconterebbe della storia della Terra e del suo futuro.

 

E see se gli scienziati di Anthropocene avessero ragione? E se… la grande accelerazione e dissennata estrazione dei minerali e dei fossili che ha modificato significativamente la morfologia della superficie della Terra decretasse effettivamente uno dei grandi declini del Pianeta, se non il declino definitivo? Stefano Mancuso (La nazione delle piante, 2019) illustra con chiarezza come la natura predatoria dell’uomo condizioni negativamente anche il destino delle altre specie animali e vegetali, senza curarsi del futuro, ma solo della propria sopravvivenza. Mancuso spiega inoltre che la storia della Terra ha subito cinque estinzioni di massa, comprese un numero non definito di estinzioni minori, al termine delle quali il sistema vivente ha determinato una nuova rinascita del pianeta morfologicamente assai differente da quella precedente; in alcune ere, ad esempio, non è stata assolutamente pensabile la vita dell’uomo per le caratteristiche assai nocive dell’atmosfera. L’immagazzinamento del carbonio presente nell’aria in alta quantità per opera delle piante ha prodotto due effetti: l’atmosfera così come la conosciamo oggi e la formazione di immensi giacimenti di petrolio.

 

Nicholas de Pencier and Jennifer Baichwal with drone pilot Mike Reid on location at a clearcut north of Port Renfrew, Vancouver Island, British Columbia.


David George Haskell, biologo e naturalista (The forest unseen, 2012, The Songs of Trees, 2017) illustra come la differenza delle specie abbia avuto la capacità di sopravvivere alle numerosi catastrofi, anche quelle arrecate dall’uomo. Haskell ricorda che i grandi mutamenti causati dall’uomo sono avvenuti con la pratica dell’agricoltura che ha comportato grandi deforestazioni e regimentazione delle acque. Il rammarico di Emanuele Coccia (La Vie des plantes. Une métaphysique du mélange, 2016) invece, è la perdita, da parte dell’uomo, della capacità di capire e dialogare con la Natura, di apprezzarne la bellezza, così come faceva l’uomo primitivo e come fanno ancora oggi le poche tribù sopravvissute dell’Amazzonia. Questo dialogo con la Natura ci garantirebbe di vivere con equilibrio oltre che assicurarci il futuro sulla Terra. Anche questi studiosi denunciano con forza il cruento intervento dell’uomo per accaparrarsi risorse per il benessere e per il progresso definendolo “un evento di grande portata come l’inizio di una nuova era di trasformazione” e probabilmente di estinzione. La raccolta dei dati relativi al cambiamento atmosferico, del clima, della qualità dei mari e degli oceani, dell’impoverimento del suolo documentano un trend negativo, di cui non è per niente facile percepire le conseguenze a breve o a lungo termine, benché gli studi da decenni siano numerosi e quelli tacciati di catastrofismo si siano rivelati, in seguito, molto vicini al vero. 

 

Edward Burtynsky, Dandora Landfill #3, Plastics Recycling, Nairobi, Kenya 2016.


La ricerca fotografica Anthropocene di Jennifer Baichwal, di Edward Burtynsky e di Nicholas de Pencier è un progetto che desidera censire le macro situazioni denunciate dagli scienziati. Dalle immagini, dai filmati presenti in mostra si possono trarre alcune conclusioni che sicuramente saranno più esplicite e suggestive nel convincere chi ha potere decisionale, rispetto alle statistiche e alle relazioni tecniche redatte dagli scienziati. Gli artisti utilizzano il linguaggio fotografico di documentazione, dando una efficace forma estetica alle forme geologiche naturali, soprattutto a quelle modificate dall’uomo. Edward Burtynsky a partire dal 1985 ha focalizzato la sua attenzione sui paesaggi antropici, in particolare sui siti industriali, fino a documentarne i sistemi di produzione e consumo. Baichwal e de Pensier lavorano invece a stretto contatto con luoghi e paesaggi deturpati e modificati, cercando di capire come queste menomazioni possano plasmare culture e persone. Il paesaggio, così come la Natura, ovviamente, non sono separati dalla vita delle specie. Attraverso fotografie, film, installazioni a realtà aumentata, gli autori svelano non solamente le dimensioni e le caratteristiche dei luoghi più colpiti dall’intervento dell’uomo, ma ne fanno percepire l’entità del problema, l’ineluttabile destino. L’utilizzo, inoltre di fotografie a forte ingrandimento, di installazioni filmiche, di immagini prese dall’altro come dal satellite o dai droni sono presentate come una opportunità di approfondimento non solamente della forma, ma anche dell’entità reale. La veduta dall’alto è stato uno dei principali metodi utilizzati per rappresentare i cambiamenti territoriali o semplicemente un mezzo per controllare il territorio: pensiamo all’utilizzo militare già dalla Prima Guerra Mondiale. Fotografie davvero inusuali per la percezione dell’epoca.

 

Edward Burtynsky, Carrara Marble Quarries, Cava di Canalgrande #2, Carrara, Italy 2016.


 Margaret Bourke-White scattò nel 1936 le immagini della gigantesca diga di Fort Peck in Montana, immagini che erano di semplice documentazione, ma grazie al loro fascino finirono sulla copertina di Life lo stesso anno e ora sono conservate nei musei d’arte americani. Lo stesso Lewis Mumford scrisse nel 1952 che le fotografie aeree hanno la capacità di contenere un numero inestimabile di informazioni sul rapporto uomo e natura e per questo offrono soluzioni per migliorare quello che l’uomo distrugge sul territorio. Inoltre per il loro impatto emotivo e comunicativo, sostiene ancora Mumford, esse posseggono una capacità di suscitare “abbastanza amore e sentimenti affini verso la Terra […] per riuscire a rendere ogni angolo di questo pianeta una casa permanente”. L’utilizzo della realtà virtuale e di quella aumentata, inoltre, hanno la capacità di trasmettere prossimità per provocare un coinvolgimento emotivo, far scaturire sensazioni da un’esperienza seppur visuale. E se… quello che ci offre Anthropocene, fino al 22 settembre, fosse davvero una storia senza speranza, cosa potrebbe fare l’uomo comune?

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Le città? Prendiamole a picconate

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La nuova generazione di paesaggisti ha una soluzione estrema ed efficace per risolvere alcuni dei problemi delle città contemporanee: prenderle a picconate. Sono quelli cresciuti nell’influenza del pensiero di Gilles Clément e della sua idea di Terzo Paesaggio, che ha spostato drasticamente l’attenzione dai giardini per signora bene alla potenza della natura vegetale che s’insinua fra gli interstizi delle città, cresce fra le fessure delle materie desolatamente inerti di cui sono costituiti edifici, strade e ogni cosa che l’uomo appoggia alla terra, soffocandola. Ed è proprio questo il problema, quello che i tecnici chiamano sigillazione del suolo. Perché è un problema? Giusto per citare quello che è più evidente, è per la sigillazione del suolo che quando piove giusto un po’ più del normale, le strade si allagano con relativi danni a cose e persone. 

 

Wagon Landscaping. Flashcode garden, Kortrijk, Belgio.


È solo un altro dei regali di un’idea di città nata nel Novecento, dove inizia a essere concepita come il contenitore della forza lavoro delle fabbriche. La sostanziale continuità mantenuta nel tempo sia dalla casa che dalla città si è dissolta di fronte alle necessità dell’industria, è il primo vero cambiamento dalla loro comparsa. Nel Novecento le città abdicano e si trasformano nel luogo deputato alla gestione del fenomeno di geografia urbana risultato dalle forti immigrazioni per esigenze di manodopera e dal conseguente incremento accelerato della popolazione.

 

Wagon Landscaping. Jardin Joeux, Aubervilliers, Parigi, Francia.


Da qui si genera il modello della città industriale dominante fino ad oggi. La progettazione della nuova città è concepita come servizio alle esigenze dell’industria, il fine è costruire grandi espansioni urbane in poco tempo, la presenza di grandi masse fa nascere la questione dell’abitazione operaia. In Inghilterra si usano termini come town planning city, town design, urban design, civic art, mentre i francesi usano art urbain, i tedeschi städtbau, costruzione della città. Ildefonso Cerdà, urbanista e ingegnere spagnolo, usa urbanizaciòn per definire il fenomeno dell’accelerata immigrazione urbana. In Italia dal 1908 per definire il medesimo fenomeno si usa il termine urbanesimo. To urbanize inglese invece è l’atto di rendere urbano un luogo. In Francia dal 1910 si usa urbanisme

 

Atelier Coloco, Scuola del Terzo Paesaggio. Asfalto mon amour. Lecce, Italia, 2016. Foto Danilo Capasso.


Il termine urbanistica entra nel vocabolario italiano di diritto solo nel 1929, quando viene fondato l’Istituto Italiano di Urbanistica. La terminologia deriva dalle esigenze conoscitive e operative della nuova città industriale e non solo non tiene conto del senso della città fin dalla sua nascita, ma impone una visione della città totalmente sradicata dal territorio che la contiene. Il senso precedente era di un rapporto di interdipendenza città/campagna, quello moderno è totalmente urbanocentrico e la dicotomia è irreversibile. Nel mondo latino urbs/urbis definisce la città in contrapposizione ad arx/arcis, cittadella e a rus/ruris, campagna. Urbs, come l’inglese town, contiene il significato di recinto, mura. L’abitare indigeno e quello tradizionale sono studiati con invidia, ci si affanna a costruire newtowns e cités nouvelles col solo risultato di verificare che standard e servizi sociali non sono sufficienti per far nascere una vera città. L’effetto città, rigorosamente cercato e progettato, non si realizza, non nasce, solo la griglia è evidente. La gente non riesce a riconoscersi in uno spazio progettato da un tecnico, e quando dà segni di ribellione, vengono visti come risultati dell’ignoranza e dell’ingratitudine. 

 

Atelier Coloco, Scuola del Terzo Paesaggio. Asfalto mon amour. Lecce, Italia, 2016. Foto Danilo Capasso.


L’idea di città moderna nasce quindi in tutta Europa per risolvere i problemi generati dal sistema industriale e si mette al suo servizio. Il problema principe sono le smisurate masse di aspiranti operai che lì si riversano dalle campagne. Che fare? diceva uno che di operai se ne intendeva, gli urbanisti moderni la risposta ce l’hanno pronta: una bella colata di cemento e asfalto, e costruiamo a più non posso. Che ci fosse bisogno di respirare, all’inizio del Novecento non era ancora visto come un problema, dopo qualche decennio qualcuno se ne accorge e quando il secolo finisce la situazione è diventata talmente imbarazzante che non si può più far finta di nulla. Che fare?

 

Atelier Coloco, Scuola del Terzo Paesaggio. Asfalto mon amour. Lecce, Italia, 2016. Foto Danilo Capasso.

Nel frattempo tra le varie figure che si occupano di quello che ormai è diventato un grosso problema, cresce d’importanza quella del paesaggista, la cui disciplina ha una storia travagliata e, almeno in Italia, non ancora completamente e ufficialmente riconosciuta. Non è questo il luogo in cui entrare nei tecnicismi disciplinari, valga solo dire che negli ultimi decenni la cultura che orbita intorno alla parola paesaggioè diventata sempre più complessa e foriera di soluzioni innovative. Tra queste, c’è una via francese particolarmente fertile di proposte interessanti. Nel suo testo Poetica della zappa. L’arte collettiva di coltivare giardini, edito recentemente da Derive e Approdi, Pablo Georgieff riporta alcune esperienze concrete di azioni mirate a ridare letteralmente vita alle città. Georgieff è un argentino di origine veneta formatosi in Francia insieme a Gilles Clément, che ha firmato la prefazione del libro, e fa parte dell’atelier Coloco, un gruppo di paesaggisti, architetti, artisti, botanici che lavorano insieme con sede a Parigi.

 

Atelier Coloco. Diventare giardino, per Manifesta 12, Quartiere Zen, Palermo, 2018.


Il testo di Georgieff è il risultato di decenni di lavoro sul campo, è un testo operativo, a volte formato da trascrizioni d’interventi che l’autore ha fatto durante workshop, altre da descrizioni di lavori in tutta Europa. Mi è capitato di presentare il suo libro e avere l’occasione di incontrarlo e ho iniziato chiedendogli di spiegarmi una delle frasi che s’incontra durante la lettura: La libertà è di natura muscolare. Dall’idea di libertà, che come ogni muscolo si atrofizza se non viene utilizzata, è partita la conversazione, Pablo ci ha parlato di sprogettazione, di come ogni progetto venga affrontato in gruppo dove ognuno ha un suo apporto personale senza ci sia necessariamente un leader, di come questo modo di procedere sia a volte, parole sue, un vero casino, ma che dà sempre risultati più che validi. L’Atelier Coloco è riuscito, per esempio a coinvolgere gli abitanti dello Zen di Palermo, storicamente portato a esempio del disastro delle periferie, attraverso quello che chiama l’invito all’opera, in sostanza, siamo davanti a uno spazio da trasformare? bene, invece che chiuderci negli studi e cominciare a pensare, mettiamoci a lavorare con le mani, facciamo. 

 

Wagon Landscaping. Flashcode garden, Kortrijk, Belgio.


Spesso i paesaggisti contemporanei si trovano ad affrontare spazi completamente sigillati da asfalto e cemento da trasformare in giardini. È qui che interviene il paesaggista giardiniere picconatore. L’asfalto in sé non è un elemento negativo, è anzi un materiale naturale derivato dal bitume che da millenni viene utilizzato per esempio per l’impermeabilizzazione delle imbarcazioni. Dagli anni Cinquanta però, per ragioni economiche, in alcune miscele è stato aggiunto amianto. Il paesaggista picconatore allora si trova davanti a un problema. Non basta picconare l’asfalto per toglierlo e arrivare alla terra, va analizzato per sapere se si tratta di un rifiuto pericoloso da trattare in maniera speciale. L’operazione da semplice diventa complessa. Ma con le dovute precauzioni si sono ricavati giardini da parcheggi picconando l’asfalto, così ha fatto l’Atelier Coloco e altri studi come Wagon Landscaping, un altro studio di paesaggisti francesi, anche loro allievi di Gilles Clément. Si può dire che sta crescendo una generazione di nuovi paesaggisti che hanno un atteggiamento nei confronti del progetto che si potrebbe definire sociale, di coinvolgimento di chi poi usufruirà concretamente degli spazi su cui si interviene, coinvolgimento che va dall’ideazione alla realizzazione concreta. La cultura del paesaggio sta cambiando, troviamo paesaggisti che continuano a fare i giardini dei ricchi, quelli che attaccano la città col piccone, fino a movimenti come quello di Fuck For Forest, un collettivo norvegese fondato nel 2004 che attraverso filmati porno amatoriali raccoglie fondi per salvare le foreste. 

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Europa violata e diabolico mar Mediterraneo

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“Sono stato più volte coinvolto in azioni illecite” scrive il chierico Opicino de Canistris nella sua tormentata autobiografia, illustrata da una serie di tavole ispirate alle mappe dei cartografi genovesi. Ruotandole per orientarle rispetto ai punti cardinali, ciò che prima appariva come sfondo muta sorprendentemente in figura e viceversa. Si tratta del noto fenomeno percettivo studiato da Edgard Rubin.

 

Figura 14 tratta da Edgar Rubin, Synsoplevede Figurer. Studier i psykologisk Analyse, Gyldendalske Boghandel Nordisk Forlag, Copenhagen 1915.


Alla sconcertante autobiografia di Opicino e alla tavole che la corredano, lo storico medievista Sylvain Piron ha dedicato un saggio (Dialettica del mostro. Indagine su Opicino de Canistris, Adelphi, Milano 2019) nel quale descrive il fenomeno d’inversione figura/sfondo come “percezione simultanea del negativo e del positivo” (p. 16). In realtà determinate aree di un campo visivo hanno forma solo per un dato tempo: non si possono vedere simultaneamente ma solo alternativamente. Non è un distinguo irrilevante perché l’alternanza al cambio di funzione di una linea di contorno è ciò che dirige l’attenzione. Lo spiega David Katz in La psicologia della forma (Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 70) fornendo l’esempio delle carte nautiche nelle quali la linea di contorno presenta alla mente una superficie terrestre o marina (l’una o l’altra, alternativamente e non simultaneamente). 

 

Opicino de Canistris, carta Vaticanus latinus (6435,f.53v.). Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano.


Nel caso della carta Vaticanus latinus (6435,f.53v.) disegnata da Opicino la superficie terrestre è personificata da un monaco (la costa maghrebina del nord Africa) e da una donna nuda (l’Europa che calza degli stivali di cuoio in corrispondenza del sud Italia e della Dalmazia). La donna porta nel ventre insanguinato il feto di una piccola Europa in procinto di nascere dal taglio dell’utero materno. A nord-ovest la superficie marina è rappresentata da un animale che aggredisce la donna a fauci aperte, dalle quali sporgono le gambe di un personaggio che la bestia non ha ancora ingoiato del tutto. A Oriens l’Adriatico assume la forma di un braccio che risale verso la laguna veneta, terminando con un pugno che vìola Europa nelle sue parti intime. Qui, per la prima volta, l’Italia è rappresentata da uno stivale di cuoio. È un’immagine sconcertante che forse ci racconta anche delle paure che attanagliano lo Stivale, così come l’Europa di oggi nata da un parto altrettanto difficile.

 

Opicino de Canistris, carta Vaticanus latinus (6435,f.53v.), particolare di Europa in procinto di nascere per parto cesareo. Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano.


I diagrammi di Opicino ci sorprendono per il dramma psichico rappresentato attraverso un incredibile intreccio di scrittura autobiografica e disegno, che alcuni studiosi di orientamento warburghiano hanno interpretato come sintomo dei mutamenti spirituali del quattordicesimo secolo (pp. 34-52). Opicino aderisce alla sua epoca adottando una delle innovazioni visive del primo Trecento: l’attribuzione di fisionomie individuali a figure con valore simbolico. Vi aderisce con una phantasiaobliqua

Nel dialogo Disputatio clerici et Raymundi phantastici, scritto nel 1311 da Ramon Llull (Raimondo Lullo), un chierico e un laico discutono sui grandi temi della cultura del medioevo europeo e sul ruolo svolto dalla phantasia, che l’autore distingue in naturale e morale. Quella morale a sua volta si suddivide in “retta ed assennata (discreta)” e “deviante (obliqua) e dissennata (indiscreta)” (Phantasticus. Disputa del chierico Pietro con l’insensato Raimondo, Il Cerchio, Rimini 1997, p. 33). C’è da chiedersi se la phantasia obliqua e indiscreta“per la quale l’intelletto condiziona il suo intendimento attraverso disposizioni manchevoli” non abbia un rapporto con quella che tormenta chierici e monaci negli stessi anni in cui Lullo scrive il suo dialogo. Mentre per Elio Aristide e Quintiliano la stanza era il luogo dove ritirarsi per non lasciarsi distrarre dalla phantasia, per il monaco la cella sarà il luogo dove intrattenersi con le insidiose fantasie che lo distraggono e che dovrà respingere (Maria Tasinato, Tempo svagato. Marco Aurelio: il savio, il distratto, il solitario, Mimesis, Milano 1990, pp. 73-74). Nel suo saggio, Tasinato sviluppa una sottile analisi delle trasformazioni che il pneuma psichico o psykhḗ subisce nel corso del medio stoicismo, accennando alle conseguenze che questa trasformazione avrà nella concezione tardo antica e medievale della phantasia tentatrice e diabolica, che strattona e distrae il monaco. Le carte di Opicino sembrano tradire la tensione fra la sua coscienza sottoposta a esame e l’insorgere di fantasie oblique da respingere perché scandalose se non blasfeme. 

 

Opicino de Canistris, carta Vaticanus latinus (6435,f.61r.), Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano. 

 

Su queste carte il pensiero si muove anche per associazioni fonetiche. Per esempio l’identificazione di Venezia con la castrazione dei genitali deriva dal gioco di parole sull’espressione castra Venetorum (p. 150) usata per indicare la città lagunare. Quello di Opicino è decisamente un pensiero di tipo associativo che utilizza tutti i dispositivi visivi e linguistici atti per raggiungere una profondità, che alcuni hanno interpretato in chiave psichiatrica o psicanalitica, altri in chiave culturale. Lo scopo di Sylvain Piron è infatti “comprendere Opicino come sintomo di una situazione storica particolare” (p. 47). Riferendosi alla “psicologia storica dell’espressione”, alla quale Aby Warburg dedicò i suoi studi, l’autore sostiene che il dramma psichico di Opicino è quello che lo storico dell’arte designava come “dialettica del mostro”: il dramma di una cultura tormentata da antinomie, che trovano nelle carte dello scriba alla corte pontificia di Avignone una sua coerente espressione. Sono le stesse antinomie, la stesse contraddizioni che emergono dalla disputa tra il chierico e il laico Lullo.

Se certe espressioni figurative, che Warburg chiama Pathosformeln formuledi pathos, (Dürere l’antichità italiana in La rinascita del paganesimo antico, La Nuova Italia, Firenze 1980), mantengono la loro forza patetica e la trasmettono di epoca in epoca, l’immagine di Europa minacciata da un diabolico mare Mediterraneo nelle carte Vaticanus latinus (6435,f.53v. e 6435,f.61r.) diventa anche nostra mutando di significato: non esprime più la contraddizione fra due opposte concezioni della vita cristiana al tempo della cattività avignonese, ma la crisi dell’identità europea nel contesto delle mutazioni geopolitiche in atto. Il gesto del pugno che vìola Europa risalendo dai mari, che ritroviamo in alcune metafore dell’immigrazione clandestina, non è patetico tanto quanto altri gesti studiati da Warburg? Non è altrettanto carico di energia nervosa? 

 

Aby Warburg, Mnemosyne, Tavola 39. Espressione emblematica delle formule di pathos è il motivo della ninfa, della figura femminile in movimento, nella quale la componente psicologica prevale su quella formale, caratterizzando il conflitto spirituale del Rinascimento, alla ricerca di un equilibrio tra carica orgiastica antica e fede cristiana.

 

Aula scolastica nel palazzo Archinto in Milano. La fotografia del 1908 dimostra che l’uso di accostare su pannelli riproduzioni di opere d’arte appartenenti ad epoche diverse era in uso nella didattica dell’arte. Warburg lo adotta per mettere a punto il suo metodo storico-artistico. Mnemosyne, l’atlante figurativo composto da una serie di tavole che Warburg presenta per la prima volta alla Biblioteca Hertziana di Roma il 19 gennaio 1929, nasce da una pratica in uso nella didattica dell’arte che consente allo studioso di “vedere” il rapporto anacronistico dell’opera d’arte visiva con la storia. Warburg lo “vede” non solo attraverso l’utilizzo della fotografia e delle tecniche del collage e del montaggio cinematografico, come sostenuto da alcuni studiosi.


Mi vien da pensare che la carica patetica, energetica e nervosa delle Pathosformeln si sia innestata nell'attività spasmodica della psiche stimolata dalle distrazioni che caratterizzano la vita metropolitana descritta da Georg Simmel e da Walter Benjamin, nell’“inquietudine insanabile della vita mentale” che caratterizza l’età moderna, di cui scrive anche Roberto Calasso in La Folie Baudelaire (Adelphi, Milano 2008), in una sensibilità che si fa strada nel moderno attraverso le forme espressive  che hanno favorito lo sviluppo di un’attenzione involontaria e irriflessiva. Come osserva Barbara Grespi in Cinema e montaggio (Carocci, Roma 2010), la scossa psico-fisiologica prodotta dalle immagini nel montaggio delle attrazioni concepito da Ejzenštejn, sulla base della definizione dell’emozione come movimento (sulla scia di Diderot), e dell’idea del movimento come riflesso nervoso, secondo le tesi di Alexander Lurija, è provocata da tecniche di attrazione che stimolano una risposta nervosa, spastica e irriflessiva. Irriflessive sono anche le risposte alle attuali mutazioni geopolitiche rappresentate come un’aggressione al continente europeo, nei disegni di Opicino raffigurato da una donna che subisce violenza. Le Pathosformeln nascono come tentativo da parte dell’uomo antico di giustificare e controllare eventi incomprensibili che suscitano timori irrazionali ma che, innestandosi nell’“inquietudine insanabile della vita mentale”, forse perdono il controllo delle paure che tramandano da un’epoca all’altra scatenando analoghe reazioni nervose. Queste immagini ci tirano per i nervi come i fili strattonano la marionetta interpretata da Ninetto Davoli nel film Che cosa sono le nuvole? diretto da Pier Paolo Pasolini. “Cancella la phantasia. Arresta quell’agitazione da marionetta (neyrospastía)” ordina Marco Aurelio a se stesso (Pensieri, VII, 29). 

 

Neyrospastía.

La nostra cultura ha subito un crollo nervoso come quello dal quale Warburg, ai tempi del suo ricovero nella clinica di Kreuzlingen, dichiarava di non essersi “più ripreso” (da un frammento autobiografico del 22 novembre 1922. Ludwig Binswanger, Aby Warburg, La guarigione infinita. Storia clinica di Aby Warburg, Neri Pozza, Vicenza 2005, p. 159)? Una lettura neurospastica delle sconcertanti carte disegnate e scritte da Opicino, aiutata dagli studi di Simmel e Benjamin, potrebbe arricchire l’interpretazione warburghiana adottata da Piron nel suo saggio? Innestandosi nell’“inquietudine insanabile della vita mentale”, le immagini che trasmettono emozioni e fobie, migrando da un’epoca all’altra, potrebbero aver perso il controllo sulla loro carica nervosa scatenando una neyrospastía?

La radice spáō contenuta nel termine neyrospastía indica che questo tirare è anche un aspirare, una funzione del pneuma psichico o psykhḗ: il soffio che proviene dal di dentro, inteso dagli stoici come anima umana che respira, sente, pensa, articola il linguaggio, si muove, presiede alla riproduzione e immagina. Il medio stoicismo sottrasse al pneuma psichico alcune funzioni introducendo un dualismo fra la sua parte superiore e quella inferiore (Tasinato, pp. 44-45). Da quest’ultima porzione inferiore dell’anima, degradata dal medio stoicismo, sorgono le deprecabili phantasíai alle quali Marco Aurelio oppone un’anacoresi interiore, le stesse che distraggono il monaco nella sua cella e tormentano la coscienza di Opicino alla corte pontificia di Avignone. Sono phantasíai cattive, oblique e diaboliche che Lullo separa da quelle buone, rette e ispirate. Le phantasíai distraggono, ma non necessariamente in modo obliquo e colpevole, come nella carta Vaticanus latinus (6435,f.61v.), dove l’inversione figura/sfondo si combina alla legge (gestaltica) della curva buona o del destino comune per dar luogo a una formidabile quanto sconcertante composizione. 

 

Opicino de Canistris, carta Vaticanus latinus (6435,f.61v.). Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano. La particolarità di questa immagine è la sua complessità, ottenuta combinando sapientemente l’inversione figura/sfondo alla cosiddetta legge gestaltica della curva buona o del destino comune.


Vengo distratto dal contrasto cromatico delle due coperte sul letto, ancora disfatto, sovrapposte l’una all’altra. L’immagine mi strattona, mi dis-trae immettendo nel pensiero in svolgimento qualcosa di vivo, che prima gli mancava e ora lo completa: qualcosa che lo anima e lo mette in moto portandolo al centro della questione che qui è stata posta. Ciò che dà respiro al pensiero è una linea che, combinandosi al meccanismo percettivo proprio di un’altra legge gestaltica (quella della eguaglianza), mi spinge da una parte e poi dall’altra come nei disegni di Opicino, ma senza obliquità. Il pensiero ha bisogno di essere animato, ha bisogno di essere sorretto da un’attività pneumatica ma, come suggerisce Lullo nel suo dialogo, è necessario distinguere fra la phantasia“retta ed assennata (discreta)” che ispira la ragione e quella “deviante (obliqua)” che ha trascinato Opicino in un delirio grafico e testuale, in una neyrospastía che forse è anche la nostra. 

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Teatro delle dieci

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“Il teatro mi mette allegria”, così s’intitola un’intervista rilasciata da Primo Levi a Lionel Lingua e Guido Quarzo nel 1986 in occasione della messa in scena della Chiave a stella nella riduzione di Flavio Ambrosini. Non è quindi strano vedere un Levi sorridente. Con lui c’è infatti la compagnia del “Teatro delle dieci” che ha messo in scena tre suoi racconti. Levi è in alto, e sembra dire: Sono qui, cari attori. Lo indica Elena Magoia: Ecce homo. Gli altri, da sinistra, sono: Franco Vaccaro, Wilma Deusebio, Mariella Furgiuele, Gigi Angelillo. Il teatro si chiama così perché recita a quell’ora della sera, diretto da Massimo Scaglione. Siamo vent’anni prima di quella intervista, nel 1966, che poi è l’anno di pubblicazione di Storie naturali. Gli attori hanno portato in scena: Il sesto giorno, La bella addormentata nel frigo e Il versificatore. Levi aveva scritto i tre racconti per una commissione radiofonica, e poi inseriti nel libro. La foto l’ha scattata il marito di Elena Magoia, Aldo Zargani, allora impiegato alla Rai, dove era entrato come dattilografo nell’immediato dopoguerra. Zargani è un ebreo torinese, amico di Levi, scampato alla deportazione grazie al padre musicista. Le peripezie della sua famiglia le ha raccontate dopo il pensionamento in un bel libro, Per violino solo (il Mulino): storie umoristiche e comiche.

 

Elena reciterà anche per Fellini. A Levi il teatro è sempre piaciuto. La ragione la spiega nell’intervista del 1986: “Sono un kibitzer, come dicono in America con un termine yiddisch entrato nell’uso corrente: uno che si diverte a osservare i giocatori durante le partite di carte”. È un grande osservatore di dettagli e anche di caratteri umani. Il teatro è presente già nel suo secondo libro, La tregua. Un capitolo s’intitola così: Teatro. Vi si racconta la rivista messa in piedi nel campo profughi della Casa Rossa dagli internati italiani. Sono sketch, e riguardano vari generi di spettacolo, come ha notato Luca Scarlini: canto corale, teatro leggero italiano (I pompieri di Viggiù), improvvisazione comica, e persino un piccolo musical (Il naufragio degli abulici). Il più interessante è probabilmente Il cappello a tre punte, basato su una filastrocca senza senso, che nella sua ossessiva ripetizione diventa “una liturgia del nulla”. Scarlini vi ha letto una atmosfera beckettiana presente in Aspettando Godot, testo teatrale pubblicato in Italia nel 1958, anno della ristampa di Se questo è un uomo, proprio da Einaudi per la traduzione di Carlo Fruttero, ma già rappresentato nel nostro paese nel 1954. Insomma, nell’intera opera di Levi c’è molto teatro, oltre ai testi messi in scena dagli attori del Teatro delle dieci, e alla riduzione, o “versione drammatica”, del suo primo libro fatta con Pieralberto Marché in quel 1966; opera complessa e assai poco conosciuta e persino poco studiata, per quanto la traduzione scenica costituisca un altro importante tassello della sua opera sul Lager. 

 

Marché poi interpreta anche lui un ruolo nel Teatro delle dieci. Per cinquanta sere la riduzione teatrale del suo primo libro fu replicata a Torino nel 1966 e fece anche un breve tour. Non fu però uno spettacolo fortunato, perché a causa dell’alluvione di Firenze la prima, prevista a Prato, non si tenne. Anche l’accoglienza critica non fu entusiastica. Questo però non tolse a Levi il piacere del teatro, come comunica questa foto a suo modo così teatrale: l’autore sembra chiamato sulla scena e presentato agli spettatori. Lo sguardo degli attori comunica stima e ammirazione, e anche plauso, cosa che invece Levi ebbe a piccole dosi e spesso in ritardo. 

 

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Forma di donna: storia di un libro e di un corpo

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Alla Galleria dell’Incisione a Brescia si possono vedere circa venti delle fotografie che compongono “Forma di donna”, il libro che Carla Cerati pubblica nel 1978. Il tronco dai seni candidi e prosperosi, le cosce lunghe e rigonfie, la schiena arcuata, il busto rovesciato all’indietro con le braccia tese dietro la testa, la curva del ventre leggermente tondeggiante, un ciuffo di peli pubici sono le forme di un corpo a cui la Cerati decide di dedicare un libro. Dieci anni prima, la fotografa aveva realizzato con Gianni Berengo Gardin un libro destinato ad avere un enorme impatto tanto nella società, quanto nella storia della fotografia: “Morire di classe”, un’inchiesta sui manicomi in Italia e nel 1974, con “Mondo Cocktail”, smaschera il vuoto in cui sono immerse le élites milanesi, divise fra eventi mondani e stravaganze.

Eppure non è stato facile giungere alla composizione di “Forma di donna”. Se per i reportages commissionati dai giornali il mondo entra facilmente nel suo obiettivo, per questo libro il processo creativo è più sofferto. “Non amo spiegare, e forse non ne sono neppure capace, i motivi che mi spingono a un lavoro creativo, il suo nascere dentro di me come idea, il maturarsi e crescere fino a cessare di essere semplice progetto; i tentativi di trasformarlo in risultato tangibile, i successivi passaggi fino a quel qualcosa che mi fa dire “ecco, questo è ciò che più si avvicina alla percezione iniziale” ”, racconta la fotografa, fra le pagine del libro. 

 

 

La prima volta ci prova nel 1960: un’amica accetta di farsi fotografare, ma le immagini le paiono piatte, timide, prive di un’idea precisa. “Tutto ciò che avevo visto in quel corpo era svanito, sommerso dalla mia incapacità ad andare oltre, a cercare, a trasfigurare, a inventare”. Ci prova di nuovo. L’occasione si presenta nel 1972, quando un amico pittore, Anselmo Francesconi, le chiede di realizzare delle foto di nudo che avrebbe poi ritagliato e inserito in quadri-collage. Insieme cercano degli esempi a cui ispirarsi.

Come è possibile trovare la forma perfetta di un corpo? Cosa significa davvero coglierne la forma? La risposta giunge all’improvviso: i nudi di Bill Brandt, quei corpi dalle membra smisuratamente lunghe, le cui rotondità assumono una loro autonomia organica, così vicini alle sculture di Hans Arp e Henry Moore, sono un buon punto di partenza. Per pura coincidenza, scrive la Cerati fra le pagine del libro, “avevo capito da tempo che da lì volevo partire”. 

 

Anche questa volta chiede a un’amica. Il corpo dalla pelle chiarissima è perfetto. Le forme non lasciano dubbi: sembrano fatte per essere manipolate. La fotografa si sente pronta. Con sollievo capisce di essersi finalmente impadronita di un lavoro: ha imparato a usare le luci in studio, i diversi obiettivi, i flash, la scenografia. Farà interagire il corpo della modella con le poltrone componibili disegnate da Matta. Ma è davvero tutto qui? Cosa è successo nei dodici anni che la separano dal primo tentativo? 

Il mondo intorno a lei sta cambiando (la legge sul divorzio è del 1974, la riforma del diritto di famiglia del 1975, la legge sull’aborto del 1978), e l’arte ne riflette i cambiamenti. Dipinti, collages, fotografie, ricami, scritture, realizzati da moltissime artiste, finalmente raccontano di un intimo e stretto confronto con il proprio corpo e la sua forma, una scoperta nuovissima ed eccitante, che Lucia Marcucci, protagonista del Gruppo 70, riassume provocatoriamente in uno dei suoi poster: “fare tutti i tentativi possibili per ricondurre a normalità / fare i conti con la realtà / NON C’ È ALTRA SCELTA / non si può perdere tempo / IL DESTINO È NELLE VOSTRE MANI”. E le possibilità sono davvero infinite: le immagini del parto di Lisetta Carmi del 1968, quelle dell’“L’invenzione femminile” di Marcella Campagnano del 1974, le foto che Paola Agosti scatta alla Casa delle donne di Roma nel 1976, quelle di “Sara è incinta/77”, del 1977, di Paola Mattioli.

 

 

Il lavoro di Carla Cerati è immerso in questa fitta rete di corrispondenze. Nei primi anni Settanta anche lei riflette sul suo ruolo di donna, madre e fotografa. “Imboccare, agitare, frullare, solarizzare”, si legge sui pannelli di “Donna professione fotografa”, conservati presso il Centro Studi e Archivio della Comunicazione di Parma (CSAC), in cui la protagonista è un’altra fotografa, Paola Mattioli, ripresa da Carla mentre è intenta ad accudire la figlia e a sviluppare le sue foto. Lo stesso intento la spinge a elaborare il “Percorso. Racconto in dieci stazioni della vita di una donna”, realizzato nel 1977 e messo in mostra all’Expo Arte di Bari nel 1980. È, ancora, la stessa tensione che sta alla base di un altro lavoro in cui la Cerati intervista e fotografa diverse donne che danno il nome ai vari pannelli: “Cristina suonatrice di viola”, “Antonietta collaboratrice familiare”, “Pamela attrice”. Le domande che rivolge loro sono ricorrenti: “Pensi che la maternità sia il momento più importante nella realizzazione di una donna?”, “Come pensi al tuo futuro?”, “Sei femminista?”.

 

“Forma di donna” è il lavoro in cui si possono trovare le risposte. Dopo aver esplorato l’universo femminile attorno a sé, giunge il momento di parlare di sé. Le foto, al loro primo apparire nel 1974, vengono percepite da certi settori intellettuali come formalistiche e pertanto, come ricorda Massimo Mussini nel catalogo della mostra del 2007 tenutasi al CSAC, “spregiativamente definite artistismo”, o come “un presunto sfregio all’identità femminile, causato dalla raffigurazione di corpi privi di teste”, nel giudizio del femminismo militante. Sono considerazioni effimere, destinate a vacillare sotto il peso del lavoro che Carla Cerati ha dedicato alle donne.

 

 

Ciò che si può osservare fra le pagine del suo libro non è solo la perfezione di un corpo, ma il movimento di uno sguardo su un corpo e attraverso di esso. Questo effetto scaturisce dal susseguirsi delle immagini in istanti successivi. Osservando le foto esposte a Brescia, si comprende che il corpo si appropria dello spazio: il fotogramma viene attraversato in diagonale, verticale, orizzontale, Viene colto sia nella sua quasi totalità, sia attraverso i dettagli: i seni, i fianchi, il pube, le natiche, come se l’idea di un tuttotondo tridimensionale proprio della scultura venisse direttamente riversata sulla superficie delle fotografie. La luce si sostituisce alla mano dell’artista, ma ha la medesima funzione: dare forma. Non si deve dimenticare che Carla Cerati avrebbe voluto fare la scultrice e che aveva superato l’esame di ammissione presso l’Accademia di Brera. 

Per questo la perfetta fusione tra forma e contenuto, dove il contenuto è la forma stessa di ciò che appare nell’immagine, cela un moto più profondo. “Vorrei andare oltre ciò che quel corpo esprime, ignorando la sua carica erotica che pure percepisco e amo”. La fotografia mostra il processo di generazione sotteso a quello sguardo: il corpo è nudo, esposto, scoperto, poiché creare un corpo significa generarlo. Il libro contiene anche alcune immagini della figlia Elena. La ragazza ha un corpo magro, scuro, ricoperto di gocce d’acqua, come se fosse appena venuto al mondo. Per la Cerati non è stato facile fotografarlo: “avrei voluto lavorare a modo mio, con calma: ancora una volta muovere un corpo seguendo un’idea, cercando il centro di interesse dentro quella luce dura e tagliente. (…) Dovetti accontentarmi di poche immagini quasi rubate dove l’idea è in embrione”. 

 

 

In questo slittamento, dall’amica che nasce dal suo sguardo, alla figlia che nasce dal suo corpo, slitta anche il senso legato al gesto del creare. Carla Cerati non pone l’accento sull’idea di produzione, ma su quella della generazione, additando il conflitto che attanaglia tutte: essere donna o madre? Ambire alla perfezione di un corpo ideale o sottostare, generando, alla naturale imperfezione di un corpo reale? Non è un caso che il libro sia dedicato a Elena. Forse generare significa anche creare una genealogia di donne. In questo modo l’artista esorcizza quello che sosteneva Susan Sontag, ovvero che fotografare significa appropriarsi della cosa che si fotografa e stabilire con esse una relazione di potere, poiché queste immagini si generano non tanto o non solo dall’osservazione, ma dalla relazione. Tuttavia se la maternità è anche matrice dell’apparire, nel senso di nascere e divenire visibile agli altri e a se stessi, cosa evocano questi corpi? “Miravo alla perfezione come punto massimo di non-corporeità, di astrazione dal corpo-soggetto per trasformarlo in corpo-oggetto soltanto per me; per impedire che diventasse oggetto di consumo per gli altri. Analizzarlo, frammentarlo, eliminare il più possibile ogni relazione con la vita (…) privarlo del senso che fino a quel momento aveva avuto il nudo femminile”, scrive Carla Cerati alla fine del libro. 

 

 

Privare questo corpo della dimensione legata al puro consumo, significa restituire libertà al suo essere semplicemente un corpo. Il passo successivo è la libertà del movimento. I provini a contatto inseriti tra le pagine del libro esprimono esattamente non la consistenza della materia, ma la libertà con cui il corpo si muove, ricerca ed esperienza di attori sovversivi che in quegli anni animavano il Living Theatre o la Comuna Baires, oggetto di coeve e successive ricerche.

“Forme movimento colore” è uno di questi esiti. La protagonista delle immagini esposte nel 1989 è Valeria Magli, che Carla ritrae più volte negli anni Ottanta. Il corpo nudo e scattante è fotografato mentre salta, volteggia, compie passi di danza, tenendo in mano diversi lembi di stoffe, anch’essi in movimento (tre di queste immagini si possono vedere in mostra). “L’idea di queste fotografie mi è nata vedendo Valeria Magli, danzatrice e coreografa, ospite per una sera, entrare nella cabina doccia della mia casa al mare. Il corpo morbido e forte, chiaro, si stagliava sul nitore delle maioliche. Mi colpì il movimento, l’introdursi leggero, bianco su bianco”, racconta Carla Cerati. 

 

 

Lo stesso accade per le immagini della mostra “Momenti di essere”, del 2015, in cui si vede una figura femminile che cammina, corre, sosta, dinnanzi a un edificio in città. Il movimento e la forma sono insiti nella natura del soggetto, sono la sua materia, la libertà di “essere”. Forse è utopico. Essere liberi da chi ti genera come dalla tradizione è impossibile? La madre-donna-fotografa che genera e lascia libero di esistere ciò che rappresenta, consente un distacco dal proprio archetipo? 

Difficile rispondere. Tuttavia essere liberi non è solo un’esigenza che riguarda strettamente la vicenda biografica di Carla, divisa fra i ruoli di madre, donna e fotografa, ma è un bisogno anteriore alla sua volontà (e anche alla nostra), è il diritto di cui essa si fa portatrice, addirittura prima di ogni sua decisione di esserlo. Questo ci insegnano le sue immagini. Il corpo è solo uno dei mezzi per mostrarlo. 

 

Mostra: Carla Cerati. Forma di donna. Galleria dell’Incisione di Brescia fino al 21 luglio 2019. Immagini: credits Carla Cerati; courtesy Elena Ceratti.

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Scatole cinesi: Scabia, Garbuggino/Ventriglia, Gruppo Nanou

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D’estate lo sguardo si allarga, la prospettiva si sfrangia e si dilata. A Est e a Ovest, a Sud e a Nord i festival inventano nuovo teatro, o riepilogano quello già noto, aggiungendo sempre qualcosa, trascinando l’emozione e il pensiero da qualche parte inaspettata. Mentre il fascismo più becero riempie la cronaca politica con la questione dei migranti e pietà sembra morta, nell’orto del teatro si continua pazientemente a vangare, a seminare, a curare pianticelle fragili o più resistenti colture perché qualche nuova visione possa, lentamente, aprire le menti, far sbocciare. 

Unisco qui tre pezzi che potrebbero d’essere d’occasione, cose viste, diverse, che non c’entrano nulla l’una con l’altra. Eppure mi sembra che il lavoro che ci imponga d’estate il surplus di azioni teatrali fuori dai canoni dei palcoscenici tradizionali sia quello di cercare fili inconsueti, di far scoppiare cortocircuiti. Allora: scatole cinesi. Spettacoli che rimandano ad altri e ad altri ancora, in una catena potenzialmente infinita, composta di incroci, ritagliati da altri o più ampi contesti e ricomposti in cut-up rivelatori, per affacciarsi continuamente ad altre finestre, sul mondo, su sé stessi.

 

“La fine del mondo. Commedia per dinosauri” di Giuliano Scabia.


Scabia e i dinosauri di Nane Oca

 

Sembra un ballerino di flamenco, un saggio pacifico guerriero con la fluente chioma bianca, la camicia rossa e quei pantaloni neri attillati, sottile e scattante, 84 anni (quasi: auguri!) di fantasia, di capacità di leggere il mondo come una favola meravigliosa e seducente per svelarne la realtà segreta, la durezza, il dolore, la gioia. 

Giuliano Scabiaè poeta che ha attraversato varie stagioni: dalla neoavanguardia, dalla sperimentazione linguistica con Luigi Nono al teatro politico e dialettico influenzato da Brecht, dalla scoperta di una scena esplosa e partecipata – del viaggio con gli altri, matti, bambini, abitanti di zone lontane dai centri – alla suggestione delle favole, dei boschi, dell’azione recitata o narrata che nasce dai piedi che camminano sulla terra, la percorrono, la battono con ritmo dionisiaco. Quando sembrava aver inventato un nuovo vivo teatro politico ha scelto la poesia dei boschi e dei paesini di montagna, ha riscoperto la lirica che allarga cuore e vista, la narrazione fluente, con i cicli di Nane Oca e dell’Eterno andare di Lorenzo e Cecilia e di loro figlia Sofia. Ha riempito i suoi racconti di angeli e diavoli più o meno travestiti, continuando a coltivare un teatro segreto, fatto di incontri nelle famiglie, trasformando i suoi romanzi (editi da Einaudi) in narrazioni pubbliche ad alta voce per poche o per molte persone, accompagnate dal violoncello dal canto o da altri suoni, storie rispecchiantesi in occhi e corpi felici di ascoltatori rapiti.

Ha inaugurato Inequilibrio il festival di Armunia a Castiglioncello (Livorno) con La fine del mondo, uno spettacolo delicato, recitato dalla Fantastica Compagnia Dilettantistico Amatoriale, un gruppo di signori signore e ragazzi che non fanno abitualmente teatro trasformati in una settimana in parlanti dinosauri, con i meravigliosi costumi di Lia Morandini, realizzati da Carla Sassetti con il Laboratorio Scenografico Armunia. Scabia fa il prologo: nell’arena di castello Pasquini, racconta come La fine del mondo sia una “scatola cinese”. 

 

“La fine del mondo. Commedia per dinosauri” di Giuliano Scabia.


Prende la scena come ballerino diritto e orgoglioso e, aiutato da un disegno, spiega che quella che si vedrà è una commedia in otto atti (brevi, brevi) che si trova come intermezzo nell’ultima storia della saga di Giovanni detto Nane, Oca perché da piccolo fu spaventato da un branco di oche e perché è sempre pronto ad andare in oca, ossia fuori di testa per amore. 

L’episodio lo trovate nel romanzo Il lato oscuro di Nane Oca (sempre Einaudi), uscito in inverno, una saga da gustare leggendo una o due avventure al giorno, come un racconto di paladini o come le favole a veglia. Nane vuole provare il lato oscuro del mondo, quel Male di cui tutti parlano e che sembra affliggere l’umanità, e si ritrova “punturato” dai malvagi, che gli iniettano il virus infausto che infetta soverchiamente il mondo d’oggi. Riuscirà a trovare l’antidoto (esiste?), e a salvarsi? Lo scoprirà chi seguirà la storia scritta da Guido Puliero, l’Omero di quella terra immaginaria dei Ronchi Palù, come fa l’assemblea dei fantastici personaggi, uomini, donne, briganti, signori, innamorati, animali reali e immaginari, fate, omini selvatici eccetera eccetera, abitanti nel piccolo borgo nel Pavano antico circondato dalla Pavante foresta e dalle Foreste sorelle.

La recita filodrammatica rappresentata a Castiglioncello è una storia contenuta tra le molte altre nel romanzo. Favola dei dinosauri, di un eremita topino che annuncia l’avvicinamento e la caduta del sasso che porrà fine alla civiltà dei “Dini”, come li chiama Scabia, facendoli parlare in sghemba lingua dinica, un po’ nordica un tantino burinica, nella tremenda tragedia comica con dinosauri, destino, uccello del malaugurio, meteorite e autore, con uno sfondo di scene dipinte con vulcani in eruzione. 

Come in Nane Oca quello che conta qui è il gesto linguistico: la professione del gioco, della favola come chiave per leggere il mondo, affidando l’atto del recitare a non professionisti che ci mettono tanto divertimento. Certo, tra tirate, dialoghi, cori, brani ritmici e danze i tempi non sono sempre perfetti, la storia in certi punti rallenta per far distendere la lingua e dare agio ai tanti personaggi di caratterizzarsi. Eppure lo spettatore è contagiato, conquistato, e il teatro rifulge come qualcosa di praticabile. Ma anche come una domanda su quel personaggio, il destino del meteorite che incombe “attratto” dalla terra, e sull’illusione – dei dinosauri – di essere grandi, alti, potenti come grattacieli, insomma di sentirsi invincibili e di essere invece esposti alla catastrofe, al crollo delle belle illusioni. 

Non branchi di animali preistorici in realtà vediamo in scena, ma una famiglia di Dini, con padre, madre, figli, zii, matto del paese, dini pessimisti, allegri, seduttori o angosciati, insomma un mondo molto umano, che nella recita si rispecchia in quella parabola con un elemento fondamentale che abbiamo spesso separato dal teatro: il divertimento, un sorriso sghembo capace con mossa del cavallo degli scacchi di far ridere parlando di cose serie, con un invito a riguardare allo specchio le scatole cinesi della nostra vita.

 

“Tre stanze – I sovversivi” di e con Silvia Garbuggino e Gaetano Ventriglia.


Tre stanze sovversive, ovvero Kitèmmùrt Reloaded

 

Ci accoglie alla fine di un corridoio con un vestito nero sul petto nudo, la barba brizzolata, gli occhi assenti, un velo da sposa in testa. Parla piano, dolcemente, voci e lingue che si incrociano, personaggi che convivono, Amleto Ofelia il ricordo dell’assassinio di Polonio, chi fa violenza e chi la subisce, dicendo dolcemente, come un intimo desolato atto quotidiano di vita. 

L’abbiamo ignorato a lungo, questo attore appartato, Gaetano Ventriglia, sottile nelle scansioni, ellenico nella definizione dei caratteri, sempre nitidi e sfuggenti, aperti come finestre sul troppo e sul niente. Ora, sempre a Castiglioncello, non possiamo non farci trascinare nelle sue Tre stanze – I sovversivi, tra personaggi multipli, scritti nel corpo e nelle parole da lui, Ventriglia, questo ibrido attore moltiplicatore, e da Silvia Garbuggino, la sua profetessa corporale, con gambe e braccia protette da imbottiture per parare i colpi di esplosioni fisiche. 

La chitarra elettrica di Gabrio Baldacci ci attira dove lei spasima un monologo per rinserrarsi alla fine su una sedia con una casseruola donchisciottesca in testa. E veniamo attirati nell’ambiente contiguo da Ventriglia, che racconta un sogno di Raskolnikov pieno di senso di colpa fuga delirio di potenza struggimento, fino al risveglio dall’incubo pieno di realtà. Delitto e castigoè quest’altra stanza, in visione onirica, per tornare nella precedente e vedere Ventriglia mutarsi in un gregge di pecore e montoni, versi, versacci, muggiti, belati, e Don Chisciotte-Garbuggino combattere in un sogno di gloria fatto di fumo, di nulla, in uno spettacolo dove un sogno ne apre un altro, in paesaggi desolati, affatturati dal gelo e dalla calura che ottunde la vista, un luogo della fantasia dove si combatte e dove le cose scolorano in altro sotto gli occhi di un tutto che si dà la mano col niente, col vuoto in agguato sottostante. 

 

“Tre stanze – I sovversivi” di e con Silvia Garbuggino e Gaetano Ventriglia.


I due attori, per forza di sottrazione, di dolce insinuazione, o per scoppio di potenza espressiva che mischia allusione e follia, trascinano e contengono, con un sorriso che apre, insieme distante e ammiccante, porte su altre porte su stanze in continua fuga verso centri che si smarriscono, componendo in sequenza scene di diversi loro passati spettacoli che già destrutturavano i testi di riferimento, portandoli vicino a un quotidiano che ha bisogno continuamente della letteratura, del teatro, delle storie alte per svelarsi fatto di solitudine, dolore, voglia di vivere e sognare.

 

“We Want Miles, in a Silent Way” di Gruppo Nanou, ph. Daniele Casadio.


Danzando Miles Davis

 

Con Gruppo Nanou ci spostiamo sull’altra costa, a Ravenna Festival. We Want Miles, in a Silent Way, firmato da Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci, Marco Maretti, coreografie di Amico e Bracci, con i suoni di Roberto Rettura e le percussioni di Bruno Dorella, siamo in un’operazione che ha già visto il debutto nel mitico spazio La MaMa di New York, e che riappare in nuova più ampia versione  qui con Carolina Amoretti, Rhuena Bracci, Marco Maretti, Chiara Montalbani, danzatori di presenza energica e carismatica, tra le scene e i colori di Amico e Daniele Torcellini e il light design ancora di Amico con l’aggiunta dell’immaginazione luministica felicissima di Fabio Sajiz. 

Le scatole cinesi qui sono estrarre dalla musica di Miles Davis strutture di incontri tra cellule e elementi sonori diversi, nei suoi standard rimessi in vita dall’improvvisazione, dai timbri, dalle dinamiche e dai colori strumentali, e farne elementi per la danza, tre corpi femminili che si muovono in assolo, in duo, in trio, si intrecciano, si contraggono e si distendono, si rispecchiano in un’altra figura, maschile, che spesso entra e guarda immobile, per poi trovare l’onda del movimento tra schizzi di luce che la rendono fosforescente, pop, mentre in scena compaiono ombre come doppi, riverberi dei corpi in movimento. 

Il palco ha un riquadro sul fondo che viene fortemente colorato, in atmosfere spesso in contrasto con un altro colore che allaga o disegna geometricamente il palcoscenico, in effetti cromatici emotivi che rievocano Rothko, un astrattismo primordiale in cui il rosso a volte si inscurisce in colorature metalliche che oscurano la visione, per poi meglio far risaltare verdolini acidi o scialbi che accolgono i corpi o azzurri fondi e elettrici che li celano come deiezioni, come macerie in trasformazione e movimento in un angolo, in una porzione ristretta di spazio, pronti all’esplosione. 

 

“We Want Miles, in a Silent Way” di Gruppo Nanou, ph. Daniele Casadio.


Miles Davis è sottratto, diventa pura ispirazione strutturale: la musica è ricomposta per percussioni, cui a poco a poco la regia live electronics aggiunge altri strumenti, soprattutto di base ritmica, fino a un irrompere, solo alla fine, della tromba, come una citazione, come un omaggio che rende l’atmosfera, concettuale e fisicissima allo stesso tempo, romantica, prima del precipizio nel buio. 

Nello spettacolo si combinano corpi, suoni, strutture, spazio che diventa disegno mentale e colori che opacizzano o fanno risaltare i corpi, in un lavoro sperimentale che incarna la vocazione di questa compagnia a esplorare per via mentale i paesaggi della danza, inventando, ricreando ritualità in cui il corpo alla fine risulta il vero sovrano, determinato e determinante, qui con il controcanto fondamentale delle atmosfere di luce. Si ripete un po’ troppo forse lo sviluppo degli intrecci dei corpi; non riesce a raggiungere la sospensione metafisica e sognante della musica di Davis, il suo scavo interiore, pur toccandone la fisicità. La memoria della libertà delle note vince sulle iterazioni delle figure coreutiche, innervate drammaturgicamente soprattutto dallo sviluppo della posizione dell’uomo che dall’immobilità statuaria inziale conquista, tra buio ombra e luce, un’espansione, come un motivo conduttore tenuto a lungo in secondo piano e poi portato a dilagante consapevolezza. 

Si tratta comunque di un affascinante studio, che potrebbe musicalmente e coreograficamente trovare altri, più concentrati o inventati, sviluppi. 

 

Nell’ultima immagine Giuliano Scabia nel prologo alla “Commedia per dinosauri”.

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L’estate dei Festival
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Il daimon della forma

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È uscito da poco il saggio di Simona Carretta Il romanzo a variazioni per Mimesis. A partire dall’esame delle possibilità del romanzo contemporaneo di impiegare per l’articolazione delle sue storie strutture compositive solitamente associate alla musica, come il contrappunto, la fuga e in particolare la variazione su tema, il saggio è un invito a riflettere sul valore estetico che nel romanzo assume la dimensione formale. Contiene capitoli su Bernhard, Huston, Ergal, Huxley, Jonke, Broch, Kiš, Proust, Robbe-Grillet, Pinget, Calvino e una parte conclusiva dedicata a Kundera, dalla quale è tratto il brano che vi proponiamo.

 

(…) Si è detto che la conoscenza sviluppata dal romanzo è diversa da quella scientifica: se quest’ultima è specialistica, settoriale, la prima non rinuncia a un approccio totalizzante. Ciò la avvicina al genere di sapere generato dai miti. 

L’affinità che il mito e il romanzo presentano può essere spiegata ricorrendo ancora una volta a un paragone con la musica. Per Claude Lévi-Strauss si può leggere un racconto mitico solo se si riesce a capire che: «ogni pagina è una totalità. E solo trattando il mito alla stregua di uno spartito orchestrale, scritto strofa per strofa, possiamo comprenderlo come una totalità ed estrarne il significato» (Mito e significato.Cinque conversazioni, Il Saggiatore, pp. 57-58.). 

Anche un romanzo deve essere considerato come un tutto, o meglio come una composizione che occorre tener sempre presente in tutte le sue parti, se si vuole enuclearne il senso. Questo, tuttavia, non può essere dedotto da una lettura di tipo esclusivamente lineare, ma dall’esame delle corrispondenze e dei contrasti dei motivi che l’autore organizza attorno al tema. 

Una differenza importante rispetto al mito è che, mentre quest’ultimo appare come il più esemplare prodotto della sua civiltà, il romanzo si rivolge al lettore che ancora non c’è. 

La disposizione a leggere un romanzo nel modo scrupoloso che esso richiede è dunque di per sé un atto rivoluzionario. Ciò è doppiamente valido nel contesto dell’odierna industria artistico-culturale, che ha reso frenetici i meccanismi di consumo e produzione e ha così appiattito la percezione dell’opera d’arte. Invece, per il romanziere:

 

(…) ogni minimo dettaglio è importante, lo trasforma in motivo e lo farà tornare in molteplici ripetizioni, variazioni e allusioni, come in una fuga. Per questo è sicuro che la seconda parte del romanzo sarà ancora più bella, più forte della prima; via via che ci inoltreremo nelle sale del castello, infatti, gli echi delle frasi già pronunciate, dei temi già esposti, si moltiplicheranno e, associati in accordi, risuoneranno ovunque. (M. Kundera, Il sipario, Adelphi, pp. 164- 165).

 

Nel Sipario Milan Kundera sintetizza in questo modo l’attività del romanziere, presentandola come un’arte della lentezza. Di fronte all’accelerazione prodotta oggi dalla tecnologia, che sembra culminare in una sorta di compressione della materia temporale, il romanzo è uno degli ultimi baluardi a difesa di una concezione del tempo come durata. Ciò è dovuto alla sua architettura formale, la cui invenzione originale, necessaria per cogliere aspetti sempre nuovi dell’esistenza, implica una progettualità inconciliabile con lo spirito di istantaneità. 

Un’altra riflessione, modulata in chiave ironica, sulla sfida che la concezione compositiva su cui si fonda il romanzo sembra rivolgere ai nostri tempi, occupa un dialogo del romanzo di Kundera L’ immortalità.

 Il medico Paul, un personaggio che rientra nella categoria dei «misòmusi» – coloro che mostrano di disprezzare l’arte a causa della loro inconfessata difficoltà a comprenderla – illustra al narratore (alter ego dell’autore) il suo giudizio sulla Settima sinfonia di Mahler:

 

 

«Me lo immagino in quella stanza d’albergo circondato da fogli di note», continuò Paul senza lasciarsi interrompere «convinto che tutta la sua opera sarebbe stata rovinata se nel secondo movimento la melodia fosse stata suonata dal clarinetto invece che dall’oboe». 

«È proprio così», dissi pensando al mio romanzo. 

Paul continuò: «Vorrei che un giorno quella sinfonia fosse eseguita davanti a un pubblico di famosi esperti, prima con le correzioni delle ultime due settimane e poi senza correzioni. Vi garantisco che nessuno riuscirebbe a distinguere una versione dall’altra. Intendiamoci: certamente è meraviglioso che il motivo suonato dal violino nel secondo movimento sia ripreso nell’ultimo movimento dal flauto. Tutto è elaborato, meditato, profondamente sentito, nulla è lasciato al caso, ma questa immane perfezione ci supera, supera la capacità della nostra concentrazione, cosicché anche l’ascoltatore più fanaticamente attento non percepirà che una centesima parte della sinfonia e sicuramente quello che per Mahler era meno importante».

Il suo pensiero, così palesemente giusto, lo rallegrava, mentre io diventavo sempre più triste: se un mio lettore saltasse una frase del mio romanzo non lo capirebbe, eppure quale lettore al mondo non salta neanche una riga? Io stesso non sono forse il più grande saltatore di righe e di pagine? 

«Non nego alle sinfonie la loro perfezione» continuò Paul. «Nego soltanto l’importanza di quella perfezione. Queste arcisublimi sinfonie non sono che le cattedrali dell’inutile. Sono inaccessibili all’uomo (…)». (M. Kundera, L’Immortalità, Adelphi, pp. 355-356)

 

Nell’Immortalità le riflessioni sull’arte sono molto frequenti e non a caso: si tratta del romanzo in cui Kundera esamina con più precisione il posto occupato dalla bellezza nella società contemporanea (Agnes, la protagonista, vorrebbe camminare con un vaso di fiori davanti agli occhi per non dover vedere tutta la bruttezza che la circonda). Inoltre, i propositi di estetica attribuiti ai personaggi sembrano ispirare direttamente i procedimenti compositivi del romanzo, che si rivelano particolarmente audaci.

In quanto esempi di «saggio specificatamente romanzesco» – come Kundera chiama una delle strategie del discorso impiegata per approfondire i temi dei suoi romanzi –, queste riflessioni di argomento artistico offrono uno spunto per considerare alcuni dei risvolti più conturbanti che si dispiegano davanti alla prospettiva dell’«immortalità», tema che il romanzo esplora in senso laico, articolandone la riflessione attraverso un’interrogazione che ha per oggetto il significato della memoria e dell’identità.

«Immortali», di solito, sono ritenuti gli spiriti dei grandi uomini, gli artisti che hanno influenzato l’immaginario collettivo: maestri della musica come Beethoven, o delle lettere come Goethe e Hemingway.

Il narratore dell’Immortalità immagina i due scrittori nell’al di là. Scrutando dall’alto il bizzarro corso della loro fama presso i posteri, entrambi constatano con ironia come questa sembri assicurata, più che dalla corretta trasmissione delle loro opere, dalla somma delle dicerie messe in circolazione sulla loro vita. Goethe è ridotto a una serie di aneddoti leggendari, costruiti intorno ai suoi amori e alle sue abitudini; di Hemingway si ricordano soprattutto le presunte storture caratteriali (megalomania, misoginia). Il paradosso descritto è quello dei «testamenti traditi», titolo del saggio pubblicato da Kundera subito dopo L’immortalità, in cui l’autore passa in rassegna i numerosi fraintendimenti provocati, nel corso dei secoli, da una cattiva ricezione dei grandi innovatori delle arti – come Kafka, lo stesso Hemingway o, nella musica, Stravinskij e Janáček. 

 

L’immortalità viene «tradita» a causa della sostituzione del ricordo con l’immagine. Mentre il primo è associato a un tentativo di comprendere ciò che è stato, l’immagine chiude qualsiasi spiraglio immaginativo. La propaganda e la pubblicità, oggi rafforzate all’ennesima potenza dai mass-media, producono una società in preda all’«imagologia», ultima manifestazione dello spirito di semplificazione tipico dell’era contemporanea, l’altro volto dell’oblio.

Il dialogo tra Goethe e Hemingway prende corpo all’interno di una più ampia sequenza narrativa di carattere storico e meditativo che occupa la seconda e la quarta delle sette parti in cui è articolato il romanzo di Kundera. A questa linea narrativa, nella quale il tema dell’«immortalità» si trova modulato in tonalità maggiore– come ha osservato Guy Scarpetta (L’âge d’or du roman, Grasset, pp. 77-93) –, Kundera ne contrappone almeno altre due, disposte alternativamente alla prima secondo il principio del «contrappunto romanzesco». Una di queste si esaurisce nella Parte sesta e introduce la storia di un personaggio mai apparso prima (un «romanzo nel romanzo»); l’altra, che occupa le parti dispari del romanzo, è costruita intorno ad alcuni personaggi immaginari di semplici mortali.

 

Fra questi spicca quello di Agnes, moglie di Paul, che a un certo punto del romanzo muore in circostanze che la storia presenta come casuali. Grazie ad Agnes, l’indagine sull’immortalità si arricchisce di diversi spunti. Uno di questi è fornito da una riflessione della donna sul tema che dà il titolo alla Parte prima, Il volto. Agnes non crede che la diversa fisionomia che contraddistingue ogni viso rispecchi l’anima di un individuo, come tanti sembrano disposti a pensare. Al contrario, le sembra che in essa si riconosca solo il capriccio del caso. Ne deduce che la natura del rapporto tra il volto e il nucleo più recondito dell’identità, l’io, non è meno arbitraria di quella secondo cui vengono attribuiti i nomi di persona, che solo l’abitudine consente di riconoscere come propri. L’io, che pur rappresenta il patrimonio più prezioso di un essere umano, è fragile. Il suo codice è altrettanto indeterminabile di quello di un volto e, in ogni caso, dopo la morte del corpo può tradursi difficilmente in una formula assoluta in grado di durare per l’eternità. Ecco l’osservazione che Agnes rivolge a Paul: 

 

Se metti accanto le fotografie di due facce diverse, il tuo occhio è colpito da tutto ciò che le distingue una dall’altra. Ma se hai una accanto all’altro centosessanta facce, d’improvviso scopri che si tratta solamente di un’unica faccia in tante varianti e che non è mai esistito alcun individuo. (M. Kundera, L’immortalità, Adelphi, p. 46).

 

Kundera è il romanziere che ha colto con maggiore profondità le implicazioni conoscitive che scaturiscono dall’opposizione tra i concetti di variazione e di variante. Come nel capitolo del Libro del riso e dell’oblio dedicato alla nozione di confine, la cui analisi in chiave esistenziale rappresenta un motivo ricorrente nell’intera produzione kunderiana, in questo brano dell’Immortalità si nota l’evidenza di una soglia che separa il senso dal non senso e a cui corrisponde il passaggio dalla variazione alla variante.

Se il valore specifico della variazione è di far emergere la differenza all’interno dell’unità, ossia di mettere in luce le diverse sfaccettature di un tema in modo da consentirne una comprensione più articolata, questo tema può svilupparsi finché la soglia dell’attenzione richiesta per riuscire ad afferrarne le variazioni non diventa troppo alta. Oltrepassato questo limite, il loro numero si perde nell’estensione potenzialmente infinita dell’informe, nel cui spettro non è più possibile alcun riconoscimento: la variazione allora si trasforma in variante, abbandona la forma e diventa un’alterazione priva di significato.

L’opera d’arte, per esistere, deve bastare a se stessa. Apparire completamente formata. Formato è ciò che è compiuto. In altre parole, proprio il riscontro della sua compiutezza permette alla forma di essere colta. 

Allo stesso modo in cui non si può comprendere un io se non entro il confine concreto dell’esistenza in cui si realizza, non è possibile discernere alcun tema se non in relazione alla forma che lo ha generato. 

Come la forma artistica, anche il senso di un’esistenza può offrirsi solo a una lettura di carattere estetico. Poiché è condotto attraverso l’esplorazione formale, lo sviluppo di un tema, come quello del mistero di un io, non sarà mai esaustivo perché non si avvale di strumenti esclusivamente razionali, ma implica l’ausilio dell’immaginazione. 

 

La forma: cattedrale di cristallo che un millimetro appena separa dall’abisso. 

L’informe: l’abisso magmatico da cui la forma trae la sua materia.

Tra forma e informe si realizza dunque un rapporto in termini di successione, piuttosto che di opposizione. Il contrario della forma non è l’informe, che ne rappresenta invece il presupposto, ovvero la componente caotica che essa converte in cosmo. 

Il contrario della forma è l’immagine dell’«imagologia», un’immagine piatta, che riduce l’essere umano al suo stereotipo e che corrisponde allo stadio ultimo dell’accumulazione di tutte le varianti.

In quanto arte il cui scopo principale è quello di fornire sguardi nuovi sull’esistenza umana, il romanzo rappresenta uno degli ultimi baluardi contro l’«imagologia». Esso invita il lettore a non adagiarsi su una percezione appiattita, ossia stereotipata dell’esistenza, ma a saper individuare in quest’ultima i rilievi propri di una forma: gli stessi in base a cui sono composti i romanzi.

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Theodor W. Adorno su Samuel Beckett

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“Mio Dio che porcheria ne sarebbe uscita”. È un appunto del 1967 che Adorno annota dopo aver incontrato Beckett a Parigi. Un commento sprezzante a quanto gli aveva appena raccontato il drammaturgo irlandese e cioè che Bertolt Brecht, prima di morire, avrebbe progettato di scrivere un “anti-Godot”. A parere di Adorno, nulla sarebbe più strutturalmente refrattario a entrare in dialogo con la drammaturgia di Beckett dell’ironia didattica e ammiccante del teatro engagée di Brecht, che con le sue prese di posizione morali, con le sue scelte politiche, con l’esplicito schierarsi in favore del blocco orientale, tagliava i ponti con una critica ostinata e radicale come quella che Adorno chiedeva all’arte del secondo Novecento. 

 

Tre sono agli occhi di Adorno i grandi modelli letterari del secolo. Kafka, con la spietata lucidità della sua prosa da realista distorto. Proust, nelle cui parole intime e private il mondo viene raffigurato in tutto il suo respiro asmatico e difficoltoso. E infine Beckett, disarmato osservatore della miseria umana, che nell’ultimo attimo della distruzione cerca, probabilmente invano, le tracce di un nulla positivo.

E Il nulla positivo è anche il titolo che Gabriele Frasca sceglie per questa antologia di scritti adorniani su Beckett (L’Orma, Roma 2019, 248 pp.), espressione questa che Adorno prende a prestito dall’autore di Fin de partie per descriverne i più coerenti esiti letterari. Proprio in questo nulla positivo, l’opera di Beckett si pone per Adorno all’apice delle possibilità artistiche della tarda modernità e gli scritti qui raccolti potrebbero essere intesi come una serie di esempi del carattere precario della prassi interpretativa, senza che questa precarietà debba mai tradursi in disfattismo. Fedele lettore di Karl Kraus, Adorno sembra ribadire nell’interpretazione letteraria quel che l’intellettuale viennese diceva sulla lingua: “se non riesco ad andare avanti, vuol dire che ho sbattuto contro il muro del linguaggio. Allora mi ritraggo con la testa insanguinata. E vorrei andare avanti”. 

Tanto più l’oggetto rifiuta l’interpretazione, quanto più il critico riconoscere di essere sulla strada giusta e in questo le opere di Beckett rappresentano un modello. Come in Kafka, e forse più che in Kafka, la letterarietà delle parole di Beckett si scontra con il fatto che il lettore vi riconosce qualcosa che assomiglia alla sua stessa vita e conferisce all’opera il carattere del déjà-vu: “ogni proposizione dice: interpretami”, scrive Adorno su Kafka, “ma nessuna tollera l'interpretazione. Ciascuna, insieme con la reazione ‘È così’, impone la domanda “com'è che lo so già?”’. 

 

Nel 1964 il critico e filosofo statunitense Arthur Coleman Danto esultava perché l’arte di Warhol “permise di apportare alle confusioni dell’estetica la chiarezza della grande filosofia analitica”, dal momento che “l’arte pop non ha segreti nascosti nell’inconscio”. Con spirito del tutto opposto, Adorno affermava invece che “tutte le grandi opere letterarie ammettono una pluralità di interpretazioni, eccetto una: l’interpretazione esclusiva, intollerante”. È un passaggio contenuto nello scritto che apre il volume curato da Frasca, tratto da un colloquio televisivo del 1968 in cui Adorno si trova con Ernst Fischer a commentare l’opera beckettiana assieme ai critici Walter Boehlich e Martin Esslin. E la scelta di inaugurare il volume proprio con questo colloquio a suo modo storico ci sembra quantomai felice. Con una metafora cara ad Adorno, il lettore viene così invitato a spiare dal buco della serratura i critici impegnati nel loro lavoro di ricomposizione dell’opera. Beckett, Adorno, la critica letteraria stessa, smettono di apparire lontani e rarefatti, oggetti impolverati nella bacheca di un museo culturale, per prendere vita nella viva discussione interpretativa.

 

 

Oltre a questo raro reperto televisivo (un breve passaggio è reperibile su youtube [LINK]), il volume contiene il più celebre tra gli scritti che Adorno ha dedicato a Beckett, vale a dire Tentativo di capire Finale di partita, pubblicato originariamente nel secondo volume delle Note per la letteratura. Si tratta di un saggio fulminante, nel quale Adorno traccia i contorni di una possibile interpretazione della grande pièce composta tra il 1955 e il 1957. L’universo beckettiano mostra, qui, il proprio lato più enigmatico e pungente e mette in scena un mondo nel quale i soggetti, non più esseri pienamente umani, assomigliano piuttosto a “mosche che si contraggono dopo che lo scacciamosche le ha già mezzo spappolate”, come osserva Adorno. L’impressione è dunque quella di assistere alla rappresentazione plastica dell’osservazione terrorizzata che Kraus faceva tra le due guerre: “was hat die Welt aus uns gemacht! (che cos’ha fatto il mondo di noi!)”. 

 

Attorno agli stessi temi, ruota il terzo testo della raccolta, lo Schizzo di un’interpretazione de L’innominabile, che Adorno lascia incompiuto nel 1962. È una raccolta di osservazioni puntuali, alcune delle quali contano di poche parole, capaci di dare l’immagine di un mosaico aforistico. “Il panteista”, si legge, “afferma: dopo la morte sarò fiore, foglia, terra. Beckett mette alla prova questa affermazione: cosa sono quando sono fango”. A questo, seguono una serie di estratti a tema beckettiano tratti dall’ultima grande opera incompiuta di Adorno, Teoria estetica, di cui qui si sceglie di riprodurre la vecchia traduzione di Enrico De Angelis. In questo modo, Frasca offre un’immagine complessiva dell’attenzione che Adorno ha riservato a Beckett e presenta al lettore una guida utile per tentare di leggere una delle relazioni più promettenti mai verificatesi tra filosofia e letteratura, quella tra il teorico della dialettica negativa e il drammaturgo della riduzione del soggetto a inutile mobilio del mondo.

 

Beckett, è noto, si è sempre rifiutato di dare un’interpretazione del proprio lavoro. A chi si attende che l’autore espliciti di cosa sono metafora i suoi scritti, Beckett risponde con una scrollata di spalle ed è precisamente questa caratteristica a rendere l’opera beckettiana l’oggetto prediletto su cui si esercita l’attività interpretativa di Adorno. Semplificando molto, si potrebbe dire che ci sono tre vie per accostarsi interpretativamente a un testo letterario. Avere una tesi debole ed elencare i numerosi punti in cui questa è confermata dal testo; avere una tesi forte, presentare i pochi punti in cui è riscontrabile e disinteressarsi del resto; infine quello che sceglie Adorno, ereditato dalla tradizione hegeliana e in parte romantica. Cioè, avere una tesi forte, e qualora dovesse essere smentita dal testo, concludere che è l’autore ad aver commesso un errore nella composizione, come nel caso del Faust di Goethe e del suo finale conciliatorio nella lettura che ne dà il filosofo francofortese. Questo perché l’opera, con la sua necessità, con la sua oggettività e autorevolezza, è qualcosa che si impone al suo stesso autore, il quale deve avere la capacità di riconoscerne l’evidenza. E Beckett, rinunciando all’interpretazione, dimostra di rispettare fino in fondo la propria opera: oggetto enigmatico, compatto ed ermetico, che solo la prassi interpretativa può tentare di accostare. 

Questa pubblicazione, e non è un caso, cade a cavallo di un doppio anniversario che riguarda i due autori a cui è dedicata. Proprio nel 2019, ricorrono sia i trent’anni dalla morte di Beckett che i cinquanta da quella di Adorno. Al di là di questa occasione di comodo, il volume curato da Gabriele Frasca ha senza il dubbio il merito di essere una pubblicazione potremmo definire anacronistica. Esattamente come i due autori che lo animano, Il nulla positivoè un libro che non asseconda lo spirito dei tempi, ma anzi che si presenta come contrario alla cultura che li domina. Proprio per questo è una pubblicazione tanto più urgente e doverosa. 

 

Se la scuola di Francoforte, e la teoria critica in generale, hanno avuto un lascito, questo è proprio l’idea di non dare per scontato il proprio tempo e di non pensare la storia solamente alla luce di un progresso, pure incontestabile. Nell’epoca dell’apologia del mercato artistico, dell’appiattimento dell’opera sui suoi significati più espliciti e consolatori, dell’identificazione indiscutibile tra arte e intrattenimento, è importante provare a seguire la via che indica Frasca. Nei percorsi tracciati da Adorno e Beckett non è solamente il loro tempo a essere messo sotto accusa, ma il nostro. Nei Tre studi su Hegel Adorno liquida l’atteggiamento di Benedetto Croce, che pretendeva di stabilire Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel. In questo caso, può essere utile rivolgere a lui stesso la sua argomentazione: l’importante, allora, non è stabilire se Adorno e Beckett abbiano ancora valore di fronte al presente, quanto piuttosto capire se il presente abbia ancora senso di fronte ad Adorno e Beckett.   

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Straniero

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Il testimone, il chimico, lo scrittore, il narratore fantastico, l'etologo, l'antropologo, l'alpinista, il linguista, l'enigmista, e altro ancora. Primo Levi è un autore poliedrico la cui conoscenza è una scoperta continua. Nel centenario della sua nascita (31 luglio 1919) abbiamo pensato di costruire un Dizionario Levi con l'apporto dei nostri collaboratori per approfondire in una serie di brevi voci molti degli aspetti di questo fondamentale autore la cui opera è ancora da scoprire.

 

Nella Prefazione di Se questo è un uomo, Levi mette in guardia il lettore sui sintomi che rischiano di assumere forme politiche organizzate: “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ‘ogni straniero è nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all´origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager.”                        

 

Riguardo alle leggi fasciste del 1938, Levi commenta: “non passava giorno senza che i giornali e le riviste ci definissero estranei alla tradizione del Paese, diversi, nocivi, abietti, nemici”; l´esclusione lo induce a ricavare dal laboratorio chimico un elogio dell´impurezza come qualità intrinseca del movimento vitale (Zinco, Il sistema periodico). Classificato dalle leggi antisemite come “straniero”, ad Auschwitz Levi non può nemmeno identificarsi con gli ebrei orientali parlanti yiddish incontrati ad Auschwitz. Inoltre, nella Babele del Lager (restituita narrativamente attraverso scelte di multilinguismo) si accentua il riconoscimento attraverso la propria lingua, specie per gli italiani che, in minoranza, sono i primi a soccombere, per difficoltà di comunicazione e incomprensione degli ordini ricevuti; al contempo, il prigioniero Levi rompe la cortina dell´incomunicabilità, deciso ad ampliare il suo “limitato Wortschatz. Dovrà apprendere, tra le altre, alcune parole minacciosamente straniere come Wstavać o la parola ibrida seleckja. In un ambiente dominato dal tedesco, polacco, yiddish, russo, e poi dall´ungherese, catapultati in una babele di codici “infiniti e insensati”, i prigionieri si ritrovano in una condizione radicale di stranieri – che finisce per coinvolgere anche i madrelingua tedesca, colpiti da un senso di estraneità verso un idioma nazificato (come per Jean Améry o Victor Klemperer citati in I sommersi e i salvati). 

Fin dai primi scritti, Levi si mostra attratto dal campo semantico del termine barbaro e del suo significato originario di “un barbugliare rozzo e indistinto, un bar-bar animalesco” (“Piombo”, Il sistema periodico) che caratterizza la diversità linguistica. Tuttavia, la barbarie per antonomasia è quella nazista, già descritta nella scena dantesca dell´arrivo: “il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli” (Se questo è un uomo).        

 

Non mancano inversioni ironiche della capacità alla barbarie miranti a criticare le dinamiche di oppressione nelle civiltà avanzate, come in “La bella addormentata nel frigo” (Storie naturali), in cui si allude sottilmente a una colonizzazione violenta di Marte quando un personaggio accenna alla sua nuova pelliccia di marziano.                    

In “Tradurre ed essere tradotti” (L’altrui mestiere), Levi torna sul concetto secondo cui “per molti chi parla un´altra lingua è lo straniero per definizione, l´estraneo, lo ‘strano’, il diverso da me, e il diverso è un nemico potenziale, o almeno un barbaro: cioè, etimologicamente, un balbuziente, uno che non sa parlare, un quasi-non-uomo”, estendendo il significato “relativo” di barbaro linguistico a quello “assoluto” (secondo la distinzione di Todorov), passibile di eliminazione. Di fatto, il progetto hitleriano di esclusione di esseri umani dalla propria “specie” spinge al limite la non appartenenza e crea le tragiche condizioni per uno straniero che potremmo dire “integrale”, corrispondente ai “sommersi” o “testimoni integrali” quali i Muselmänner o il piccolo Hurbinek, privo di linguaggio e mai uscito dal filo spinato.

Lo straniero si dirama costellando tutta l´opera, in numerose tipologie che, a volte, si sovrappongono: dall´esploratore al poliglotta, dal prigioniero del Lager all´esiliato, dal reduce all´ebreo errante, dal barbaro nemico all´ufficiale SS, dal traduttore al narratore, fino all´alieno di racconti fantastici. Sono stranieri difficili da capire i tedeschi, a cui spesso Levi si rivolge come lettori in un´assidua corrispondenza.

 

 

Nonostante Levi ribadisca una teoria personale, venata di aspetti positivisti, secondo cui le pulsioni ostili verso gli estranei sarebbero ancestrali o “pre-umane”, la curiosità verso gli altri caratterizza numerosi personaggi e il suo stesso osservare il mondo. Si manifesta nello stupore benevolo di esploratori e popoli immaginari di alcuni racconti (ad es. “Piombo”, Il sistema periodico o “Verso Occidente”, Vizio di forma) in cui abitanti autoctoni di terre esotiche incarnano la critica all´incapacità di gestire gli effetti collaterali dello sviluppo tecnologico. Ma sono distanti dai barbari-nemici anche i molti stranieri delle storie del periodo bellico: giovani cordiali ad Auschwitz, come Schlome che lo accoglie “sulla soglia della casa dei morti” (Se questo è un uomo), l´ungherese Bandi de “Il discepolo” (Lilìt e altri racconti), lo zingaro del racconto omonimo (Ibidem), l´amico alsaziano Jean detto “Pikolo” (Se questo è un uomo); compagni di viaggio come il Greco, con cui il narratore si sente “così diverso, così straniero” (La tregua); Olga, antifascista croata, rifugiata prima della guerra insieme a migliaia di ebrei stranieri, che avevano trovato breve ospitalità “nella paradossale Italia di quegli anni, ufficialmente antisemita” (La tregua); Avrom, che “come tanti remoti viaggiatori nordici aveva scoperto l´Italia con occhio vergine, ed aveva combattuto per la libertà di tutti in un paese che non era il suo” (Storia di Avrom, Lilìt e altri racconti), e che da poliglotta emigrato in Palestina dimenticherà la sua lingua. Come lui, altri osservano gli italiani con occhi meravigliati: i polacchi di fronte al romano Cesare, “lo straniero fantastico venuto dai confini del mondo” (La tregua), oppure i partigiani ebrei di Se non ora quando, affascinati dallo “strano paese” in cui convivono accoglienza e raggiro.

 

In un’Europa devastata dalla guerra, tuttavia lo straniero prevalente in Levi si rifà ad Ulisse in una ricerca di conoscenza del mondo e degli altri. E come Ulisse, lo straniero è anche colui che racconta. La figura che narra avventure o l´esperienza traumatica trova il suo modello sia nell´eroe omerico che nel Vecchio Marinaio di Coleridge.                                           

Gli stranieri dei testi primoleviani si muovono ora in uno spazio totalitario che costruisce il binomio straniero-nemico, ora motivati da un atteggiamento di simpatia (secondo il concetto di Ricoeur), pur laddove esistano perplessità iniziali. Sono numerose le descrizioni di sonorità straniere, paesaggi esilici cosí come di shock culturali tra comunità diverse. In quella che Alberto Cavaglion ha definito “il lungo saggio trasversale delle caratteristiche nazionali” spiccano le differenze tra mondo mediterraneo e nordico o tra ebrei italiani assimilati ed ebrei di lingua yiddish. Tuttavia, anche se “sradicare un pregiudizio è doloroso come estrarre un nervo” (Se non ora quando), l´attraversamento delle frontiere accumula elementi per una ridefinizione continua dell´identità collettiva negli incontri con altri.   

La figura dello straniero interno, invece, interseca il tema del doppio: il Doppelgänger (“un fratello muto e senza volto, che pure è corresponsabile delle nostre azioni” (“Dello scrivere oscuro”, L’altrui mestiere); l´unheimlich nella traduzione di Il processo di Kafka; il centauro e le tematiche di una “spaccatura” esemplificata nelle espressioni “ebreo-non ebreo”, “scrittore-non scrittore”, ma estendibile in sede di analisi letteraria a questioni più complesse.                                                         

Infine, anche l´universo “si fa sempre più intricato, imprevisto, violento e strano” (“Notizie dal cielo”, L’altrui mestiere) e gli esseri umani, di fronte alla solitudine cosmica e ai dati scientifici su dimensioni e distanze esorbitanti, ne sono sempre più “estranei”.

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Definire gli infiniti

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La siepe

 

Che cosa significa definire se non, letteralmente, tracciare un/una fine, un confine, delimitare, «come quando si recinta un terreno, in modo da non confonderlo con le terre confinanti appartenenti ad altri? Grazie alla definizione si rintracciano caratteristiche comuni all'insieme di cose che stanno dentro il confine, le quali permettono di non confondere la cosa definita con altre» (Giuseppe Cambiano, Sette ragioni per amare la filosofia, Bologna, il Mulino, 2019, p. 43). Benissimo. Ma come definire l'infinito, che non ha estremità – come già preconizzava Epicuro e prima di lui facevano tutta la cosmologia e la fisica presocratiche – e che sfugge a ogni limite, gioiosamente superandoli tutti nella sua smisurata immensità? Forse riusciremo a definirlo, ci perdonino fisici e matematici, grazie a... una siepe!?

Ecco apparirci davanti agli occhi la siepe del secondo verso dell'Infinito di Leopardi, presentata subito dopo l'ermo colle, entrambi al poeta cari. Quella siepe che ritorna nel quinto verso con un richiamo indiretto, di là di quella, per definire nuovamente l'interminato spazio che si stende quieto e silenzioso, ampio e materno come la chora platonica, oltre quel termine, oltre quel limite. In entrambi i casi la siepe si pone come paradossale confine dell'infinito, che costringe lo sguardo a cambiare direzione. Il limite e il confine che tracciano, nel percorso della mostra, i muretti del Paesaggio con muri bianchi di Damaso Bianchi (n. 15). Qui quei muretti, che nel colore richiamano il cognome del pittore, toccati ma non attraversati dalle ombre degli alberi, ci impediscono di percepire il paesaggio dietro di essi ma insieme stimolano e aguzzano la vista esterna e la contemplazione e l'introspezione dell'io, del pittore e nostre. 

I muretti, la siepe, limitano, chiudono. Chiudono davanti, come spiega la parola presepe, dal latino prae-saepit, che chiude con una siepe (saepes). Un recinto è dunque la siepe del presepe, dove si trova il cibo per il bestiame che ne sta all'interno, e che crea protezione e sicurezza anche per il Bambin Gesù, lì posto insieme ai tradizionali animali dell'iconografia cristiana. La siepe cinge, limita e protegge mentre esclude dallo sguardo: lo fanno la siepe di Leopardi e la siepe del Tramonto in Liguria di Gaetano Previati (n. 9), posta dietro i rigogliosi alberi carichi di agrumi, dietro la quale il mare in parte si intravede in parte si immagina. 

 

Gaetano Previati, Nel prato.


Verticale e orizzontale

 

Protetto dalla siepe che gli è cara siede il giovane Giacomo, da poco divenuto ventenne, sull'ermo colle che come quella gli è caro (aggettivo che tra poco reinterpreteremo in un senso tutto particolare). Dall'alto il poeta contempla il paesaggio fingendo – col plasmare l'argilla del pensiero, immaginando dunque – spazi senza termine distesi sotto di lui. Costruisce così una sorta di violenta verticalità che ha al vertice il colle e alla base il mare, ultima parola dell'ultima riga, che fino all'ultimo non ci è dato vedere. Dall'altezza del pensiero che finge immagini e idee, alla profondità del mare che cela pericolose passioni nelle quali il naufragio è dolce. L'altezza è qui sublime quanto la profondità, sublime questa come «una durata interminata», notava Kant nelle sue Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime [1764], che si accompagnano «a sensazioni di spavento come di meraviglia». Una suggestiva verticalità che precipita dal colle al mare e con la quale si incrocia, letteralmente e figurativamente, formando i bracci di una croce, l'orizzontalità del tempo descritta nei versi da 11 a 13: l'eterno/le morte stagioni/la presente e viva. Eternità (tempo infinito), passato, presente. 

Una verticalità che nei dipinti della mostra si manifesta grazie all'ascensionalità degli alberi in Tramonto di Previati ma anche nello slancio della figura femminile e del cespuglio di Il prato dello stesso Previati, o nella siepe di alberi di Sole e brina di Plinio Nomellini. A cui si contrappone l'orizzontalità delle visioni fluviali, con Sull'Ofanto e Lungo l'Ofanto di Giuseppe De Nittis e La fleuve, di Émile René Ménard. L'incrocio in potenza delle due dimensioni, dove l'orizzontale sfuma nel verticale lo si nota poi ne Il sole di Pelizza da Volpedo, dove il disco luminoso che brilla all'orizzonte è pronto a spiccare la sua trionfale ascesa. E infine in Mare in burrasca di De Nittis dove la mente si finge l'abisso della profondità marina. Là dove Giacomo Leopardi esperisce il suo dolce naufragare.

 

De Nittis, Mare in burrasca.


L'ossimoro del dolce naufragio

 

È quello evocato da Leopardi un naufragare fittizio nel pelago dei pensieri sull'essere e sull'infinità del tempo e dello spazio? O un naufragio reale, benché soltanto immaginato, un frangersi della nave prima di affondare nei flutti? È entrambe le cose, certo, ed è insieme un tema che ripropone una nuova configurazione a croce, orizzontale-verticale: essa comprende infatti in Leopardi sia il comandamento stoico-epicureo della contemplazione e del distacco atarassico dai turbamenti, che potremmo associare alla dimensione orizzontale nella sua calma e piatta estensione; sia la verticalità della sfida illuminista del mettere in gioco il contributo fondamentale delle passioni, il valore dell'entusiasmo e del rischio, la vivacità della lotta degli elementi, l'uno e l'altro apprezzati, riprenderemo questo punto, da Leopardi. Nell'ossimoro del dolce naufragio convive il piacere (orizzontale) della calma con la disperazione (verticale) ma anche la creatività del moto; convive l'innegabile gioia estetica della natura, con la sofferenza cui soggiace la stessa natura e che con e nella natura si impone.

 

Il dolce naufragio e Lucrezio

 

Ci dedicheremo ora al naufragio dolce di Leopardi, lasciandoci alle spalle i dolci paesaggi della mostra per immergerci negli infiniti leopardiani. Questa volta ci ispireremo a un altro dipinto, quasi contemporaneo alla composizione dell'idillio: Il viandante sul mare di nebbia (Der Wanderer über dem Nebelmeer) di Caspar David Friedrich, del 1817, conservato nella Kunsthalle di Amburgo. Lì l'osservatore impassibile-pensieroso contempla sopra l'ondeggiante mare di nebbie i naufragi altrui:

 

Bello, quando sul mare si scontrano i venti

e la cupa vastità delle acque si turba,

guardare da terra il naufragio lontano: 

non ti rallegra lo spettacolo dell'altrui rovina

ma la distanza da una simile sorte.

(Lucrezio, De rerum natura, II, 1-4, trad. it.vdi E. Cetrangolo, Firenze 1969, p. 73).

 

Émile René Ménard, Le fleuve, Galleria d'arte moderna Ricci Oddi, Piacenza 2017.


Lucrezio! Sì, Lucrezio.

L'ispirazione, il riferimento classico, il sostegno letterario e filosofico dell'Infinito di Leopardi è Lucrezio. Anzi, sono i versi di apertura del secondo libro del De rerum natura; di quell'opera che la chiesa aveva cercato disperatamente di cancellare dalla memoria storica, e c'era riuscita per più di un millennio, fino all’avventurosa scoperta e divulgazione del poema grazie all'infaticabile ricerca condotta da Poggio Bracciolini.

Lucrezio! Sì, Lucrezio che imposta la configurazione tra il braccio verticale dello strepito della storia, e quello orizzontale del silenzio, della pacatezza e assenza di turbamento. Lucrezio. Tito Lucrezio Caro. In latino, Titus Lucretius Carus. Carus. Caro. Semper Carus. Sempre Caro. Sempre caro. SEMPRE CARO. Sempre Lucrezio. Sempre il pensiero del poeta filosofo romano mi accompagnerà, sembra dichiarare solennemente il giovane ventenne, enunciando in maniera ancora criptica il suo ateismo e la sua idea che la natura sia un «cieco e inconscio meccanismo di produzione-distruzione» (Sebastiano Timpanaro, Epicuro, Lucrezio e Leopardi, in «Critica storica», luglio-settembre 1988, 3, pp. 359-401, qui p. 397).

Non potendo, volendo, riuscendo a esclamare liberamente la propria convinzione, il giovane Leopardi lo fa – è la mia ipotesi e la mia proposta, frutto di intuizione più che di dimostrazione, ammetto – con un espediente quasi scherzoso, nascondendo la sua ammirazione e la sua fedeltà a Lucrezio proprio nelle prime due parole dell'idillio: sempre caro. E riprendendo nell'ultimo verso l'aggettivo dolce. Dolce, suave (neutro sing. di suavis), la prima parola del primo verso di quell'incipit lucreziano: Suave, mari magno turbantis aequora ventis..., aggettivo che più volte ritorna nei versi successivi.

Del resto il poeta di Recanati era stato un bambino e adolescente allegro e giocoso, addirittura scatenato e prepotente coi fratelli. Come non immaginarlo mentre con un sorriso sornione scrive quelle parole allusive, ancora pregno dell'entusiasmo infantile e adolescenziale?

La critica letteraria ha speso infinite pagine per mostrare e dimostrare se Leopardi conobbe Lucrezio, e se sì che cosa, e quali sono i riferimenti testuali e quali quelli contenutistici; se tematiche lucreziane siano presenti in Leopardi direttamente o provengano indirettamente dall'influenza di altri autori da lui conosciuti, Montaigne, Pascal, Goethe; se esistano e come si configurino affinità e differenze tra le concezioni pessimistiche di Leopardi e Lucrezio, quali siano le fonti latine alla radice dell'opera leopardiana e così via. Cito per tutti soltanto l'ampio studio di Sergio Sconocchia, Ancora su Leopardi e Lucrezio (in Leopardi e noi. La vertigine cosmica, a cura di A. Frattini, G. Galeazzi e S. Sconocchia, Roma, Edizioni Studium, 1990).

 

Bruno Osimo, Infinito.


Nell'indagare i rapporti tra i due poeti-filosofi la critica talvolta sottolinea, talvolta minimizza l'influenza delle idee di Lucrezio sul pensiero di Leopardi, insistendo soprattutto sull'adesione all'epicureismo del primo, non confacentesi al secondo. Certo, guardare il naufragio e il turbamento altrui senza farsene coinvolgere è l'atteggiamento del saggio epicureo, capace di osservare imperturbabile il turbinio del mondo circostante. Eppure a quell'atteggiamento pure Lucrezio aderisce quasi pro forma per poi discostarsene, mostrando posizioni simili a quelle che saranno di Leopardi. Entrambi sono animi appassionati, e se per un momento si adagiano sul braccio orizzontale dell'imperturbabilità epicurea e dell'apatia stoica, non negano di certo, entrambi, quello verticale antitetico della curiosità, dell'irrequietezza, dell'angoscia. Anzi, commentava più di cent'anni fa un critico acutissimo, riferendosi proprio al libro II del De rerum natura e al paragone ivi istituito tra gli atomi travolti nello spazio infinito e le rovine del naufragio che il mare getta alla rinfusa sulla spiaggia, «come siamo lontani dalla meccanica ridda atomica e da Epicuro! Essi non han servito, si può dire, che a dare lo spunto alla fantasia di Lucrezio, la quale, spaziandosi e internandosi nel suo soggetto, determina a sua volta un movimento affettivo che prende un'espressione per nulla dissimile dalle leopardiane» notava Spartaco Borra (Spiriti e forme affini in Lucrezio e Leopardi, Bologna, Zanichelli, 1934, Ia ed. 1911, p. 61) e passim nella sua splendida interpretazione.

Entrambi i filosofi-poeti hanno interrogato il silenzio infinito del cielo, lo stupore e il terrore che esso suscita; entrambi hanno provato sia il godimento estetico sia l'angoscia esistenziale. Entrambi sentono e rendono il senso dell'infinito, ricevendo, dalla contemplazione del cielo e del mare, impressioni profonde, rasserenanti, dolorose.

Nel giovanile Infinito sprofondare in questa contemplazione, lasciare che la nave della mente si infranga contro i flutti e vi si immerga, è per Leopadi suave, dolce. In compagnia del caro Lucrezio Caro e come lui giocando con le parole e ripetendo quelle assonanze e allitterazioni e allusioni, nonché ripetizioni, raddoppi, e creazione di parole nuove (verba nova) che esercitavano un'attrazione irresistibile sul poeta latino. Il naufragio descritto da Lucrezio e osservato da riva, su cui medita il viandante di Friedrich, sarà sempre anche quello di Giacomo Leopardi: semper Carus, sempre caro.

  

Questo testo è estratto dal catalogo, edito da Silvana Editoriale, che ringraziamo, della mostra La fuggevole bellezza. Da Giuseppe De Nittis a Pellizza da Volpedo, a cura di Emanuela Angiuli , e della mostra sul contemporaneo a cura di Marcello Smarrelli con Metrocubo d’infinito di  Michelangelo Pistoletto e Invisibile di Giovanni Anselmo, a Recanati, Villa Colloredo Mels, dal 30 giugno al 3 novembre 2019,

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Pina Bausch: è tempo di ascoltare la sua voce

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Sono trascorsi dieci anni dalla morte di Pina Bausch, avvenuta il 30 giugno del 2009. In questa ricorrenza, salutiamo la memoria di questa somma coreografa celebrando una donna che ha segnato le arti. Su un piano allo stesso tempo personale e collettivo la sua figura, con la sua storia e la sua “post memoria”, ci invita oggi a mettere in discussione, profondamente, il concetto stesso di presenza e come questo costituisca una materia liquida e misteriosa che, nel suo caso, continua a fluire liberamente dalla scena alle scene, dalla realtà alle realtà, dalla vita alle vite, tra passato, presente e futuro. In un certo senso si potrebbe dire che, paradossalmente, Pina Bausch non è mai stata tanto viva e presente nelle pratiche e nei discorsi sulla danza quanto in questi ultimi dieci anni: fra tributi, citazioni e ammiccamenti, l’eco della sua poetica e della sua opera coreografica si è insinuata, come sottile aria liquida, dentro tutti gli immaginari del contemporaneo. La sua morte ha liberato la forza delle immagini create dal suo genio e ha permesso che queste via via fiorissero e successivamente andassero a impollinare – attraverso il lavoro concreto e artigianale degli interpreti che della sua arte custodiscono le più approfondite conoscenze – nuove opere, nuove esperienze. È sentendo forte questo legame con ciò che è stato che tutti noi senza dubbio andiamo a teatro per assistere ai suoi spettacoli, ed è con questa stessa gratitudine che i coreografi invitati a creare per il suo ensemble dopo il 2009 si sono cimentati in quella che senz’altro si sarebbe detta un’impresa impossibile.

 

“Bamboo Blues”, 2007.


Eppure, la sua forza creatrice è stata tale che, per estremo, chiunque abbia varcato, foss’anche una sola volta, la soglia di un teatro è oggi parte della comunità allargata dei suoi eredi. La particolarità della sua fondamentale esperienza artistica risiede, in parte, nel fatto che da subito ha saputo porsi in modo tale da essere irrifiutabile. Nonostante le difficoltà di ricezione dei primi anni, quando nel giro di una manciata di stagioni Pina Bausch ha trasformato il tradizionale Ballett Wuppertal in una compagnia che sperimentava in maniera cross-disciplinare danza, teatro e opera, i lavori di Pina Bausch hanno avuto la qualità di chi è in grado di indurre un disarmo. Gli spettatori, la critica, la comunità artistica nel senso più esteso si sono dischiusi di fronte all’opera di Pina Bausch. E a dieci anni dalla sua morte Pina Bausch ancora non smette di incantare, l’eco del suo lavoro è trasversalmente presente nelle arti del contemporaneo, non solo nella danza e nel teatro. Della sua persona abbiamo mitizzato ogni aspetto, facendo del suo corpo di danzatrice e coreografa un corpus nel quale non ha spazio il cadavere che ancora tutti rifiutiamo, offrendo a questo suo ricordo di conseguenza l’alone del sacro.

 

Rigorosamente diviso tra coloro per cui è “Pina” e quelli per cui sarà per sempre “Pina Bausch”, il suo mondo ci ha parlato di rigore e di libertà, ma anche di memoria, di ironia, di paura e, soprattutto, di amore. Capita di pensare, specialmente a chi custodisce la memoria della sua presenza e dei suoi spettacoli, chissà che cosa avrebbe messo in scena, che cosa avrebbe inventato oggi Pina Bausch se… se fosse qui e, con noi, vedesse coi propri occhi il mondo per come è oggi con l’emergenza bruciante dei danni dell’Antropocene, con il protrarsi violentissimo e cieco di guerre basate su ostinate logiche del profitto e con la crisi umanitaria conseguente, che rende inevitabili migrazioni di massa aprendo il fronte di crisi legato alla mobilità dei rifugiati. Chissà. Chissà quale specchio, quale prospettiva di osservazione ci offrirebbero oggi la sua sensibilità e la sua danza, chissà se la sua arte sarebbe sempre in grado di darci speranza, ancora. Tuttavia, un attimo prima di lasciarci intrappolare da una soffocante nostalgia, possiamo guardare dentro al repertorio delle sue coreografie e, là dentro, in quell’insieme eterogeneo di temi, immagini e movimenti, cercare, scandagliando nella quarantina di opere coreografiche che Bausch ha creato nel corso della sua vita. Là, probabilmente, troveremmo tutte le risposte. 

 

“Nelken”, 1982.


La natura, innanzitutto, presente con tutti i suoi elementi negli spettacoli: acqua, terra, fuoco, aria, sabbia, alberi, fiori, foglie, frutti, animali. Il mondo naturale ha letteralmente invaso lo spazio nei suoi spettacoli, condizionandone lo svolgimento, gli assetti, le visuali, entrando in dialogo diretto coi corpi dei danzatori e delle danzatrici, mettendoli concretamente alla prova con la materia organica e svelando in loro, attraverso questa, un gioco scenico sempre vero perché mai rappresentativo nonostante la sua chiara componente formale. 

E poi certamente vi sono stati e vi sono le donne e gli uomini di Pina Bausch, il suo straordinario ensemble: un mondo popolato da un’umanità che ha incessantemente parlato d’amore senza mai essere culturalmente, emotivamente binario. Al contrario, nelle sue coreografie Pina Bausch ha celebrato, di ognuno dei propri interpreti, l’unicità, vivendo la differenza di età, provenienza, genere, lingua e formazione come un valore assoluto e insostituibile. Infine, vi è l’assoluta centralità delle persone: il pubblico, gli incontri, le collaborazioni e la sfera relazionale del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch nel suo complesso, costruita in modo da essere una fortezza cintata, da un lato, ma un porto aperto a qualsiasi sguardo, dall’altro. 

 

“Palermo Palermo”, 1989.


Nei suoi numerosi viaggi di produzione in tutto il mondo, che consistevano in residenze di ricerca e di creazione di alcune settimane in città e paesi che hanno co-prodotto i suoi spettacoli a partire dalla metà degli anni Ottanta (la prima fu Roma, nel 1985, per la produzione dello spettacolo Viktor), Pina Bausch andava rigorosamente all’incontro dell’altro, senza mai stancarsi. I suoi spettacoli, d’altro canto, sembrano proprio parlare di questo suo desiderio di inclusione senza bisogno di ulteriori commenti come testimoniano storicamente i suoi programmi di sala, scarni e composti solo dai crediti dello spettacolo e da qualche fotografia. 

Negli stessi anni in cui la danza andava alla ricerca di una teorizzazione che uscisse da quella strettamente dedicata alle tecniche del corpo, Pina Bausch ha imposto il proprio silenzio su qualsiasi interpretazione, rifiutando di chiudere le proprie opere dentro letture e concetti che avrebbero segnato un dentro e un fuori dal proprio mondo creativo. Invece, quelle frontiere sono sempre rimaste aperte e i suoi spettacoli, come porti di isole di arcipelaghi lontani, sono rimasti accessibili per tutti coloro che volessero avvicinarsi al suo mondo. La sua costanza nella scelta della forma teatrale (eccezione fatta per il film del 1990 Il lamento dell’imperatrice, costruito comunque seguendo lo stesso approccio compositivo “per frammenti” dei suoi spettacoli) ci dice, oggi, quanto ancora il teatro sia uno spazio da difendere non tanto – e non solo – per la libertà che esso concede agli artisti, ma per la libertà che concede al pubblico, che dentro al suo abbraccio, come in quello di Pina Bausch, può continuare a sognare, immaginare, mangiare, sperare, arrabbiarsi, annoiarsi, piangere, interrogarsi, sorridere e, in una sola parola, amare.

 

“Gebirge”, 1984.


Sono già trascorsi dieci anni dal 30 giugno 2009, un giorno che sembra aver segnato un prima e un dopo nella storia teatrale e della danza. Quello che è seguito a questa data è stato un decennio di rapidi cambiamenti, di grossi eventi e di nuove prospettive: ricordiamo le diverse direzioni artistiche della compagnia del Tanztheater che si sono susseguite fino alla penultima, di Adolphe Binder, che si è trasformata nelle sue note finali in un vero e proprio caso politico, con l’accusa nel luglio del 2018 di non avere piani adeguati per il futuro; e sempre sul fronte interno ricordiamo anche l’importante fase di turn over affrontata dalla compagnia con l’ingresso di nuovi danzatori e danzatrici. 

Sul fronte esterno degli eventi, invece, oltre al costante riallestimento del repertorio non va dimenticata la lunga e generosa maratona di spettacoli – con dieci titoli in programma – organizzata in concomitanza con le Olimpiadi di Londra del 2012, oppure ancora, la novità che permette oggi di poter vedere alcune coreografie di Pina Bausch presenti nelle programmazioni di altre compagnie di danza (il Balletto Reale delle Fiandre, l’English National Ballet e altre). È stato senza dubbio un tempo ad alta intensità, segnato da avvenimenti che hanno fatto sì che l’universo Bausch continuasse a guardare con forza al proprio futuro, nonostante tutte le difficoltà che naturalmente sono emerse nel momento in cui questa enorme eredità artistica ha rivelato l’assenza di un vero e proprio testamento. Una sfida che Pina Bausch sembra aver lasciato ai propri collaboratori più vicini, e oltre a essere una sfida, un enorme atto di fiducia che i suoi danzatori, in primis, hanno raccolto. Osservando oggi il lavoro costante del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch e quello della Fondazione Bausch, istituita proprio nel 2009, possiamo dire che attorno al lascito di Pina Bausch si sta immaginando e scrivendo un futuro che guarda all’avvenire con coraggio e determinazione. 

 

 

“O Dido”, 1999.


Molto si è fatto, dunque, e molto ancora è stato scritto sullo sguardo ceruleo della coreografa, sulla sua capacità di leggere nell’anima delle situazioni e delle persone con ineguagliabile precisione. Dai racconti trafugati dalla sua storica sala prove di Wuopertal, l’ex cinema Lichtburg, abbiamo appreso come le sue percezioni fossero frutto di sensi quasi sovrumani e come splendida, sempre, fosse la sua danza, sacrificata molto presto per dedicarsi alla coreografia. Tornano alla mente le parole del suo discorso pronunciato all’Università di Bologna in occasione della laura honoris causa nel 1999: “Se guardo al nostro lavoro, ho l’impressione di avere appena cominciato”. Ora, è tempo di mettere un poco da parte lo sguardo, e di ascoltare la sua voce.

 

Grazie a Piero Tauro per la gentile concessione delle fotografie che illustrano l’articolo.

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30 giugno 2009 - 30 giugno 2019
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