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Migranti per caso

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A chi gli chiedeva se lui, napoletano in viaggio verso il Nord, fosse un emigrante, Massimo Troisi non avrebbe certo potuto rispondere di essere un «expat», perché la parola non era ancora entrata nell’italiano, come invece è ormai avvenuto, almeno in certi ambienti, colti e anglofili. A lanciarla è ora uno strano libro di Francesca Rigotti, metà saggio metà autobiografia, dal titolo che contiene un ossimoro provocatorio e che rimanda a una canzone di Luciano Ligabue: Migranti per caso. Una vita da expat (Raffaello Cortina, pp. 132, in libreria da giugno). 

«Migranti» ed «expat» sono infatti termini che collidono. Expatè l’equivalente aristocratico, e certamente privilegiato, di migrante, visto che il primo è, come recita l’Oxford English Dictionary, chi «vive per scelta in un paese straniero» (living in a foreign country esp. by choice), mentre il secondo è costretto a farlo (da e-migrato, se si guarda verso l’esterno, o im-migrato, se si guarda da dentro: ormai senza sostanziale differenza, se entrambi sono comunque caratterizzati da un bisogno lavorativo, essendo a person who moves permanently to live in a new country, town, etc., esp. to look for work, or to take up a post– come si legge sempre nell’OED alla voce migrant). Non troppo diverso dall’inglese è in questo caso l’italiano, perché tanto l’emigrato quanto l’immigrato, secondo il vocabolario Treccani, sono spinti da «ragioni di lavoro». Una rivendicazione di soggettività, dunque, ma anche un’indiscutibile condizione di privilegio stanno dietro a questa nuova parola dell’italiano, expat, che è una scelta di vita, mentre il migrante resta un dannato, che non ha avuto possibilità dalla vita. Troisi non avrebbe allora mai potuto rispondere di essere un expat, perché per lui sarebbe valsa solo la prima parte del significato della parola, la libera scelta, ma non la seconda, la connotazione sociale fighetta.

 

La questione linguistica è come sempre questione politica: si può un miliardario considerare un migrante? La maggioranza dei ricchi italiani tende ormai a far studiare i figli all’estero, ma mai e poi mai accetterebbe di vederli come migranti. L’estero è anzi figo, perché consente di sapere le lingue e vendersi come superiore, grazie a una retorica che continua a ritenere l’Italia, in fondo, arretrata e incivile, retorica costruita nel corso dei secoli XVIII e XIX (prima in Europa e poi importata in Italia), ma ancora presente nell’educazione, essa sì spesso arretrata e incivile, delle classi più che benestanti. L’estero, in questa prospettiva, coincide naturalmente solo con l’Occidente avanzato e capitalista, perché nessuno di quei ricchi si sognerebbe mai di far studiare i figli in Portogallo o in Grecia, per non dire Colombia o Filippine. Il punto è che i nuovi ricchi, da trent’anni almeno, ambiscono non già alla leadership, ma alla separatezza, perché i loro privilegi non siano visibili e non possano quindi essere messi in discussione. 

 

Eppure l’expat potrebbe non essere solo un privilegiato, soprattutto se il suo espatrio avviene nell’ambito della classe media, com’è il caso di chi espatria per motivi di lavoro intellettuale, sia esso una scelta (per guadagnare di più, ad esempio) o una necessità (per trovare un lavoro che nella terra di origine è sbarrato oppure per seguire un coniuge impiegato all’estero). A riabilitarne la sofferenza e le difficoltà dedica i suoi sforzi intellettuali Francesca Rigotti, filosofa e narratrice, già autrice di libri stimolanti, che fanno entrare l’esperienza quotidiana nella riflessione conoscitiva, come La filosofia in cucina (il Mulino 1999), Il filo del pensiero (il Mulino 2002), La filosofia delle piccole cose (Interlinea 2004) e Metafore del silenzio (Mimesis 2013), oltre a studi su Un posto al sole (Mimesis 2013), l’amicizia tra donne (Orthotes 2016) e l’invecchiamento femminile (Einaudi 2018). Lei è stata certamente un expat, perché se ne andò dall’Italia per  seguire il compagno tedesco e intraprese in seguito una carriera universitaria, ma si chiede oggi, a distanza di più di trent’anni dal suo espatrio, se la sua non sia stata anche una vita da migrante, con tutti i rischi di un’operazione del genere in un momento in cui sembra che l’associazione tra intellettuale (borghese per definizione) e migrante (inesorabilmente povero) possa portare con sé solo intollerabile snobismo e ingiustificato vittimismo. Il titolo fa infatti paradossalmente del privilegiato un tenace lottatore di centrocampo.

 

 

Metaforologa, come si può dire con un neologismo dal suono respingente, ma dal significato fascinoso, la Rigotti si è sempre confrontata col passaggio dalle cose al linguaggio, per capire quel confine tra il mondo e il pensiero che rende avvincente l’esperienza umana sulla terra: solo affidando alle parole la possibilità di dire altro rispetto alla designazione delle cose la mente umana può entrare nel regno dell’astrazione, della teoria e della filosofia, aprendo nuove strade alla conoscenza, che si realizzano per via di linguaggio, appunto. Le metafore primordiali, cioè quelle con cui gli umani hanno elaborato il distacco dalla materia, erano state l’oggetto di un saggio fondamentale (fondamentale per chiunque ami le potenzialità del linguaggio di andare oltre se stesso) di Hans Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, del 1960. Con Blumenberg la Rigotti si confronta sempre, al punto da sentire il bisogno di collocare la sua esperienza da expat nel più ampio campo metaforico dedicato alle migrazioni, che da un po’ di tempo sono associate a metafore acquatiche, come «flusso» e «ondate» (da contenere magari con «argini» e «dighe»): campo rivolto a suscitare preoccupazione e paura, anche se Maurizio Bettini quasi trent’anni fa proponeva proprio di sostituire le metafore statiche delle radici con quelle fluide dell’acquaticità per discutere di una civiltà, quella occidentale, che deve la sua forza più ai grandi movimenti di massa che al legame con la terra e col passato. Senza troppo successo, a quanto pare, se si continua a parlare di «tsunami umano», «fiume di rifugiati» e «marea di profughi» (e pure, al rovescio, di «ondata di menzogne»).

 

Muovendosi a scatti fin troppo rapidi tra un argomento e l’altro, dai ricordi autobiografici all’attualità politica, attraverso analisi linguistiche e concettuali che chiamano in causa, fra i tanti riferimenti citati, i miti omerici e il Cicerone del De officiis, i romanzi di Marlen Hausofer, Margaret Atwood e Chris Pavone, la sociologia di Edward C. Banfield e David Miller, la filosofia di Georg Simmel, Deleuze e Guattari e Vilém Flusser, Migranti per casoè un libro a più facce, da leggersi e meditare a frammenti piuttosto che nella durata narrativa. Consapevole del fatto che il filosofo, per cambiare e rendere più acuta la nostra visione del mondo, «non può lasciare troppo dietro di sé il senso comune», ma non può neppure arrenderglisi, come ammoniva il grande studioso della mente J.A. Ayer, la Rigotti si cimenta con l’operazione filosoficamente più difficile: ancorare il linguaggio alla realtà e al tempo stesso aprirlo verso le potenzialità più fantasiose dell’esplorazione teorica. Tutto si muove, perciò, sul confine sottilissimo tra il personale e il collettivo, l’ieri e l’oggi, il privilegiato e il derelitto, sulla base dell’ipotesi di un’osmosi costante, di un’interscambiabilità strutturale. 

 

Riletta dentro il movimento delle migrazioni e delle paure di oggi, la migrazione di Francesca (per nome, perché il libro è insieme un saggio della studiosa Rigotti e un’autofiction della migrante Francesca), ancorché privilegiata, da universitaria, diventa un’occasione di confronto col dispatrio, per usare un’altra espressione decisiva nel discorso sul  distacco dalla propria terra e dalle proprie origini (a designare, come voleva il suo inventore, Luigi Meneghello, una condizione, al tempo stesso, di appartenenza sentita e sguardo a distanza): la perdita della lingua, che è la prima perdita della casa, è perciò centrale dal suo punto di vista, perché l’emigrante, qualsiasi emigrante, è prima di tutto costretto a ricollocarsi culturalmente, cioè come essere umano, anziché solo come sequenza di bisogni materiali, dalla fame al sesso. Uno degli aspetti più ignorati, infatti, nel contesto del dibattito attuale sui migranti è proprio la loro identità culturale, di persone, come se si trattasse quasi di robot che occupano posti di lavoro, si lanciano sul cibo e vivono di istinti. Solo ricordandoci di quanto la migrazione sia prima di tutto un riposizionamento nel mondo, potremo forse cominciare ad aprire una prospettiva di confronto e dialogo che vada al di là della piuttosto sciocca, e certamente strumentale, alternativa tra sbarchi e affoghi, accoglienza e rifiuto. Identificare i migranti col male è infatti altrettanto stupido di quanto lo sia identificarli col bene, come se la lotta tra le due forze capitali di ogni visione religiosa del mondo si fosse spostata sul loro dramma, al di là delle persone che lo abitano, che possono essere tanto degli artisti cui dovrebbe essere data la possibilità di esprimersi quanto dei criminali che andrebbero piuttosto controllati e contenuti.

 

Proprio perciò la Rigotti esamina tanto limiti quanto potenzialità della condizione di migrante (da privilegiata, certo, senza bisogni immediati, va ribadito, ma perché non allargare il discorso anziché fermarlo lì?), fino a proporre, con Isolde Charim, una «zona incontro» e, con Hannah Arendt, uno «spazio della pluralità», caratterizzati dal tra (il greco diá) come strumento di comunicazione e d’unione: 

“La lingua del mondo a venire che si situa tra-le-lingue è la lingua della traduzione, nella quale il pensiero torna a scorrere e a fluire – ancora un’immagine orizzontale – riuscendo a sentire e a comprendere empaticamente la posizione dell’altro.”

Una lingua-in-comune, che stia nel transito tra le lingue anziché nella trasposizione dell’una nell’altra: processo anziché esito, per evitare che a chi va via dalla sua terra, stretto tra nostalgia del perduto e utopia dell’incognito, resti solo la fuga dalla realtà, come spiegava bene Igiaba Scego, quando aggiungeva giustamente il dismatrio femminile al dispatrio di Meneghello: «Eravamo dei dismatriati, qualcuno che – forse per sempre – aveva tagliato il cordone ombelicale che ci legava alla nostra matria, la Somalia. E chi è orfano di solito che fa? Sogna.»

 

La storia di Francesca, allora, è un modo di dire che ciascuno ha la sua storia e che le storie non si possono ideologizzare: né dalla parte dei vincenti né da quella delle vittime. Nessuno è più figo perché studia all’estero e nessuno lo è meno perché ha lasciato la sua terra. Bisognerà considerare piuttosto la complessità dell’esperienza, come fa opportunamente il Viaggio fra gli italianiall’estero pubblicato da il Mulino l’anno scorso: un insieme di statistiche e testimonianze che puntano a rendere conto della sfaccettatura del problema, contro ogni visione unilaterale che preferisce semplificare sulla base di valori astratti – che corrispondono sempre, di fatto, a interessi di parte. Invece di mitizzare la terra d’origine, che la distanza rende sempre ideale, come ha mostrato Vito Teti in un bello studio sui calabresi all’estero, oppure, all’inverso, idolatrare l’altrove, che l’ignoranza rende sempre migliore, come fanno i tanti deprecatori della terra natia, bisognerà ripartire dalle storie, che sono fondate, appunto, sull’esperienza: che è, per fortuna, la funzione specifica della letteratura come strumento di conoscenza, al di là di facili idealizzazioni di comodo e malintese idee di impegno purificatore. 

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Analfabeti sonori

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Esame di Stato conclusivo del primo ciclo di istruzione in una scuola secondaria statale di primo grado: per capirci, “esame di terza media”. All’orale si presenta una delle quattro/cinque allieve più brave. L’allievo può esporre liberamente una sua “mappa concettuale”, un focus cioè che riesca nell’esposizione ad attraversare fluidamente le varie frammentate discipline che trasformano il triennio in un via-vai di prof nell’aula di fronte a venti ragazzini abbastanza sconcertati da questo assurdo puzzle di “esperti di una conoscenza” che dovrebbero allenarli collegialmente ad acquisire un paio di competenze fondamentali, ovvero imparare ad imparare anche da soli, essere autonomi e coscienti nella loro collocazione sociale. L’allieva ha scelto come tema “Il Novecento”. Io sono “coordinatore della sottocommissione”, ovvero colui che fa le veci del Presidente di tutto l’esame di istituto, il dirigente scolastico. Cerco di fare il direttore d’orchestra, di indirizzare lo sguardo e la comunicazione verbale verso il collega della disciplina di turno. Eccoci alla Musica. Qualcuno prima di lei ha tirato fuori il famigerato flauto dolce di plastica e, mentre il collega attivava una base elettronica, il candidato in modalità più o meno straziante intonava una stentata melodia.

 

Lei ci risparmia l’agonia, e parte spedita a parlarci di uno dei più grandi scandali della storia della musica del Novecento: La sagra della primavera di Igor Stravinskij al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi nel 1913; bene! Si vola alto! Ci racconta piuttosto speditamente dei vari periodi compositivi  dell’autore (il russo, il neoclassico, il seriale). Io e il collega di Musica sorridiamo compiaciuti. Arriviamo quindi al grande balletto, al soggetto nazionale/ancestrale, e ai tumulti del pubblico. Bene! Il collega di Musica precisamente chiede alla candidata quale parte del Sacre du printemps (dico io per compiacere il collega di Francese) in particolare si rivelò sconvolgente per la consuetudini di ascolto di inizio secolo. Silenzio. Lunghi secondi di mutismo, che si concludono con una candida confessione della candidata: «Beh, io non ho mai ascoltato La sagra della primavera». 

 

 

Dopo aver letto le cento pagine che il compositore e direttore d’orchestra e autore radiofonico, e amabile divulgatore Carlo Boccadoro ha appena pubblicato nella collana di saggi monografici Einaudi “le Vele” mi è tornato alla mente questo aneddoto scolastico. Perché la questione è la stessa: Luigi Nono sottotitolò Prometeo, il suo capolavoro dei primi anni Ottanta, «tragedia dell’ascolto». Noi possiamo parafrasarlo e convertirlo nella chiarissima, inconfutabilissima tesi di Boccadoro: oggi quasi nessuno ascolta più la musica; o meglio, la orecchia, ne sente un pezzetto, e dopo poco più di un minuto si scoccia e ne ascolta un altro pezzetto, e poi un altro; in casi veramente rari – dico io – ci sono in particolare ragazze che cantano ancora integralmente una canzone melodica, apprendendone e capendone almeno le parole e facendo propria, emotivamente, esperienzialmente (la vibrazione del canto benefica il corpo) la canzone. Lo sguardo di panico e orrore che ci siamo scambiati io e il collega di musica nel librino di Boccadoro viene svolto nel suo italiano così limpido e nel suo argomentare così persuasivo con ironia, neanche con sarcasmo. La musica è sempre stata contemporanea – come ho sostenuto io nei trent’anni in cui ho diretto “il giornale della musica” facendo la stessa battaglia di Boccadoro e altri perché si potesse dare diritto di vitalità a una musica colta contemporanea MA emozionante, complessa MA empatica eccetera. Quel mensile è stato chiuso nel 2015 perché non vendeva più abbastanza per stare in piedi economicamente, e siamo all’oggi di cui parla Analfabeti sonori.

 

Mozart scriveva musica contemporanea per chi gliela commissionava. Beethoven scriveva musica contemporanea per chi la voleva ascoltare. Stravinskij fu invece uno dei primi che scrisse musica contemporanea che molti contemporanei rigettarono, choccati da sonorità sconvolgenti e telluriche. Oggi la musica contemporanea è il pop, ma non più il pop sontuoso, complesso degli “album” di fine anni Sessanta/inizio Settanta in cui i Beatles stessi, i Pink Floyd, i Genesis e poi Frank Zappa, costruivano un concept una articolata narrazione per portare il loro ascoltatore per ore in viaggi psichedelici, onirici, intellettuali, stimolanti. Siamo tornati prima ai 45 giri dei Cinquanta e poi, con YouTube, iTunes, Spotify al nevrotico megamix di tracce brevissime, appiattite dalla compressione mp3 e poi mp4, diffusa nell’abitacolo di una automobile o nel mondo isolato e un po’ psicotico (dico io) della cuffietta.

Il collega di Musica, avvilito, disse «va beh, lasciamo perdere, andiamo oltre», ma io no, mi impuntai e lo pregai di fare ascoltare alla candidata, ai commissari (scazzatissimi per «il tempo che  avremmo perso con questo capriccio» mio) i minuti iniziali del Sacre du printemps, sino alla fragorosa, straordinaria esplosione barbarica che fece saltare sulle poltrone di velluto i benpensanti parigini.

 

Questa sparizione dell’ascolto, così chiaramente esposta da Boccadoro, che ha ormai pervaso stupidità e pusillanimità culturale addirittura direttori artistici e interpreti di musica “classica”, ripiegati su menu concertistici o discografici sempre più facili-per-pigri, è contemporanea e multidisciplinare. La definirei una “crisi di civiltà” se non fosse un concetto un po’ logoro e svuotato di indignazione. Chi non ha la pazienza di scoprire quanta meravigliosa musica contemporanea MA interessante e stimolante anche nelle drammaturgie si ascolti oggi in Europa o negli Usa, chi non emigra cioè dall’Italia temporaneamente o definitivamente, patisce anche nell’esperienza del musicale l’universale ottusità: estraneità alla lettura, insofferenza per l’ascolto financo di un’opinione del prossimo, zero empatia per un migrante torturato e a rischio della vita, stordimento nel puzzle di micro info e micro emozioni che noi tutti (non solo i millennials) ci endoveniamo ogni ora dai nostri smartphone, eccetera. 

 

L’analfabetismo sonoro che Boccadoro denuncia, e che non dà lavoro né ai compositori né ai giornalisti musicali, dilaga in quanto analfabetismo cognitivo e emotivo in gran parte del pianeta, e in vastissima parte della nostra penisola. Che fare? Si chiederebbe Lenin? “Che fare” di fatto non si chiede Boccadoro, quasi sconfortato alla fine del suo libello, desolante documentato censimento dell’idiozia dilagante. Non molliamo; ogni giorno, ognuno di noi, ovunque si trovi semini ironia, dubbio, indignazione,  zampillanti energiche proposte di infiniti ascolti e bellezze. Magari un giorno torneremo a influenzare i ministri e gli assessori, che torneranno a chiedere a gente come Carlo Majer (cui Boccadoro dedica il libro) di programmare stagioni di musica intelligente e contemporanea. In ogni caso io terrei come manifesto della nostra resistenza quella intervista del 1986 in cui Frank Zappa, in giacca e cravatta, con i capelli corti, tenne testa, solo contro tutti in un programma di una tv generalista americana, all’attacco di un paio di idioti imbecilli reazionari censori della “fornicazione”: se non si vince in tanti, è almeno bello perdere in pochi con ironia epocale, chiedendosi con Zappa: «Perché la gente ha paura delle parole? È pazzesco».

 

https://www.youtube.com/watch?v=Dr1em9EQqP0

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Un pamphlet di Carlo Boccadoro
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Seimila anni di pane

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Seguire la storia e la geografia del pane vuol dire ripensare da un preciso punto di vista la storia e la geografia del mondo dans tous ses états: l’economia, la cosmologia, la politica, la religione, la socialità, l’arte e ovviamente la gastronomia vi sono coinvolte in modo sempre diretto e pertinente. Si imparano così un sacco di cose. Venendo peraltro indotti a ripensare a tante altre che credevamo di sapere, le quali invece, a conti fatti, risultano rivedibili. Difficile esimersi da un gioco siffatto, troppo importante per metterlo da canto. Difficile affrontarlo, non foss’altro perché fugge da tutte le parti, scoperchiando gli abissi della nostra ignoranza. 

Aprire I seimila anni del pane. Storia sacra e storia profana di Heinrich Eduard Jacob – un grosso volume finalmente ristampato da Bollati Boringhieri dopo decenni di rimozione (pp. 463, € 22) – fa un po’ quest’effetto. Basta leggerlo tutto quanto, senza saltare le apparenti digressioni: e cioè quelle dove il pane, sparendo, si fa portatore di istanze e valori ben più grandi di lui. Appaiono così temi come la struttura sociale degli antichi Egizi e i comandamenti di Mosè, i misteri eleusini e l’organizzazione burocratica dell’Impero romano, le invasioni barbariche, il dogma dell’Eucarestia, la grande fame medievale, la peste nera, la scoperta dell’America, la presa della Bastiglia, giù giù fino alla rivoluzione bolscevica, le guerre mondiali, il delirio hitleriano. Il libro è stato pubblicato negli Stati Uniti nel 1944, tradotto in Italia da Garzanti nel ’51, e poi sostanzialmente dimenticato. I molti testi sul medesimo argomento che più conosciamo – per esempio: Il pane e il circo di Paul Veyne (1976), Il pane selvaggio di Piero Camporesi (1980), Il pane di ieri di Enzo Bianchi (2008), Pane nostro di Pedrag Matvejevic (2009), per non parlare della monumentale Storia dell’alimentazione di Flandrin e Montanari (1996), punto di riferimento per ogni discorso sull’argomento – gli devono molto ma, a conti fatti, non lo esauriscono. Il libro di Jacob sul pane è ancora pienissimo di informazioni e riflessioni di prima mano, non foss’altro perché scritto da un autore sui generis, estraneo ai saperi tradizionali sul cibo e la cucina, e proprio per questo portatore di uno sguardo tanto strabico quanto illuminante.

 

Heinrich Eduard Jacob (1889-1967) non era un storico né un antropologo, semmai uno scrittore (pochissimo noto in Italia) e più che altro un giornalista, un divulgatore, una specie di erudito dilettante, un curioso di talento. Oltre a un certo numero di drammi, romanzi e novelle, ha ricostruito con cura le vite di Mozart, Mendelssohn e Strauss, e ha pubblicato nel ’34 una Biografia del caffè, tradotta in italiano da Bompiani nel ’36 e mai più ristampata. Ebreo tedesco, fu internato a Dachau e poi a Buchenwald, liberato grazie a un parente americano, ed emigrato negli USA. E proprio questa drammatica esperienza nel lager viene descritta in chiusura al volume come un problema basilare circa il pane. Nel campo di concentramento, scrive Jacob, si chiamava ‘pane’ una cosa che non lo era: piuttosto una miscela di patate, piselli e segatura di legno. “L’interno era colore del piombo, la crosta aveva l’aspetto e il sapore del ferro. E questo pane sudava acqua come la fronte di un uomo torturato”. Nondimeno “lo chiamavamo pane, in memoria del pane genuino che avevamo mangiato un tempo. L’amavamo e non vedevamo l’ora che venisse distribuito”. Esperienza estrema che, secondo Matvejevic, motiva l’esistenza stessa del libro, la sua appassionata accuratezza: “Ci si può domandare – leggiamo in Pane nostro – se Jacob avrebbe scritto un testo di quel valore se non si fosse venuto a trovare in quel posto e non avesse dovuto mangiare un pane del genere”.

 

Ricostruire i seimila anni del pane significa innanzitutto, per Jacob, presuppore i diecimila precedenti, quelli che sono occorsi all’uomo per inventarlo, per passare cioè dalla spiga alla michetta. Se, come a lungo (e giustamente) s’è pensato, il pane è il maggiore prodotto della specie umana (ben più del vino, della birra e dell’olio, suoi compari mediterranei), quello che effettivamente la caratterizza per il suo progressivo distacco dallo stato di natura, è perché si tratta dell’esito di un processo di produzione estremamente complesso. Occorre arare il terreno, seminare, falciare, trebbiare, macinare i chicchi, eliminare la crusca, impastare, far lievitare, dare una forma, infornare… tutte azioni che richiedono un enorme sforzo mentale prima ancora che manuale, nonché l’apposita ideazione degli attrezzi necessari per portarle a termine presto e bene: l’aratro, la falce, il forno... E del resto già il grano, un po’ come il cane, è un’invenzione umana: un qualcosa che esiste in una natura già trasformata dall’uomo a suo uso e consumo, una pianta addomesticata che non solo è ben diversa dal suo avo selvatico ma non può riprodursi se non per mano umana. Insomma “il grano, il quale dà la vita all’uomo, vive a sua volta solo per grazia dell’uomo”.

 

 

L’ideologia alimentare entro cui il pane si colloca è nota: da un lato la sua esistenza impone una qualche stanzialità, dunque il superamento del nomadismo dei cacciatori e dei raccoglitori; dall’altro esso sta dal lato dei vegetali di contro alle carni e ai grassi animali, tipici invece dell’alimentazione nel Nord. L’invenzione millenaria e collettiva del pane richiede innanzitutto una terra di cui prendersi cura, con la quale entrare in fervido e amorevole contatto quotidiano, una terra amica e generosa, come quella delle valli dell’Eufrate o del Nilo, dove le acque irrigano periodicamente il terreno rendendolo fertile. Grazie al pane nasce l’idea stessa di casa e di villaggio, di cultura e di patria: dalla semina all’infornata passa almeno un anno. Il popolo ebraico, a lungo nomade prima di trovare la terra promessa, mangia ancora pane azzimo nelle occasioni festive proprio per ricordare le sue origini antropologiche più antiche: girovagando, non c’era tempo e modo di far lievitare la pasta. E grazie al pane si fanno e di disfanno imperi come quello romano o quello carolingio. A causa sua scoppiano continue rivolte popolari quando non intere rivoluzioni. In suo nome si istituzionalizzano le relazioni sociali, si impongono tributi e si batte moneta. Nell’antico Egitto, dove è nata per la prima volta l’idea di infornare la pasta lievitata, la gente veniva pagata in pagnotte. E a Roma il popolo era tenuto a bada con distribuzioni regolari di frumento e orridi spettacoli del circo. 

 

Così, la discesa degli Unni, prima ancora di sparger sangue e distruggere civiltà millenarie, diede luogo a un conflitto fra due opposte diete alimentari – la mediterranea vegetariana e la nordica carnivora –, dove entrambi i contendenti dovettero non senza fatica abituarsi all’altro: il panino con l’hamburger è l’emblema più visibile di quella che diverrà l’alimentazione europea medievale e moderna, faticosa sintesi di stanzialità e nomadismo, cibi vegetali e cibi animali. Grazie anche alla considerevole mediazione del Cristianesimo, che parlava di sacrificio divino, trasformando, col miracolo della transustanziazione, il pane in carne.

 

Dal pane profano a quello sacro, dunque, non c’è che un passo. Il pane è stato a lungo considerato il cibo assoluto, in quanto esito di un perfetto equilibro fra caldo e freddo, secco e umido – fattori ritenuti costitutivi di ogni alimento. Inevitabile che avesse ruoli da protagonista in molteplici forme religiose. In Grecia, dove il terreno assai roccioso non aiutava le pratiche agricole, c’era una dea apposita, Demetra, che s’occupava di proteggere i raccolti, ma anche di seguire tutte le fasi della lavorazione del pane, facendole assurgere al rango di riti sacrali. Coltivare la terra e panificare erano modi per onorare la dea. Nacquero così sul continente e nelle isole, colonie comprese, centinaia di santuari per Demetra, che erano praticamente imprese agrarie. I Greci, guerrieri per vocazione, trasformarono in tal modo le spade in aratri, e fecero del pane il loro alimento preferito. Dal canto suo la dea si premurava di fornire al lavoro agricolo un mito fondatore niente male. Come il seme sparisce nella profondità della terra per tornare alla luce, moltiplicato, dopo mesi di lavorio nascosto, così Persefone, figlia di Demetra, si trova costretta a scendere nell’Ade quattro mesi all’anno, per ritornar su più vitale che mai. Il racconto mitologico fa uso di un’analogia sorprendente, umanizzando al tempo stesso la pianta e la divinità, ma soprattutto facendo del pane un alimento che mette in comunicazione (e in comunione) gli dèi e gli uomini. Nella ciclicità delle stagioni sta la base della civiltà umana. Di modo che l’idea di resurrezione – che il Cristianesimo saprà usare molto bene con l’immagine del Dio fattosi uomo – si configura come un atto simbolicamente agricolo. 

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Cibo profano e cibo sacro
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Storie di Pietròfori e Rasomanti

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È un hortus conclusus quello che accoglie il visitatore presso Villa Pignatelli – Casa della Fotografia, un giardino che ospita ricercatezze botaniche ed elementi architettonici di gusto eclettista. Al centro del parco la villa, con il suo candore neoclassicheggiante, che dopo essere appartenuta agli Acton e poi ai Rotthschild è diventata di proprietà statale nel 1952 ed è oggi una delle poche case-museo e uno dei luoghi più significativi di Napoli. È questa sontuosa architettura a ospitare la seconda tappa del progetto itinerante di Elisa Sighicelli, Storie di Pietròfori e Rasomanti.

 

Untitled (9074), 2018 100 x 80 x 4 cm Fotografia stampata su marmo Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Museo Archeologico Nazionale di Napoli.


Con una scelta coerente, Elisa Sighicelli opta per proseguire il discorso inaugurato con la mostra a Palazzo Madama di Torino, sede nobiliare di fattura squisita, dimora di specchi e di fantasmi dello sguardo, e torna a indagare il tema della materialità della fotografia, muovendosi nella zona liminale che separa images e pictures, l’elemento immateriale dalla sua incarnazione fisica. Il tentativo di far corrispondere il soggetto delle fotografie al loro supporto – nucleo della sua pratica – ci interroga sulla natura delle immagini e aggiunge qui un tassello importante alla sua personale ricerca, grazie a una mostra generosa in termini di pezzi (tutti realizzati ex novo), di suggestioni offerte allo spettatore e di soggetti proposti.

Dopo Doppio Sogno, un altro titolo dal carattere immaginativo: Storie di Pietròfori e Rasomanti. Prendendo spunto dal racconto di Julio Cortazár, Storie di cronopios e di famas, l’artista inventa due lemmi inesistenti ma così evocativi da risultare istantaneamente familiari all’orecchio degli spettatori. Non è dato di sapere, prima di avventurarsi per i corridoi della villa, chi o cosa siano i Pietròfori e i Rasomanti, ma sembra subito plausibile l’esistenza di queste creature fantastiche, il cui nome nasce da una misteriosa funzione a cui sono votate, forse giganti mitologici che si caricano sulle spalle marmi sacri da destinare agli dèi, o negromanti capaci di vaticinare il futuro nei riflessi delle sete. 

L’opera di Sighicelli è rigorosa e allo stesso tempo giocosa, di una giocosità sottile e radicale, e mette in atto un détournement visivo e linguistico partendo da situazioni ordinarie, prelevando attraverso lo scatto fotografico elementi decorativi, opere d’arte e dettagli architettonici da isolare e restituire allo spettatore attraverso un’operazione poetica. Una poesia delle cose che scaturisce da un problema di rappresentazione, che inquieta, sposta, perturba.

 

Untitled (6885), 2019 80 x 100 x 4 cm stampa UV su marmo.


Per la prima volta nel lavoro di Sighicelli questa tensione si rivela in maniera così chiara – forse anche perché inaspettata – e non priva di una sottile forma di violenza. Così sottile da sembrare una semplice suggestione nelle prime due opere, dove viene ripreso un trapezoforo appartenente alla collezione del Museo Archeologico di Napoli, che raffigura un uomo stretto nelle spire di un mostro marino. Le opere mostrano due lati del trapezoforo creando un effetto straniante, il quadro percettivo si confonde e viene suggellato l’ingresso in quel regime di alter-realtà a cui l’artista conduce lo spettatore attraverso le sue “sculture fotografiche”. Solo procedendo nel percorso l’intuizione iniziale si rivela fondata: il rifacimento – o reload, se vogliamo – di un dipinto su carta di sapore pompeiano, montato su vetro e danneggiato, già appartenente alla collezione del Museo, crea un primo punctum nel percorso espositivo. Sighicelli ha fotografato l’opera e l’ha riprodotta su vetro, ricostruendo in maniera mimetica le spaccature dell’originale. Dice che “la violenza è alla base della tradizione figurativa occidentale” ed è proprio lì, nel ratto (come si vede nelle opere della penultima sala), nel sacrificio rituale, nelle immagini delle battaglie che l’iconografia ha trovato il substrato per germogliare e costituire l’albero della tradizione figurativa occidentale. L’erotismo intrinseco all’atto della visione affonda le radici nell’humus della rappresentazione della violenza, ma nei secoli l’arte ha mondato la brutalità, sublimandola. È sempre una questione di linguaggio: di quelle lontane visioni di sangue, oggi rimane solo una labile traccia di cui quasi non abbiamo più cognizione, e della violenza in effige rimane solo un guscio vuoto. Siamo preda di una stanchezza del vedere quando l’arte, ormai priva di qualunque residuo di sacro, diventa cronachistica, quando ricerca l’oltraggio, ma anche quando abdica alla rappresentazione e si rarefà fino a negarsi. Una stanchezza che è vuoto di senso e, in prima istanza, vuoto di forma. Qualcosa invece si risveglia qui di fronte allo zoccolo levato di un cavallo, nelle mammelle come frutti maturi di una divinità femminile, nella tensione muscolare di un soldato. Figure che hanno subìto una rilocazione ma che ci appartengono collettivamente e Sighicelli, come un admonitor, ci indica dove guardare. L’immagine riprodotta può compiersi senza tautologia e rapire il nostro sguardo, trattenerlo, come una possessione. Si sta lì, in attesa che il mistero si sveli, presi dalle immagini che tornano dagli altrove, ed è un viaggio nella memoria visiva collettiva, dove tutto ci è familiare eppure sconosciuto, un vero superimposed, perché non esiste una vera cesura tra le opere, che si legano l’una all’altra e portano avanti un discorso ininterrotto, come un flusso di fotogrammi o come una sola, grande installazione.

 

Untitled (9355), 2018 44 x 42 x 2 cm Fotografia stampata su vetro.


Sighicelli sembra invitarci a cogliere la spina e lasciare la rosa, facendoci avvolgere da un’ambiguità irrisolvibile che pure ci ammalia. Cosa stiamo guardando? Il trapezoforo è un fotografia stampata su marmo, un oggetto dove supporto e immagine si fondono, le venature della pietra traggono in inganno o forse rivelano qualcosa che era invisibile agli occhi, addomesticati dalla consuetudine. Il processo di hypermediacy aggiunge un livello di sofisticazione alle opere, evidenziando la compresenza di media diversi (pittura, scultura, fotografia, stampa etc.) intrecciati, di cui si perdono i confini specifici.

Si percorre la mostra come in un crescendo, non perché le opere siano più efficaci via via che si procede nelle sue otto sale, bensì perché lo sguardo si fa progressivamente più attento. Le opere agiscono come dispositivi spazio-temporali, sussurrano di presenze che tornano a mostrarsi in una sala da ballo dimenticata (il riflesso delle grandi specchiere ossidate della Sala da Ballo della Villa) e a palpitare nei corpi dei guerrieri e delle dee di marmo. Vedere una fotografia è sempre un rivedere, è una traccia di qualcosa che è stato o ancora è, ma sempre necessariamente altrove. Il processo di “ritornanza” presuppone un indugio, una verifica da parte di chi osserva: “la fotografia è un luogo di immagini incerte”, dice Hans Belting, e Sighicelli lavora sulla fertilità propria di quell’incertezza, su quell’indecisione temporale che crea una corrugazione nelle pelle del tempo, un’increspatura che manda alla malora il nostro essere sempre schiacciati sul presente. Forse siamo ancora dentro Doppio Sogno, e Storie di Pietròfori e Rasomanti ne è la naturale prosecuzione, di cui attendiamo il capitolo conclusivo dedicato a Villa Cerruti, altra casa-museo nata dalla passione collezionistica nutrita in assoluto segreto dall’industriale della legatoria Francesco Cerruti. 

C’è un fitto dialogo tra la collezione, l’architettura del luogo e le opere, dalle quali si irraggia una rete di assonanze e rimandi a un mondo di classicità greco-romane e alle loro storie museali, nei catasti e negli archivi dimenticati (figure provenienti principalmente dal Museo Archeologico e dalla Centrale Montemartini di Roma), colte da un’artista che ha una cultura filologica che le permette di scegliere sempre il pezzo giusto e una sensibilità medianica nello scovare il tassello che compone il mosaico della mostra perfetta. Sighicelli ha una capacità di tenere insieme tutto, facendosi curatrice e artista con un rigore che può nascere solo dall’amore. Ed è proprio Eros che aleggia nelle sale bianche del museo, un desiderio cogente di dare corpo a una mèsse di elementi visivi, segni, figure che trovano un posto in un teatro immaginario. 

 

Untitled (7056), 2018 136 x 184 x 4 cm stampa UV su travertino.


Sighicelli racconta di una possessione erotica che è tutta nella pulsione scopica. Gianluigi Ricuperati, nella sua lettera destinata a un giovane artista, la indica come esempio di artista a cui fare riferimento, che nella sua opera “esiste spazio per la gioia del vedere”. Di quali opere ci azzardiamo a evidenziare la bellezza e quanti artisti contemporanei mostrano senza pudore il loro senso per la bellezza? Pochissimi, mi sento di affermare senza rischi di smentita, laddove il bello è stato spinto ai margini del discorso dell’arte, a causa di un malinteso che lo vede antagonista al contenuto (perché le opere devono essere “interessanti” e se lo sono non sia mai che abbiano qualità estetiche...).

Ecco allora il bisogno di dare corpo, o più corpi, a ciò che è immateriale per definizione: “La differenza tra l’immagine e la realtà, dove risiede l’enigma di un’assenza resa visibile, ritorna nella fotografia attraverso la distanza temporale che ricade post factum davanti ai nostri occhi” (H. Belting, Antropologia delle immagini, pag. 161, Carocci Editore). L’enigma di un’assenza resa visibile e tangibile, i riflessi dei vetri della collezione di Villa Floridiana stampati su raso, mossi da impercettibili correnti e dal passaggio dei visitatori, animati, le lastre di marmo e travertino che diventano sculture fotografiche di guerrieri, adoni, ninfe e grazie, fino ad astrarsi e abbandonare anche l’immagine del corpo per la pura linea, il bugnato della facciata della chiesa del Gesù Nuovo che diventa una veduta di piramidi egizie, incise con i segni dei tagliapietre, o la “crema” dei sarcofagi romani, dettaglio di un particolare motivo decorativo curvilineo, immagini che trasmigrano in un gioco eterno di mascheramenti e disvelamenti. Sighicelli dimostra come il doppio non sia incatenato alla tautologia, come l’infrasottile sia in realtà uno spazio vastissimo e come l’esercizio dello sguardo sia prima di tutto forma del desiderio. In un regime di immagini di cui non sappiamo più stabilire la veridicità, indica una strada per riappropriarsi di uno sguardo analitico, curioso, libero, dove risiede quella volontà che plasma il reale un battito di ciglia alla volta. 

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Elisa Sighicelli
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La Medusa dei Figli d’arte Cuticchio

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Bisogna iniziare certe volte dai dettagli per ricostruire i quadri, specie quando illustrano oggetti complessi, stratificati. Per parlare di Medusa, l’ultima produzione di Mimmo Cuticchio, maestro di pupi e di cunti che ha portato antiche tradizioni palermitane nella modernità e nella poesia assoluta, bisogna ricordare che è una tragedia in musica, scritta dal figlio Giacomo – stesso nome del nonno, il vecchio puparo che girava la Sicilia (i fratelli di Mimmo sono nati ognuno in un paese diverso). Giacomo è un raffinato compositore poco meno che quarantenne e anche un oprante, aiutante del padre nel manovrare i pupi nel teatrino di famiglia in via Bara all’Olivella a Palermo. Strani connubi tra tradizione e contemporaneità, si direbbe, ma assolutamente fecondi. Come strano può sembrare il libretto di Medusa, scritto in settenari, ottonari, novenari, endecasillabi in una lingua arcaizzante, neoclassica da Luca Ferracane, a sua volta drammaturgo e scenografo.

 

 

La vicenda interpreta uno dei miti più strani, terribili, controversi, quello di una donna conosciuta come la terza Gorgone, Medusa, nota per la capigliatura di serpenti, per lo sguardo che impietriva e per l’astuta violenta vittoria che su di lei riportò Perseo. La sua storia, come molti miti, è nutrita da fonti diverse, contradditorie. Ovidio la racconta come una bella fanciulla mortale dalla fluente capigliatura di cui si invaghisce il dio Poseidone che la possiede nel tempio di Atena. E la dea, per vendetta del sacrilegio, trasforma quei bei morbidi neri capelli in serpenti. Non c’è bisogno di aver visto la statuetta di divinità femminile che brandisce due serpenti del museo di Heraklion a Creta o di aver partecipato alla festa dei serpari a Cocullo in Abruzzo e neppure di essere storici delle religioni o antropologi per capire che ci troviamo di fronte a miti e rituali ctoni diffusi nel mondo mediterraneo, qualcosa di legato al mistero della terra, della generazione, della forza della donna, variamente rimossa o criminalizzata dai trionfi del patriarcato. 

 

 

Un altro sintomo, da auscultare: Medusa ha aperto la seconda fase della 36esima edizione della Macchina dei sogni, intitolata, in questo cinquantenario dell’allunaggio, L’altra faccia della Luna. È un festival che caparbiamente l’Associazione Figli d’arte Cuticchio, il suo direttore Mimmo e Elisa Puleo, fondamentale sua anima organizzativa, vanno organizzando in giro per la Sicilia, cercando di volta in volta ospitalità presso chi riesce ad offrirgliela, oppure facendo per proprio conto. Questa rassegna è uno spazio di poesia, di immaginazione che raduna chi fa teatro con oggetti, burattini, marionette, narrazioni e con questi scava l’umano, come siamo nei comportamenti, nei desideri, nei sogni, nei deliri, nei dolori, nelle gioie, dentro, a fondo. Quest’anno erano due le sedi: palazzo Riso a Palermo e il palazzo museo Daumale a Terrasini, a pochi chilometri da quella Cinisi dove visse e morì Peppino Impastato, il militante di Democrazia Proletaria ucciso dalla mafia. 

La luna dominava i diversi spettacoli invitati, la luna del viaggio di Astolfo sull’Ippogrifo per recuperare l’ampolla col senno perso da Orlando, la luna da dove torna il Pulcinella di Bruno Leone o dove quello di Pantaleo Annese, stanco di zuffe, ha lanciato il suo famoso bastone per amore. “Come Cotrone e gli scalognati – scrive la Figli d’arte Cuticchio – padroni di niente e di tutto, ci rifugiamo nella fantasia, nella poesia e nel sogno, cercando di fare ‘avvenire anche nella veglia… i sogni, la musica, la preghiera, l’amore’”. Con la coscienza che Neil Armstrong e Buzz Aldrin cinquant’anni fa dopo l’allunaggio non trovarono nessuna ampolla dei senni smarriti “perché tutto è custodito sull’‘altra faccia della Luna’, quella che gli astronauti, non essendo poeti, non poterono raggiungere”. 

La macchina dei sogni è un festival diffuso per la Sicilia, nomade, continuamente in esplorazione e in cerca di casa, perché l’arte è meravigliosa ma non sempre le istituzioni le danno l’attenzione che merita. È un’avventura sempre nuova e rischiosa, che l’anno scorso si è spinta fino in Vaticano, da papa Francesco, e poi a Roncisvalle, con dodici pari, paladini, poeti, scrittori, uomini di cultura e innamorati dei racconti e dei sogni, per rievocare la leggenda e la rotta di Orlando. L’impresa l’ha raccontata su doppiozero Giuliano Scabia (leggi qui), e ora è documentata con vari scritti nel bel libro illustrato Straziante meravigliosa bellezza del creato (edizioni Associazione Figli d’arte Cuticchio).

 

 

Medusa: lo spettacolo

 

Come i capelli serpenti, come i serpenti marionette di tutte le dimensioni che, strisciando, alla fine coprono la ragazza seminuda attonita per la punizione della dea, questo spettacolo ti avvolge in molte spire. 

Innanzitutto nella musica di Giacomo Cuticchio, sorprendente per chi non abbia mai sentito le sue rivisitazioni del repertorio classico dell’Opra dei Pupi o i suoi pezzi per archi e fiati, come quelli che accompagnavano la Pazzia di Orlando vista tre anni fa a Palermo. Musica incalzante, questa di Medusa, apparentemente postmoderna, in realtà antica e presente nel suo fondere barocco, primo novecento e minimalismo, con quegli incisi melodici reiterati affidati al pianoforte, il salire del vortice ritmico e la distensione archi-fiati che assume di volta in volta il carattere di gara concertante, di fanfara, di apertura verso spiagge dell’evocazione, dell’immaginazione sonora. L’autore avrebbe potuto dare il nome di opera allo spettacolo, perché non c’è una sola frase recitata, è tutta cantata da tre bravi solisti, giovani come i più di trenta orchestrali, e come i quindici coristi, otto donne, le Nereidi e le Sacerdotesse, e sette uomini, i Tritoni. Ma invece l’ha chiamata tragedia musicale, perché di una storia di violenze si tratta e perché la scena è fondamentale, con marionette molto simili a pupi armati, derivate da quelli, con fondali dipinti e in alcuni casi composti come luminosi collage, apparizioni di gabbiani, luna, mare, pesci, fuoco con antiche tecniche di animazione e effetti di luce che incrementano la magia curati da Marcello D’Agostino. Non si svolge però tra le quinte di un teatrino: i due opranti, Cuticchio padre e figlio, agiscono a vista, e così gli aiutanti di scena, Tania Giordano, che firma anche i costumi e che è autrice delle suggestive scene, e Giuseppe Airò (il suono, essenziale per tenere insieme le molte componenti, è di Luca Rinaudo). 

 

 

E qui l’altro dettaglio importante: vedere il meccanismo non sottrae magia, anzi l’aumenta. L’oprante non guarda il pubblico, scruta con attenzione, con emozione, i movimenti (le azioni e i sentimenti) del suo pupo e così facendo sembra avvicinare, ingrandire il nostro stesso sguardo. Mimmo Cuticchio pare cullare Medusa che sogna di ballare col pescatore che ama, e sembra nasconderla quando seminuda, violata, viene aggredita dalla dea: solo con gli occhi, con l’intensità del movimento asciutto delle mani e delle braccia ci trasporta in un altro mondo, in altri affetti.

È un rapporto di amore, come è straordinario e amorevole che Giacomo Cuticchio, il compositore delle musiche, appaia in scena come puparo dopo che ha lavorato a quella partitura per quasi un anno, che ha riunito l’orchestra, che ha infuso entusiasmo nei suoi giovani collaboratori, che ha convinto il padre e tutta la compagnia a rischiare un’impresa enorme. “Famiglia d’arte” non è solo una sigla: è un antico rapporto di dedizione artigiana, quotidiana, alle cose; è gesti trasmessi facendo, sbagliando, ripetendo, sbalzando; è un crescere faticoso, umile, nell’amore nell’ascolto nell’incanto, il contrario esatto del vacuo pressapochismo narcisistico così diffuso oggi.

Mimmo Cuticchio racconta di essere cresciuto tra i pupi e di averli sempre considerati fratelli e sorelle. Pensiamo che con loro parli, che a loro confidi gioie e dolori, riuscendo così a caricarli di quella forza ieratica, meno e più che umana, che da essi traspare ogni volta che si muovono tra le sue mani. Mimmo ha rotto la tradizione del padre e la minorità folcloristica del puparo portando le sue marionette verso il cunto e verso l’opera lirica, con musiche di Sciarrino, di Mozart, di Puccini; le ha mescolate con gli attori nell’Odissea, in racconti su Garibaldi e su altri eroi a noi vicini; ha narrato la fine del mondo dei pupari stessi e dell’Italia antica, contadina proletaria e sottoproletaria, arrivata con le ossa doloranti nella contemporaneità. 

Giacomo, mettendosi in gioco su diversi piani, affidandosi alla regia sapiente del padre, mostra un altro gradino di quella trasformazione, di quella nuova vita della tradizione mescolando barocco e pupi, orchestra e fondalini, tragedia in musica neoclassica, modernismi e trucchi che ci chiedono di rimanere a bocca aperta come i veri saggi, i bambini, per scoprire, davvero, l’altra faccia della luna.

 

 

Sotto le stelle di Terrasini il soprano Federica Faldetta (Medusa), l’altro soprano Corinna Cascino (Gran Sacerdotessa, Anfritite, Atena) e il baritono Francesco Vultaggio, immobili al leggio, doppiano le azioni di quegli espressivissimi fantocci con il canto, sotto la direzione energica di Salvatore Barbieri, un giovanissimo che ci ricorda qualcosa del gesto travolgente di Massimo De Bernardt. 

L’opera non è più possibile, con la sua identificazione tra interprete e personaggio che agisce: da Stravinskij in poi le relazioni con le figure evocate dalla musica si sono moltiplicate in rapporti vari di straniamento, e qui abbiamo un bell’esempio di moltiplicazione di piani che invece che distanziare dall’oggetto ci porta più vicino al suo cuore pulsante.

 

 

L’emozione è la cifra dello spettacolo, alla fine. I canti di mare, la luna, i pesci, l’azzurro, di intensità simile a quello dell’acqua oltre le coste scogliose del paese. La sfilata delle teste dei fedeli che arrivano al santuario e che scrutano lo spettatore per tutta la durata della tragedia, immobili impotenti testimoni. I cori delle sacerdotesse, il canto di speranze d’amore della bella, fragile Medusa per il pescatore e quel ballo pudibondo agito e osservato con affetto dai pupari. L’arrivo dirompente di un Poseidone simile a sultano, su musiche orientaleggianti, e il suo dongiovannismo, e lo stupro, nascosto dietro un altro telo, anche questo azzurro. Non è che “la sventurata rispose”: no, viene violentata, e ancora più crudele sembra la punizione inflitta dalla dea, che appare terribile e rilucente, alla piccola figurinetta della ragazza piegata su sé stessa, a tentare inutilmente di coprirsi, di nascondersi al lampeggiare della realtà. 

Poi viene coperta dai serpenti, Medusa, striscianti, guizzanti, volanti, e si trasforma in paurosa immagine di Gorgone, a ricordarci che lo stupro, il femminicidio, perpetrato da mostri dall’aspetto umano, altera per sempre le persone, i sentimenti. Il festival, anche negli altri spettacoli ospitati, spesso si è interrogato sulla donna e sulle violenze, grandi o piccole, commesse contro di lei. Quell’immagine finale, tramandata ai posteri dal mito e dall’iconografia per secoli, un fondale con la testa terrifica della Gorgone che ricopre la tenera ragazza, ci chiede di tornare ad ascoltare il dolore e la mite potenza di tutto quello, di tutti quelli che degradiamo, rimuoviamo, calpestiamo.

 

Le fotografie che illustrano l’articolo, tranne la sesta, sono di Alessandro D’Amico.

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L’estate dei festival
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Velli macchiati, villi titillati. Il refuso e i suoi sensi

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«[Anziché Machiavelli] La mia macchina da scrivere aveva scritto Pacchiavelli, e l'inaspettato accadimento della romanesca voce “pacchia”, così eloquente ed espressiva nel cognome del Segretario fiorentino, non me la sento di considerarlo fortuito. Il machiavellismo è la teoria del comodismo messa in buon toscano». 

Fra macchia, pacchia e macchina, Alberto Savinio non solo teneva conto delle produzioni involontarie della sua dattilografia, non solo si proponeva di interessarne la psicoanalisi ma ne traeva anche alcune conseguenze logiche. Le trattava cioè come dati, premesse di ragionamento fra le altre. I loro lettori sanno che qui e là le opere di Savinio offrono sempre spunti del genere, per esempio nel saggio sulla Città del Sole di Tommaso Campanella dove l'autore menziona un «deificio» e decide che il neologismo è assai più adeguato del termine corretto che aveva in animo di scrivere (ovviamente, «edificio»).

È probabile che Savinio non conoscesse la leggenda medioevale del diavolo Titivillus, altrimenti forse ne avrebbe messo il nome in congetturale relazione etimologica con quello dell'autore di Belfagor arcidiavolo: velli e villi dall'uno macchiati, dall'altro titillati. L'errore non macchia forse il foglio? La leggenda vuole che il diavolo Titivillus avesse l'ingrato compito di portare all'Inferno, ogni giorno, un sacco colmo degli errori commessi dagli amanuensi. Sviluppò così l'arte di indurre in errore i copisti e questi, scaltri, anziché prenderlo a nemico se ne fecero un patrono. Non sono stato io, a sbagliare, è colpa di Titivillus!

 

A proposito di demoni, Giorgio Manganelli non è riuscito a sciogliere del tutto il mistero per cui una certa «nottataccia» di Pinocchio risulta «d'inverno» o «d'inferno» a seconda delle edizioni consultate. Questo càpita all'inizio del sesto capitolo del suo Pinocchio: un libro parallelo (Rizzoli, 1977), che corrisponde con scrupolosa esattezza parallelistica al sesto capitolo del capolavoro di Collodi. Non che Manganelli dubiti: Collodi ha certamente scritto «inverno». Ma il fatto è che anche «inferno» non ci sarebbe stato assolutamente male, visto che si era intrufolato nell'esordio di un capitolo in cui sarà questione di fuoco e membra incendiate, membra di precoce malfattore colpito da contrappasso. Un errore sapiente, dunque, che offre a Manganelli l'occasione per stendere in tre pagine un manifesto della letteratura per errore. Comincia così: «Non v'è dubbio che l'uso di un refuso come indizio interpretativo sia, dal punto di vista della corretta filologia, assolutamente mostruoso, ma, nuovamente, che è mai un libro, un testo, un autore?». Termina così: «Infine, le parole non conoscono errore. Se una parola “sbaglia” l'universo si adegua immediatamente. Ho scritto per la seconda volta “universo”, è ora che smetta».

L'«universo», ciò che è vólto all'Uno, non può occupare troppo spazio in un libro «parallelo» e in un capitolo dedicato all’errore, essendo i paralleli così come gli errori vólti perlomeno al Due (ossia al Di/verso).

 

Solo l’enigma pareggia la capacità detenuta dall’errore di dire due cose o nessuna, senza mai infilare il filo logico del discorso nella cruna dell'intenzione univoca e quindi senza mai consentire che ci vengano attaccati bottoni. Ci sarebbe anche la poesia, certo, ma a differenza di enigmatici e erratici, i poetici tendono a inebriarsi dello sregolamento dei loro sensi e rischiano così di fare brutte figure. È il caso di John Shade, il tragicomico eroe nabokoviano di Fuoco pallido, poeta che a un certo punto del suo straziato, ed equivocato, poemetto esclama: «La Vita Eterna basata su un refuso». Non si pretenda che in questa sede io spieghi come una certa «white fountain» si riveli essere una «white mountain». Dirò solo che fonte e monte sono protagonisti di due distinte esperienze pre-morte, una delle quali trascritta con l'errore fatale. Chi lo ha commesso, un vacuo giornalista, se ne compiace e lo chiama «the majestic touch», un tocco di maestà.

 

 

«Non il fragile nonsenso, ma una rete di senso», conclude il poeta, a riscattare l'opera di Titivillus dai suoi esiti più volgari. Si sa che non solo la Vita Eterna si basa su un refuso, essendo oltretutto la «scatologia» un prezioso refuso di «escatologia». Per più anni l'accurata e raffinata casa editrice F.M.R. per l'elenco telefonico di Milano ha avuto sede in via «Culo del Duca» anziché «Cino» («ul» risultava dal rovesciamento dei due caratteri «in»). Nella prima tiratura di Fondamenta degli Incurabili di Iosif  Brodskij una maliziosa macchia bianca di stampa riusciva a trasformare un «cielo» veneziano in un meno lirico «culo» (la sostituzione accade, ma per gioco e non per errore, anche in una riunione conviviale dei personaggi di Fratelli d'Italia di Alberto Arbasino), mentre a proposito di russi un articolo di giornale sosteneva che lo zar Alessandro II era così appassionato dello champagne Roederer da averne, un certo anno, «orinato l’intera produzione». Questo è il genere di refusi che macchia i testi e titilla i lettori di animo fanciullo, ispirando loro cachinni vendicativi nei confronti di autori ed editori: «il Re è Fuso!». 

 

Non bisogna però lasciarsi distrarre dalla facile latenza dell'osceno o dalla tentazione nichilista del nonsenso. Le vie che Savinio e Manganelli ci indicano sono distinte e convergenti e portano al refuso che non sconcia né abroga ma aggiunge. Qualcuno lo ha infine detto: l'inclusione di un po' di «gioco», di uno spazio di manovra è l'apporto che il genere umano ha dato all'Universo. In quello spazio si dà la possibilità, ubiqua, di sbagliare e quindi di renderlo Diverso. 

 

 

Nota di Anna Foà e Marco Sodano

Il testo di Stefano Bartezzaghi è estratto da Banda Larga, Acquario, Acquario, Torino, 2019. Edizione fuori commercio.

Nasce tra Torino, Milano, e una cloud, una nuova impresa editoriale: Acquario. Libri piccoli, belli alla vista e al tatto, con uno sguardo preciso. Acquario può essere una firma a più mani, Banda Larga, e avrà un  Web Side; per presentarlo Anna Foà e Marco Sodano hanno chiesto a Stefano Bartezzaghi, Marco Belpoliti, Edoardo Camurri, Roberto Carretta, Francesco M. Cataluccio, Manuela La Ferla, Giulia Vola, di parlare del libro e altre storie. Con un omaggio a Manuzio, Fruttero&Lucentini, Rodari, Formìggini e al viandante di Bobi Bazlen. La grafica è di Paola Lenarduzzi.

A settembre uscirà il primo libro: Il poeta delle pantegane. Federico Tavan di Alessandro Mezzena Lona. 

acquariolibri.it

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Il Re è Fuso
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Gli immortali

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Immortale è ciò che esiste da sempre e per sempre. Immortali sono le storie e il mondo, le cose più antiche conosciute dall’uomo. Immortale è il futuro, il quale – poiché deve ancora avvenire – si colloca in un tempo dai confini indeterminati, e quindi infinito.

Gli immortali, di Alberto Giuliani (il Saggiatore) ha come sottotitolo Storie dal mondo che verrà. È una raccolta di storie del futuro collocate in una cornice del passato. La cornice ha a che fare con una doppia profezia. La prima è stata pronunciata nel 1997 sulle rive del lago Bajkal in Siberia; la seconda due anni dopo, in India, nella città sacra di Vrindavan. Entrambe riguardavano il futuro di Giuliani; un futuro che sarebbe stato interrotto, a loro dire, da una morte prematura e violenta. 

Ma alle profezie – razionalmente – stentiamo a credere, almeno fin quando non cominciano ad avverarsi sotto i nostri occhi. Tra le profezie rivolte a Giuliani ce n’era una che riguardava una donna con cui avrebbe avuto un bambino. La profezia sosteneva che la donna sarebbe stata una sua vecchia conoscenza d’infanzia. Cosa apparentemente non vera. Senonché, un anno prima di scrivere questo libro, Giuliani scopre alcune vecchie fotografie di famiglia. In una di queste vede se stesso all’età di nove anni mentre sulle Dolomiti riceve una medaglia dal maestro di sci. Ai piedi del podio scorge, insieme ad altri bambini, quella che alcuni decenni più tardi sarebbe diventata la madre di suo figlio e che a quel tempo non conosceva. 

 

Le coincidenze hanno sempre un doppio potere, sono come le evoluzioni degli acrobati: da una parte ci attraggono, dall’altra ci spaventano. Ma lo spavento che ci provocano non è che una parte, spesso la più importante, dell’attrazione. E se in un novero di profezie una si avvera, allora devono essere prese in considerazione e temute anche tutte le altre. Ecco allora che il pensiero della morte prematura e violenta inizia a farsi largo nella mente di Giuliani. In particolare un aspetto della profezia di Vrindavan, la città dell’amore infinito e dei cinquemila templi, dove durante un viaggio compiuto all’età di ventitré anni un bramino – Mr Sharma – gli aveva predetto: “In un giorno caldo dei tuoi quarantatré anni, ti aspetta una morte violenta”. Un vaticinio durissimo al quale Mr Sharma aveva aggiunto: “Un uomo del futuro ti saprà aiutare. Trovalo e fidati di lui, ti indicherà una giusta strada. E indossa uno zaffiro giallo sull’indice della mano destra, in quel momento ti aiuterà a trovare l’equilibrio. Nulla può esistere senza il suo opposto. Devi solo trovare il tuo centro”. 

Il libro nasce in quel momento, nasce con la volontà di intraprendere un viaggio alla ricerca dell’uomo del futuro, colui che forse potrà aiutarlo a schivare la morte e a deviare la traccia del proprio destino. Ma la prima domanda che Giuliani si pone è: chi è quest’uomo? 

 

“Lo faccio per gioco, non per paura”, rivela alla moglie. Ma non è vero, non lo sarebbe per nessuno. La questione assume dunque le fattezze di un tortuoso rompicapo. Giuliani vede il futuro come distanza, quindi come luogo dell’immaginazione. Cerca per primi coloro che si trovano nel contempoqui e altrove. L’uomo del futuro per lui è qualcuno che abita già il futuro e non qualcuno che realizzerà se stesso compiutamente nel futuro. Il discrimine è tutto qui. È nell’interpretazione. La salvezza del proprio corpo è legata a una decodificazione di senso. 

 

 

Giuliani crede che i primi a essere qui e altrove siano dei giovani astronauti impegnati in un programma sperimentale della NASA, che da un anno vivono rinchiusi in un modulo abitativo spaziale collocato alle Hawaii, con lo scopo di sperimentare i limiti umani in vista di una missione colonizzatrice su Marte. Invia loro dei videomessaggi, poi incontra Damien, un astrobiologo che nel frattempo è uscito dal programma di simulazione. Durante il loro colloquio, Damien dice cose come: “Ho capito che spostando il limite non risolviamo le nostre angosce”. E: “Possiamo scappare lontano, ma il problema viene sempre con noi”. 

La questione è filosofica. L’immagine del futuro è in contrapposizione con la speranza di realizzare la conoscenza di ciò che è eterno. Del resto la modernità, dopo Darwin, non si interroga più sul “Cosa siamo?”, ma sul “Cosa possiamo diventare?”. Questo è l’errore in cui, senza rendersene conto, incappa Giuliani: la sua ricerca è mossa dalla domanda sbagliata. A lui interessa la sopravvivenza (e dunque l’eternità), non il divenire (entro i cui limiti determinativi rientra anche la morte). Egli è per certi versi ancora un uomo pre-moderno, come in un certo senso lo siamo tutti. 

 

E come lo è senz’altro Max More, il proprietario di Alcor, un’organizzazione con sede in Arizona che si occupa della crioconservazione di esseri umani in azoto liquido a -196 gradi centigradi con l’intenzione di riportarli in vita quando la tecnologia del futuro lo renderà possibile. Giuliani incontra More, il quale gli mostra i sarcofagi. In ognuno di essi sono conservati quattro corpi e quattro teste (“Per chi desidera salvare solo il cervello. Presto lo sapremo impiantare in un nuovo corpo. E nel frattempo il cranio è un buon contenitore”). 

E come lo è il fondatore di Xpoint, in South Dakota, una città sotterranea alle pendici delle Black Mountains in cui con venticinquemila dollari si può acquistare un bunker a prova di apocalisse. 

In questo viaggio tra robotica umanoide e soli artificiali, in cui nulla è utopia ma tutto è mosso da qualcosa che è insito nell’uomo, ossia la visione intuitiva, quella capacità di scrutare nel possibile prima ancora che nel reale, Giuliani cerca la sua risposta. Finché non decide di tornare da dove è partito, nella città sacra di Vrindavan, per incontrare di nuovo Mr Sharma. Qui, alla vigilia dell’estate del suo quarantatreesimo anno di età (quello in cui, secondo la profezia, in un giorno caldo si sarebbe imbattuto in una morte violenta), troverà forse la soluzione al rompicapo.

 

Immortali sono le storie e il mondo, si diceva all’inizio. A fondamento della fisica contemporanea c’è una visione filosofica: l’eternismo. È la tesi secondo cui tutti gli eventi temporali esistono, e per la quale non può esserci differenza ontologica tra passato, presente e futuro. Le esperienze che noi viviamo possono essere assimilate a un mazzo di carte coperto che voltiamo poco alla volta su un tavolo. Quelle carte, così come le porzioni temporali che ci accingiamo a vivere, devono esistere prima ancora di essere scoperte. La natura speculativa della mente umana ci induce a vedere dietro a quelle carte realtà molto più complesse ed elaborate. 

 

La realtà del viaggio, secondo la concezione eternista, è composta da un punto di partenza (A) che è conosciuto, e da un punto di arrivo (B) che è altrettanto noto, ossia esiste già quando il viaggiatore inizia il suo viaggio (la carta coperta sul tavolo). Quindi il punto di arrivo è davanti ai nostri occhi, è sempre stato lì. Come lo è l’uomo del futuro di Giuliani, colui che indicandogli la strada giusta potrà salvarlo dalla morte. 

Chi sia quest’uomo, noi lettori lo scopriamo solo all’ultima pagina. E come in tutte le filosofie sapienziali la verità ci coglie come un’illuminazione, una sostanza unica sotto ai nostri occhi che per nostra congenita, umana limitatezza ci ostinavamo a non vedere. 

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Come il capitalismo ha colonizzato la terra

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C’è un filo diretto che parte dai campi di concentramento nazisti dove si sterminavano uomini e arriva direttamente nei supermercati di oggi dove si nutrono consumatori. I fornitori di materia prima sono gli stessi, il disinteresse per l’utente terminale è lo stesso. Nel 1927 la Standard Oil americana dei Rockfeller e la IG Farben tedesca, futuro pilastro economico del potere hitleriano, fondarono la Standard IG Farben e, quando i nazisti arrivarono al potere, collaborarono all’apertura del campo di concentramento di Auschwitz fornendo capitale e tecnologie. La IG Farben, che era in società con la Monsanto, e di cui faceva parte anche Bayer, produceva lo Zyklon B, un pesticida a base di cianuro usato per lo sterminio dei prigionieri nei campi di concentramento nazisti, considerato “arma del delitto” al processo di Norimberga, dove IG Farben e associate, tra cui Bayer, Basf e Hoechst, furono condannate per crimini di guerra. “I prodotti chimici sviluppati per uccidere la gente nei campi di concentramento nazisti durante la seconda guerra mondiale sono diventati prodotti agrochimici utilizzati nell’agroindustria dopo la fine della guerra. Questa agricoltura industriale è stata poi imposta alla gente di tutto il mondo.” 

 

A parlare è Vandana Shiva nel libro Il pianeta di tutti. Come il capitalismo ha colonizzato la terra, uscito per Feltrinelli nel maggio 2019. Vandana Shiva è un’ambientalista indiana che da anni si batte per una maggiore giustizia sui temi dell’alimentazione, dell’agricoltura e di tutti gli argomenti collegati. Scritto con passione e veemenza, il libro fa nomi e cognomi di chi ha contribuito a portare il mondo sull’orlo del collasso, facendo partire l’analisi dal cambiamento di passo avvenuto nell’agricoltura. “L’agricoltura industriale, basata sull’uso di sostanze tossiche e di combustibili fossili, è il principale volano sia della sesta estinzione di massa sia del cambiamento climatico.” Il sistema alimentare e agricolo moderno consuma dieci volte l’energia necessaria ai sistemi di coltivazione precedenti, ha già distrutto il 75% del suolo, dell’acqua e della biodiversità, è responsabile del 50% delle emissioni di gas serra. In altre parole, l’agricoltura industriale è responsabile di oltre i tre quarti di tutti i problemi ecologici e sanitari del mondo. Più del 90% delle varietà agricole è scomparso e il 75% della diversità genetica vegetale è stato portato all’estinzione dalle monoculture del’agricoltura industriale. Tutto questo per fornire a malapena il 30% del cibo di cui ci nutriamo. 

 

L’autrice punta l’attenzione sulla mentalità colonialista, ritrovando gli stessi identici meccanismi. Cecil Rhodes, l’inglese che fondò il suo impero economico sullo sfruttamento dello Zimbabwe, a fine Ottocento scriveva: “Dobbiamo trovare nuove terre, da cui ricavare facilmente materie prime, e allo stesso tempo sfruttare la conveniente manodopera servile messa a disposizione dai nativi delle colonie. Le colonie serviranno poi anche come discarica per le merci in sovrappiù prodotte dalle nostre fabbriche.” Il colonialismo classico si appropriava delle risorse in Africa, in Asia, nelle Americhe per trasferirle in Europa invocando Dio e la religione al servizio della “missione colonizzatrice” per trasformare questi atti criminali in beni a disposizione dei monarchi europei e dei mercanti. Oggi il meccanismo è lo stesso, la religione è stata sostituita dalla “proprietà intellettuale” che crea monopoli sui semi, sul cibo, sulle comunicazioni, sulle transazioni finanziarie. I robber barons odierni operano nelle tecnologie dell’informazione, nella finanza, nell’agricoltura, nelle biotecnologie, settori che convergono tutti nell’economia digitale. Le tecnologie dell’informazione, grazie alla digitalizzazione, trainano il mondo finanziario e l’economia. In questo panorama la natura è vista come nemica, è iniziata una nuova fase dell’agroindustria, la chiamano Agricoltura Digitale, l’agricoltura senza agricoltori.

 

 

Le multinazionali, fondate sul paradigma neoliberale, sono nate da una grande accumulazione di denaro e potere unita all’assenza di democrazia e sono l’ultimo strumento della colonizzazione. “Con l’introduzione delle nuove regole del libero scambio aspetti della vita che non erano mai stati di pertinenza del commercio sono stati privatizzati. Le sementi sono diventate proprietà intellettuale di Monsanto, che ne ricava royalty e rendite. Il cibo è ormai una merce scambiata da mercanti di granaglie come Cargill e trasformata in spazzatura da Coca-Cola e Pepsi, Nestlé e Kellogg’s. Le grandi corporazioni riducono la libertà a “libero scambio”, ossia alla globalizzazione delle multinazionali.” Le regole del libero scambio sono scritte dalle stesse multinazionali che le usano per mercificare e privatizzare tutto, terra, acqua, semi, cibo, informazione. Il potere economico va sempre più concentrandosi nelle mani di poche persone. Secondo il Wall Street Journal durante la crisi finanziaria del 2008 negli Stati Uniti l’1% più ricco si è accaparrato il 95% della ricchezza. Mentre la gente comune perdeva lavoro, casa, pensione e sicurezza, pochi giocatori d’azzardo dei mercati finanziari si sono arricchiti a dismisura. Nel 2010, 388 miliardari controllavano un patrimonio pari a quello della metà più povera dell’umanità, l’anno successivo il numero è sceso a 177 ed è diminuito anno dopo anno fino ad arrivare a 62 nel 2016 e a sole 8 persone nel 2017. 

 

Tra gli esempi che troviamo nel libro, uno dei più paradigmatici degli effetti della nuova agricoltura gestita dalla multinazionali, troviamo quello del cotone Bt, geneticamente modificato e brevettato dalla Monsanto, che richiede un grande utilizzo di sostanze chimiche per controllare i parassiti. Nel 1995 Monsanto l’ha introdotto illegalmente in India, raggiungendo in alcune regioni il monopolio delle sementi, anche se la brevettazione delle sementi è vietata dalla legge indiana. Il meccanismo fa in modo che i contadini siano costretti a comprare i semi dalla Monsanto, a utilizzare sempre più pesticidi perché il cotone Bt si è rivelato non solo incapace di controllare il parassita per il quale era stato sviluppato ma ha favorito l’emergere di nuovi parassiti. Risultato: dal ’95 al 2015 nella regione del Maharashtra ci sono stati oltre 300.000 suicidi e secondo Vandana Shiva almeno l’85% di quelle morti è riconducibile all’azione della Monsanto, che nel frattempo ha incassato oltre 70 miliardi di rupie. Ma non si pensi che il problema riguardi terre lontane, un altro dei bestseller della Monsanto è il Roundup, un erbicida a base di glifosato, considerato “probabile carcinogeno” dalla Oms. Nel 2017 diversi studi hanno rilevato come il 45% del suolo agricolo europeo sia ormai contaminato dal Roundup. 

 

La tesi di Vandana Shiva secondo cui il principale responsabile dell’ondata di suicidi che ha colpito gli agricoltori indiani sia la Monsanto, è stata messa pesantemente in discussione. Colpisce che nella pagina di Wikipedia a lei dedicata, la parte che riguarda la critica al suo pensiero sia corposa quanto quella che lo spiega, accumulando accuse che fanno pensare a quanto l’azione di questa donna sia temuta dal potere economico. Fino a metà Novecento, i nemici li si eliminava fisicamente, ora le armi si sono fatte più subdole e sofisticate, nell’era della rete la guerra si combatte con i mezzi della comunicazione. Monsanto gestisce un programma chiamato “Let Nothing Go”, Non lasciar passare niente, che impiega un esercito di troll su Internet accanto a giornalisti e persino scienziati prezzolati. Nel 2013 ha acquisito la Climate Corporation, una delle più grandi società di raccolta dati sul clima e per non farsi mancare nulla l’anno dopo ha comprato anche la Solum, la principale società per la raccolta dati sul suolo. Queste società non danno un servizio di monitoraggio su clima e suolo, ma, come si legge sul sito della Climate, forniscono “una gamma di strumenti che aiutano gli agricoltori a gestire il rischio con prodotti e servizi agricoli di precisione”. In altri termini, vendono i prodotti della Monsanto. Con una costante azione di comunicazione lentamente ci siamo convinti che “non ci sarebbe cibo senza Monsanto e Cargrill, non ci sarebbe da bere senza Coca cola e Pepsi, non ci sarebbe salute senza Big Farma, non avemmo amici senza Facebook, non potremmo comunicare senza Twitter, non ci sarebbe denaro senza le grandi banche né energia senza le compagnie petrolifere, né conoscenza senza Big Data.”

 

Tra le strade che indica Vandana Shiva c’è quella del lavoro sul “selvatico”, inteso come “la capacità di auto-organizzazione di tutte le forme di vita, delle specie diverse della Terra e della Terra stessa in quanto organismo vivente.” È in atto una ridefinizione degli organismi viventi che parte dai semi, che sono ormai considerati come macchine biologiche inventate dalle multinazionali. Prendono dalle banche dei geni pubbliche le varietà tradizionali ritenute interessanti, ne mappano il genoma e le brevettano, acquisendo così ogni diritto sulla loro riproduzione e cercando di rendere illegale la conservazione di sementi da parte degli agricoltori. Su questa strada, non solo semi e piante, ogni organismo vivente diventa un prodotto industriale equivalente a qualsiasi altro, da questo punto di vista, tra una sedia e una pianta non c’è alcuna differenza. Da qui a considerare tali anche animali e uomini il passo è talmente breve che nel caso degli animali è già stato fatto, mancano solo gli umani. Forse. 

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Robert Eisler: Anatomia della licantropia

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L’eccedenza è sempre problematica, anche se è di cultura, intelligenza, capacità interpretative, tanto più per le istituzioni che su tali disposizioni dovrebbero fondarsi. È noto il commento di Erich Rothacker alla bocciatura di Walter Benjamin all’abilitazione alla libera docenza, “Geist kann man nicht habilitieren”, non si può concedere l’abilitazione allo Spirito. Robert Eisler, di cui vengo a presentare la nuova edizione di Man into wolf  (Uomo diventa lupo, Adelphi, 2019) è un’iperbole di tale travalicazione continua e sistematica di ogni steccato disciplinare accademico, nella sua vita e nella sua ricerca, è coerentemente pervicace nel negarsi alla collocazione rassicurante in un luogo definito, inscrivendosi nella categoria perturbante del troppo. A fronte di una statura intellettuale impressionante, della frequentazione delle menti più brillanti del suo tempo, di un’erudizione oggi impensabile, Eisler ha scontato fino alle estreme conseguenze la marginalità a cui è stato costretto dalle istituzioni intellettuali del tempo.

Prima di affrontare il personaggio, due parole sulle vicende editoriali del testo, bizzarre a loro volta. Pubblicato per la prima volta nel 1951, Man into wolfè una conferenza tenuta presso la Psychiatric Section della Royal Society of Medicine di Londra nel 1948, ciò che rende assolutamente particolare il volume, è che è corredato di un apparato di note, 261 nell’edizione Adelphi (36 pagine la conferenza, 230 le note), che approfondiscono in modo specialistico ogni punto dell’argomentazione, lasciando trasparire un’erudizione e una vastità di dedizioni incredibile. Per sessant’anni il libro non è stato tradotto, fino all’apparizione di Uomo lupo, edito nel 2011 da Medusa con ottima traduzione, cura e introduzione di Martino Doni, e con una introduzione ulteriore di Enrico Giannetto. La recentissima edizione Adelphi, Uomo diventa lupo, con traduzione di Raul Montanari, perde le due introduzioni, ma propone un testo decisamente interessante, di cui Giannetto, nel suo intervento, lamentava la mancanza, ovvero uno studio bio-bibliografico organico su Robert Eisler realizzato da Brian Collins, Un pezzo troppo quadrato: La vita e l’opera di Robert Eisler.

Detesto il biografismo, la riduzione dell’opera alla vita dell’autore, non di meno, in questo caso è abbastanza essenziale approfondire le circostanze che hanno portato alla genesi del libro, seguendo alcune tracce, in primo luogo le più note, ovvero quelle lasciate dall’“amico” Gershom Scholem. Il ritratto che ne traccia in Da Berlino a Gerusalemme e in Walter Benjamin: Storia di un’amiciziaè a tratti macchiettistico, lo fa apparire uno “svitato”, sostiene Collins, non di meno ci aiuta ad approssimarci all’autore.

 

Nell’introdurne la figura, Scholem raccoglie puntualmente i giudizi ricorrenti su Eisler, brillante, spaventosamente erudito, carente in rigore ed eccedente in fantasia, e così riepiloga quella che definisce “una delle relazioni più assurde della mia vita”, iniziata per mediazione di Martin Buber e legata alla comune dedizione alla qabbalah, quantunque con intenti divergenti. “Eisler era figlio di un milionario ebreo di Vienna e, come diceva lui stesso, venne educato a disprezzare l’ebraismo, tanto che fu spinto a convertirsi all’età di circa vent’anni. Era una personalità poliedrica di un certo talento, brillante, sveglio e molto ambizioso. I suoi interessi scientifici comprendevano molteplici discipline, ed era dotato di notevoli capacità espressive e descrittive. Nel 1909, quando ancora non aveva trent’anni, aveva pubblicato un’opera in due volumi dal titolo attraente Weltenmantel und Himmelszelt (Mantello dei mondi e tenda del cielo), un libro audace nelle sue congetture azzardate e stracolmo di un’incredibile erudizione, che accreditò il suo autore come uno storico delle religioni assai originale. La sua fertile fantasia gli era però d’ostacolo, e impediva la formulazione di un ragionamento solido”, ne rimarca la marginalità e l’esclusione da ogni posizione accademica, per la vastità degli interessi, per l’eccesso di originalità delle posizioni, per la metodologia di ricerca eterodossa, e non ultimo per la difficoltà creata dall’apostasia, che lo rendeva sospetto ai cristiani e tanto più agli ebrei. Tutto il racconto di Scholem del rapporto con Eisler si gioca sulla sconcertante contrapposizione tra risorse intellettuali ed espressive straordinarie e la bizzarria di fondo del personaggio, che ne ha compromesso ogni possibilità di affermazione. “L’eloquenza di Eisler non era meno affascinante della sua cultura.

 

Entrambe erano impressionanti ma non del tutto serie. Io, in ogni caso, non avevo mai visto un fenomeno simile: uno studioso di genialità accattivante e allo stesso tempo arguta in modo sospetto”. Scholem si sofferma sull’“arte combinatoria” attraverso cui raccorda i più arcani frammenti del simbolico, con dedizione specialistica a saperi tanto diversi quali “le iscrizioni protosemitiche del Sinai, i misteri greci, l’origine degli zingari, [la storia del denaro] o l’origine del cristianesimo, che lo impegnò per molti anni. Tutti questi argomenti avevano un elemento in comune: erano pieni di problemi irrisolti, che lasciavano ampio spazio al genio combinatorio. A sentirlo parlare in pubblico si restava travolti dal suo talento di oratore. A leggerne gli scritti si restava interdetti davanti alla ricchezza delle citazioni, basate sulle fonti più incredibili e astruse”. Racconta poi dei rapporti di Eisler con il circolo di Aby Warburg, con Buber, di quelli, disastrosi per la continua revisione-integrazione dei testi, con gli editori, e infine dell’epilogo infelice dei loro rapporti, quando dopo la guerra Eisler, espatriato a Londra dopo un internamento di più di un anno tra Dachau e Buchenwald, gli propone un testo di duecento pagine con la sua soluzione, decisamente originale, alla questione sionista. La risposta di Scholem fu sintetica e definitiva, “Genug”, basta.

 

 

Ancora due parole sull’autore, per andare oltre la rappresentazione, evidentemente non esattamente agiografica, offerta da Scholem. Viene qui in aiuto la biografia di Brian Collins che chiude il volume Adelphi, esito di un’accurata ricerca d’archivio. La formazione di Eisler è sulle orme della figura egemone della filosofia austriaca della seconda metà dell’Ottocento, Franz Brentano, e dei suoi geniali allevi Alexius Meinong e Christian von Ehrenfels, in seguito consegue due dottorati, di cui uno in economia, e la teoria della moneta resterà una delle sue dedizioni costanti durante tutta la vita, e uno in teoria dell’arte, sotto la direzione di Alois Riegl e Franz Wickhoff.

Un evento segnò la vita del giovane studioso, e rimase come marchio a discredito futuro, quando a Udine, nel 1907, fu protagonista del furto di un codice miniato. Venne riconosciuto colpevole, ma a testimoniare in sua difesa e sul suo genio, instabilità di carattere e fervida immaginazione, si offrirono Benedetto Croce e Hugo von Hofmannsthal. In carcere tentò due volte, pare senza particolare determinazione, il suicidio.

Nel 1910 comincia la sua carriera di saggista eclettico con il testo in due volumi di cui parlava Scholem, Weltmantel und Himmelzelt, (Manto del mondo e Padiglione celeste: Ricerche storico-religiose sull’antica visione del mondo), “una smisurata storia della cosmologia religiosa”, a seguire pubblica in inglese Orpheus the Fisher: Comparative Studies in Orphic and Early Christian Symbolism (Orfeo il pescatore: Studi comparativi sul simbolismo orfico e paleocristiano).

 

Tenne conferenze alla Scuola di Amburgo di Warburg, Cassirer, Panofsky e Saxl, intrattenendo col gruppo, ancora una volta, rapporti ambivalenti. All’inizio degli anni Trenta pubblicò uno dei suoi testi più controversi, Iesous basileus ou basileusas (Gesù, il re che non regnò: Il movimento di indipendenza messianico dall’apparizione di Giovanni il Battista alla caduta di Giacobbe il Giusto alla luce della “Conquista di Gerusalemme” di Flavio Giuseppe, recentemente scoperta, e delle fonti cristiane), apparso in inglese col titolo The Messiah Jesus and John the Baptist According to Flavius Josephus' Recently Rediscovered 'Capture of Jerusalem' and the Other Jewish and Christian Sources, tra le altre tesi teologicamente perturbanti, interpreta così l’immagine di Cristo, attraverso la lettura di Giuseppe: “aspetto semplice, età matura, pelle scura, bassa statura, alto tre cubiti, gobbo, con una faccia lunga, il naso lungo, sopracciglia unite sopra il naso, tale da mettere paura a chi lo vedeva, con pochi capelli ma con una linea in mezzo alla testa secondo il costume dei nazirei, e con una barba poco sviluppata”. Non esattamente corrispondente alla sua rappresentazione nella storia dell’iconografia cristiana, cosa che gli valse pertanto attacchi furibondi.

La grande depressione conseguente al crollo delle borse del 1929 lo spinse a promuovere una teoria della moneta, scrivendo vari volumi a tema. I suoi studi teologici procedono quindi con la dedizione al Quarto Vangelo, e nel 1935 venne invitato a parlarne alla conferenza di Eranos, dove conobbe Carl Gustav Jung e Károly Kerényi.

 

Nel 1938 venne internato nel campo di concentramento di Dachau, quindi inviato a Buchenwald. Dopo tredici mesi di prigionia riuscì a uscirne e a trasferirsi a Londra, dove rimase fino alla morte nel 1949.

Questa breve ricognizione biografica, utile a illustrare lo straordinario percorso di ricerca dell’autore, nel suo epilogo tocca due punti centrali all’elaborazione della conferenza a monte di Man into Wolf, Jung e la teoria degli archetipi e la violenza umana, vissuta in prima persona subendo la barbarie nazista.

La scelta di muovere il discorso dai temi del sadismo e del masochismo può essere legata al luogo in cui si è tenuta la prolusione, come detto, la Psychiatric Section della Royal Society of Medicine, e serve come causa occasionale per introdurre il discorso antropologico sulla violenza. Il masochismo, termine coniato da Richard von Krafft-Ebing, anziché “perversione”, è una forma particolarmente accentuata, per cui Eisler vanta il conio del termine “algobulia”, della naturale tendenza a mantenere attiva la sensibilità al dolore, di cui è evidente la funzione nella regolazione della condotta. A differenziare l’algobulia dall’“algolagnia”, è che la seconda, corrispondente propriamente al masochismo, è la ricerca del dolore come forma di soddisfazione sessuale. Ciò che non torna, in questa teoria generale, è come possa darsi nella forma opposta, il sadismo, la compossibilità della violenza e dell’amore, che in sé è ricerca del bene. Né torna, rispetto al masochismo, l’oggetto del desiderio, esemplificato compiutamente, per Leopold von Sacher-Masoch, dalla Venere in pelliccia. I tentativi di spiegare il sadismo in termini di “regressione”, in particolare dall’antropologia criminale di Lombroso, si negano al confronto con quanto possiamo sapere del “selvaggio” originario, che possiamo supporre, in omologia con i primati maggiori, frugivoro e non violento, il bon sauvage di Rousseau e delle tradizioni che rimandano a un’Età dell’oro. Secondo Eisler, “deve essersi verificato, in un certo stadio dell’evoluzione un cambiamento radicale nella sua dieta e nel suo modus vivendi, una mutazione […] quale quella ricordata nei miti, così diffusi fra tutte le popolazioni, che parlano di una “Caduta” o di un “peccato originale” dalle conseguenze disastrose e permanenti” (p. 31). L’innocuo abitatore delle selve, che gli fornivano in abbondanza frutta e vegetali commestibili, era comunitario e sessualmente non esclusivo. “Il carattere atavico o, per usare una terminologia junghiana “archetipico” di queste idee è particolarmente manifesto là dove il principio del libero amore è connesso all’etica di un severo vegetarianismo “paradisiaco” e all’assoluta proibizione di uccidere esseri viventi” (p. 35, il tema del vegetarianismo originario, nella sua dimensione etica, è approfondito da Enrico Giannetto nella sua introduzione a Uomo lupo).

 

 

Ciò che si tratta di considerare con la massima attenzione è il passaggio alla dieta carnivora/onnivora dell’uomo storico, e la soluzione proposta da Eisler è che sotto la pressione dell’ambiente, non più favorevole, e per imitazione, caratteristica fondamentale determinante della specie umana, degli animali da preda, il selvaggio imparò a cacciare e divorare le altre specie animali. La matrice imitativa si ritrova nella pratica ricorrente in molte culture di coprirsi di pelli in riti sacrificali cruenti. L’esempio cardine di Eisler è la confraternita mistica berbero-marocchina legata al sufismo degli Isawiyya (Aissawa), dedita a cerimonie in cui gli adepti vestono pelli di animali e giungono a sventrare e mangiare crude, in un’orgia sanguinaria, le bestie immolate.

Il lupo, animale simbolicamente surdeterminato, bestia da muta feroce per eccellenza, viene eletto a modello della trasformazione dell’uomo da pacifico primate frugivoro a cacciatore prevaricatore e violento, il termine che segna questo passaggio viene mutuato dalla psicopatologia, ed è licantropia, trasformazione dell’uomo in lupo, benché altre specie si siano prestate di volta in volta al ruolo, come per il berserker, l’uomo orso nordico.

Questa l’argomentazione della conferenza di Eisler, che nel seguito articola il pensiero in relazione a moltissime tracce culturali, dando sfogo alla sua strabiliante erudizione, che ulteriormente, come detto, saturerà di proliferazioni colte a margine l’imponente apparato di note.

In conclusione, Eisler si domanda se la violenza introiettata per imitazione dalla specie umana giungerà alle sue estreme conseguenze, come lascerebbe supporre la crudeltà istituzionale nazista, sperimentata in prima persona, oppure se si dia la possibilità eventuale di una regressione, di un ritorno allo stato edenico precedente al divenire lupo, e vede nella sua congettura una speranza, se c’è stata caduta, esiste la possibilità di “domare la belva ‘archetipica’ che è in noi e riportare l’umanità alla sua condizione primordiale di ahimsa o ‘in-nocenza’, realizzando la pace in terra fra gli uomini di buona volontà” (p. 57).

Conclusa la lettura, frastornati dall’impressionante mole dell’apparato di note esplicative e dalla loro ricchezza, si prova un confronto con l’argomentazione. 

 

Sarebbe da augurarsi che l’uomo avesse preso a modello da imitare il lupo, animale nella cui organizzazione sociale gli elementi differenziano la propria disposizione e le proprie capacità per massimizzare l’efficacia del gruppo. Non a caso Deleuze e Guattari scelgono quel modello, la muta di lupi, per contrapporlo in modo positivo al branco, la massa di individui indifferenziati, sempre più evidentemente modello presente dell’umanità. Poi il lupo non uccide per divertimento, e solo eccezionalmente i propri simili. L’uomo si è spinto oltre l’imitazione, la sua violenza non trova limiti razionali, e la sua potenza è giunta ormai da decenni a rendere la sterilizzazione nucleare del mondo una possibilità concreta. Eisler esclude poi a priori l’eventualità dell’ipotesi regressiva lombrosiana, barrata logicamente anche in senso virtuoso, per cui la sua aspirazione al ritorno all’aimsha trova la strada preclusa. Tocca rimanere lupi, e forse volersi più lupi, nel senso della dedizione al comune secondo le proprie capacità, nello spirito della muta. E confidare forse nell’ambivalenza dell’archetipo, nella speranza di divenire Loopy De Loop (da vero erudito, Eisler non disdegna del resto riferimenti pop, da Tarzan a John Barleycorn).

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La preistoria, un enigma moderno

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Préhistoire, un énigme moderneè il titolo della mostra curata da Cécile Debray, Rémi Labrusse e Maria Stavrinaki al Centre Georges Pompidou di Parigi fino al 16 settembre. Non si tratta dell’ennesima mostra sulla preistoria ma di una traversata originale e appassionante, piena di colpi di scena, incentrata sul fascino esercitato dalla preistoria sugli artisti lungo il XX secolo. Un fascino che ha avuto conseguenze sulle loro idee artistiche e antropologiche così come sulla loro percezione del mondo e dell’umanità. Con la consapevolezza che ogni quête dell’origine rende allo stesso tempo pensabile il futuro.

Tante sono le questioni sollevate da Préhistoire, un énigme moderne attraverso la selezione parallela di opere d’arte contemporanea e di manufatti preistorici visibili, questi ultimi, nelle migliori condizioni immaginabili.

Ad aiutarci a pensare i legami, spesso sotterranei, tra preistoria e modernità ci pensa un catalogo di oltre 300 pp. che ripercorre le otto sezioni della mostra – Lo spessore del tempo; La terra senza gli uomini; La nascita dell’idea di preistoria; Uomini e bestie; Gesti e strumenti; La caverna; Neolitici; Presenti preistorici –, arricchito dai testi dei tre curatori e da approfondimenti brevi e puntuali.

Diverse le pubblicazioni uscite in occasione della mostra, tra cui ricordo: la monografia del co-curatore della mostra Rémi Labrusse, Préhistoire. L’envers du temps (Hazan 2019) che ricostruisce il modo in cui l’idea di preistoria si è costituita nella mente e nelle opere degli artisti moderni; il numero monografico della rivista “Les Cahiers du Musée national d’art moderne” (147, primavera 2019), composto da un’antologia e da una serie d’interviste con artisti contemporanei. La stessa rivista ha tra l’altro già consacrato alla preistoria un numero precedente (Préhistoire/Modernité, 126, inverno 2013-2014) su iniziativa di due dei tre curatori di Préhistoire, un énigme moderne: M. Stavrinaki e R. Labrusse.

È con Maria Stavrinaki che mi sono intrattenuto in una lunga conversazione ricca di spunti, ripercorrendo il percorso della mostra parigina, che le ha permesso di rivenire su alcuni snodi cruciali. 

Professoressa in storia dell’arte contemporanea alla Sorbona nel dipartimento di Arts plastiques, Maria Stavrinaki lavora da anni sul fascino tutto moderno per la preistoria; al riguardo ha recentemente pubblicato Saisis par la préhistoire. Enquête sur l’art et le temps des modernes (Presses du réel 2019): una storia della modernità che, risalendo al XIX secolo – quando la preistoria viene inventata –, tiene conto del tempo profondo proprio all’età della Terra, all’età dell’uomo e all’età dell’arte, scardinando così ogni idea corriva di progresso.

 

Enigma

 

“Preistoria. Un enigma moderno”: vorrei cominciare la nostra discussione dal sottotitolo della mostra e dalla nozione di enigma che m’intriga molto. Ho notato che si ritrova spesso nelle pubblicazioni consacrate alla preistoria; mi viene in mente quella di Daniel Fabre, Bataille à Lascaux. Comment l’art préhistorique apparut aux enfants (L’échoppe, Parigi 2014). 

Oggi è difficile associare le arti visive – l’arte contemporanea in particolare – all’enigma, a un’immagine che va decifrata, a un senso nascosto che sfugge al primo sguardo e apre a temporalità estese.

È vero che la doxa della modernità disincantata si combina male con la nozione di enigma. Tuttavia, la preistoria è uno dei tanti enigmi che la modernità ha dovuto inventarsi al fine di garantire la sua stessa inventività, la sua capacità di rappresentazione, persino la sua storicità – una storicità finalmente affrancata da un passato scritto, conosciuto, obsoleto. Un aspetto ancora più importante è il fatto che l’enigma della preistoria rimanga senza risposta, diventando in questo modo inesauribile. 

Fin dalle prime invenzioni che l’hanno costituita come oggetto della coscienza occidentale, la preistoria è stata vissuta come un “enigma”, nel senso di un’invenzione sorprendente che contrastava con le verità stabilite e non riusciva a trovare uno spazio naturale o coerente nel sistema delle rappresentazioni degli anni 1830-1900, quando si sono formate l’età e la disciplina che denominiamo “preistoria”. 

La preistoria è l’opposto dell’enigma della Sfinge posto a Edipo, in quanto il pensiero antropologico che ha attivato si basa su discorsi destinati a restare transitori e che corrono il rischio di diventare tutti potenzialmente obsoleti. Si ha l’impressione di guadagnare del tempo scavando nel passato, mentre in realtà deploriamo – oggi più che mai – l’assenza di futuro.

 

Vista della mostra Préhistoire. Une énigme moderne, Centre Pompidou, Philippe Migeat, 2019.


L’enigma è anche, alla lettera, un “parlare oscuro” che si lega, mi sembra, all’oscurità della prima sala della mostra parigina.

Non c’è, o non c’è più, alcun enigma oggi. Forse perché, all’era digitale, le immagini sono troppo presenti o lisce perché si formi una piega sulla loro superficie. È cosi che Préhistoire. Un énigme moderne ci offre, sin dal titolo e dalla prima stanza, un universo visivo e concettuale inedito, dove la dimensione enigmatica – o, se preferisci, allegorica – gioca un ruolo centrale nella comprensione di quest’attrazione moderna per un tempo che precede l’invenzione della storia.

Hai ragione a osservare che l’ingresso alla mostra spazializza il sottotitolo: è uno spazio immerso nel buio, ma anche uno spazio vuoto, punteggiato e illuminato da due soli oggetti. Prima il cranio dell’uomo di Cro-Magnon (forma dimenticata di noi stessi ritrovata nel 1868 nel sottosuolo di Eyzies), poi il piccolo quadro di Paul Klee, intitolato Die Zeit, realizzato nel 1933. È una convergenza di scale temporali, ma anche di discipline, in particolare di antropologia e storia. Questa convergenza non viene esplicitata, non c’è alcun testo che ne spiega la logica, fatta eccezione per due versi di Borges che evocano il fondamento della soggettività su un passato infinito che sfugge. Lo spettatore è incoraggiato a formulare e tessere le proprie ipotesi, a farsi carico dell’enigma della preistoria, pur restando naturalmente “condizionato” dalla scenografia, assai teatrale, di questo spazio. 

Libertà e costrizione sono i due concetti opposti qui operanti. Ma credo che questa iniziazione sensibile e assieme concettuale non sia così estranea all’arte contemporanea: l’invenzione stessa della preistoria è dovuta a un eccesso di storicismo – volendo storicizzare la totalità del conosciuto, ci siamo scontrati con l’ignoto, ed è la stessa mole di conoscenze, immagini, archivi d’ogni genere che ci rende oggi così sensibili all’enigma della preistoria. Attraverso la lunga modernità, c’impadroniamo di tutto con lo scopo segreto, a volte, di disfarcene.

 

Corrispondenza

 

Prima di addentrarci nei paradossi della temporalità che hai appena evocato – propri alla costituzione della preistoria nella seconda metà dell’Ottocento ma anche alla crescente difficoltà di immaginare il futuro di fronte alla sesta estinzione innescata dall’era dell’Antropocene – riveniamo sul percorso di Préhistoire. Un énigme moderne.

Il cranio dell’Homo sapiens da un lato, Die Zeit di Paul Klee (realizzato nel 1933: la data non è un dettaglio....) dall’altro: che il loro rapporto non sia esplicitato è ben restituito dalla stessa installazione: tra di loro c’è uno spazio, una spaziatura o addirittura una vertigine temporale incommensurabile che resta a noi spettatori riempire o, perlomeno, prendere in carico. È necessario spostarsi fisicamente dall’uno all’altro in uno spazio immerso nell’oscurità e senza punti di riferimento, unico modo di tenerli insieme e misurarne la distanza siderale dal punto di vista temporale, formale e così via.

 

Una delle difficoltà nella concezione della mostra è stata quella di realizzare una narrazione storica che fosse al tempo stesso articolata e aperta alle interpretazioni altrui. Bisognava prendere in considerazione la natura ripetitiva degli usi moderni della preistoria – temi, strutture e paradigmi che ricorrono con costanza, indipendentemente dalla singolarità specifica degli individui e dei contesti storici. Ma bisognava anche riconoscere pienamente la differenza storica, vale a dire le specificità dovute alla scoperta dei singoli oggetti (ad esempio Lascaux, Chauvet o la Venere di Lespugue), alle dinamiche politiche e sociali, agli approcci individuali, così come all’emergere del nuovo in modo più generale. 

Eventi come la Prima Guerra Mondiale, la cui natura tecnica e impersonale ha favorito l’interesse per i fossili piuttosto che per le forme simboliche della preistoria, o come la Bomba atomica, che ha suscitato un entusiasmo senza precedenti per lo spazio della caverna e per un discorso sistematico sulla post-histoire, hanno determinato l’uso della preistoria da parte di artisti, scrittori, filosofi in determinati momenti.

 

Cézanne, La Montagne Sainte-Victoire vue des carrières de Bibémus, 1898-1900, olio su tela, 65x81 cm, The Baltimore Museum of Art.


Un uso della preistoria che prende forme molto diverse nel percorso della mostra…

All’approccio speculativo dell’ingresso segue l’inizio di storicizzazione nella prima sala della mostra, intitolata “Lo spessore del tempo”, che vuole dimostrare come la preistoria strettamente umana sia stata fondata sull’abisso del tempo. In altre parole, è impossibile separare la preistoria simbolica dalla geologia e dalla paleontologia, nelle quali l’uomo stesso è invischiato.

Sono Cézanne e Redon che c’introducono in questa “rivoluzione geologica”, nei confronti della, e in seguito alla, rivoluzione copernicana. Si tratta di due artisti per molti versi non comparabili, ossessionati dall’idea del tempo dilatato che si materializza negli strati geologici. Ma questa storicizzazione, supportata da documenti come i Carnets di Cézanne, non è in grado di esaurire le opere esposte. 

Il nostro incontro fenomenologico con Dans les Carrières de Bibémus di Cézanne ripete, per l’ennesima volta, lo stesso “dramma” formulato in quest’opera: una figura minuscola intrappolata tra due pieghe geologiche, un uomo risucchiato nella vagina triangolare della terra. Resta aperta la domanda se Cézanne mettesse l’accento sullo scarto tra vita individuale e geologia o sull’esistenza necessaria di un soggetto affinché la geologia sia testata e conosciuta in quanto tale; in finale, è la tensione tra queste due interpretazioni che dà senso all’approccio immanentista di Cézanne. 

 

Vista della mostra Préhistoire. Une énigme moderne, Centre Pompidou, Philippe Migeat, 2019.


Proseguendo la visita c’imbattiamo, più o meno a metà percorso, in una sala con diverse vetrine che molti spettatori, me incluso, associano istintivamente ai musei di storia naturale, ovvero al modo in cui gli oggetti preistorici sono resi visibili e “culturalizzati” dal nostro sguardo.

Pietre intagliate, figure femminili e animali, blocchi incisi, disegni a inchiostro, calchi in gesso, acquerelli.... Ora, è solo leggendo le didascalie che notiamo, non senza sorpresa (l’enigma non è lontano) che sono di Picasso, Mirò, Matisse, Masson, Henri Michaux, Jean Arp, Giacometti, Louise Bourgeois, Joseph Beuys. Insomma, non siamo più in una preistoria scissa dalle nostre preoccupazioni ma nel cuore palpitante della modernità.

Se le due temporalità restano in finale incommensurabili, qui il confronto è ravvicinato: c’è una corrispondenza tra le diverse morfologie che rasenta il mimetismo. Che questa sala mostri il fascino della modernità per la preistoria è ovvio. Forse suggerisce qualcosa di più sull’enigma della preistoria in quanto, per riprendere le tue parole, “oggetto della coscienza occidentale”.

In effetti l’ambivalenza creativa è senza dubbio massimizzata nella stanza a cui ti riferisci, dove coesistono sculture moderne e sculture preistoriche – le cosiddette Veneri e gli animali scolpiti su ossa o pietra. Abbiamo voluto evitare il rischio di fare della preistoria una delle tante fonti cui gli artisti avrebbero attinto (che in fondo non spiegherebbe nulla), evitando i confronti letterali e la giustapposizione all’interno della stessa vetrina di opere appartenenti alle due epoche.

Da un lato abbiamo esposto documenti, in particolare disegni di opere paleolitiche della mano di Moore, Giacometti, Bonnard e così via che attestano l’oggettività di questo incontro; dall’altro, abbiamo creato uno spazio di risonanza in cui le sculture possono sottrarsi alle rigide periodizzazioni al cui interno la nostra disciplina tende a confinarle.

Quello che accade in questo spazio è l’incontro dei moderni con la preistoria nel tempo presente. Perché se c’è una differenza radicale tra la preistoria e altre epoche o culture che possono aver interessato gli artisti moderni desiderosi di liberarsi dalla norma del classico, è proprio il potere di presentificazione insito nelle opere della preistoria. Questi manufatti, d’origine universale, non essendo legati a culture locali e indigene (mi riferisco qui al Paleolitico), quanti gli conferisce un supplemento antropologico, si sono conservati per migliaia di anni nei sedimenti della terra prima di emergere improvvisamente nel presente, pur conservando intatta la loro forza di un’origine antichissima, sebbene sempre incompleta, lacunare, enigmatica. 

 

Presentificare

 

Non insisteremo mai a sufficienza sul potere e la presenza delle opere preistoriche, soprattutto quando legati alla loro capacità di de-familiarizzare lo sguardo. Un doppio carattere che chiarisce forse l’enigma che ci preoccupa. Questa presentificazione – o questo “effetto di presenza” come direbbe Hans Ulrich Gumbrecht – costituisce, come suggerisci, la specificità della preistoria rispetto al primitivismo in quanto forza creativa per gli artisti.

Mi piace pensare che le forme simboliche della preistoria abbiano mantenuto, nonostante il processo di secolarizzazione e storicizzazione che è all’origine stessa della loro scoperta, quel carattere di “fulmine” – improvviso, istantaneo e sempre inspiegabile – che si attribuiva alle “pietre da fulmine”, come venivano chiamate le selci prima dell’invenzione della preistoria. In un certo senso, chiunque entri in questa sala rievoca l’incontro degli artisti moderni con la preistoria. 

È il motivo per cui questa sala funziona in un primo momento nel suo complesso, e solo in seguito sollecita l’attenzione dello spettatore su questa o quella forma individuale. Ci chiniamo quindi per adattare il nostro corpo alla scala della preistoria, spesso minuscola, cosa che accade più raramente con le opere dei moderni, con l’eccezione significativa di Giacometti.

Il cambio di scala opera con la moltitudine di forme e tecniche: la Venere readymade di Mirò e di Picasso, l’intreccio dei tempi dello stesso Picasso, le traduzioni più fedeli di Brassai e Louise Bourgeois. Multipla, lacunare ed enigmatica, la preistoria ha avuto una forza di de-familiarizzazione dello sguardo che non è paragonabile a quella del primitivismo, perché passava principalmente attraverso la coscienza soggettiva del tempo. Da qui la grande eterogeneità delle forme moderne a cui ha dato origine, spingendosi spesso ben oltre la somiglianza letterale e ritornando nel corso della lunga modernità con una regolarità inesauribile. 

 

Pablo Picasso, Buste de femme, Boisgeloup, 1931, gesso, 62,5 x 28 x 41,5cm, Musée national Picasso-Paris.


Immagino che avete riflettuto molto sul modo migliore di rendere visibili i manufatti preistorici che cadenzano Préhistoire. Un énigme moderne e vorrei saperne di più.

Secondo una museografia che ha fatto il suo tempo ma è ancora molto diffusa, questi manufatti sono generalmente classificati per tipologia e accatastati in grandi vetrine. C’è poca attenzione per la loro singolarità e per la loro esposizione. Al contrario, quando si utilizzano nuove tecnologie, la massa d’informazioni e la proliferazione di schermi rischia di smaterializzare il manufatto in questione. Come se la sua sovra-esposizione coincidesse in qualche modo con la sua scomparsa.

Ora, quello che mi ha colpito in Préhistoire. Un énigme moderneè l’attenzione verso questi manufatti: il cranio di Cro-Magnon già citato, le pietre antropomorfe, i legni di forma e fattura diverse, le statue e le lastre, le figure femminili tra cui la straordinaria Venere di Lespugue (che ritroviamo alla fine della mostra in un video di Allora e Calzadilla)... 

 

Bloc gravé figurant un cheval, verso -15000 anni, pietra calcarea incisa, 28 x 23,4 x 5,4 cm, Musée d’archéologie nationale – Domaine national de Saint Germain-en-Laye.


Senza sovra-esporli, questi manufatti mantengono intatto il loro carattere enigmatico, tanto più sorprendente in quanto, come hai appena ricordato, si esercita su oggetti di piccole dimensioni. Certo, il rischio di trasformarle in opere d’arte è sempre presente – ed è difficile, credo, evitarlo completamente quando si passa dall’antropologia alla storia dell’arte – ma il dispositivo che avete scelto ha il vantaggio di lasciar spazio agli effetti di presenza. Che sia esattamente questo lo sguardo adottato da alcuni artisti moderni nei confronti dei manufatti preistorici?

Se è legittimo parlare di incontro tra preistoria e modernità è proprio perché c’è una de-familiarizzazione e uno sfasamento reciproci. Non mi riferisco qui al celebre “orizzonte d’attesa” che determina inevitabilmente ogni creazione. Penso piuttosto alla reciprocità intrinseca all’“invenzione moderna della preistoria” stessa. Mentre la nostra modernità era alle perse con l’accelerazione industriale, mentre cercavamo di fuggire da noi stessi esplorando terre lontane, fino alla terra australe, abbiamo scoperto il tempo profondo che ci ha costituito, letteralmente e metaforicamente, nei sotterranei europei. 

Questa invenzione ci offriva sia l’estraneità di cui avevamo bisogno, sia l’affinità che ci ha permesso di identificarci più facilmente con i nuovi oggetti e le soggettività che implicavano. 

Per parlare più precisamente dell’installazione, l’esposizione di manufatti preistorici in un museo d’arte moderna accentua naturalmente la loro forza di presentificazione e, come ho detto, ripete la serie d’incontri del moderno con la preistoria. Prendiamo la Venere di Lespugue, rotta accidentalmente dall’operaio che l’ha trovata nel 1922. Questa rottura ha rivelato la bianchezza originale dell’avorio, visto e lavorato dallo sconosciuto che ha inciso la figura femminile. Questa bianchezza contrasta fortemente con la superficie della scultura molto annerita a causa del sotterramento protrattosi per 25.000 anni nei sedimenti della terra. 

 

Venere di Lespugue, verso - 23 000 ans, avorio di mammouth, 14,7 × 6 × 3,6 cm, Musée de l’homme, Paris.


È così che la lunga durata – inestricabilmente geologica e archeologica – dell’avorio annerito e in qualche modo restituito alla mineralità si articola nel presente del bianco iniziale. Ma attenzione: questo presente è in modo indissolubile quello dell’artista e degli spettatori contemporanei. Il tempo è abolito, si piega fino a che le sue due estremità si toccano. 

È significativo, al riguardo, un commento ricorrente quando parlo coi visitatori della mostra, il loro desiderio di tornarci. Al di là delle ragioni che evocano, che non spetta a me menzionare, sono convinta che la ragione principale, consapevole o meno, sia in fondo che vorrebbero approfittare di questa eccezionale “uscita” della preistoria, di questa mise-en-abîme generata dall’incontro tra due epoche che si trovano alle estremità opposte del tempo. 

Cosa importa se tutte queste opere sono ben visibili al Museo di Saint-Germain en Laye o al Musée de l’Homme? Il loro spostamento temporaneo in uno spazio dedicato alla modernità evidenzia e attiva la scena originaria – nelle sue innumerevoli ripetizioni – dell’invenzione della preistoria.

 

L’arte parietale e la grotta

 

Ho l’impressione che una modernità altra s’impone anche nella sala sull’arte parietale delle grotte del Paleolitico, dove gli enormi acquerelli su carta incollata dell’etnologo tedesco Leo Frobenius sono seguiti da Dubuffet e dalla Caverna dell’anti-materia di Pinot Gallizio. 

Il caso di Frobenius è interessante: le sue immagini sono pubblicate in riviste d’avanguardia quali Cahiers d’art e Documents, pur prendendo le distanze dalle preoccupazioni dell’arte contemporanea, mosso solo da un intento scientifico.

In ogni caso, il fascino per l’arte parietale e i suoi graffiti attraversa tutto il Novecento: quest’arte offre un modello artistico che va oltre la tradizione del quadro da cavalletto; più radicalmente, riattiva la quête dell’origine, dell’attività artistica e dello stesso essere umano, e induce a negoziare il rapporto tra il minerale e il vivente. Luogo d’elezione degli speleologi, la grotta influenza l’immaginario degli artisti. Diventa una time capsule che ha forse lo stesso ruolo della Domus aurea per gli artisti del Rinascimento italiano, con le sue grottesche...

 

Vista della mostra Préhistoire. Une énigme moderne, Centre Pompidou, Philippe Migeat, 2019.


C’è in effetti qualcosa di sorprendente nella scoperta accidentale della Domus Aurea al Rinascimento, e la metafora della “capsula del tempo” che evochi è al proposito pertinente. Sto leggendo le interessanti riflessioni di Michel Julien nel suo ultimo saggio intitolato Les Combarelles sulle grotte come “capsule del tempo”, che avvicina al “Golden Record” inviato dalla NASA nel 1977 nello spazio a bordo del Voyager 1 e 2, su cui erano state incise parole in diverse lingue, versi di Omero o musica di Bach, indirizzati a esseri sconosciuti.

 

Vista della mostra Préhistoire. Une énigme moderne, Centre Pompidou, Philippe Migeat, 2019.


Tuttavia, c’è una grande differenza tra le “capsule del tempo” della preistoria e quelle dell’antichità greco-romana, ovverosia l’assenza di qualsiasi scrittura in senso stretto che è specifica alla preistoria. Non solo l’antichità greco-romana aveva un valore normativo, ma le scoperte archeologiche successive iniziate nel Rinascimento si sono sempre dovute misurare a un testo preesistente. Sebbene ogni rivelazione eminente abbia qualcosa di sorprendente, perché abolisce il tempo che separa noi, i viventi, dagli oggetti realizzati molto tempo fa dai nostri simili, le grotte della preistoria hanno rivelato – e continuano a farlo – quello che non eravamo pronti ad aspettarci. 

La modernità ha rinvenuto nella preistoria una fonte di sorpresa, di de-familiarizzazione permanente, una terra sconosciuta, che non è dell’ordine della res extensa cartesiana e non può essere colta o interamente dominata, ma che è interna e in gran parte immaginaria. 

 

Politica del Neolitico

 

L’interesse per i fossili durante la prima guerra mondiale; l’enigma coltivato dai surrealisti negli anni 30; l’acquerello di Klee del 1933; il rapporto Hiroshima-Lascaux; l’interesse per le grotte in piena minaccia nucleare; la riabilitazione della geologia all’epoca dell’Antropocene: la preistoria non è tagliata fuori, come si potrebbe pensare, da questioni politiche. Per dirlo con una battuta di Robert Smithson: “M’interesso alla politica del periodo Triassico”!

L’uso politico della preistoria è particolarmente evidente nel Neolitico, dove entrano in gioco questioni identitarie; la quête dell’origine diventa uno strumento per legittimare se non per rivendicare un’eccezione culturale nazionale…

In effetti anche se il Paleolitico è stato ed è ancora politicizzato, in particolare come modello anarchico originario (dall’anarchia pacifista e naturalista di fine Ottocento al pensiero anti-statale di antropologi quali Claustres, Sahlins e Scott di oggi), il Neolitico ha permesso una politicizzazione più marcata attraverso due proprietà, talvolta antitetiche, che gli sono state attribuite. Queste due proprietà sono la nozione di “rivoluzione” e quella di “radicamento”. La “rivoluzione neolitica”, enunciata molto presto dai paleontologi, implicava una differenza radicale di quest’epoca rispetto al Paleolitico, uno “iato” come si diceva allora. Una differenza che è tecnica, economica, politica e culturale. In un certo senso, le forme chiare e levigate del Neolitico esprimono di per sé l’allontanamento della specie umana dal suo rapporto inestricabile con l’ambiente naturale e con l’animalità. La “rivoluzione” diventava una metafora appropriata perché si consumava una rottura col passato, ma anche perché, a partire dall’addomesticamento del mondo da parte dell’uomo, il progresso si metteva in moto. Un’ideologia adatta agli evoluzionisti di destra come di sinistra. 

Contemporanea alla metafora della rivoluzione è quella del radicamento. Paleontologi e storici credevano che dal momento in cui le società umane mettevano radici in un luogo, cominciava la storia nazionale. E se consideriamo che la maggior parte delle strutture megalitiche si trovano nel Nord Europa, cogliamo facilmente la divisione tra un Sud Paleolitico, naturalistico e sensuale, e un Nord Neolitico, astratto e metafisico, operato da paleontologi e da storici dell’arte.

Le due metafore si sono congiunte e hanno trovato una perspicacia nefasta durante gli anni del fascismo. Infatti la “terza via” si proiettava perfettamente in questo Neolitico, considerato sia come un salto tecnico che come un popolo radicato nella natura. I modernisti britannici degli anni Trenta hanno trovato nelle forme astratte e radicate dei monumenti megalitici le forme originarie delle proprie creazioni, sforzandosi di riconciliare astrazione tecnica e autoctonia, universalismo e particolarismo.

 

La preistoria all’epoca dell’Antropocene

 

Visitare una mostra come degli speleologi, far esperienza della mise-en-abîme propria all’enigma della preistoria: oggi viviamo sulla nostra pelle un turbamento temporale, divisi come siamo tra il tempo profondo, l’accelerazione del presente e le diverse versioni d’avvenire a nostra disposizione, dal futuro minacciato dall’azione umana al futuro d’evasione offerto dalla science-fiction e dalla realtà aumentata.

Fai bene ad associare il lungo periodo della preistoria all’accelerazione del presente – la sensazione, analizzata per la prima volta da Reinhart Koselleck, di una transizione eterna, tagliata fuori dall’esperienza del passato e priva di fiducia nel futuro. Ma è proprio questa rottura a stimolare la concezione e la realizzazione di un passato così lontano da essere stato dimenticato e che, proprio per questo motivo, si carica del potenziale del “nuovo” che si attribuiva esclusivamente al futuro ignoto. Il tempo lungo del passato, inoltre, associato soprattutto all’immaginario geologico e paleontologico, si proietta anche nel futuro, altrettanto distante, altrettanto stupefacente e in fondo così vicino alla preistoria.

Prendiamo il famoso esempio della Time Machine di H.G. Wells: la proiezione in un futuro immensamente remoto rivela una realtà simile a quella del passato preistorico, ma in cui il rapporto tra esseri umani e animali è invertito. In questa narrazione fondatrice sono gli esseri umani, rappresentati come quegli “esseri soddisfatti” che l’hegeliano Kojève situava alla fine della storia, a diventare oggetto di sacrificio di esseri mostruosi che vivono nel mondo sotterraneo. Questa stessa rappresentazione di un tempo reversibile si ritrova più tardi in molti autori di fantascienza (Ballard, Aldiss, ecc.) così come in Georges Bataille che speculava su Lascaux sotto l’impatto di Hiroshima. 

Inoltre, se il “sentimento della preistoria” (l’espressione è di Giorgio de Chirico) è oggi così potente, è perché la nostra storicità si proietta facilmente in questo periodo, dotato più d’ogni altro di una forza temporale ambivalente – assieme apocalittica e creativa – in virtù della sua estensione e del suo carattere enigmatico. Così ci sforziamo di rappresentare noi stessi come degli agenti geologici, per assumere la responsabilità storica e politica che ci appartiene in quanto abitanti e utilizzatori del pianeta Terra. Ma, allo stesso tempo, cerchiamo nella preistoria della nostra specie un potenziale utopico. Da qui un maggiore interesse per il Paleolitico a scapito del Neolitico che viene spesso interpretato come l’età della costrizione, o come l’inizio della fine (il libro di James C. Scott Homo domesticus. Une histoire profonde des premiers Etatsè sintomatico al riguardo). 

 

Insomma questa scena dell’invenzione moderna della preistoria, questa “uscita dal tempo” si è verificata più volte nel corso del XX secolo. Lo stesso vale per l’esposizione della preistoria in un museo d’arte moderna, un evento raro ma non unico.

Penso in particolare alla celebre mostra Prehistoric Rock Pictures in Europe and Africa voluta nel 1937 da Alfred Barr nel tempio del modernismo, il Museum of Modern Art di New York, o a Neo Preistoria. 100 Verbi di Andrea Branzi e Kenya Hara alla XXI Triennale di Milano nel 2016.

Che queste e altre esposizioni coincidano con un momento specifico nella fabbrica moderna della preistoria, per così dire? Che ognuna risponda a una specifica agenda artistica, culturale e politica? Che ci raccontino il modo in cui è evoluta la nostra attrazione per la preistoria, le nostre idee sul tempo e il ruolo dell’uomo nella storia e sul pianeta? Se l’ipotesi è ragionevole, in quale contesto s’inscrive il nuovo volet costituito da Préhistoire. Un énigme moderne? o, per dirlo altrimenti, come esporre la preistoria all’epoca dell’Antropocene?

Préhistoire. Un énigme moderne non è la prima mostra ad unire le due pagine evocate dal titolo. Herbert Read, che ha concepito con Roland Penrose 40000 Years of Modern Art (ICA, Londra) ha scritto, sotto l’influenza di Wilhelm Worringer, che l’ansia del rapporto dei moderni con la modernità tecnica li ha resi psichicamente simili agli uomini preistorici. Ciò che distingue la nostra mostra, tuttavia, è il suo sguardo profondo e storicizzante, che considera Read, Benjamin o Bataille in quanto oggetti storici alla stessa stregua degli artisti o dei paleontologi. Anche Walter Benjamin ricorreva all’analogia tra la prima natura della preistoria e la seconda natura della modernità, che esigeva tecniche diverse per l’addomesticamento del pericolo. 

Più recentemente, Andrea Branzi ha definito il nostro tempo come una “neo-preistoria”, evocando il nostro procedere a tentoni nel buio, quell’incertezza che condividiamo con la preistoria. Salutare è il fatto che non c’è nulla di apocalittico in questa incertezza. Per Branzi, ogni volta che l’uomo ha varcato le soglie della sua lunga storia, ripeteva in sostanza la preistoria. Dopo la certezza del “progetto” modernista, ritroviamo così il rapporto con il dubbio. 

Da parte mia, ho l’impressione che da una ventina d’anni almeno tendiamo a sottolineare eccessivamente il lato trionfale del modernismo, a scapito di un rapporto più sfumato che lo stesso modernismo intratteneva col progresso. Non abbiamo il dono delle sfumature, della contraddizione e del dubbio. Lavorando a questo progetto, mi sono infine interessata ai tentativi concettuali e formali di pensare una modernità più agitata e contraddittoria, una modernità che, proprio nel momento in cui instaura un rapporto di dominio sulla natura, si scava, letteralmente e metaforicamente, la terra sotto i piedi.

 

Trouble temporale

 

Tocchiamo qui il cuore della nostra conversazione sulla preistoria come enigma moderno. Visitando la mostra e leggendo il catalogo, mi sono reso conto che gli artisti non hanno reagito in modo univoco. Secondo Mirò, l’arte è in declino sin dai tempi della preistoria; per Picasso, gli artisti non hanno fatto niente di meglio sin da allora; Giacometti perde ogni fiducia nell’idea di progresso, ecc.

Per semplificare, distinguo: a) chi pensa che l’arte sia in decadenza fin dalla preistoria, che l’apice della produzione artistica sia raggiunto fin dal suo inizio; b) “il futuro non è più quello di una volta” (secondo lo scrittore di science-fiction A.C. Clarke): la preistoria e il tempo profondo modificano non solo le nostre idee sul passato e il nostro rapporto col presente ma anche la nostra capacità di immaginare il futuro.

Tuttavia a) è una posizione che, pur tenendo conto della profondità del tempo, rimane classica: la storia è un progressivo allontanamento da una Tradizione perfettamente compiuta e non più raggiungibile dai Moderni. Una posizione che si limita, in finale, a invertire la freccia ascendente del progresso, mantenendo intatta la linearità della storia.

b) mi sembra molto più promettente, legata al passo di Bataille che hai citato (qui come in altri articoli che ho letto, in particolare su Pierre Huyghe), dove Lascaux e Hiroshima si attraggono, si assomigliano, si invertono, entrano in una corrispondenza anacronistica, formano un nodo o un cronotopo concettuale esplosivo. Che questa strada ci permetta di rendere più complessa la modernità stessa?

Tra l’altro, mi chiedo come ripensare Bataille – e l’enigma – oggi che si visita una riproduzione in scala 1:1 della grotta di Lascaux mentre l’originale è ormai inaccessibile.

Ci sono ovviamente diverse concezioni della storia che coesistono all’interno della modernità. I conflitti non sono solo tra questa o quella tendenza, ma spesso operano anche all’interno dello stesso pensiero. Da parte mia, ho sempre trovato nei pensieri contraddittori (Bataille, Carl Einstein, Benjamin e molti altri) quelle scintille che illuminano in modo inaspettato gli oggetti che mi sforzo di comprendere.

Non sono sicura di capire cosa vuol dire “anacronismo” – a infastidirmi è  il fatto che presuppone, come antitesi, o un pensiero essenzialista e lineare o una storia chiusa e omogenea. Ma, da una parte, queste forme di storicità hanno raramente quel carattere esclusivo e puro che gli viene attribuito e, dall’altra parte, non sono realmente maggioritarie nel pensiero storico della modernità. 

Possiamo anche ribaltare la domanda: è vero che Mirò aveva detto che la pittura era in declino fin dall’età delle caverne, ma questa non è l’altra faccia della medaglia del progresso? Al contrario Mondrian, che non ha mai cessato di evocare il progresso e la fine dell’arte e che viene spesso considerato come un modernista hegeliano, ha fatto di tutto per evitare che questa fine accadesse, sapendo fin troppo bene che lo spazio proprio dell’arte era quello della tensione del tragico. 

Le cose sono quindi più complicate di quanto la doxa modernista e postmodernista ci ha insegnato. È indubbiamente utile sbarazzarsi di modelli diventati troppo familiari per pensare la modernità. Il lavoro di de-familiarizzazione è infinito! Del resto, da parte mia, non ho problemi con la denominazione dei “moderni”, a patto che con questo termine non s’intenda solo una mentalità e un atteggiamento conquistatore, eudemonico e, in ultima analisi, ingenuo. Ernst, Klee, De Chirico, Picasso, Mirò, Oldenburg, Morris o Smithson sarebbero stati anti-moderni se non avessero adottato una credenza plateale nel progresso? Perché ricorrere a un dualismo così marcato per comprendere le dinamiche della lunga modernità? 

Lentezza e accelerazione, tempo lungo e proiezione nel futuro, malinconia e mania, sentimento precario e proiezione nella durata: i diversi modi di tensione possono rivelarci in effetti una modernità diversa da quella che oggi, come penitenti, prendiamo gusto a condannare. Ed è questa modernità che può aiutarci a capire cosa ci sta accadendo oggi. 

 

Scala geologica

 

Un’altra modernità o una modernità altra mi riporta a Robert Smithson, un artista radicato nella cultura americana ma con una sensibilità profondamente europea. Invece di adottare una posizione semplicistica che rifiuta il modernismo o, secondo una famosa affermazione di Donald Judd, l’arte europea in blocco, opera una mossa inaspettata: estende la cronologia artistica su scala geologica. Lo vediamo bene nella selezione delle sue opere in Préhistoire. Un énigme moderne: il film Spiral Jetty, il collage pop Venus with Reptiles (1963), la finzione geologica Strata, un racconto che alterna fotografia e scrittura. 

Se oggi in Francia Smithson è al centro del dibattito critico, questo è forse dovuto anche a un disagio nei confronti di quelle narrazioni schematiche ereditate dal modernismo da cui tu prendi chiaramente le distanze.

L’esempio di Smithson è molto interessante per la sua spaventosa coerenza! Da una parte, ha condotto una critica molto rigorosa del modernismo essenzialista che si era affermato negli Stati Uniti sin dal secondo dopoguerra e, dall’altra, ha elaborato un suo sistema di rappresentazione attingendo agli universi più eterogenei che spaziano dalla cultura popolare alla letteratura e alla filosofia colta, passando per le scienze esatte e le scienze umane, in particolare nella loro declinazione strutturalista. C’è un certo pathos nel suo pensiero, nei suoi earthworks e nella sua scrittura; il suo universo era fondamentalmente pessimista, ossessionato da figure quali Pascal, Beckett, Borges o T.S. Eliot. 

Ma in questi scrittori aveva trovato anche la dimensione “immaginaria” che allontanava il suo pessimismo e legittimava la vita. La scala geologica, che Smithson ha concepito e meticolosamente attivato nelle sue fotografie, opere e testi, ha funzionato come sostituto della storia e delle sue contraddizioni. È probabilmente questo aspetto del suo pensiero che mi dà più fastidio. Ma Smithson aveva stabilito la sua genealogia “moderna”: avendo compreso o letto in Meyer Schapiro il tropismo geologico di Cézanne, per la stessa ragione s’inscriveva egli stesso in questa tendenza. Il personaggio minuscolo stretto tra le due pieghe in Carrières de Bibémus di Cézanne diventa una macchia bianca alla fine della Spirale ripresa dall’alto: Smithson che corre sul pontile diventa una pietra tra le altre. 

 

Da un abisso all’altro

 

Smithson era attratto dalla preistoria come dalla science-fiction, e forse vedeva queste due dimensioni compenetrarsi una nell’altra parte di un tempo senza l’uomo ai tempi della minaccia nucleare. Catene di pensieri che mi fanno pensare che Préhistoire. Un énigme moderne si apre mentre si festeggia il cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla luna. È forse inevitabile, nel concludere la nostra conversazione sull’enigma moderno della preistoria, evocare lo spazio siderale. Passiamo così da un abisso all’altro...

Sì, uno dei momenti parossistici dell’invenzione moderna della preistoria risale all’ingresso nell’era atomica, epoca dotata di due facce opposte, quella distruttiva di Hiroshima e quella, considerata positiva, della conquista dello spazio. Abbiamo già accennato alla simmetria tra Lascaux e Hiroshima che è, credo, alla base del pensiero di Bataille sulla preistoria. Questo pensatore, che aveva elaborato una storia informe e contingente durante gli anni Venti, ha cominciato a concepire una storia molto più chiara, molto più univoca in seguito al disincanto delle “comunità acefale” come risposta al fascismo e allo scoppio della guerra. La sua concezione diventò hegeliana attraverso Kojève, spingendosi fino a immaginare una storia universale, ossessionata dall’idea della fine. Questa fine era stata indicata da Hiroshisma, un evento inaugurale di cui gli uomini non avevano le chiavi interpretative e che subivano passivamente come se fossero tornati allo stato animale. 

Tra gli artisti, Lucio Fontana ha subito legato la preistoria, che assillava la sua immaginazione almeno sin dalla fine degli anni Trenta, ai viaggi interplanetari e al mondo inospitale della Luna. Il suo ambiente nero, nel 1949, fu interpretato come uno spazio preistorico; il suo scopo era quello di condurre lo spettatore a sperimentare l’estraneità, l’inadeguatezza degli uomini verso la nuova era che si profilava. Questo spazio intermedio, con sculture dai caratteri antidiluviani, non appartenenti a specie note né a regni naturali determinati e ben compartimentati, riattivava per l’ennesima volta l’età della preistoria.

Il primo uomo sulla Luna era dopotutto un primo uomo che provava un’ansia metafisica nello spazio minerale che stava calpestando. Altri artisti, come Frederick Kiesler e Pinot Gallizio, hanno creato degli ambienti rivisitando l’immaginazione della grotta. La grotta funzionava non solo come riparo dall’era atomica, ma anche come un luogo simbolico. Per Kiesler, la Endless House era un luogo di unità, di equilibrio tra materia e spirito e di uscita dal tempo a beneficio di un eterno presente e mitico, mentre per Gallizio la Caverna dell’antimateria rispondeva all’ideologia situazionista dell’attività gratuita, non utilitaristica, sciolta dal lavoro e dal valore di scambio. Anche lui esprimeva il desiderio di vivere un’esperienza piena del presente – senza la capitalizzazione del passato o la fuga nel futuro. Questo presentismo mitico costituisce un altro tratto, l’ennesimo, della preistoria inventato dopo la seconda guerra mondiale e la bomba atomica.

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Addio Toni Morrison, regina d’America

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Una delle immagini più belle di Toni Morrison la mostra di profilo. La pelle è increspata di rughe, la cascata di capelli grigi trattenuta da un fazzoletto a fiori. Gli occhi schivano l'obiettivo e fissano lontano. Non c'è traccia di sorriso su quel viso, composto in un'autera regalità. Il ritratto, scattato da Kathy Grannan, è apparso sulla copertina del New York Times, quattro anni fa. È una di quelle rare immagini che incollano il soggetto a se stesso, in questo caso a quel mix di intelligenza e impenetrabilità, durezza e civetteria che è stato la cifra della scrittrice scomparsa lunedì sera a 88 anni per le complicazioni di una polmonite. Nei ricordi che da giorni si rincorrono sui social si sfiora nella sua fine quella di un’epoca. “Toni Morrison era un tesoro nazionale”, ha twittato Obama che nel 2012 l’aveva insignita della Presidential Medal of Freedom. “La sua scrittura è una bella e significativa sfida alla nostra coscienza e alla nostra immaginazione morale. Quale dono è stato respirare la sua stessa aria, anche se solo per un po’”. È davvero una stagione storica che se ne va con lei, prima afroamericana a vincere il Nobel per la letteratura. Raccontando nella sua immensa opera l’identità afroamericana, l’impatto devastante del retaggio schiavista e il razzismo che stenta a morire, Morrison ha lottato per quasi mezzo secolo, senza mezzi termini né facili illusioni, contro il pregiudizio e l’ingiustizia. E ha finito per vedere il suo mondo, quello degli ultimi e degli innocenti, quello che nelle sue pagine aveva finalmente trovato ascolto, uscire massacrato dai rivolgimenti della politica. L’elezione di Trump e i micidiali attacchi del suprematismo bianco, di cui fino all’ultimo è stata critica lucidissima e appassionata, hanno mandato in frantumi la speranza che per un breve giro d’anni si era incarnata nel primo presidente nero. La speranza di un’America diversa, capace di guardare al di là del colore della pelle.

 

 

Nella sua lunga esplorazione dell’universo afroamericano, Morrison ha visto in azione i meccanismi del razzismo che percorre il Paese e non esita a nominarli. L’identità nazionale, anzi “la forza unificante” è il colore bianco della pelle, scrive dopo l’elezione di Trump sul New Yorker in un articolo dal titolo che da solo è un programma: “Tutti gli immigrati negli Stati Uniti sanno (e sapevano) che se vogliono diventare veri, autentici americani devono limitare la loro lealtà al paese d’origine e considerarlo secondario, allo scopo di enfatizzare il loro essere bianchi”. Una cittadina italiana o russa che emigri in America, aveva scritto qualche anno prima, “se vuole essere americana – essere conosciuta come tale e davvero essere parte del paese – deve diventare qualcosa di inimmaginabile nella sua terra d’origine: deve diventare bianca. Può piacere o meno, ma dura e ha dei vantaggi e alcune libertà”. Provare per credere, soprattutto al Sud. In termini politici gli effetti sono eclatanti, sostiene Morrison. “Le conseguenze del collasso del privilegio bianco sono così spaventose che tanti americani sono accorsi a una piattaforma politica che sostiene e applica la violenza contro i più deboli. Più che arrabbiata questa gente è terrorizzata, del genere che fa tremare le ginocchia”. L’impegno politico e civile di Toni Morrison è l’espressione più tangibile del suo complesso mondo poetico. L’una non potrebbe esistere senza l’altra e viceversa. Il suo racconto del mondo non aspira a chiudersi in una torre d’avorio ma vuole farsi carne, sangue, vita. Mai come nel suo caso la letteratura parte dalla realtà e lì aspira a tornare. Nella sua lunga carriera Morrison sostiene, con ironia, di aver fatto sempre la stessa cosa. “Leggo libri. Insegno libri. Scrivo libri. Penso ai libri. È un unico lavoro”, spiega a Hilton Als nel 2003. Non è così semplice, ovviamente. Ma rassicura pensare che i libri possano ancora giocare un ruolo così dirompente sulla scena culturale. Nulla nella sua estrazione working class lascia presagire una carriera del genere.

 

Morrison nasce nel 1931 a Lorain, Ohio – una cittadina a 25 miglia da Cleveland. I suoi hanno abbandonato il Sud sulle rotte delle Great migration che a inizio secolo vede molti afroamericani spostarsi al Nord in cerca di condizioni migliori. La madre Ramah è una casalinga dalla mentalità aperta. Il padre George Wofford, originario della Georgia, a 14 anni ha assistito al linciaggio di due vicini e non ama affatto i bianchi. Si arrangia con vari lavori e negli anni della guerra, che per molti afroamericani non arruolati significano posti di lavoro migliori, diventa saldatore alla U.S. Steel. Da lui Toni, che allora porta il nome di Chloe Anthony (lo cambierà perché all’università i compagni stentano a pronunciare Chloe), impara il rispetto di sé e il valore del lavoro ben fatto. E la scrittura, dirà molti anni dopo, è proprio questo: lavoro duro, oscuro e solitario. Cresciuta in un quartiere integrato – fra i suoi vicini ci sono ungheresi, italiani e ebrei – il futuro Nobel sperimenta l’umiliazione del segregazionismo al tempo dell’università. Ristoranti e autobus separati, negozi dove i suoi soldi non valgono come quelli dei bianchi. È una rivelazione.

 

Dopo la laurea alla Howard University a Washington, insegna inglese alla Texas Southern University a Houston e poi alla stessa Howard. Sposa un architetto giamaicano, Harold Morrison, da cui divorzia sei anni più anni tardi. All’epoca, siamo nel 1964, è incinta del secondo figlio e inizia a lavorare per L.W. Singer, la sezione scolastica della casa editrice Random House che presto la trasferisce a New York, dov’è la prima donna afroamericana a lavorare come editore nella sezione fiction. Sono gli anni in cui scopre e coltiva nuove voci della letteratura afroamericana. È lei a pubblicare, fra gli altri, Muhammad Ali, Angela Davis, Toni Cade Bambara, Gayl Jones e il poeta Henry Dumas. È un lavoro editoriale intenso e appassionato che finisce per preparare il terreno alla sua stessa scrittura. L’esordio arriva nel 1970 con L’occhio più azzurro, disperata storia della bambina Pecola, che per sfuggire al suo destino sogna occhi azzurri come Shirley Temple. Toni Morrison ha allora 39 anni, troppo vecchia per il mercato americano che richiede esordi sfolgoranti prima dei trenta. Eppure il libro entra nel curriculum della City University di New York e attira l’attenzione dell’editrice Knopf che pubblicherà anche gli altri suoi lavori. Il libro successivo, Sula (1973), storia dell’amicizia fra due donne afroamericane, le vale la nomination al Book National Award. Seguono il Canto di Salomone (1977), il magnifico Amatissima (1988), ispirato alla vicenda di Margaret Garner che pur di sottrarre la figlia alla schiavitù la uccide, Jazz (1992) e tanti altri per un totale di undici romanzi, libri per bambini e raccolte di saggi.

 

 

La consacrazione arriva nel 1993 con il Nobel per la letteratura. Toni Morrison è già allora uno di quei rari autori capaci di coniugare il favore della critica a uno straordinario successo di pubblico. Qualche anno dopo il massimo premio letterario, a farne un’autrice di popolarità immensa arriva Oprah Winfrey, la giornalista afroamericana più celebre e ricca d’America. Oprah, che finirà per recitare nella trasposizione cinematografica di Amatissima diretta da Jonathan Demme (il film sarà un flop al botteghino), intervista la scrittrice a più riprese e ne sceglie i libri per il suo book club. Quando, a trent’anni dall’uscita, L’occhio più azzurro è indicato come lettura del mese, se ne vendono 800 mila copie in edizione economica. A quel punto Toni Morrison è già finita sulla copertina di Time. È un volto che tutti riconoscono, un’icona della cultura afroamericana e un modello per le nuove generazioni. È un risultato notevole, se si considerano le premesse. A spingerla alla scrittura, dice, “è il silenzio – così tante storie non raccontate e non esplorate”. Morrison pesca a piene mani dallo storytelling familiare e riempie quel vuoto letterario con storie dure e spesso disperate, tramate di violenza, melodramma, fantasmi.

 

Protagonista dell’immensa commedia umana che costruisce libro dopo libro, è la comunità afroamericana, ritratta nei suoi uomini e soprattutto nelle sue donne. Il suo è un mondo complesso e variegato. Nella sua opera, osserva Rachel Kaadzi Ghansah sul New York Times nel 2015, “essere neri non è una merce e non è intrinsecamente politico”. Morrison “resiste con coerenza alla richiesta di creare una comprensione empirica della vita dei neri in America. Invece la rende vita regolare, quotidiana, del genere che non sbanca al botteghino ai concerti o negli stadi – complessa, fantastica ed eroica, malgrado la svalutazione che se ne fa”. È una scelta che le consente di giocare con gli intrecci e con il linguaggio. Il suo è l’inglese denso della traduzione seicentesca della Bibbia di re Giacomo, luminoso e ammaliante. La mortalità e la possibilità della parola sono le forze motrici dell’esistenza, sostiene. “We die. That may be the meaning of life. But we do language. That may be the measure of our lives”, scrive nel discorso di accettazione del Nobel. (“Moriamo. Forse è questo il senso della vita. Ma facciamo il linguaggio. Questo può essere la misura delle nostre vite”). È una delle sue frasi più citate, in questi giorni. Ma, dice più avanti, “il linguaggio non può definire con precisione la schiavitù, il genocidio, la guerra. Né desiderare l’arroganza di esserne capace. La sua forza, la sua felicità è nel tendersi verso l’ineffabile”. Allergica ai luoghi comuni e agli stereotipi, Toni Morrison ha sempre privilegiato la verità dell’esperienza al virtuosismo della “bella scrittura” che pure conosceva così bene. Gli occhi fissi all’orizzonte luminoso delle possibilità, ha scelto di radicare il cuore nel dolore e nella meraviglia del mondo. Rest, Queen. La tua voce unica ci mancherà.

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Alessandra Sarchi, La felicità delle immagini, il peso delle parole

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Alessandra Sarchi è una scrittrice ed è una studiosa di arte. Le sue due anime emergono esplicitamente nel titolo del suo ultimo libro, dove si parla di “felicità delle immagini” e di “peso delle parole”. Le due espressioni, se incrociate, possono spiegare il contenuto dei cinque esercizi di stile che Sarchi esegue con un tocco fermissimo e nello stesso tempo leggero, mettendo in fila cinque scrittori che costituiscono insieme una notevole sezione del canone letterario italiano novecentesco: Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati. La premessa del libro fa emergere molte altre voci (Morante, Parise, Vittorini) tra cui primeggia quella di Roberto Longhi, lo storico dell’arte che in un certo senso è riuscito a impostare in modo nuovo la tradizione di quella che anticamente si definiva ekfrasis, cioè la tecnica con cui uno storico dell’arte deve far rivivere nelle parole la sostanza di un quadro, transustanziandolo (l’espressione veniva usata da Pasolini per il cinema) dalla materialità dei colori, delle figure, delle immagini all’immaterialità della scrittura. Stando al titolo del libro, Sarchi ci propone che le immagini possiedano una natura “felice”, cioè etimologicamente capace di rendere soddisfatti, anche là dove la scrittura sembra trovarsi in difficoltà proprio per un eccesso di peso che la porta ad annaspare inseguendo la densità del mondo. Tutto questo libro parla di crisi della scrittura, e di scrittori che si rivolgono alle immagini, direttamente o indirettamente, quando capiscono che la realtà, da loro inseguita, si allontana progressivamente. Allora sembra più facile guardare a una realtà già messa in posa, già resa perfetta proprio dalle immagini.

 

C’è un pensiero di Pasolini a proposito di Longhi e di Caravaggio che potremmo considerare il nucleo del libro. Pasolini dice che il mondo pittorico di Caravaggio viene colto attraverso un diaframma che lo rende per sempre fisso e vero. Il termine che Pasolini usa è abbastanza problematico, perché non sappiamo bene a quale strumento ottico si riferisca la parola “diaframma”. Potrebbe essere una metafora che indica proprio cosa avviene quando la realtà diventa immagine, cioè entra in una dimensione che non è più propriamente reale ma neanche immaginaria. Diventare immagine significa anche entrare in un rapporto con le parole, dal momento che le parole (vedi Longhi) sono l’unico strumento per ridare alle immagini una dimensione di praticabilità. Potremmo anche pensare che sia proprio il peso delle parole a rendere percepibile la felicità delle immagini. E infatti leggere un saggio critico di Longhi riattiva un preciso desiderio di tornare a guardare le opere che Longhi descrive, dal momento che la sua scrittura incrementa la componente di realtà implicita nelle opere stesse, e lo fa utilizzando immagini della realtà per definire ciò che si trova nella pittura: la luce notturna che cade su letto di Costantino negli affreschi di Piero ad Arezzo diventa, per esempio, un mucchietto di neve candida, la punta del padiglione un dosso spelato di vulcano. La scrittura si incrementa di peso (e di felicità) attraverso la realtà delle immagini.

Sarchi è interessata al dibattito che ha percorso il mondo artistico nel dopoguerra intorno al problema del realismo e di una nuova arte che sembrava voltare le spalle a qualsiasi ipotesi di realismo. Dove Guttuso scivolava sempre di più verso un’obbedienza a dettami di realismo proprio perché bisognava difendere gli avamposti ideologici di una certa sinistra. E questo dopo che Vittorini, con un occhio lucido, aveva visto in Guttuso il Picasso che mancava all’Italia, e aveva costruito quell’opera unica che è Conversazione in Sicilia, definita da Calvino il romanzo “Guernica” della nostra letteratura.

 

 

Però il libro di Sarchi non è solo una ricostruzione attenta di un dibattito ideologico, anzi inizia ad alzarsi dal dibattito e a guardare le cose in modo problematico proprio quando ci rendiamo conto che ci propone una serie di scrittori che credono di combattere con un’ipotesi di realtà ma stanno combattendo con un fantasma che attraversa la loro scrittura. Questo fantasma sembra avere una natura certa ma più lo interroghiamo più ci sfugge. Si tratta di quel tipo particolare di immagine che è contenuto nella scrittura e che si riattiva nella nostra mente quando leggiamo e abbiamo bisogno di procedere attraverso grumi di significati che producono effetti emotivi e che chiamiamo solo per comodità “immagini”. Cesare Garboli sosteneva che attraverso la scrittura di Longhi le opere d’arte si liquefacevano per diventare una sostanza diversa dalla realtà, così come avviene con le immagini mentali che Proust insegue nella Recherche e che Deleuze identifica come “essenze”. Secondo un giovane teorico della biopoetica, Paolo Gervasi, lo spazio testuale del saggio critico crea uno spazio mentale fondato sull’ibridazione, cioè sulla convivenza di tipologie diverse di scrittura e quindi di percorsi emotivi e cognitivi. Gli esercizi su cui si esercita Sarchi hanno qualcosa a che fare con questo tipo di indagine. Il suo libro è un insieme composto di immagini scritte che entrano in risonanza tra di loro e coinvolgono le esperienze creative di cinque scrittori che appartengono a un mondo apparentemente lontano, quel mondo in cui la scrittura era fondata su una pratica di inesausta interrogazione del reale in cui anche il mondo artistico era coinvolto. Il dibattito sull’arte e sulla letteratura intrecciava senza soluzione di continuità domande e risposte. Si può vedere il capitolo dedicato a Paolo Volponi, di cui Sarchi mette in luce la doppia anima: il dirigente d’azienda integerrimo e roso da problemi etici da una parte, il collezionista compulsivo che partecipa alle aste internazionali per accaparrarsi tele seicentesche dall’altra.

 

C’è un filo che unisce queste due anime? Secondo Sarchi il filo sta proprio nelle soluzioni immaginative con cui Volponi ha messo in scena la mutazione antropologica che passa attraverso lo sviluppo dell’industria. La visionarietà figurale che caratterizza i personaggi dei romanzi di Volponi affonda le radici nell’immaginario pittorico seicentesco, che costituisce il “diaframma” attraverso il quale Volponi può leggere l’incidenza della vita industriale sul corpo di coloro che ne fanno parte. Bruto Saraccini, il dirigente protagoniste delle Mosche del capitale, vede se stesso e il mondo attraverso densi filtri iconici che vengono da memorie di opere d’arte. Quando decide di affrontare il proprio superiore, lo fa ispirandosi alla descrizione di Longhi di un’opera d’arte attribuita a un maestro umbro del ‘300, dove si vede la derisione di Cristo in croce. Dunque siamo in presenza di un’immagine scritta che a sua volta deriva da un’immagine scritta (quella di Longhi). Ambedue contribuiscono a esprimere una condizione alienata, in cui il soggetto sente di non poter più avere appigli sul mondo che lo circonda. Il sistema dei riflessi provoca vertigine, proprio perché sembra che la realtà si mostri come un insieme stratificato sempre più denso e illeggibile. Come dice Sarchi, siamo al confine di un’epoca dove la cultura umanistica è ormai desueta, o perlomeno messa da parte. “Bruto Saraccini è imbevuto di cultura figurativa, ma a cosa gli serve, se poi non riesce a far entrare in dialogo i due mondi?”, nota l’autrice. E la domanda potrebbe risuonare anche negli altri capitoli del libro. O varcarne i confini e arrivare fino a oggi. Possiamo cioè pensare di nuovo un dialogo tra immagini e scrittura concepito come una forma di incremento reciproco? Possiamo pensare che la malattia delle parole e l’intossicazione delle immagini si curino a vicenda? 

 

Sarchi dedica giustamente un capitolo del suo libro a Pasolini e uno a Calvino. Per quanto riguarda Pasolini, viene fatto notare un paradosso che percorre tutto il cinema e l’opera scritta. Pasolini ha bisogno di continui riferimenti alle immagini artistiche, è forse lo scrittore che cita di più l’arte italiana, prima attraverso la poesia e poi attraverso il cinema. Si potrebbe sostenere che gran parte della sua opera è un pastiche visivo che nasce da memorie artistiche. Ma i riferimenti all’arte presuppongono una tensione ininterrotta verso quello che Pasolini chiama “realtà”, e che preme sotto le immagini per farle esplodere o per azzerarle. Pasolini ha bisogno di invocare la realtà se vuole credere alla potenza delle immagini, ma ha bisogno delle immagini perché presuppone che dietro di loro ci sia la realtà. Sarchi si ferma sul Decameròn, opera apparentemente dedicata a un desiderio estremo di realtà (Napoli, il dialetto, i corpi dei giovani) ma anche opera che si costruisce come allegoria di ciò che non esiste più, cioè la realtà stessa. E così le immagini di Pasolini perdono la connotazione di felicità e acquistano quella di pesantezza, funzionano cioè solo come sopravvivenze, direbbe Didi-Huberman.

 

A Pasolini sembra contrapporsi Calvino, che arriva invece allo stesso nodo problematico sia con Se una notte d’inverno un viaggiatore sia con Palomar. Entrambe queste opere ipotizzano infatti una scomparsa di colui che scrive per un eccesso di scrittura (i romanzi che imitano tutti gli stili possibili) o di colui che guarda per un eccesso di visione (il mondo che non sembra più realmente dominabile con la vista e con la mente). La limpidezza di Calvino arriva allo stesso punto oscuro della visionarietà artistica di Pasolini. Non è meglio pensare a un’opera che si cancella da sola, o che esiste solo in sogno? Anziché raccontare, non è meglio descrivere infinitamente il mondo in tutti i suoi interstizi e per questo illudersi di scomparire in quanto soggetto? “Questo scomodo diaframma che è la mia persona”, dice lo scrittore Silas Flannery nell’ultimo romanzo di Calvino. E guarda caso torna proprio fuori il concetto di Pasolini su Caravaggio. Dunque neanche le immagini sembrano così felici, dal momento che il loro intervento non fa altro che far emergere punti critici in cui la scrittura acquista una autoconsapevolezza di fallimento. Tutt’al più le immagini, come avviene in Moravia, diventano fantasmi erotici che si sgonfiano di fronte agli occhi dell’osservatore. Occhi che hanno bisogno poi di praticare un esercizio zen di meditazione per ricominciare a vedere (il cedro del libano che osserva Dino dalla finestra della clinica in cui sta guarendo dopo un tentato suicidio).

Sarchi ci fa capire che il problema del visivo accompagna tutta la letteratura novecentesca, e che anzi (come avviene con l’ultimo Calvino) il visivo può corrodere dall’interno la scrittura narrativa e addirittura mettere in crisi l’ipotesi stessa di scrittura. Il signor Palomar muore (forse non realmente) quando si rende conto che il mondo è troppo ampio per essere contenuto nella precisione dello sguardo analitico. L’ultimo scrittore sottoposto a esercizio critico è Gianni Celati. Sarchi trova in Celati l’approdo migliore per ipotizzare una nuova postura di fronte al mondo delle immagini, che non sono più immagini artistiche ma semplici vedute del quotidiano. Celati le chiama apparenze, con un termine che annulla l’idea pasoliniana di una realtà fissata attraverso uno strumento che la blocca nella perfezione. Le apparenze di Celati sono il quotidiano che si presenta come di nuovo esperibile e interessante. Interessante perché lo riusciamo a vedere fuori da qualsiasi vincolo prestabilito. Non vediamo più immagini già formate e contenute nella memoria ma vediamo tutto come per la prima volta.

 

Cioè assistiamo alla nascita di immagini. Scrivere significa inseguire il momento germinativo dei singoli aspetti del reale. Questo fenomeno aurorale colloca Celati alla fine del percorso, come un ponte che porta verso qualcosa che deve ancora formarsi. Celati ha profondamente rielaborato la sindrome di Palomar e ha proposto un’interrogazione del quotidiano che esorbita dall’ossessione dell’esaustività e della perfezione, dal momento che l’io non può esaurire le immagini ma solo prendere atto che la loro vita è indipendente. Là dove Calvino si era irrigidito nella fissazione maniacale delle differenze del visibile, Celati riesce a trovare di nuovo una libertà di visione. Forse il suo bastone rabdomantico gli è stato offerto da Luigi Ghirri, che a sua volta ha creato immagini. La felicità di una fotografia di Ghirri riapre così le gabbie pesanti della scrittura. E Sarchi (recuperando una tradizione alta della nostra letteratura) ci indica una strada in cui di nuovo l’occhio può imparare a vedere.

 

Alessandra Sarchi, La felicità delle immagini, il peso delle parole. Cinque esercizi di lettura di Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati, Bompiani, 2019, p. 192

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Esistere, resistere, fotografare

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Libuše Jarcovjáková  vive a Praga. Studia all’Accademia del cinema (FAMU), ma le sue immagini sono troppo eccentriche. Non riesce a trovare luoghi dove esporle. Le comunità di lavoratori marginalizzati, i bar degli omosessuali, gli amici e gli amori, che fotografa dal 1970, non si possono mostrare. Questo vale anche per sé, quando si ritrae nuda o si masturba. La Primavera di Praga è stata poco più di un’illusione, e la caduta del muro di Berlino, è molto distante. Praga è una prigione e la fotocamera è il solo mezzo per evadere. L’insostenibile leggerezza dell’essere, e l’incontenibile vitalità del corpo, invade anche le immagini della fotografa. Il pube dell’amica Eva sdraiata su un letto che afferra un bicchiere posato poco sopra gli slip abbassati, dalla serie Killing Summer (1984), è una sorta di manifesto programmatico. La fotografa entra con il proprio corpo dentro l’inquadratura. È sua la mano che abbassa gli slip all’amica. Corpo e sguardo coincidono. Lo sguardo tocca, afferra, interviene. Sesso e alcool  sono tra i pochi mezzi consentiti con cui opporsi a un potere repressivo che ha ridotto l’essere umano a un essere mutilato. L’ebbrezza e l’abbandono ne costituiscono la trama visiva. Se ne riempie lo sguardo della fotografa che è  allucinato come la luce del flash che  spara sui soggetti, e ne viene stravolto, come un corpo che si abbandona, allo stesso modo dei contorni sfocati e sgranati di molte delle sue immagini. “Ho potuto esprimermi con la fotografia come volevo, perché non avevo nulla da perdere in questo contesto di repressione”, racconta la Jarcovjáková. E le centinaia di foto nella sua mostra, persino troppe, lo testimoniano con una forza espressiva che avvolge tra le sue forme notturne e ambigue anche lo sguardo dello spettatore.  

 

Libuše Jarcovjáková, David, Prague, 1984. Courtesy of the artist.


Libuše Jarcovjáková, From the T-club series, Prague, 1980s. Courtesy of the artist.


La mostra Evokativ di Libuše Jarcovjáková è una delle tre che raccontano meglio questa edizione dei Rencontres, nella quale vengono celebrati i cinquant’anni dalla sua fondazione. Le altre, che fanno parte della sezione  Mon corps est une arme. Exister, résister, photographier  sono  Les libertés intérieures. Photographie Est-Allemande 1980-1989 e La Movida. Chronique d’une agitation1978-1988.

L’incertezza, la mobilità, l’inquietante provvisorietà della sua storia sembra giungere anche a un’altra città: Berlino. Non ci sono dubbi. La Germania divisa diviene il segno visibile di una lacerazione che taglia la storia e l’Europa, e che rimane inciso sui corpi. Una città divisa è sinonimo di un’identità divisa. I sedici fotografi che vivono a Berlino Est incarnano questa frattura. Come è possibile esprimere la propria individualità in una società dove il singolare viene sacrificato al collettivo? Con la libertà interiore. Se il muro è impenetrabile, il corpo riesce comunque a insinuarvisi.  Le fotografie diventano la forma di un’arte struggente che assomiglia all’adolescenza per la sua mescolanza di artificio e ingenuità, sentimenti e intellettualismo intransigente, violenta contestazione e disarmante abbandono. Ognuno di loro cerca di sopravvivere a una città, la cui storia pare innaturalmente bloccata. Una delle reazioni, a questo senso di tempo immobile e immutabile si percepisce appieno nelle immagini di Tina Bara. In particolare nel film Lange Weile del 2016, composto da 400 immagini che testimoniano la sua vita e quella del gruppo di amici, dal 1983 al 1989. Lange Weile significa noia, letteralmente “lungo mentre”. Resistervi è una strategia. Significa resistere alla lentezza che il potere impone al tempo. Mostrare il corpo significa spezzare l’uniformità di un tempo monocorde e omologato. La noia, quindi, non è solo una presa di distanza da qualcosa a cui non si sente di appartenere, ma anche ciò che induce Tina Bara e gli altri fotografi a rientrare in sé, ad ascoltarsi, vedersi e trovare una possibile via di fuga. È un confine labile tra esterno e interno. Nelle sue immagini, l’immobilismo muta il suo segno. Sembra,  infatti, che in quella interminabile sequenza visiva  si possa vivere in anticipo il futuro. Le fotografie prefigurano dunque una vita che si spinge oltre il lungo istante di noia che hanno messo in scena. A Berlino Est si può vedere, udire e sentire la possibilità di un cambiamento.  

 

Gundula Schulze Eldowy, Berlin, 1987, from the Berlin on a dog's night series. Courtesy of the artist.


Gabriele Stötzer, Mirror reflexion, 1984. Courtesy of the artist.


I quattro fotografi della movida spagnola lo gridano. La Madrid degli anni Ottanta è un’esplosione di eccitazione e vitalismo. Franco muore nel 1975, ma la dittatura sembra porsi a una distanza siderale. La reazione è potentissima. “Là  dove tre persone dividono la voglia di fare qualcosa insieme, c’è una movida”, afferma il fotografo Pablo Pérez-Minguez. I  corpi  fotografati sono compiaciuti, gaudenti, androgini, autosufficienti, esuberanti. Le fotografie esprimono una presenza e una disponibilità assolute. Sono insieme eccesso e perfezione. Il corpo si affida completamente all’immagine. 

 

Alberto García-Alix, Eduardo y Lirio, 1980. Avec l’aimable autorisation de l’artiste et VEGAP. (Exposition La Movida).


Miguel Trillo, El Calderón, Concert des Rolling Stones. Madrid, 1982. Avec l’aimable autorisation de l’artiste et de VEGAP (Exposition La Movida). 

 

La fotografia  è un accumulo di tensioni, idee, esperienze. In esse si ribalta completamente l’idea per cui niente sembra interessante quando ti appartiene. Qui è tutto interessante, perché è tutto posseduto. Vita, musica, corpi esibiti, travestimenti: tutto è mobile. Il volto di Pedro Almodóvar, truccato da donna, con il petto villoso, simboleggia una libertà riconquistata e vissuta pienamente. Ma l’essenza della movida sta tutta nelle immagini di Ouka Leele, pseudonimo di Barbara Allende Gil de Biedma. Le sue fotografie sono coloratissime, vivaci, ironiche. Sono parodie. L’immagine di una donna che tiene fra le labbra una cannuccia, in capo un’immensa aureola di limoni, è l’icona dei Rencontres. Tutto è assimilabile al sogno. Mystique Domestisqueè il titolo della sua mostra. La libertà interiore è straripata oltre l’immagine. Ed il corpo l’ha rivendicata, come un desiderio che per lungo tempo ha dovuto celarsi. 

 

Mostre:  

1 giugno – 22 settembre 2019 (https://www.rencontres-arles.com/) direttore Sam Stourdzé

Evokativ di Libuše Jarcovjáková, a cura di Lucie Černá

Les libertés intérieures. Photographie Est-Allemande 1980-1989 a cura di Sonia Voss

La Movida. Chronique d’une agitation1978-1988 a cura di Antoine de Beaupré, Pepe Font de Mora, Irene de Mendoza.

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La pesca miracolosa

Gianni Celati. Traduzione, tradizione e riscrittura

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Nell’autunno dell’84 mi trovavo a Dublino con una borsa di studio per svolgere una ricerca sulle opere di Flann O’Brien, un autore che avevo scoperto da poco ma che mi aveva messo addosso una gran voglia di andare in Irlanda. Da tempo non ero più uno studente e avevo già avuto diverse esperienze di lavoro che poco o nulla c’entravano con quello che avevo studiato all’università, cioè la letteratura inglese e americana. Ma l’impatto della lettura di O’Brien — del suo romanzo At Swim-Two-Birds, tradotto in italiano col titolo bellissimo di Una pinta di inchiostro irlandese — era stato così forte da indurmi a lasciare la mia situazione di lavoro in Italia, peraltro precaria, per cercare di andare in Irlanda, cosa che poi mi sarebbe riuscita grazie a una borsa di studio assegnatami dal Ministero degli esteri della durata di 8 mesi presso il Trinity College di Dublino sotto la guida della professoressa Anne Clissmann, considerata a quel tempo la massima esperta di Flann O’Brien.

 

A Dublino, poi, avevo cercato fin da subito di approfondire la mia conoscenza delle opere di O’Brien, soprattutto del suo romanzo The Poor Mouth che avevo scoperto essere una parodia delle narrazioni autobiografiche dei vecchi narratori gaelici delle zone rurali e sperdute dell’Irlanda occidentale, come Thomas O’Crohan e Peig Sayers. E subito, dato che di quel libro non esisteva una versione in italiano, avevo pensato che un tentativo avrei potuto farlo io, di tradurlo, naturalmente senza sapere a quali difficoltà sarei andato incontro. Io avevo letto la versione inglese del romanzo ed ero rimasto colpito dalle frequenti ricorrenze nel testo di astrusi costrutti sintattici o di cliché linguistici che con l’inglese standard mi sembrava avessero ben poco a che fare e che mi facevano pensare che in italiano avrei potuto risolverli tramite l’assunzione di forme analoghe che erano individuabili nel mio dialetto. L’idea in sé poteva esser giusta ma alla lunga forse una soluzione del genere più che presentarsi come un tratto stilistico avrebbe potuto generare un effetto di sciatteria. Così mi era venuto in mente di prendere come possibile modello a cui ispirarmi la lingua di un romanzo che avevo letto dieci anni prima, quando ero al mio primo anno di università. Un libro che, similmente, mi aveva colpito per il modo strambo in cui era stato scritto e per le stramberie che vi erano raccontate. E questo libro era Le avventure di Guizzardi di Gianni Celati.

Devo aprire una breve parentesi. Io questo libro lo avevo letto a pezzi e bocconi durante le soste che facevo alla libreria Feltrinelli sotto le due Torri, a Bologna, prima di andare in stazione per prendere il treno per tornare a casa mia, a Reggio, dopo aver seguito le lezioni all’università. E lo avevo preso in mano la prima volta da un’alta pila — dato che era appena uscito — perché attratto dalla foto del comico americano Harry Langdon che compariva in copertina, colto in una delle sue solite espressioni di disappunto. Poi avevo cominciato a leggerlo e quello che leggevo mi sembrava tutto scritto in maniera sballata, se non addirittura sgrammaticata, e certamente anomala rispetto al modo in cui erano scritti i romanzi che dovevo studiare per i miei corsi, ma anche molto originale.

 

Naturalmente all’epoca ero bel lontano dal capire il tipo di lavoro che Celati aveva fatto in quel libro,ma non tanto da non rendermi conto che in quel libro c’era qualcosa d’importante da capire, così come c’era nel suo autore. E così mi ero informato su di lui, mi ero incuriosito, un giorno ero anche andato a una sua lezione, nonostante insegnasse in un corso di laurea diverso da quello a cui ero iscritto io — una lezione su Mark Twain. E poi negli anni successivi avevo continuato a seguirlo, ma da lontano, imparando cose per sentito dire, o tramite persone che lo conoscevano; fino a quando, un anno prima che io venissi qui in Irlanda, avevo cercato di contattarlo per chiedergli se potevo fargli avere un testo narrativo che avevo scritto e di cui mi interessava sapere il suo parere — ma questa è un’altra storia.

Qui a Dublino, dunque, avevo ripreso in mano il suo libro Le avventure di Guizzardi, di cui avevo trovato una copia alla biblioteca del Trinity, e me lo ero riletto tutto da cima a fondo per accordare il mio orecchio al suono della sua lingua e cercando di individuarne i meccanismi stilistici più curiosi e replicabili, in modo da poterli inserire riadattandoli nella mia traduzione di The Poor Mouth.

Ma a parte questo, e a prescindere dalla mia traduzione, il punto del mio discorso è che, pure a distanza di tanti anni, Guizzardi è ancora oggi un testo che sorprende per l’infinita varietà delle sue invenzioni linguistiche e quella che a tutta prima potrebbe sembrare — come era sembrato a me — una prosa un po’ sballata, in realtà è il frutto di una sofisticatissima operazione letteraria ed è costituita da un fraseggio modellato su un andamento sintattico non convenzionale e contraddistinto da inversioni tipiche più del linguaggio poetico che non di quello narrativo, nonché da certi espedienti ritmici che tentano di riprodurre sul piano della scrittura gli stessi effetti che si ottengono in campo musicale, ad esempio nel jazz, tramite l’uso del cosiddetto tempo sincopato.

 

Luigi Ghirri, Gianni Celati, 1982-84.


Il tempo sincopato è un espediente che viene utilizzato normalmente per scuotere la regolarità della scansione ritmica e vivacizzarla; a volte lo si può ottenere scambiando il battere col levare (con battere si intendono generalmente gli accenti forti e con levare quelli deboli — se avete presente la musica reggae, quello è un caso in cui il levare viene fatto sul battere e viceversa). In termini di scrittura un effetto simile lo si può produrre cercando di movimentare l’andamento sintattico della frase, cioè alterando la posizione in cui di norma si dovrebbero avvertire le pulsazioni ritmiche normali, per cui a una lettura a voce alta si renderebbe manifesto il fatto che, se le frasi avessero un baricentro, questo baricentro non cadrebbe mai in una posizione media, ma sempre eccentrica, esterna, tale da trasmettere la sensazione di un equilibrio precario che però di volta in volta, prima che ogni frase finisca, viene a ristabilirsi.

All’origine di questo modo di scrivere, che Celati aveva già sperimentato nel suo libro d’esordio, Comiche, del ’71, da un lato c’è il suo interesse per la scrittura dei matti, dei malati di mente, e dall’altro l’idea di una lingua intesa come flusso di modulazioni melodiche che egli aveva elaborato ripensando all’andamento cantilenante tipico della parlata di gente come sua madre cresciuta e vissuta in contesti in cui si parla il dialetto, per la quale l’espressione in italiano era sempre una forzatura a cui ci si deve adattare.

 

A questi due motivi di ispirazione ne aggiungerei un terzo. Ed è che in effetti questo tipo di scrittura ricorda per certi versi quello ottenuto involontariamente dagli scolari di un tempo, quelli cresciuti prima dell’avvento della televisione e dunque senza una esposizione quotidiana a forme corrette di lingua. Da quegli scolari cioè che scrivevano male in italiano. Per questa ragione Guizzardi è interessantissimo anche sul piano lessicale, tanto che il commento di Calvino, non appena aveva concluso la lettura del libro, era stato: «Bene, sembra latino!».

E in effetti la lingua di Guizzardi, anche se spesso viene accostata a quella parlata, in realtà è più un’invenzione di tipo maccheronico, nella quale confluiscono gli elementi più disparati ed eterogenei — parole che appartengono a registri diversi e incompatibili fra loro e che nell’essere accostati generano una frizione che a sua volta genera effetti comici; termini letterari che compaiono inaspettatamente e sembrano per questo impropri e fuori luogo; espressioni e connettivi antiquati (come onde o talché) che sembrano residui di un’educazione letteraria ricevuta chissà dove e chissà quando; modi verbali inusuali come il participio presente, ecc. E questo impasto linguistico non è fine a se stesso, ma serve a creare l’identità, l’immagine stessa del protagonista, Guizzardi, che è il narratore in prima persona della storia e la cui stramberia mentale è dunque deducibile già a partire dalla lingua che egli usa, come del resto la lingua che egli usa non può essere altro che il prodotto di una mente stramba come la sua.

Guizzardi infatti è un personaggio che per l’innocenza e l’ingenuità che lo caratterizzano da un lato è riconducibile a Pinocchio e dall’altro lo si può considerare un diretto discendente delle grandi maschere del cinema muto. Non è un caso che fra i quattro grandi di quell’epoca, Chaplin, Keaton, Loyd e Langdon, sia proprio quest’ultimo a figurare sulla copertina della prima edizione del romanzo. Dei quattro infatti Langdon non solo è il più idiota e il più stupido, ma è anche quello meno mascolino, è una figura inerme disarmante e asessuata, quasi cioè un ritratto fedele dello stesso Guizzardi che per buona parte del libro se ne va in giro travestito da donna.

 

Anche le varie vicende che lo vedono protagonista rimandano ai canovacci dei cortometraggi del cinema muto. A partire dall’inizio, da quando cioè il giovane Guizzardi, detto Danci, lascia la famiglia per andare a vivere in casa di un amico (dai genitori del quale è mal tollerato), il romanzo è un susseguirsi di situazioni comiche determinate dall’agitazione a cui sembrano in preda i vari personaggi che via via entrano in scena — dalla signora Coniglio che adocchia Danci e se lo porta a casa, all’indovino Clo che s’infila sotto l’ombrello di Danci costringendolo ad accompagnarlo in un ospedale dal quale Danci faticherà a scappare (e che sarà teatro delle avventure erotiche del primario che ogni notte girovaga da una stanza all’altra in cerca di pazienti femmine da montare), al mendicante cieco che rinchiude Danci dentro una stia per galline, fino all’ultimo personaggio — un riccone squilibrato che ad ogni costo vuole che Danci lo uccida.

 

Ho voluto incentrare il mio discorso su Guizzardi perché a me sembra che questo romanzo — a maggior ragione se considerato assieme agli altri due ad esso successivi, coi quali forma la trilogia dei Parlamenti buffi, cioè La banda dei sospiri, del 1975, e Lunario del  paradiso, del 1978 — stia all’origine di uno dei filoni più interessanti della letteratura italiana di questi ultimi decenni. Ossia quello che, proprio a partire dalla lezione di Celati e in alternativa a tanta letteratura “industriale” e di successo costruita su una lingua piuttosto affettata e artefatta, e spacciata per lingua letteraria (mentre al contrario dovrebbe essere considerata in tanti casi come una mortificazione dell’espressione), ha proposto un modo di scrivere inteso innanzitutto a esprimere l’elemento affettivo che ci lega alla lingua, soprattutto a quella parlata, e poi a creare un impasto linguistico, una specie di dialetto letterario in cui la lingua parlata acquisisca il crisma della letterarietà e la lingua letteraria il tono del parlato, un impasto cioè caratterizzato da una lingua che, per usare un’espressione di Coletti, non finge di non essere scritta e non teme di sembrare parlata.

 

E proprio per questo, proprio perché costruita su moduli tipici del parlato, questa diversa lingua letteraria trova una sua completa realizzazione nella lettura ad alta voce (una pratica che peraltro è stato proprio Celati in Italia a promuovere con maggior vigore e convinzione). E il fatto che questa lingua sia leggibile ad alta voce (come uno spartito musicale nel momento in cui viene eseguito su uno strumento), e che anzi la lettura ad alta voce sia il banco di prova della sua tenuta, è reso possibile in particolar modo dalla qualità ritmica che tale lingua viene ad assumere pur senza presentarsi come una riproduzione mimetica del parlato, ma come la sua stilizzazione (peraltro spesso arricchita e integrata da elementi derivati dalla lingua della tradizione letteraria).

Un’operazione del genere, poi, presuppone un modo diverso di raccontare, non più basato sulle regole di un concatenamento causa-effetto, ma costruito sulle suggestioni e le tonalità che la lingua riesce a produrre e da cui eventualmente scaturiscono gli elementi che danno origine al flusso narrativo. Molto indicativo in tal senso è un testo pubblicato da Celati sul primo numero della rivista «Il Semplice» (intitolato Modena 18 luglio 1994), in cui appunto Celati sostiene che anche i nomi dei personaggi di una storia possono essere essi stessi l’espressione di una tonalità linguistica dominante che «trascina il racconto verso uno scatenamento immaginativo».

 


Ecco, questi che ho elencato sono solo alcuni dei motivi per cui Celati è da ritenersi uno dei nostri autori più importanti e il capofila di tutti quegli scrittori che in questi ultimi decenni si sono misurati col problema della lingua e hanno trovato in lui non solo un esempio di cosa fare nella pratica ma anche un punto di riferimento teorico, dal momento che tutta l’attività di Celati — sia narrativa che saggistica che di promozione (considerata la sua disponibilità nei confronti degli autori più giovani e il suo impegno come redattore di riviste ecc.) — ruota intorno a questo problema. Problema che Celati ha posto e risolto sempre con il lavoro sulla scrittura e mai in maniera accademica, e se quello che lui ha scritto di teorico ha le stessa pregnanza e scioltezza della sua narrativa è perché per lui come per pochi altri vale il fatto che la capacità critica, in ogni campo, è il prodotto del pensiero creativo che si è investito in quel campo. E questo è un investimento che Celati ha sempre fatto senza mai pensare al proprio guadagno e sempre rimanendo fedele a se stesso.

 

Gianni Celati. Traduzione, tradizione e riscrittura, a cura di Michele Ronchi Stefanati, Aracne editrice, 2019.

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L’architetto come intellettuale

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Che l’architetto sia un intellettuale è stato palese fin da quando si è consolidata la sua figura di progettista nel Rinascimento, grazie all’Umanesimo che aveva sancito la superiorità dell’invenzione (intelletto chiaro) sulla perizia del mestiere, di fatto riscattandola dal “magisterio tecnico dell'artefice” in cui giaceva. E ciò a partire dai padri fondatori di questa disciplina in chiave moderna: Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti. Sebbene essi abbiano affrontato il tema del progetto in modi differenti, per non dire antitetici, progettista di cantiere il primo, progettista teorico il secondo, hanno entrambi messo in atto gli insegnamenti del maestro dei maestri, Marco Vitruvio Pollione, che nel Primo Libro del suo trattato, a proposito di chi vuol fare architettura scrive:

 

«… che tu abbia una istruzione letteraria, che sia esperto nel disegno, preparato in geometria, che conosca un buon numero di racconti storici, che abbia seguito con attenzione lezioni di filosofia, che conosca la musica, che abbia qualche nozione di medicina, che conosca i pareri dei giuristi, che abbia acquisito le leggi dell’astronomia.»

 

E poi c’è stato Philibert Delorme, che, come già prima di lui Alberti nella teoria e Brunelleschi nella pratica, ha sottolineato il ruolo dell’architetto anche quale supervisore e coordinatore delle forze produttive impegnate nel cantiere, ribadendolo nel suo PremierTome de l’architecture del 1567.

Ma oltre a tutto questo, per un architetto vi è ancora molto, ma molto di più. L’architettura, infatti, per lo stesso motivo di progettare e costruire i luoghi della vita dell'uomo, ha a che fare pure con la politica, termine da intendersi nella sua accezione etimologica di attività concernente le cose che attengono alla comunità sociale, quella per cui Homo est natualiter politicus, id est socialis, (come Tommaso d’Aquino ha reso l’aristotelico ζῷον πολιτικόν, zõon politicón).

 

“L’architetto – oggi come nei momenti storici precedenti – mette la propria opera a disposizione della società in cui vive.” Scrive Marco Biraghi nel suo saggio L’architetto come intellettuale (Einaudi, pp. 209; € 21,00).

“L’architetto ha spesso rivestito un ruolo di consigliere e di propositore, oltreché di realizzazione. E in non poche occasioni è arrivato anche a calarsi – in passato – nei panni del pensatore, dell’utopista, del sognatore, declinando l’etimologia del progetto nel suo senso più diretto e immediato: quello di un’evocazione – qui e ora – del futuro (proiectus in latino è propriamente l’azione del gettare in avanti, e dunque del proiettare)”, continua Biraghi.

Questo almeno in teoria e, nella pratica, specificamente soltanto in alcune epoche storiche che lo studioso milanese nel suo volume esamina con attenzione, interrogandosi sul perché oggi non sia più così e cercando di dare anche delle risposte. Circa il motivo per il quale nella odierna realtà esista uno scollamento fra il pensare l’architettura e la città in termini etico-sociali e il costruirne le parti, egli ravvisa, almeno in Italia, un’innegabile premessa nella frattura determinatasi dalla metà degli anni cinquanta fino alla metà degli ottanta, o poco più, fra il ragionare attorno a questa disciplina (nelle università, sui libri e sulle riviste di settore) e l'edilizia tout-court. Egli nota come quest’ultima, abbandonata a se stessa dagli intellettuali-architetti, rinserratisi, in “aristocratica separatezza", nella loro turriseburnea, sia progressivamente degenerata nella più bieca speculazione, sotto la pressante spinta del mercato e dei cospicui interessi che lo connotano.

A tale proposito, come non ricordare il romanzo di Calvino, intitolato proprio La speculazione edilizia? Vi si racconta, infatti, la storia di un giovane intellettuale di sinistra, che pur avendo militato nella Resistenza, negli anni cinquanta, con il miraggio di un ricco guadagno, si adegua ai tempi della selvaggia speculazione edilizia in atto e, accantonato il suo impegno civile, asseconda un imprenditore d'assalto, come purtroppo ce ne sono stati tanti, mettendogli a disposizione la sua proprietà sulla riviera ligure e rendendosi così complice della devastazione del territorio. 

Della vicenda da lui narrata, così ha scritto lo stesso Calvino: 

 

“Di solito mi piace raccontare storie di gente che riesce in quel che vuol fare (e di solito i miei eroi vogliono cose paradossali, scommesse con se stessi, eroismi segreti) non storie di fallimenti o di smarrimenti. Se nella Speculazione edilizia ho raccontato la storia di un fallimento (un intellettuale che si costringe a fare l’affarista, contro le sue più spontanee inclinazioni) l’ho raccontata (legandola molto a un’epoca ben precisa, all’Italia degli ultimi anni) [nda: anche se è stato pubblicato nel 1967, il romanzo è stato infatti scritto nel 1953] per rendere il senso di un’epoca di bassa marea morale.”

 

Che oggi l'intellettuale non sia più ‘organico’ come lo voleva Antonio Gramsci è un fatto assodato in ogni campo del sapere, con buona pace degli architetti (che essi siano maledetti o meno) e Biraghi lo constata nel suo libro facendo ampi riferimenti agli studiosi che hanno indagato il fenomeno, da Walter Benjamin, a Zygmund Bauman, a Jean Baudrillard, da Franco Fortini, a Tomás Maldonado, a Michael Walzer, a Jürgen Habermas, a Karl Kraus e a molti altri ancora.

Di una ‘architettura organica’ scriveva anche Bruno Zevi, nel suo omonimo saggio del 1945, quando, a proposito della ricostituzione post bellica, auspicava un’architettura che “ha alla base un'idea sociale, non un'idea figurativa; […] che vuole essere, prima che umanistica, umana.”

Purtroppo non è stato così, eccezioni a parte, naturalmente. 

Ma tornando a parlare dell’intellettuale, e, nello specifico, dell'architetto, la separatezza che si è venuta progressivamente a creare fra la disciplina che egli professa e la cultura intesa nel senso più lato, fra la prassi del costruire e il destino civile connesso agli interventi architettonici che inevitabilmente trasformano l’ambiente di vita dell’uomo, ha portato “il generalizzato ritorno in auge, in tempi recenti, dell’architetto come professionista, ovvero come figura semplicemente dotata di capacità tecniche", sostiene opportunamente Biraghi, dando origine quasi a una sorta di ‘a rebours’.

Tale processo, in una società fortemente mediatizzata come è l’attuale, ha permesso il generarsi del fenomeno delle archistar (o stararchitect, o starchitect), che assimilano l'architetto di successo (ma in questo campo non sempre il successo decretato dai mass media coincide con un intrinseco valore della sua opera) agli attori, ai cantanti, ai calciatori e a tutti gli altri protagonisti dello show business. E questo perché nella società dell’intrattenimento, anche l’architettura – transitata dal binomio forma/funzione, predicato dal modernismo, al binomio forma/esposizione, caro alla cultura postmoderna – deve fare spettacolo e l’archistar ne è uno dei giullari.

“Oggi all’architettura (e alla città)” continua Biraghi “sembra non si chieda nulla di più che dar forma visibile e tangibile ai negotia, agli affari, vale a dire a quello spirito commerciale cui sono improntate nel modo più profondo e completo le società e – all’interno di esse – le vite occidentali.”

Di questi tempi, l'architettura, asservita come è alla società dei consumi, è impegnata nella realizzazione di svettanti grattacieli per le multinazionali e di magniloquenti edifici per lo shopping nei quali “i cittadini-consumatori paiono felici di rispecchiarsi” e attorno ai quali sorgono le moderne residenze di lusso (anch'esse griffate!), così come un tempo, a seconda delle differenti epoche storiche, esse venivano invece edificate in prossimità dell'agorà, del foro o della piazza della cattedrale, e, più recentemente, lungo i boulevard. E il contemporaneo architetto-ancella altro non è chiamato a fare lì se non ad aggiungere ‘originalità’ alla forma di regole e valori stabiliti da altro/altri, traducendoli, nel modo più seduttivo e persuasivo possibile, in spazi, in luoghi, in oggetti: in merce, insomma, che contiene e mette in mostra, oltre a se stessa, altra merce. 

In alcuni casi, oggi l’architetto è chiamato addirittura a “spingersi al di là delle proprie tradizionali competenze disciplinari, in qualità di suggeritore di possibili funzioni e utilizzi" asserviti alla logica del consumo, senza che gli sia concesso alcun diritto di critica.

Esempi evidenti sono ben riconoscibili, poiché ipersaturi di tale logica, proprio a Milano, nella zona dell’Isola e a City Life, dove si è concentrato l’intervento delle archistar nostrane e internazionali, tanto negli edifici di ‘rappresentanza’ commerciale, quanto in quelli residenziali (con o senza giardini cartesianamente orientati).

Lo sviluppo capitalistico ha di fatto costretto l’architettura ad abdicare all’utopia, riservandole soltanto il dramma di “vedersi obbligata a tornare pura architettura, istanza di forma priva di utopia e, nei casi migliori, sublime inutilità” (Manfredo Tafuri, 1973).

 

Dopo aver affrontato il tema della ‘casa come merce’, dalle Siedlungen di Francoforte di Ernst May alla ‘machine à habiter’ di Le Corbusier, quale ulteriore effetto della soggiacenza dell'architettura alla logica del capitale, Biraghi dedica molte pagine alla questione della ‘architettura come immagine' (come immagine del capitale, ovviamente), adducendo ad esempio alcuni edifici divenuti iconici: dal Guggenheim Museum di New York, di Frank Lloyd Wright (1943-1959; da poco entrato a far parte del Patrimonio dell’Umanità/UNESCO), all'Opera House di Sidney, progettata (e poi misconosciuta) da Jørn Utzon (1957-1973); dal Centre Pompidou di Parigi, di Renzo Piano, Richard Rogers e Peter Rice (1971-1977) – “che proclama apertamente che il nostro tempo non sarà mai più quello della durata, che la nostra sola temporalità è quella del ciclo accelerato e del riciclaggio, quella del circuito e del transito dei fluidi", Baudrillard, 1977 –, al Guggenheim Museum di Bilbao, di Frank O Gehry (1991-1997).

“Anziché essere forme agonistiche, le icone contemporanee sono la manifestazione finale e celebrativa della Grundnom dell'urbanizzazione; la vittoria dell'ottimizzazione economica sul giudizio politico” (Aureli), sono parte integrante del circuito (o circo?) della spettacolarizzazione capitalistica. In questa arena, all’architetto è riservato il ruolo di creatore di spettacoli, una sorta di moderno lanista, che anziché addestrate gladiatori, ammaestra edifici, abbellendoli, con la volontà di stupire, per la “festa del capitale" che non ha mai fine.

Senza voler forzatamente far rivivere anacronismi, Marco Biraghi nel suo testo si interroga sulle possibilità che ha oggi l’architetto di superare questi impasses, per tornare, in futuro, a “farsi interprete attivo della realtà”, riscattando l'architettura dal ruolo di “comparto operativo del capitale" di cui è prigioniera.

 

Giancarlo De Carlo, Villaggio Matteotti, Terni, 1969-1975.


A tale proposito, egli analizza e studia alcuni esempi, la cui linfa è fonte di germinazione di aspettative. Ed eccolo allora affascinarci con il racconto dei progetti di due dei New York Five Architects, tra i più intellettuali fra gli architetti, quelli ‘impossibili’ di John Hejduk e quelli della visione collettiva (ma non politica) di Peter Eisenman, con le sue case concettuali, concepite “al di fuori della prassi". Ma è sul modello dell’architettura ‘partecipata’ del nostro Giancarlo De Carlo che si concentrano le speranze per il futuro auspicate da Biraghi. Infatti “nel saper rifiutare (o quantomeno riformulare) il proprio ruolo di ‘tecnico', De Carlo reimposta il rapporto con la committenza in termini politici.” Il suo Villaggio Matteotti, a Terni (1969-1975) è “un intervento giustamente celebre, non solo per i suoi esiti, che ne fanno un frammento di architettura di grande qualità del secondo dopoguerra, nonché un complesso fortemente identitario e unitario (nonostante la mancata realizzazione della parte destinata ai servizi pubblici) ma soprattutto per la ragione che – tra i primi in Italia – il Villaggio ha visto la partecipazione degli utenti al processo di progettazione.”

 

Alejandro Aravena, social housing, progetto di open building Quinta Monroy, a Iquique, Cile, 2004. In alto a sinistra foto fatta al termine del cantiere, nelle altre foto varie riconfigurazioni con modifiche apportate dagli abitanti.


A destare interesse è anche la dirompente forza di Alejandro Aravena, che coraggiosamente afferma: “[noi architetti] non siamo consulenti, siamo autori. Questo significa correre il rischio di fare proposte”. E le sue proposte si sono concretizzate nei famosi progetti di social housing a bassissimo costo, ‘open building’ che prevedono la possibilità di riconfigurare l’edificio nel tempo, a seconda delle necessità di chi lo abita, con interventi di autocostruzione, come nel caso di Quinta Monroy, ad esempio, realizzato a Iquique, in Cile e completato nel 2004, che si compone di 93 edifici. Oltre ad altri prestigiosi riconoscimenti, nel 2016, i suoi lavori a forte impronta sociale, gli hanno guadagnato il Pritzker Prize, premio che per l’architettura corrisponde al Nobel.

 

Lo studio di Biraghi ci introduce, tra l’altro, anche nel mondo dell'olandese John Habraken che, con il suo SAR (Stichting Architecten Reserch), ha teorizzato la partecipazione di utenti e residenti al processo di progettazione degli alloggi di massa. Per non parlare poi della frequenza con cui sulle sue pagine ricorre il lucido pensiero (ergo, giudizio storico) di Pier Vittorio Aureli, che, nei suoi fondamentali saggi, incentrati sulla relazione fra architettura, teoria politica e storia urbana, ha restituito valore alla ricerca teorica in architettura. I suoi progetti (studio Dogma) “costituiscono riflessioni per parole e immagini sul rapporto tra architettura e città, ovvero sulla possibilità che l’architettura torni ad avere senso e ruolo nella costruzione della città e non la città a rappresentare il luogo di mera accumulazione dell’architettura “.

E non mancano neppure le prese di posizione, soprattutto contro il minimalismo modaiolo di certe archistar (con una lunga e opportuna digressione su come è stato variamente interpretato il “less is more" miesiano), e neppure vi si risparmiano critiche alla superficialità delle recenti Biennali d'architettura (si legga qui il suo articolo sulla 16. Mostra Internazionale di Architettura 2018).

Insomma, questo libro – che ci aiuta a riflettere, mentre ci invita a constatare l'evidente che al nostro sguardo, forse distratto, oppure perché incline a lasciarsi sedurre più dalla poesia della forma o magari dalla sua forza, era sfuggito – si connota come lo studio assolutamente necessario per fare il punto sull’odierna condizione dell’architettura e sull’urgenza di riscattarla dalla subalternità alla società del capitale e dei consumi. Per quanto riguarda poi l’architetto, quello dello studioso milanese è un monito ed un auspicio a che questi si riappropri finalmente del ruolo che gli compete, di intellettuale capace di intervenire nella realtà e di “mescolarsi attivamente alla vita pratica" (Gramsci), per dare origine a un’“architettura responsabile", concependo progetti destinati all'uomo inteso sia dal punto di vista politico che sociale (nell'accezione aristotelica, ça va sans dire).

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Tecnico, oppure archistar?
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José Saramago o prima le voci

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Ho avuto la fortuna di incontrare José Saramago diverse volte tra il 1994 e il 2003. Ne è nato un lungo dialogo, tra Venezia, Parigi e la lontana Rejkyavík, rivisto dall’autore, tanto disponibile quanto scrupoloso in ogni cosa che scriveva. Saramago era dominato da una paziente responsabilità verso tutti coloro che lo leggevano con attenzione. Ricordo che a Rejkyavík, dove naturalmente era l’ospite più importante del festival letterario che si tiene ogni due anni nella capitale islandese, dopo una lunga relazione, si sottopose a un tour de force di più di un’ora rispondendo in modo dettagliato e semplice a non so quante domande che venivano dal pubblico. Finita la sessione, dedicò un’altra ora buona ai suoi lettori firmando le copie del suo ultimo libro. Ricordo che il suo volto, coperto in parte da un paio di grandi occhiali, come quello di una tartaruga si inchinava lentamente verso la pagina, per poi altrettanto lentamente rialzarsi ogni volta per mettere a fuoco lo sguardo dei suoi ammiratori e ammiratrici. Forse l’aver debuttato a quasi sessant’anni (Una terra chiamata Alentejo uscì nel 1980) e la consapevolezza che l’uomo più saggio che aveva conosciuto, suo nonno, «non sapeva leggere né scrivere», lo avevano affrancato per sempre da ogni intellettualismo come da ogni volontà di potenza, cioè lo avevano reso un vero romanziere, qualcuno che, come suona il titolo del suo discorso all’Accademia svedese per la consegna nel 1998 del premio Nobel, sa che il personaggio, questa sonda lanciata nella terra incognita dell’esistenza quotidiana, è sempre il maestro e l’autore «il suo apprendista».    

 

L’occasione di ritornare sulla sua opera – e su quel lungo dialogo – è stata la recente pubblicazione in Italia del suo ultimo diario, disperso e poi ritrovato per caso dalla moglie Pilar, intitolato proprio il Diario dell’anno del Nobel (tradotto come sempre in modo sapiente da Rita Desti e uscito da Feltrinelli). Si tratta del sesto Quaderno di Lanzarote che l’autore scrisse durante quel fortunato 1998.

 

Quando Saramago pubblicò nel 1993 Il vangelo secondo Gesù Cristo, l’opera fu censurata dal governo portoghese. Nello stesso anno lo scrittore decise di lasciare il Portogallo e di trasferirsi a Lanzarote, nelle Canarie, e cominciò a scrivere un diario, i Quaderni di Lanzarote, appunto. Tra il 1994 e il 1998 ne uscirono cinque volumi. Quando gli chiesi che ruolo avesse giocato la redazione del diario nella sua creazione letteraria, ecco cosa mi rispose: «Non è facile rispondere a questa domanda. Due ragioni mi hanno spinto, più o meno consapevolmente, a scrivere un diario: in primo luogo, il fatto di aver lasciato il mio paese per vivere in un’isola lontana; quindi il bisogno, che non avevo mai provato prima, di trattenere il tempo, di costringerlo, per così dire, a lasciare il più gran numero possibile di tracce del suo passaggio.

 

I Quaderni di Lanzarote sono una lunga lettera inviata a coloro che sono rimasti dall’altra parte, ma sono anche uno strumento – vano, inutile, forse disperato – di simulare un prolungamento della vita attraverso un’ecriturazione dei giorni. Ora, i Quaderni non sono un laboratorio, benché non manchino riflessioni sul fare letterario; non sono un registro delle storie del mondo, benché vi abbondino i commenti sull’attualità; non sono una raccolta di dati biografici, benché vi consegni i miei pensieri e miei atti. Come ogni diario – come ogni opera – i Quaderni sono un esercizio narcisistico, ma, al contrario di quel che si crede, Narciso non sempre ama l’immagine che lo specchio gli rimanda...». 

Non so se è un caso, ma quel volontario esilio comportò un salto di qualità della sua opera romanzesca. Non voglio dire che i suoi romanzi precedenti siano meno riusciti, ma che con la pubblicazione di Cecità (1995) e di Tutti i nomi (1997) Saramago ha raggiunto un’arte della composizione così raffinata da rendere la forma inseparabile dal pensiero. In altre parole, in questi due romanzi forma e tema si danno la mano.

 

Prendiamo Cecità. In una città non identificata, in un paese non identificato, un’auto è ferma al semaforo. Scatta il verde. L’auto non riparte. Il conducente è in panne. È diventato improvvisamente cieco. La sua cecità è contagiosa e ben presto tutti saranno infettati dal morbo. Chi racconta, come sempre accade nei romanzi dell’autore dai tempi di Una terra chiamata Alentejo, utilizza «un flusso verbale apparentemente senza regole», come se riferisse «la vita di coloro che gli hanno raccontato la loro vita». Non si tratta di flusso di coscienza né di monologo interiore. La narrazione possiede una punteggiatura e una sintassi personali, erede della tradizione orale. Prova ne è la presenza costante, ad esempio, di proverbi e detti popolari. Il narratore è onnisciente e si fa portavoce di ciascun personaggio, mantenendo però un ironico spazio di riflessione, spesso digressivo. Ciò fa saltare le fondamenta dello stesso statuto del narratore. Come se Saramago volesse ritornare a quel momento magico del romanzo in cui l’autore non si era ancora nascosto dietro l’invisibilità del narratore, ma si mostrava ai lettori, li intratteneva, li interpellava, li rendeva partecipi delle vicende così come delle sue idee. 

 

 

Ora, in un mondo di ciechi, questo stile si mostra in tutta la sua forza e ricchezza: in un mondo di ciechi, infatti, i personaggi si riconoscono attraverso la voce. Sono dei personaggi vocali. Non conosciamo nulla del loro fisico, della loro psicologia, del loro passato. Non hanno neppure un nome. Sentite cosa dice Saramago a questo proposito: «Non ho mai avuto la tentazione di attribuire loro dei nomi. D’altra parte, mi sembrava assurdo che la convenzione di un nome potesse sopravvivere nella situazione in cui li avevo posti. Che senso avrebbe avuto chiamare il medico Francisco o la ragazza dagli occhiali scuri Mariana? Bisogna però riconoscere che un anonimato assoluto è impossibile. La narrazione, infatti, in questo caso, si bloccherebbe, non troverebbe sbocchi. È vero che il medico non ha un nome, ma chiamarlo “medico” è già un modo di nominarlo. Si tratta dello stesso principio grazie al quale chiusa una porta e gettata la chiave, l’apriamo con un grimaldello...». 

 

Ciò che conta perciò è la loro voce, che diventa riconoscibile attraverso quel «flusso verbale apparentemente senza regole» che è il registro stilistico scelto dall’autore, strumento perfetto sia per diversificare i timbri vocali dei personaggi sia per farli dialogare. Saramago fa del romanzo una grande scena acustica in cui ogni voce, ogni personaggio, si dispiega, dialoga e si realizza, facendosi riconoscere. 

Ma c’è un altro aspetto che lega la forma al tema, ovvero lo scena acustica e l’assenza dei nomi alla cecità. Saramago sembra invitare il lettore a esercitare più che l’occhio il suo orecchio affinché ritrovi un silenzio a cui non è più abituato. In un mondo come il nostro, saturo di rumori, suoni, informazioni che provengono da ogni luogo e in ogni momento, il lettore si ritrova in una sorta di stato di assedio, assillato dalla presenza altrui, incapace di ascolto e perciò di dare nome alle cose. L’autore invita il lettore a ritrovare il silenzio che è nascosto dentro di lui, che proprio come la sua voce può sorgere in qualsiasi momento, che affonda le radici nella cecità che è prima di ogni concetto e di ogni parola e che rappresenta l’unica assicurazione che nessuno di noi è solo. Lo invita cioè a riconoscere che siamo sempre in dialogo, che l’uomo è un dialogo infinito e il mondo stesso una scena acustica dove le voci che ci hanno preceduto e quelle che risuonano nella nebbia del presente ci rivelano rivelandosi a loro volta, sempre che ognuno sappia ritrovare quel silenzio e quella cecità grazie a cui è in grado di riconoscere il timbro della sua voce e così quello delle altre.        

 

In Tutti i nomi, malgrado quanto il titolo sembri promettere, i personaggi, ad eccezione di uno, non hanno nome. Come in Cecità. Il solo che lo possiede si chiama signor José, perché l’insignificanza della persona (e del suo nome) è tale che nessuno ci fa caso. Il signor José è un impiegato della Conservatoria Generale dell’Anagrafe dove si trovano «tutti i nomi». Il protagonista comincia la ricerca della donna sconosciuta grazie a «un’illuminazione»: apre la «piccola porta» proibita che dà sulla Conservatoria Generale, entrando così per la prima volta negli archivi della sua vita intima. Sarà attraverso la ricerca della donna sconosciuta che scoprirà lo sconosciuto che egli stesso è. Ma l’uomo è dialogo, appunto. Per poter aprire la «piccola porta» che dà su se stesso, ha bisogno al contempo di aprire la porta che dà sulla strada. Credo che tutta la differenza tra la Conservatoria di Saramago e la Biblioteca di Borges consiste nel fatto che quest’ultima non possiede né porte né finestre e che nessun individuo vi cerca un libro particolare, sconosciuto. Il signor José è poi, come lo stesso autore ha affermato, «parente prossimo del revisore Raimundo Silva de La storia dell’assedio di Lisbona e, sebbene indirettamente, del pittore H. di Manuale di pittura e calligrafia». Ma anche dei personaggi di Kafka e dell’Akakij Akakievič del Cappotto di Gogol’. 

 

Quando dissi a Saramago che con Cecità e Tutti i nomi mi sembrava che avesse attraversato una frontiera, che avesse, un po’ come il suo Signor Josè, aperto la porta che dà sull’altro versante della sua opera, l’autore mi rispose: «Ne ho preso coscienza quando ho cominciato a scrivere Cecità. Fino a Il vangelo secondo Gesù Cristo ero intento a descrivere una statua, cioè la superficie della pietra. Da Cecità mi sono reso conto che cominciavo a penetrare all’interno della pietra. Credo di aver effettivamente attraversato una frontiera. Temo che le mie storie stiano diventando sempre più aride, essenziali, e al contempo è come se lo desiderassi... Non potrei più riscrivere un romanzo come Memoriale del convento, forse (e la considero una compensazione) perché all’epoca ero troppo giovane per scrivere Tutti i nomi...».

 

Quando, verso la fine del romanzo, il signor José scopre che la donna sconosciuta che cercava si è suicidata, si reca al Cimitero. Con suo grande scandalo, incontra un pastore – nel Cimitero, a differenza della Conservatoria, i vivi e i morti non sono separati – intento a scambiare i  numeri che identificano le diverse lapidi. È sconcertato: ha appena trovato la tomba della donna sconosciuta e ora, grazie a questo pastore di capre, la donna, ancorché morta, è sparita un’altra volta.

Eppure, è grazie «alla malizia del pastore» che il signor José giungerà all’ultimo stadio del suo apprendistato di individuo: il codice segreto di un individuo non ha niente a che fare con i nomi. Il segreto di una biografia deve restare segreto. La vita ci assegna dei nomi, la morte ce ne libera. L’insignificanza dei nomi che portiamo nel corso della nostra esistenza è risolta dall’insignificanza dei nomi nella morte. Né la vita né la morte sono sacre, solo il loro dialogo lo è.

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Modernismo e post

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Prima grande stanza, che ci si trova spalancata davanti appena si apre la porta: grandi immagini fotografiche sono proiettate sulle pareti, si vede subito che ritraggono importanti personaggi della cultura italiana otto-novecentesca perché si riconoscono i più famosi: di fronte c’è Segantini nel suo atelier, a destra Giovanni Papini nel suo studio e i fratelli Russolo con i loro intonarumori, a sinistra Bruno de Finetti al tavolo di una conferenza, Italo Svevo al Caffè Austro-ungarico di Trieste e l’anarchica Louise Michel nella sua camera da letto. Ogni immagine ha davanti dei mobili che ricostruiscono gli ambienti, ognuno con uno o più libri del o sul personaggio rappresentato. Al centro di tutto un salottino con divano, poltrone, tavolino con altri libri e oggetti. Da ogni ambiente emana una voce che legge brani scelti, tutti a voce alta, mescolandosi con un effetto teatrale riuscitissimo: è lo schiamazzo della Storia – prendo il termine da Dario Bellini, che lo intende proprio come grumo di voci e di idee che costituisce già di per sé l’argomento. L’installazione ha come titolo Modernismo italiano.

Seconda stanza al secondo piano: silenziosissimi ritratti a figura intera, singoli o di coppia o di famiglia – Clegg & Guttmann ce ne hanno proposti su questa linea regolarmente da decenni – su fondo nero da cui spiccano opere d’arte, di diverso tipo e stile, ma mi pare tutte di artisti dopo il Modernismo, per rifarsi al tema dichiarato della prima stanza; tra essi infatti riconosciamo almeno De Dominicis e Lavier. Dunque le persone ritratte sono dei collezionisti. Il contrasto è fortissimo, a tutti i livelli.

 

La terza stanza, al terzo piano, è doppia: entrando ci si trova in una sorta di anticamera dove sono appese delle “nature morte” – c’è dunque un lavoro anche sui generi – di oggetti fotografati all’interno di una scatola dalle pareti di carta argentata (che fa pensare alla Factory di Warhol, ma forse l’associazione è arbitraria): ci sono dei fiori in un vaso, delle mele in una ciotola, due bottiglie di Campari accostate in modo che le etichette formano la parola Campapari. I rimandi, molto meno diretti, possono essere ai girasoli di Van Gogh, alle mele di Cézanne, al Campari di Depero, altri artisti modernisti dunque, non italiani. Da qui si accede a una stanza dove sono proiettati quattro video uno accanto all’altro sulla stessa parete, in cui vediamo quattro persone che leggono, di nuovo tutti a voce alta assommandosi in un chiasso indistinguibile: su di loro sono proiettati fotografie degli autori dei testi che stanno leggendo in modo che i volti di questi ultimi si sovrappongano ai loro volti; sono Otto Weininger, Gustav Theodor Fechner, Gertrude Stein e Franz Kafka, e allarghiamo di nuovo il Modernismo ad altri contesti.

 

Il Modernismo dunque è il centro dell’esposizione, in tutte le sue componenti – arte, letteratura, filosofia, scienza, politica – e contesti – italiano, francese, mitteleuropeo – con al centro il collezionismo ritratto in maniera iconograficamente ottocentesca, ma con oggetti temporalmente e culturalmente “sfasati”, post-modernisti. Forse da questo si possono dedurre due domande almeno. La prima: il Modernismo ci appare inesorabilmente dall’oggi, cioè dal post? Forse addirittura come ci appare il post, cioè più vario e sfaccettato, meno omogeneo di quanto ci si figura quando si cerca una sintesi storica e di pensiero. Lo schiamazzo, come dicevo, la sovrapposizione e l’intreccio delle voci ne sono qui, più che il risultato, la cifra stessa. La seconda: il ruolo del collezionismo, che direi di snodo, proprio come lo è espositivamente, con il suo silenzio e il rovesciamento tra modernismo e post che ho descritto.

In effetti la mia idea è che di questo si tratta qui, di un gioco significativo di rovesciamenti, di rotazioni sul perno della nozione di collezione. Quello più centrale mi pare quello tra figura e fondo, diciamo così: nella prima sala lo sfondo storico è l’argomento e le figure proiettate fanno da sfondo ai mobili che dovrebbero fare da loro sfondo, emergendo invece concreti in primo piano – così la foto proiettata fa come da quadro alla parete; lo stesso vale per le parole, i discorsi, tra libri e voci, visto che queste si assommano al punto da diventare come uno sfondo, ma sono talmente alte da emergere come presenza principale della stanza.

 

Non è formalismo questo mio: l’idea, credo, è quella che nella nostra visione della storia, e del Modernismo qui in particolare, siamo sempre di fronte a questi rovesciamenti, che la visione, la conoscenza sono sempre retrospettive, proiettive.

Dichiarano Clegg & Guttmann, come riporta il comunicato stampa: «Cento anni dopo l’inizio del Modernismo ci ritroviamo in un profondo stato d’incertezza su quali risposte dare alle questioni più basilari di etica, estetica e politica». Cioè oggi che ci sentiamo così, vediamo anche il Modernismo così, ne siamo figli ma anche padri.

Gli stessi rovesciamenti proseguono in altre modalità nelle stanze seguenti. Nei ritratti dei collezionisti, gli oggetti sono sullo sfondo ma emergono in primo piano illuminati, anzi luminosi, illuminanti, come il cigno tenuto dalla donna o lo specchio dietro la famiglia o l’oro del quadro di De Dominicis dietro l’uomo. Nelle nature morte gli oggetti sono di nuovo in primo piano, ma la scatola argentata confonde, moltiplica ma sfocando e disfando le forme – davvero io continuo a pensare all’argento della Factory, spazio che ho sempre trovato allucinante, visivamente insostenibile. D’altro canto Warhol è per tanti versi lo snodo storico tra Modernismo e post.

 

Whether Line, Fitch & Trectain.


Infine nella terza sala la sovrapposizione è totale e la distinzione tra sfondo e figura è annullato, indecidibile: la proiezione è la sua forma, la fusione di figura e fondo è letterale, la confusione delle voci torna a trionfare.

Per me l’idea è questa: ciò che ci abbandoniamo per pigrizia o altro a sentire come confusione va invece letta come fusione, come voce dell’insieme e come sovrapposizione delle voci del passato e del presente. Certamente quello che chiamiamo Modernismo era un insieme simultaneo di voci diverse, forse senza sintesi ma compresenti nello stesso orizzonte di possibilità, come lo chiama qualcuno; d’altro canto il presente sarà anche segnato dall’incertezza, ma la certezza che cosa è? In arte, intendo. Non è la forma? Non sta in essa la risposta a come affrontare le questioni, i problemi, gli argomenti? Collezionare è la forma, quella del rapporto tra le parti, come stanno insieme, come si connettono: in esso la dialettica tra persona e oggetto, tra sfondo e figura, tra luce e ombra, tra passato e presente, si mette in gioco operativamente, come un esercizio ermeneutico, interpretativo e insieme costruttivo di senso presente, illuminato e illuminante. In fondo anche la prima stanza e l’ultima sono delle “collezioni”, delle figure e dei rimandi scelti e messi in scena da Clegg & Guttmann.

 

Azzardo un’idea: in fondo questo è il pensiero delle “avanguardie”, non quelle moderniste, se per esse si intende quelle costruttive, utopiste, idealiste o produttiviste, bensì quelle, come il Dadaismo, che hanno compreso che i criteri del passato non potevano più funzionare nello stesso modo, che la contraddizione, il caso, l’inconscio, l’indeterminazione, la sovradeterminazione – la confusione, la provocazione, l’incertezza – sono parte integrante del linguaggio e del pensiero e hanno tentato forme e invenzioni che ne facessero i conti. Tra il Modernismo e il post ci stanno loro. Forse non è un caso che Clegg & Guttmann abbiano scelto quel panorama di Modernismo e in fondo l’hanno trattato e presentato avanguardisticamente più che postmodernamente. Esiste dunque un’avanguardia nel e del postmoderno?

Prendiamo un’altra esposizione milanese. Alla Fondazione Prada un’altra coppia di artisti, Lizzie Fitch & Ryan Trecartin, ha realizzato una mostra davvero particolare. Si intitola Whether Line, titolo dai mille possibili significati, io qui inventerei quello di “Linea del se”, inteso proprio come congiunzione: se fosse così, se…

 

L’atmosfera è completamente diversa da quella della mostra di Clegg & Guttmann, quasi opposta, fin dall’inizio, ma solo in apparenza. Si entra nella prima grande stanza del corpo centrale della Fondazione, dove è costruito un percorso obbligato da pareti di rete metallica. Al suo esterno sono disposti diversi altoparlanti da cui escono voci non ad alto volume ma che descrivono un chiacchiericcio quasi indecifrabile di cui si riescono a cogliere solo dei frammenti. Da qui si accede, attraversando il cortile sempre tra le barriere, all’altro grande spazio, all’interno del quale è ricostruita una casa, di forma essenziale, quasi un hangar, dalla struttura di legno e le pareti di metallo. All’interno si arriva a una stanza dove è proiettato un film, quindi a una parte centrale dove delle scale portano a un terrazzo, da cui non si gode la vista sperata, dato che siamo al chiuso, e poi a un’altra stanza, dove sono proiettati altri video a quattro canali.

La casa è la ricostruzione semplificata di quella che i due artisti si sono costruiti in un terreno in Ohio dove hanno voluto tentare un esperimento di vita in comune e farne il set del loro lavoro artistico: vita e film si sovrappongono, il luogo non è una location ma un “mondo”, un mondo altro. Questa è l’atmosfera che si vive anche nel primo video. Intitolato Plot Front, è un film di quelli girati in apparenza in modo dilettantesco e manuale, con scene slegate, recitazione inappropriata, insomma antinarrativo e grottesco, che si rifà ai reality o a film di serie B, C, D o da social. I personaggi discutono sconclusionatamente dei grandi temi: l’identità, il territorio, l’idea di proprietà, di stato, di nazione, di territorio, di comunità, di famiglia. In particolare il personaggio interpretato da Trecartin, detto Neighbour Girl e che incarna la figura del vicino di casa che finge bonarietà ma è al tempo stesso inquietante e minaccioso, è di quelli che dicono la loro su tutto. L’altra installazione video è quasi l’opposto: intitolata Property Bath, mostra il paesaggio naturale in diverse stagioni, silenzioso e quasi idilliaco, se non fosse per l’apparizione ogni tanto della Neighbour Girl che lo attraversa.

 

Quando si esce dalla stanza, fuori nel cortile, a mostra finita, si è frastornati e insieme sollevati di esserne usciti, lo dico in senso assolutamente positivo, cioè usciti non tanto da qualcosa di ansiogeno, che getta “incertezza”, per riprendere le parole di Clegg & Guttmann, ma da qualcosa di non certo, nel senso di dato, preciso, apodittico, ma anche di non piacevole, non accomodante, non consolatorio, e invece provocante, denunciante, linguisticamente e stilisticamente misto e con-fuso, ma al tempo stesso aperto, in tutti i sensi della parola, come lo era-è l’avanguardia.

Certo, sono avanguardie blasonate da ricche gallerie e fondazioni, diranno i maliziosi scafati, ma noi preferiamo pensare che siano i front-artist, le punte emergenti di situazioni sparse e vive attorno a loro, e comunque che i loro linguaggi e le loro opere siano le forme e i modi su cui riflettere.

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La città morta

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Erich Wolfgang Korngold

Die tote Stadt (La città morta) inizialmente portava il titolo “Il trionfo della vita”, probabilmente una formulazione provvisoria che trova scarso riscontro nella trama dell’opera sviluppata in tre atti. Il libretto simbolista e onirico, ambientato alla fine del XIX secolo, si basa su un’opera letteraria decadente, Bruges-la-Morta di Georges Rodenbach.

Ed è proprio dal romanzo che bisogna partire per riflettere su Die tote Stadt di Erich Wolfgang Korngold. Dopo esser apparso a puntate su Le Figaro, la sua pubblicazione come libro (1892) contiene una novità, per quei tempi rivoluzionaria: 35 fotografie di scorci della città fiamminga, senza persone, e intagliate con ombre nere (la tecnica permetteva solo esposizioni monocromatiche con poche sfumature). Il testo inizia con un avvertimento: “In questo studio passionale [corsivo mio] abbiamo voluto […] principalmente evocare una Città [maiuscolo originale], la Città come personaggio essenziale, associata agli stati d’animo, che consiglia, dissuade, determina ad agire”. Il successo del libro si legò al suo carattere simbolico e sognante, dove il protagonista non è un uomo, ma lo sfondo su cui gli uomini proiettano le loro ombre. 

Il testo inizia con un flashback. Alla morte della moglie adorata, Hugues le aveva tagliato la lunga treccia bionda, per conservarla come reliquia. Fuggendo da una città cosmopolita, probabilmente Parigi, aveva scelto di vivere da recluso a Bruges, Città che ben può esser chiamata morta. Nel Medio Evo era fra i centri più popolosi e ricchi d’Europa: ma, con l’insabbiamento del porto, già nell’Ottocento aveva perso ogni ruolo, tranne quello di attrazione turistica. 

 

Hugues conosce la ballerina Jane, che della morta oggettivamente è sosia; e per lui, soggettivamente, “ombra”, nel senso di Jung. Cioè l’insieme di tendenze della personalità (non solo la sessualità, come argomentava Freud) poco compatibili con i valori coscienti: che continuano ad esistere, ma vengono negate dal soggetto e continuano ad agitarsi nell’inconscio. Egli se ne innamora, ma è una passione impossibile. Non riesce ad accettare che Jane sia diversa: persona gioiosa e persino frivola, inconciliabile con la sua necrofilia. La scena finale torna alla treccia, con cui la ballerina si circonda il collo giocherellando, con un gesto che da un punto di vista psicologico corrisponde a una riduzione o svuotamento di quell’oggetto sacro che la reliquia era per il protagonista. Di fronte alla profanazione del Mistero, Hugues impugna quella sacra collana e la strangola.

Il testo fu messo in musica da Erich Wolfgang Korngold con l’aiuto sostanziale del padre, Julius, il maggior critico musicale di Vienna, che molto aveva contribuito alla affermazione di Gustav Mahler. Il quale era a sua volta un ebreo austro-ungarico della Boemia, da cui venivano i Korngold. Uno sfondo destinato a sparire tre volte: in quanto monarchia austro-ungarica multinazionale che era erede dell’impero “universale” asburgico di Carlo V, e più in là romano-germanico (il Primo Reich); come paese, il cui nome sparirà divenendo Cecoslovacchia; come gruppo etnico-religioso, travolto dal maggiore genocidio della storia.

L’opera segue la trama del libro. Il protagonista si chiama Paul, la moglie defunta Marie, la sua sosia Marietta: esprime quindi una curvatura infantile del nome, corrispondente a un carattere gioioso che Paul non riesce a controllare. Già nel primo atto Marietta domina la scena con l’aria Glück das mir verblieb (“Felicità che mi è rimasta”) struggente canto a quanto è sopravvissuto di un amore; felicità che deve sparire a sua volta (un sentimento, dunque, proiettato su lei da Paul – quindi da Erich Wolfgang Korngold – ma poco coerente con il personaggio di Marietta).

 

Nel secondo atto Paul, preso dalla passione per Marietta, la cerca al teatro dove sta eseguendo prove di un’opera di Meyerbeer, a sua volta compositore ebreo tedesco che ha preceduto Korngold di un secolo: all’interno dell’immaginario teatrale sta dunque una scena di teatro, a sua volta immaginaria (tema profetico, che anticipa tanta arte del XX secolo: i libri sullo scrivere letteratura, i dipinti sul fare pittura, i film sul fare cinema che hanno deliziato ma in fine dei conti esasperato con la loro autoreferenzialità).

Il terzo atto torna a casa di Paul. Marietta gli chiede di decidersi: se la ama, deve amare lei. Lo provoca danzando. Paul perde la testa e la strangola. A quel punto torna in sé: e lo spettatore apprende che sia il secondo atto sia quello presente erano in realtà un sogno del protagonista: di nuovo un immaginario, ma onirico, interno a quello teatrale. 

Lo spettatore come noi, distante dalla scena non solo perché abita nella realtà, ma anche cento anni più tardi, intuisce che tra Rodenbach e Korngold è cambiata la prospettiva psicologica. Freud si è infatti posto al centro della scena: il sogno non è più una falsificazione della realtà, ma una sua verità inconfessata. Poco dopo, in parte proprio per l’accelerazione impressa dalla Prima Guerra Mondiale, Jung sottolineerà che la produzione dell’inconscio non riflette solo eventi della psiche personale, ma anche spinte collettive: una idea cui ci riferiamo quando diciamo che un’opera – musicale o artistica – è prodotta sia dalla creatività di un singolo sia da un clima culturale.

 

Eric Hobsbawm, nel postumo Fractured Times, Culture and Gender in European Bourgeois Society, ha fatto notare come, nella generazione a cavallo tra i secoli XIX e XX, fermenti la modernità: in Europa, le donne impegnate nelle scuole superiori o università si moltiplicano anche di dieci volte. Aggiungiamo una notazione che non è solo psicoanalitica. Nell’immaginario collettivo maschile, annoiato da troppe femmine sedotte, irrompe la figura della donna che seduce l’uomo mentre lo schiaccia culturalmente, come Lou Andreas Salomè o Alma Mahler. Un rinnovamento che impregna l’inconscio collettivo, ma resta poco visibile. Esso giunge alla superficie solo con gli sconvolgimenti del dopoguerra, quando si afferma il voto femminile.

 

Ci stiamo dunque riferendo a un’epoca in cui la congiunzione di città, amore, morte, nuova femminilità domina l’immaginario collettivo. Si tratta non tanto di eventi quanto di simboli collettivi, che in certi momenti storici si impongono più che in altri: esperienze psichiche antichissime che “non accaddero mai, ma furono sempre”, come si dice di ogni mito. Verso queste “invarianti” ci si volge istintivamente in cerca di stabilità, quando intorno troppi cambiamenti si accumulano. 

Già nel 1912 Thomas Mann aveva pubblicato un testo di cui l’intero secolo XX continuerà a parlare: Morte a Venezia. Celebre diventerà poi anche L’amata perduta, che ha per oggetto la perdita di Praga da parte dello scrittore Johannes Urzidil: altro boemo tre volte spossessato. Ancora una coincidenza significativa: Arthur Schnitzler era amico di Freud, suo ammiratore e da lui ammirato. Dall’inizio del Novecento – ricordiamo che il 1990 è l’anno della pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud –, lavora a un radicale racconto onirico, che pubblica solo nel 1926 con il titolo di Traumnovelle (trad. it. Doppio sogno, Adelphi, Milano 1977). Otterrà tanta fama da diventare nel 1999 il soggetto di uno dei film più controversi di Hollywood: Eyes wide shut, di Stanley Kubrick, con Nicole Kidman e Tom Cruise.

 

Proprio come quelle del testo di Rodenbach, anche le letture dell’opera identificano l’amata irraggiungibile con lo sfondo cittadino. Ma, date le vicissitudini dei Korngold, la Bruges rescissa dal mondo suggerisce ora Vienna. A un secolo di distanza, dobbiamo fare uno sforzo per ricostruire cosa questo significava. Vienna era stata al centro del rinnovamento culturale europeo e del suo maggior impero continentale. Tra fine Ottocento e inizio Novecento essa vi aveva riversato una congiunzione senza pari di novità musicali, architettoniche, letterarie, artistiche o riguardanti nuove discipline come la psicoanalisi. I nomi dei creatori erano non solo austriaci, ma in buona parte di ebrei austro-ungarici (che nell’Impero costituivano circa un 4%: dunque più che negli altri paesi europei, ma sempre una minoranza). Dopo Atene, dopo la Firenze del Rinascimento, Vienna si era imposta come terza capitale: non di un paese, ma della storia. 

Essa abbandona questo palcoscenico improvvisamente, nel pieno del trionfo, da un’uscita laterale. Con il 1919 diviene una città di provincia, che sotto molti aspetti imputridisce e muore. A guerra terminata, gli alleati mantengono il blocco per costringere alle loro condizioni la nuova Repubblica Austriaca. (Nata non come Republik Österreich, ma col nome di Republik Deutschösterreich, Repubblica Austriaca Tedesca: usato senza il Deutsch-, tedesca, l’aggettivo avrebbe indicato uno stato mutinazionale, come l’Austria era sempre stata). Il Trattato di Saint Germain, che pose fine a questo residuo conflitto con i vincitori, fu firmato solo il 19.9.1919, ratificato e pubblicato sulla Gazzetta della Repubblica Austriaca addirittura il 21.7.1920. Vienna era una città famosa per come ci si godeva il cibo. Prima della guerra, il lavoratore viennese disponeva di 2.845 calorie giornaliere. Al suo termine sono 1.293, una razione non molto diversa da quella di un Lager. Così prevedeva la tessera, ma in realtà si mangiava anche meno perché gli alimenti spesso non erano disponibili. Questo avveniva perché il cibo mancava a causa del blocco, non perché fosse stato riservato ai combattenti. Malgrado quello che dice il Bollettino di Diaz, man mano che la guerra era avanzata oltre metà delle divisioni austriache sul fronte italiano avevano continuato ad esistere solo nei documenti: anche quando non si erano dissolte, una indagine medica aveva constatato che il peso medio dei soldati era di 50 Kg (Mark Thompson, La guerra bianca). Le trincee erano i campi di concentramento dei fanti, spalmati in lunghezza.

 

Karl Kraus aveva presentato così la sua celebre pièce Gli ultimi giorni dell’umanità (Die letzte Tage der Menschheit): “Mi trovo accanto al letto di morte del tempo…”. Cambiavano radicalmente non solo i tempi, ma l’esperienza stessa del tempo. Lo psichiatra russo-francese Eugène Minkowski, nel fondamentale Il tempo vissuto dirà che il sentimento del tempo si era spezzato in due, seguendo la scansione delle battaglie: l’attesa (tempo vuoto) trascorsa nelle trincee, e l’attività (tipicamente, il tempo concentrato della battaglia). Lo storico George Mosse in Confronting History. A memoir noterà che correre (un concentrato di attività) era considerato inappropriato, fra le persone di buona educazione: Stefan Zweig non aveva mai visto suo padre correre, nella intera sua vita. Questa violenza esterna subita dalla dimensione temporale colpiva tutti: ma forse nessuno così a fondo come un compositore, che deve restare padrone di come essa scorre all’interno della sua mente.

Dopo la guerra, nell’Austria così sessualmente benpensante da aver promosso come reazione la nascita della psicoanalisi, vagavano – ricorda ancora Zweig in Il mondo di ieri– bande di maschi e femmine 11 e 12enni divenuti Vandervögel dell’eros, come in una “crociata dei fanciulli” alla rovescia. 

Ernst Lothard, poeta ebreo viennese, era amico di Freud e si recò a visitarlo: il loro paese era scomparso e non voleva più vivere. Freud, come Lothard, come Korngold, veniva dalla Moravia, ora trasformata in un altro paese – la Cecoslovacchia – che lo considerava straniero. Si trovò dunque d’accordo con lo scrittore. Entrambi non si riconoscevano in una Repubblichetta alpina con un ottavo della popolazione e della superficie precedenti: non più multinazionale e plurilingue, ma nazionale e nazionalista tanto da produrre frutti come Adolf Hitler. 

 

 

Freud, però, come riferisce Henry Ellenberger, gli fece notare che questa è la vita. L’Impero era stato la loro madre: litigiosa ma grandiosa. Ora era morto, mentre loro dovevano continuare a vivere. Non c’è niente di più normale del fatto che un genitore muoia prima dei figli: i quali proprio allora hanno l’occasione di diventare adulti. 

Freud diede in quella occasione a Lothard un compito psicoterapeutico: accettare la morte, scoprendo che, attraversato il lutto, c’è ancora la vita. Seguendo un percorso simile, ricordiamo che una vasta letteratura internazionale (Stefan Zweig, Franz Werfel, Joseph Roth, Claudio Magris, storici francesi come Jean-Paul Bled e Bernard Michel, olandesi come Pietr Judson, austro-americani come Robert A. Kann ecc.) ha descritto l’Impero scomparso come un mondo insuperato di stabilità: la cui memoria simbolica resta più viva e più significativa della esistenza storica di cui ha goduto. Esso, quindi, ha contato più per il mondo mentale che per quello materiale. Proprio per questo aveva costituito il più colossale esperimento non tanto di un regno, quanto di una psicoterapia socio-culturale mai realizzato. Difficilmente è un caso il fatto che, in The Sleepwalkers, uno dei testi capitali sulla dissoluzione della Belle Epoque, lo storico Christopher Clark descriva l’imperatore Francesco Giuseppe impegnato non solo in ruoli politici, ma anche nel fare regolarmente apparizione nei sogni dei suoi sudditi.

Fino a che punto i Korngold parteciparono a questa catastrofe della società e della mente? È impossibile che ignorassero il trauma collettivo che li circondava. Erich Wolfgang aveva, certo, vissuto l’esperienza sconvolgente e privilegiata del “bambino prodigio” idolatrato dagli adulti: che può generare una dimensione mentale protetta da tante ordinarie sofferenze e tinta di qualche onnipotenza. La sua personalità corrisponde sorprendentemente all’archetipo del “fanciullo divino”, o puer aeternus, descritto da Carl Gustav Jung: personalità creativa, ma che rifiuta ostinatamente, fino alle conseguenze più tragiche, le condizioni che la realtà gli impone. 

È però poco probabile che Korngold rimanesse un “problemless” and “apolitical” child prodigy, come alcuni hanno ipotizzato. Era avviluppato dalla devastazione bellica: aveva messo in musica anche testi di Ernst Lothar, certo più per convinzione che per semplice coincidenza. Era stato richiamato, poi esentato dal fronte perché serviva più nel suo ruolo musicale: proprio come Musil era stato allontanato dai combattimenti e addetto a scrivere per le forze armate. Era comunque coinvolto nella guerra anche in forma più personale. Aveva composto (come Ravel) un concerto per mano sinistra destinato al suo amico Wittgenstein, celebre pianista e fratello del filosofo: il quale era tornato dal fronte, mentre il suo braccio destro era rimasto nella trincea.

Il farsi estremo di ogni situazione a causa della catastrofe bellica obbligava però i cosiddetti intellettuali, soprattutto nei disciolti Imperi Centrali, a compiere scelte: che, osservate oggi, possono apparire a loro volta estreme.

 

Il padre Julius, che seguiva come un’ombra Erich, e lo innaffiava come la rosa dell’aiuola privata, era conservatore, politicamente e culturalmente. Per motivi cronologici, la collaborazione tra Julius ed Erich Wolfgang fu particolarmente intensa in Die tote Stadt, la sua vera prima opera rimasta insuperata. In particolare il libretto fu opera del padre, che sembra abbia modificato la trama in modo che lo strangolamento di Marietta fosse soltanto un sogno. Un evento decisivo ma solo psichico, il quale può fornire conoscenze più significative della realtà. Indirettamente, questo potrebbe alludere a una più generale auto-finzione onirica: per cui, malgrado il ribaltamento catastrofico dei tempi, un “patriottismo della cultura” sospinse i Korngold a continuar a vivere mentalmente nella Vecchia Vienna (la città protagonista di Rodenbach) più che in quella reale. 

Erich Wolfgang era allora un ventenne. Oggi saremmo portati a immaginare un artista così giovane come radicalmente aperto alle novità. Invece sembra partecipasse a fondo a questa “resistenza” messa in atto dal padre. Una resistenza al cambiamento simile a quella studiata proprio allora da Freud nei nevrotici: che costituì, contemporaneamente, una sorta di resistenza alla storia

I principali temi presenti in Die tote Stadt sembrano confermare questa lettura: la passione impossibile, l’oggetto d’amore (donna o città-società?) ormai inaccessibile, la confusione tra realtà e sogno. Anche la maggior parte della vita successiva del “bambino prodigio”, riportata nell’ampia (circa 500 pagine) biografia di Carroll, e gli altri documenti disponibili, confermano questa interpretazione: nel suo epistolario, Erich Wolfgang Korngold non cita Hitler neppure quando questi inghiotte l’Austria; non fa riferimenti alle Guerre Mondiali ma solo a quelle tra sua moglie e i suoceri (cioè i propri genitori).

Per sua fortuna, il compositore non viveva soltanto in una illusione. Nella Vienna con infiniti problemi materiali, che relegavano la splendida tradizione musicale sullo sfondo, Die tote Stadt sembrò ribadire che la musica del passato poteva contare su un giovane che disponeva del futuro. L’opera raccolse successi già al debutto, nel 1920, quando il compositore aveva 23 anni. Dopo le lodi di Mahler e Berg, Puccini, lo definì “la più forte speranza della nuova musica tedesca” (si parlava prevalentemente di “tedesco” come area linguistica: finché l’avvento di Hitler spinse a distinguere più nettamente fra Austria e Germania). 

 

 

Gli anni seguenti dovevano però riplasmare a fondo la cultura dei paesi germanofoni. Korngold padre e figlio sembrano di nuovo dar corpo non solo a uno stile musicale, ma anche a una curvatura mentale, che non a caso Freud studiava in quegli anni: la negazione (Verneinung), opposta a una realtà che il soggetto non vuole assolutamente accettare, anche se di fatti vi sta già vivendo. 

In campo musicale, la “seconda scuola viennese” bussava alla storia, malgrado Julius la combattesse con l’autorità di critico molto ascoltato. Per parte sua, il figlio comporrà addirittura Vier kleine Karikaturen für Kinder (Quattro piccole caricature per bambini): altrettante derisioni di Bartok, Stravinskji, Hindemith e Schönberg. Quest’ultimo forse attirava caricature perché si era, un poco vanesiamente, impegnato ad assicurare alla musica tedesca il primato per i prossimi cento anni (“Con le mie innovazioni ho assicurato la supremazia della musica tedesca per i prossimi cento anni”). In Germania e Austria, i nuovi stili operistici stravolgono la tradizione, fino a includere il jazz e motivi afro-americani (grande successo ottenne Johnny spielt auf, di E. Krenek). I Korngold si oppongono inutilmente. Julius condanna questa musica “negra”, cadendo in un linguaggio sorprendentemente simile a quello delle pagine ufficiali del nazismo austriaco, che la chiamavano “negro-ebraica”.

Rapidamente come si era aperto, il “mercato” austro-tedesco si richiude per Erich Wolfgang Korngold. Con l’avvento di Hitler nella vicina Germania, si trasferisce con la moglie negli Stati Uniti, dove troveranno asilo anche i suoi genitori.

 

Ma Korngold non si esilia solo in un altro continente. Di fronte alle novità artistiche e musicali resta radicalmente legato a una concezione di arte pura: nutrimento psichico che non solo non cede ai nuovi primati dell’impegno, ma che intenzionalmente si propone di “trasportare” il pubblico lontano dalla realtà. Non si può qui non avvertire un influsso di un atteggiamento fatto risalire, di solito, fino a Coleridge e riproposto da Nietzsche: che alla fine dell’Ottocento, quando alla maggioranza sembrava ancora di vivere in tempi dorati, aveva già proclamato la realtà insopportabile. Wir haben die Kunst damit wir nicht an der Wahrheit zugrunde gehen (“L’arte serve a non schiantarci di fronte alla verità”).

Le biografie e le storie della musica parleranno di Korngold anche per un altro, epocale motivo. Negli Stati Uniti egli entrò nella industria cinematografica quando stava per sbocciare il sonoro. Ne divenne un maestro, notissimo e temuto: anche perché interveniva non solo sulla musica, ma sull’azione degli attori, sulla messa in scena e così via. 

 

Per il pubblico una vera esperienza profonda, che “trasporti” all’interno dello spettacolo sottraendo alla realtà, non può essere una catena di montaggio di pezzi specialistici, per quanto raffinati o competenti. Pur rifiutando l’arte impegnata concepita da Benjamin o Brecht, Erich Korngold assumeva una posizione critica simile. 

Il cinema aveva iniziato mimando il teatro con mezzi infinitamente più potenti. Lo stesso farà con la musica. Ma, salvo poche eccezioni, resterà sempre più “freddo”. Infatti, mentre torniamo volentieri alla stessa tragedia di Shakespeare, o possiamo riascoltare una musica quasi eternamente, anche il miglior film può essere visto solo un numero non infinito di volte. La carica umana con cui ci “contagia” non è limitata solo dal fatto che l’attore con la ripetizione emoziona di meno perché, a differenza di quello teatrale o del musicista, è sempre lo stesso: anzi, è rappresentato dagli stessi fotogrammi, anche se la persona reale nel frattempo è invecchiata e si muove in modi diversi. L’attore cinematografico potrà anche diventare un “divo”: ma chi imprime il ritmo non è veramente lui. Egli ha meno spazio per una immedesimazione totale nel personaggio. Il tempo della ripresa verrà infinite volte interrotto, le scene saranno girate invertendo il loro ordine per motivi materiali, le macchine – insieme a registi e impresari – decideranno i ruoli degli uomini anziché viceversa. La unità dello spettacolo – la sua qualità fondamentale, fin dalla definizione di Aristotele nella Poetica– manca dall’inizio: solo un pubblico ridotto a frittata – quello che oggi ascolta Beethoven sullo smartphone– può non accorgersene. Così come, anche se le tecniche ormai lo permetterebbero, la registrazione di una sinfonia non può essere interrotta e poi ripresa da altri musicisti, fossero anche i migliori. 

 

Korngold compone musiche che di nuovo ricevono ampi plausi, per opere cinematografiche in cui addirittura non si canta. Ma nulla può contro l’elefante ormai posato sulla sua scrivania di compositore: il peso schiacciante della tecnica e i grossi capitali necessari per la produzione cinematografica, che in virtù di questo si riservano l’ultima parola. Korngold ritroverà a Hollywood la fama, resa più dolce dalla ricchezza. Non la creatività. Non ciò che per lui era la musica.

Quello che era stato un vertice della storia umana si era in buona parte auto-eliminato. Benjamin, Toller, Zweig, Roth avevano scelto il suicidio – l’ultimo usando l’alcool al posto del veleno. Korngold, in un certo senso, aveva simbolicamente scelto morte e rassegnazione già prima del nazismo, con Die tote Stadt. Sembrava così esser sopravvissuto co la sublimazione: cioè attraverso un altro processo studiato da Freud. In quell’opera aveva espresso molto del proprio inconscio. Naturale, quindi, che contenesse qualcosa che per lui era profetico anche sul piano personale. Dopo la prima “morte” del mondo amato (una allusione alla cultura d’inizio secolo), come Paul pensava di ritrovare l’amata perduta insieme a creatività e gioia di vivere, così Erich Korngold spera, insieme a molti esuli ebrei, che una “Mitteleuropa” sprofondata riappaia in America: in altre parole, che Los Angeles sia “sosia”di Vienna, come Marietta avrebbe dovuto esserlo di Marie. Ma, proprio come la nuova amata dell’opera si rivela troppo frivola, così l’autore sperimenta la delusione della Hollywood mondana. Parte allora per una seconda, definitiva emigrazione, dalla quale nessuna nave o aereo potrà riportarlo a casa: si esilia nella amarezza del mondo interiore.

 

Nel 1949 Korngold provò a tornare materialmente in Europa. Come genio della musica splendeva ancora. A Parigi lo attendeva l’invito personale a cena del Duca di Windsor, ex-re d’Inghilterra col nome di Edoardo VIII. A Vienna il ricordo di lui era ancor più profondo. Ma, ancora una volta, sommandosi ai rovesciamenti di prima, altre catastrofi – parola greca che significa: ribaltamento – si erano sovrapposte a quelle seguite alla Prima Guerra Mondiale. Vienna era diventata ancora più povera; e ancora più fredda di fronte alle antiche passioni. Korngold visitò la Toscana di Puccini e, malgrado la sua scelta di non lavorare più nel cinema, discusse perfino il progetto di musicare un film con la allora irraggiungibile Anna Magnani (Carroll, p. 333). Fece un’altra concessione impensabile, aggiungendo sassofono e banjo alla sua opera Die Kathrin. Ma il suo tono era rimasto lirico. E l’Austria, tormentata nell’inconscio collettivo dalla sua partecipazione alla violenza nazista contro gli ebrei, spesso si voltava con imbarazzo dall’altra parte al nome di Korngold.

 

Dopo la seconda, ancor più profonda devastazione dell’Europa e dell’umanità, dopo la raggiunta tranquillità materiale, senza quella mentale, Korngold aveva cercato – ancora, ostinatamente – la cosa di cui non poteva fare a meno: l’Europa. In quegli anni un altro grande rappresentante di quella cultura si era trovato a decidere. George Steiner, allora molto giovane, aveva ricevuto offerte da università americane e ne parlò con suo padre. Il quale rispose che era libero di decidere. Ma, se sceglieva l’America, allora Hitler aveva vinto. 

Korngold, invece, era a questo punto più avanti negli anni e ben più rassegnato: così, tornò in America. Non sperava più nel cinema. Ma continuava religiosamente a credere nella musica. Quasi per caso il suo testamento spirituale è rimasto incluso nella prefazione al libro di uno sconosciuto ammiratore (Caroll, p. 352), che portava il titolo Faith in music:

 

 

È ben difficile non esser dispiaciuti per come, in campo musicale, anzi in ogni ambito artistico, prevalga la tendenza a spostarsi dalla bellezza verso la bruttezza, da ciò che è nobile verso tutto quanto è repellente, malato, agghiacciante. Personalmente, non credo affatto nella ingannevole idea secondo cui l’arte deve riflettere il suo tempo. Gli orrori delle guerre napoleoniche sono ben poco riconoscibili nelle composizioni di Schubert o Beethoven […]. Sono più propenso a credere nell’opposto: il vero artista crea distanziandosi dal suo tempo, addirittura per un altro tempo”.

 

Chi ha colto il sentimento di Glück das mir verblieb sa che il mondo di Erich Wolfgang Korngold non esiste più. E forse non era mai esistito. Tuttavia sa che, nel momento stesso in cui egli la componeva, esisteva un’aspirazione a quel mondo e una profondità nell’immaginarlo sul palcoscenico. Cosa di cui la bidimensionalità degli schermi e la frettolosità del XXI secolo sembrano non esser più capaci. Fino ad oggi, ma forse per sempre.

 

Notizia sul testo

Questo testo inedito è stato scritto da Luigi Zoja in occasione del convegno “E.W. Korngold. La femme fatale fra reincarnazione e desantificazione” tenuto al ridotto dei palchi Toscanini della Scala a Milano il 28 maggio 2019. L’opera lirica Die Tote Stadt sarebbe stata rappresentata quella sera per la prima volta al teatro milanese. L’opera in tre quadri era andata in scena per la prima volta il 4 dicembre 1920 allo Stadttheater di Amburgo ed era divenuta uno dei maggiori successi di quel decennio.

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Clarice Lispector. Un soffio di vita

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Questo è un libro silenzioso, che parla piano, che esce dal nulla e va verso il nulla. È un libro accartocciato, un resto, un frammento. Un libro scritto “per fatalità di voce”, per un'urgenza di esistere, di essere corpo e parola, in un tempo che è adesso, non prima e non dopo. È un'implosione, come scrive Clarice Lispector, una bomba del non, che non urla, che non scalpita, che non ha una trama, che non si capisce; è un testo che si legge tutto d'un fiato, e non per l'attesa di un finale – che da subito risulta chiaro che non c'è – ma per la fame di parole impossibili, per quel desiderio “primitivo, grave e urgente” che traghettano. 

Un soffio di vita (Adelphi, 2019) è il libro testamento di Clarice Lispector; iniziato nel 1974 e concluso nel 1977, uscito postumo a pochi mesi dalla sua morte. Olga Borelli, amica e assistente dell'autrice, che per otto anni le è stata vicina, ha raccolto e riordinato con grande cura questo “slancio doloroso che lei non era in grado di trattenere”.

Attraverso un esorcismo dell'indicibile, che caratterizza la gran parte dei suoi testi, Lispector assembla i cocci della sua sofferenza, toccando tutti i temi a lei più cari – dalla morte, alla scrittura, al tempo – e trasformandoli in un estremo e ultimo atto di r-esistenza. 

Non lo fa da sola, ma si mette allo specchio, o meglio, in un gioco di specchi. Crea un personaggio, Autore, una figura maschile che a sua volta crea un altro personaggio, Ângela Pralini – già protagonista del racconto La partenza del treno, in Dove siete stati di notte? del 1974. Tutto il testo è parlato da queste due voci, Autore e Ângela, che sono a loro volta parlati da Clarice – che è a sua volta parlata da un linguaggio sempre insufficiente.

Come in un gioco di matriosche, le diverse identità si incastrano una dentro l'altra, rendendo difficile capire se dietro le parole ci sia Clarice, Autore oppure Ângela. 

Ognuno di loro è stato creato inconsapevolmente da qualcun altro che ne ha forgiato il destino, in un rimbalzo continuo di figure demiurgiche, spostate ogni volta un po' più in là, perché c'è sempre qualcuno o qualcosa che lo parla e che lo è.

 

 

Ma forse è proprio questa inconsapevolezza che permette ai personaggi di poter scrivere ciascuno la propria storia. Autore, cupo ed esistenzialista, aggrovigliato “nella clausura del mio piccolo mondo stretto”, giudice di professione (“colpevole o innocente?”), che commenta ogni frase del suo personaggio come un Dio triste e minore. Ângela, luminosa e circondata da un'aura rossa, scrive la sua Storia delle cose, il suo mondo fatto di oggetti, di inferriate e bidoni della pattumiera; Ângela che nasce continuamente, che “sfarfalleggia”, che ha un’“ansia dorata”, che “prende una parola e ne fa una cosa”, inconsapevole del Demiurgo alle sue spalle. E poi Clarice, che se ne sta nascosta dietro i suoi personaggi, come una Moira che ne tesse i destini e ne cuce insieme le parole, in attesa che la sua di Moira, una temibile Atropo, dia la sforbiciata finale alla sua vita. 

 

E allora chi crea chi? Chi parla? Chi scrive? Chi è l'autore, chi il personaggio, in questo teatro dell'assurdo dove le parti si scambiano, dove i nomi si confondono, dove libertà e prigionia, verità e menzogna, vita e morte, smarriscono le loro polarità fino a fondersi in un amplesso impossibile. 

Come racconta Ângela nel suo romanzo delle cose..

 

questa notte ho fatto un sogno dentro a un sogno. Ho sognato che stavo osservando tranquillamente alcuni artisti che recitavano su un palcoscenico. E da una porta che non era chiusa bene entravano degli uomini armati di mitragliatrici e uccidevano tutti gli artisti. Mi mettevo a piangere: non volevo che morissero. Allora gli artisti si rialzavano da terra e mi dicevano: non siamo morti nella vita reale, ma come attori, la carneficina faceva parte dello spettacolo. Allora ho fatto un sogno bellissimo: ho sognato questo: nella vita noi siamo artisti di un'opera di teatro dell'assurdo scritta da un Dio assurdo. Partecipiamo tutti a questo teatro: in verità non moriamo mai quando sopraggiunge la morte. Moriamo solo in quanto artisti. Sarà questa l'eternità?” 

 

Non c'è verità che non sia un po' menzogna, e non c'è menzogna che non porti con sé una traccia di verità – “una parola è la menzogna di un'altra. Esigo che mi crediate. Voglio che mi crediate anche quando mento”, dice Autore. L'identità è sempre labile, scivolosa, perché si è sempre non coincidenti, come ci insegnano questi e molti altri personaggi clariciani – si pensi a L'ora della stella, ultima opera pubblicata con Lispector ancora in vita, in cui uno scrittore, Rodrigo S.M., crea un personaggio femminile, Macabéa, in un ennesimo gioco di riflessi, identità e contrasti.

In questa pluralizzazione, in questa frammentazione di nomi che si parlano, in questo “tentativo di essere due”, c'è tutta la forza creatrice e vitale di Clarice Lispector. C'è quel suo ostinato restare, rimanere in equilibrio sui detriti della vita, della storia e del linguaggio. 

In fondo è proprio dei resti che Clarice si è sempre occupata: dai suoi personaggi-scarto – di cui Macabéa è una figura emblematica – al suo modo di scardinare la lingua, quel suo voler “scrivere a ritmo arpeggiato e agreste i rottami della parola”, quella parola “da sempre perduta per aver tentato di pronunciarla”. 

 

Il linguaggio si scardina, la vita scivola via, ma Lispector sa fare di questo crollo una forza, una Grazia che emerge dal Nulla. Non cerca di ricostruire un linguaggio, né di fermare il tempo negando la morte, ma scrive “detriti di libro”, lavora sulle rovine. Attraverso i suoi personaggi che si parlano senza parlarsi, che esistono solo attraverso le parole di qualcun altro, Clarice “si affretta a trovare il suo posto nel tempo, prima di morire”. 

“Scrivo per far esistere e per esistere io”, per una fame di vita, di creazione. Questo libro non finisce, così come non si spegne il soffio vitale di Clarice. Entrambi restano, come detriti indicibili, come ostinate r-esistenze che non muoiono. 

E come dice una voce nel libro: “a volte scrivere una sola riga basta a salvare il proprio cuore”.

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