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“Topolino”: 70 anni in formato tascabile

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Perdigiorno, screanzato, manigoldo. Bottino, doblone, arraffare. Petulante, vezzoso, svenevole. Sono ragionevolmente certa di aver incontrato per la prima volta tutte queste parole, sonanti come decini, leggendo Topolino negli anni in cui quel giornalino mi stava così grande, tra le mani, da farmi ombra come un quotidiano.

Se dovessi scrivere un pezzo sui 70 anni di quella testata (giornalino, appunto, dicevo in quegli anni Ottanta) potrei iniziare così, riportando un dato di fatto del tutto conclamato: la cura del linguaggio in quelle storie di paperi e topi. Parole alle quali non avremmo saputo subito attribuire un significato ma che ci rigiravamo in bocca come caramelle e che in fondo imparavamo a capire, tra quelle vignette che facevano loro da cornice. (E chiamerei a testimoniare la comunità di Ventenni Paperoni, che solo su Instagram conta più di 38 mila follower.)

 

Dall’account Instagram “Ventenni Paperoni”.

 

Un’impressione di ricchezza che noi lettori di allora (questo, però, lo avremmo scoperto solo da grandi) legavamo alla sontuosa loquela delle storie d’epoca di Carl Barks e degli altri grandi autori della scuola americana – e, occorre dirlo, soprattutto alle pagine e pagine di nuove parodie dei classici, come il rifacimento dell’Odissea secondo Paperino o la proposta, sempre a puntate, di un feuilleton a vignette a metà tra I miserabili di Victor Hugo e I misteri di Parigi di Eugène Sue (Il mistero dei candelabri).

Erano storie complesse, le parodie (le Grandi Parodie, i disneyani mettono le maiuscole) che traducevano in fumetto grandi narrazioni e che pertanto non lesinavano sfumature e dettagli anche nei balloon. Peccato che mettere a fuoco questi dettagli, mentre scrivo, mi riporti alla mente quasi allo stesso tempo l’immagine, stinta nel ricordo così come sarà ora ingiallita sulla carta fotografica, di una me su una piccola sedia di vimini con un topolino (senza maiuscola, perché era di casa) tra le mani. Si inizia con la ricostruzione dei fatti, insomma, e si finisce con le mani in mezzo ai ricordi.

Difficile, infatti, mantenere una giusta distanza tra storia e cronaca, ora che Topolino compie settant’anni e la sottoscritta e coetanei entrano negli “anta” con quei personaggi e quel lessico che più che nel nostro dizionario hanno ormai piena cittadinanza nella nostra enciclopedia, per dirla con Umberto Eco che di paperi e topi – come di Superman e di Charlie Brown, in Apocalittici e integrati– ha parlato molto prima e molto meglio di me.

 

A dirla ancora più esattamente, la distanza tra storia (culturale ed editoriale) e cronaca (molto, molto personale) è così labile perché più che nella nostra enciclopedia generazionale è tutta in quella privatissima degli scaffali delle camerette di allora, tutte diverse, certamente, ma in gran misura foderate di quelle coste gialle, insieme agli altri libri. “L’amor che si debbe ai classici (Tacito Proust Guicciardini, Soldino Geppetto Eta Beta)”, dice Michele Mari, esatto e struggente, sui giornalini, nelle pagine di Tu, sanguinosa infanzia.

Un anniversario emotivo, quindi, quello dei 70 anni della nascita di Topolino, ma occorre ricordare che quello che ricorre, prima di tutto, è un anniversario editoriale: non i 70 dalla nascita dell’universo Disney (Paperino ha festeggiato 85 anni quest’anno, mentre il topo con quattro dita va per i 91) né dalla nascita delle storie su carta di Topolino e soci, ma dall’avvento di una nuova formula, per le edicole, che è quella che ancora conosciamo oggi.

 

 

La copertina del primo numero, del 1949, e la copertina di Topolino n. 3306, disegnata da Giorgio Cavazzano.


Nel secondo dopoguerra, infatti, finalmente rifiorivano giornali, giornalini e periodici, fitti di immagini e di linguaggi (il fotoromanzo, il fumetto, l’illustrazione): per questo è emblematico che uno come Walter Molino, autore della testata-insegna di Grand’Hotel e celebre illustratore di copertine e disegnatore di romanzi sentimentali a fumetti, collaborasse anche con La Domenica del Corriere e disegnasse fumetti anche per Topolino, come ricorda Paola Pallottino in Storia dell’illustrazione italiana.

 

Walter Molino, L’orsetto sperduto, illustrazione di copertina per Grand’Hotel, 16 febbraio 1957.


In questo quadro di rinnovato successo e di grandi tirature, il restyling strutturale di Topolino, dall’albo al libretto mensile e tascabile, è un cambio radicale nei costumi di lettura: la pagina apre alla tavola, e quindi a storie ben più complesse e distese di quelle concentrate in una singola striscia, come nei comics.

Quante più cose potevano accadere assecondando il respiro delle tavole, senza più limitarsi alla gag o alla trovata fatta per il breve, brevissimo, raggio d’azione della strip, in cui tutto accade in un lampo orizzontale, quasi simultaneamente per gli occhi del lettore esperto. Il successo è amplissimo e, stando a quanto racconta il gustoso meta-Topolino allegato al numero del settantesimo, il 3306, così improvviso da richiedere la ristampa immediata del primo numero a libretto, tirato in 100 mila copie e andato subito esaurito.

Nel giro di poco si arriverà a 200 mila copie per ogni uscita, e il mensile diventerà prima quindicinale, nell’aprile 1952, e poi, nel giugno del 1960, da quindicinale a settimanale, inaugurando quindi un appuntamento più ravvicinato con i lettori (“Non c’è settimana senza sabato, non c’è sabato senza Topolino”, recitava lo slogan di allora).

Aumentando le uscite aumenta anche la fame di storie, e per il menabò – altra parola che, sono quasi certa, ho incrociato per la prima volta proprio tra quelle pagine – e per i lettori: le storie che arrivano dagli Stati Uniti non bastano più a riempire le pagine, settimana dopo settimana. Ed è allora, dagli anni Sessanta, che sull’onda di una crescita costante Topolino cresce e cambia ancora, quasi come un bambino vero: cresce in pagine e in fascicoli, e si accomoda nel dorso giallo che ancora oggi conosciamo e riconosciamo sin dal più alto degli scaffali; e cambia anche nella ricchezza dei contenuti, con l’inizio della storia della scuola Disney italiana, fatta di stimati pittori, grafici e disegnatori – uno fra tutti Michelangelo Rubino, figlio di quell’Antonio Rubino che aveva già diretto il Topolino giornale tra gli anni Trenta e i Quaranta, e molto prima ancora guidato le sorti del Corriere dei Piccoli.

È da questa grande crescita, anno dopo anno, che prende forma il Topolino rubricato direttamente tra i ricordi d’infanzia, quello delle Parodie e del primo gusto per la lettura.

 

Guido Martina, Angelo Bioletto, L’inferno di Topolino, in Topolino, nn. 7-12, 1949-50.


A mia discolpa per questo estenuante andirivieni tra storia e ricordo, occorre aggiungere che il Topolino di scuderia italiana si è sempre molto divertito a infilare tra le sue vignette pezzi di realtà, e a rimasticarli per risputarli fuori con un becco o un paio di guanti a quattro dita: se sin dai primi anni di vita del giornalino a libretto comparivano le prime – e grandi per davvero – parodie, come il celebrato Inferno di Topolino di Guido Martina, anno domini 1949, è dagli anni Ottanta e Novanta in poi che fanno capolino a Paperopoli e a Topolinia guest star come Vincenzo Paperica e Omberto Oco, al secolo Vincenzo Mollica e Umberto Eco, e che trovano spazio tra le storie grandi eventi d’attualità come le Olimpiadi di Seoul del 1988, resi notiziabili tra le pagine di Topolino da uno storytelling, diremmo oggi, che le trasformava in storie di paperi e topi. (Erano le Paperolimpiadi di Romano Scarpa, dice Google, ma non ho certo bisogno di Google per ricordarmi della storia del ragazzo sud Coreano e della ragazza nord Coreana che comunicano tra loro, e poi si riuniscono, grazie a uno strano marchingegno nascosto dentro a un pallone, lanciato oltre il muro come per giocare a pallavolo.)

 

Romano Scarpa, Paperolimpiadi, in Topolino, nn. 1705-12, 1988.

 

Molto prima di Netflix, di Black Mirror e di Bandersnatch, Bruno Concina, sceneggiatore della celebrata scuola Disney italiana, e Giorgio Cavazzano, la matita più iconica della generazione di lettori cui appartengo anch’io, pubblicarono sul numero 1565, nel 1985, la prima storia a bivi, Topolino e il segreto del castello: al centro un mistero – quello di un vecchio castello fuori mano – da esplorare bivio dopo bivio, scegliendo a ogni snodo della narrazione un percorso per far proseguire la storia.

Molto prima di leggere Rayuela o di appassionarsi alle contraintes dell’Oulipo, insomma, le prime passeggiate sui boschi narrativi erano proprio quelle con Paperino & co. Accoccolati sul divano di casa, pomeriggi interi a giocare con gli snodi di quelle storie e a stupirsi ogni volta di come bastassero poche vignette, dallo stesso bivio, per cambiare le sorti del protagonista di turno. Ecco, facciamo finta di aver fatto un po’ la stessa cosa, tra queste righe, a furia di trascinarci di continuo tra storia e ricordi, tra Topolino e topolini.

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Noi e il Topo
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Di padri e di belle bestie

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Sono in tre, padre, figlia, figlio, così nella vita, come sulla scena di Padre nostro di Enrico Castellani e Valeria Raimondi; si chiamano con i loro nomi, Maurizio Bercini, Olga Bercini, Zeno Bercini, appaiono schierati uno accanto all’altro con il pater familias al centro, un sessantenne fuori forma, che sembra piuttosto orgoglioso del suo aspetto né canuto né giovanile, da reduce imbolsito di guerre perdute al quale i favoriti e il pizzo bianco danno un’aria da biker o da folksinger americano. D’altronde li accompagna la voce di Tom Waits, che, impastata di tutta l’umanità di questo mondo, canta Anywhere I Lay My Haed, come all’inizio di una funzione religiosa celebrata da un pastore con la pistola nascosta dentro la Bibbia. Davanti a loro, uno di quei set di candele elettriche che sempre più spesso nelle chiese sostituiscono le candele di cera. I figli tendono la mano al padre e lui consegna a ciascuno di loro una moneta. I ragazzi la inseriscono nella feritoia di ferro e non succede nulla. Perché qui non siamo in un teatro, ma praticamente in mezzo al mare, il palco su cui si alza il terzetto è uno scoglio piatto che affiora a pochi metri dalla spiaggia del Cardellino, a Castiglioncello, sono le sette e mezzo del mattino – l’ora più inadatta per uno spettacolo – fa già caldo e gli spettatori della XXII edizione del festival Inequilibrio attendono, seduti sulle stuoie, tutto quello che si può aspettare, temere, immaginare, da un dramma familiare firmato Babilonia Teatri. 

 

 

Attendono che si apra il fuoco con quel mitragliamento serrato di parole che non ammette ripensamenti tipico delle drammaturgie del duo veneto. E non attendono invano, Zeno e Olga, assediano il vecchio con un martellante elenco di recriminazioni, dove la più gentile recita: “Quando mio padre mi ha partorito ce l’ha messa tutta / ma sinceramente quando mi ha partorito mia madre mi sono trovata meglio.” Per un verso Padre nostro rientra a pieno titolo nelle liturgie di Babilonia Teatri, nella loro percussione recitativa dove poesia e invettiva sono inseparabili come il grano e il loglio della parabola evangelica, con quella pointe ironica che, puntualmente, rimesta nel torbido disordine del simbolico: “Che bello il padre – salmodia il testo di Castellani nella bocca di Maurizio – che belle le sue dimissioni / le dimissioni del padre da padre che bello /…/ che bella la fine del padre / che bello il suo funerale che bello / la morte del padre che bello / che bello il paradosso del padre / che bello quel che resta del padre (…)”. 

Ma per un altro verso è il contrappunto dei corpi, qui ritagliati sull’orizzonte aperto e infinito del mare, che rompe e ridefinisce il ritmo autoritario della litania: è nel gesto del padre che ghermisce la nuca dei figli affondando le loro teste nell’acqua, e in quello dei figli che poi lo affogano insieme, con altrettanta spietatezza, che si condensano secoli e secoli di tragedie e di sacrifici rituali, di vendette e di ritorni, di parricidi e di infanticidi. È il carattere cerimoniale – o ludico e cioè profano, il che è lo stesso, dal momento che sono i medesimi gli effetti prodotti – della messinscena dei Babilonia a provocare nello spettatore una ricapitolazione emotiva devastante, una specie di ricordo di tutti e di nessuno, dove chiunque riconosce il padre che ha avuto, la sua crudeltà, la sua assenza, la sua violenza, la sua reticenza, il suo fallimento, il desiderio inesausto di ricomporre la distanza con il suo corpo (di tornare a riposare nel “nulla del padre” come dice un verso di René Char) o, con un processo ancora più lancinante, le stimmate ambigue dei padri che siamo nell’era della dimissione del padre: la stessa sofferenza unita allo stesso narcisismo ferito, poiché, ancora e di nuovo – come esclamava Roland Barthes – soltanto il figlio è vivo in questa estenuante decostruzione e ricostruzione del corpo del padre che sugli scogli affioranti del mare di Castiglioncello assume l’aspetto di una deposizione (un momento che notoriamente non esiste nel testo biblico, è stato direttamente inventato nel teatro dell’iconografia).

 

Babilonia Teatri, Inequilibrio, ph Antonio Ficai.


E se è il mare, nel suo instancabile andare e venire, che lava e lenisce le ferite plurime inflitte dalla rappresentazione a un corpo che a un certo punto diviene quello disteso di una dissezione anatomica, con tanto di cerotti apposti per indicare gli organi vitali, sono i gesti con cui Zeno e Olga, i figli, rivestono il padre a rischiarare con una pietas minuta e piena di amore la scena di un sacrificio necessario non perché esso sia inscritto nella vita, come una legge o un destino, ma perché tale è nel dispositivo implacabile di una cultura, nel nostro retaggio (ne abbiamo uno, infatti, e sta proprio nell’attraversarlo facendo risuonare le pareti di un immaginario apparentemente senza memoria che consiste la forza critica del teatro dei Babilonia). 

Al vertice dell’inno corporale di Padre nostro precipita una preghiera parodistica, pronunciata dai figli in coro, di una tale potenza derisoria – padre nostro che sei in cucina… ricorda i tuoi obblighi e i tuoi doveri / ma non invocare diritti – dal fare impallidire tutta la sociologia spicciola a cui il naufragio del padre ha finito per dar luogo nel tentativo di imbastire una morale par provision della paternità senza il patriarcato, ma è proprio perché il re è più che mai nudo – è addirittura scorticato – che possono ricadere, limpide e quasi inaudite, le parole del padre nostro originario pronunciate da un esausto Maurizio Bercini. Da questo spossante corto-circuito tra il padre simbolico e quello reale, alla fine sarà quest’ultimo (come è giusto) a sopravvivere, perché nella lotta tra la vita e la forma – che sono poco più di due idee – è sempre ciò che è vivo a svincolarsi e a riemergere, grondante, tagliuzzato, e non si sa come, d’ora in poi, Enrico Castellani e Valeria Raimondi potranno fare a meno del sesto atto di questo mare in cui i tre, dopo essere apparsi in un’ultima immagine con una coppa alzata, si tuffano, sguazzano, e si allontanano nuotando sotto lo sguardo commosso di un manipolo di spettatori che non applaude il loro ritorno, ma la loro felice sparizione.

 

Sarteanesi e Bosi, Inequilibrio, ph Antonio Ficai.


C’è una provincia carnale, profonda, che insiste negli spettacoli di Babilonia Teatri, a cui il teatro consente di trasformarsi senza grandi sforzi, con un leggero scarto d’umore, imboccando le scorciatoie analogiche dell’immaginario, in altre province che, per quanto lontane nello spazio, esprimono la medesima, rabbiosa distanza dai rispettivi centri metropolitani. Ma, a pensarci bene, c’è nel teatro che si fa e si vede al festival Inequilibrio, che quest’anno dedica un’attenzione particolare alla sovversione – Tre stanze – I sovversivi si intitola lo spettacolo di Garbuggino-Ventriglia, recensito la scorsa settimana da Massimo Marino, che ha aperto la rassegna – una vocazione a strappare dalla minorità le lingue periferiche dell’espressione artistica, a rovesciare il piatto dei valori più o meno (sempre meno) costituiti, e costituiti ovunque tranne che sulla scena. 

In fondo, Francesca Sarteanesi e Laura Bosi, non hanno fatto altro con Bella Bestia, andato in scena all’auditorium del Castello Pasquini, che portare sul palco il proprio mondo, che è un mondo di toscanità senza compiacenza, ironica, amara, a tratti persino arcigna, dove si sentono ancora i riverberi delle campagne isolate e spaccate dal sole dei romanzi di Federigo Tozzi. Ma è il come l’hanno fatto a depurarlo di colpo dei suoi idioletti e delle sue possibili derive espressive: senza rinunciare alla musica dei propri accenti ma scavando nelle proprie identità biografiche fino a recuperare un dialogo scarnificato e a tratti arieggiato dal non sense tra due donne sole, sedute su due sedie da giardino, circondate da niente, se non dal beffardo moltiplicarsi, a ogni cambio di luce, del simulacro di un cane – un doberman in vetroresina, la metaforica bella bestia del titolo pronta a mutarsi da morboso oggetto di fascinazione in ossessione senza uscita, da custode in carnefice. 

 

Sarteanesi e Bosi, Inequilibrio, ph Antonio Ficai.


Sarteanesi e Bosi parlano ascoltandosi, anche quando sulla scena le loro proiezioni figurali, visibilmente, non si ascoltano, la prima sporgendosi di più oltre il bordo del proscenio, ma, facendo vagare lo sguardo su un interlocutore inafferrabile, e perennemente assente – come i tanti improponibili partner conosciuti in rete, scartati uno dopo l’altro con un esilarante catalogo dongiovannesco al contrario – la seconda cullandosi nella propria intimità e in una stoica, quanto irrisolta, relazione con il male (fisico) che l’ha contagiata. Tra loro, il ricamo di reticenze dell’amicizia, e gli improvvisi salti in avanti di una sincerità tutta femminile, pronta a svegliare l’altra, ma incapace di applicare la medesima cura a sé stessa, e, soprattutto, il rimpallo continuo ed elusivo con cui ciascuno (donna o uomo) pensa di sedare le proprie angosce, di tenere a bada le proprie nevrosi, carezzandole e vezzeggiandole come un innocuo cagnolino da compagnia. 

In questa trama piena di vuoti, scolpita da accurate zone d’ombra, potrebbe passare di tutto – persino un trattato morale sull’insondabilità del male – ma le due attrici hanno l’intelligenza di saggiare il confine tra il pianto e il riso senza mai travalicarlo, di tenersi al di qua del dire smanioso per gettare il cuore, cioè l’interpretazione, oltre l’ostacolo. Ed è in questa progressione, dapprima timida, che arrivano, colpiscono, toccano, e finalmente sono. 

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L’estate dei festival: Castiglioncello
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Max Horkheimer, Teoria tradizionale e teoria citica

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“Il pensiero borghese si configura in modo tale chenella riflessione sul proprio soggetto riconosce con necessità logica l’ego che si presume autonomo. Per natura esso è astratto, e l’individualità chiusa all’accadere, che si atteggia vanagloriosamente a causa prima del mondo o si identifica addirittura con l’universo tout court, è il suo principio. Sua immediata antitesi è la mentalità che si concepisce come espressione non problematica di una comunità già esistente, come ad esempio l’ideologia nazionalpopolare (völkisch). Il «noi» retorico è qui usato con assoluta serietà. Il discorrere pensa di essere organo della generalità. Nella società lacerata del presente questo pensiero, soprattutto nelle questioni sociali, è armonicistico e illusionistico.

 

Il pensiero critico e la sua teoria si oppongono ad entrambe le specie. Esso non è la funzione di un individuo isolato, né quella di una generalità di individui. Piuttosto ha consapevolmente per soggetto un individuo determinato nelle sue effettive relazioni con altri individui e gruppi, nel suo confronto con una determinata classe e infine nell’intreccio così mediato con la totalità sociale e la natura. Esso non è un punto come l’Io della filosofia borghese; la sua rappresentazione consiste nella costruzione del presente storico. Anche il soggetto pensante non è il luogo in cui sapere e oggetto coincidono, a partire dal quale sarebbe dunque acquisibile un sapere assoluto. Questa illusione, nella quale l’idealismo vive dal tempo di Cartesio, è l’ideologia in senso stretto: la libertà limitata dell’individuo borghese si presenta sotto forma di libertà e autonomia perfette.” 

(La scuola di Francoforte, Einaudi, pp. 31-32.)

 

Il saggio di Horkheimer su ‘Teoria tradizionale e teoria critica’ consente di capire le motivazioni dell’orientamento sociologico delle ricerche della Scuola di Francoforte e del perché tale orientamento comportasse una ridiscussione dei fondamenti del discorso filosofico.

Anche Horkheimer, come Adorno, rileva i limiti della filosofia tradizionale che si dà una veste sistematica e procede more geometrico. Ad essa contrappone l’antimetodo del ‘saggio’ che avanza in modo erratico senza darsi una meta precisa e si imbatte nella verità per caso.

Il modello di soggettività che regge l’impianto della filosofia soprattutto a partire da Cartesio è quello atomico dell’individuo astratto che si pone come autonomo e autosufficiente, in grado di imbrigliare e uniformare nella sua rete razionale la complessità dei fenomeni.

A questo individuo isolato si contrappone un pensiero della soggettività collettiva incarnata da un etnos che dissolve l’individuale nella comunitas.

 

 

L’idea di soggetto che la teoria critica individua è un soggetto che vive e fa esperienza della precarietà cognitiva che l’esplorazione del mondo reale comporta. Tra l’io cartesiano e il noi nazionalpopolare la teoria critica si sforza di costruire un io della mediazione tra il sé e gli altri nella determinazione concreta della sua contingenza sociale e della sua appartenenza di classe.

In “Teoria tradizionale e teoria critica” Horkheimer individua chiaramente nella pretesa della filosofia moderna di assoggettare la conoscenza del mondo al metodo cartesiano una caratteristica primaria del pensiero borghese.

Il pensiero che pretende di esercitare la sua inappellabile sovranità sulla complessità del mondo sottoponendola al suo dominio è la faccia filosofica dell’aspirazione borghese di estendere la sua sovranità sull’intero universo. La rivoluzione dunque dovrà essere anzitutto una rivoluzione del pensiero. Come è stata per Marx nell’Ottocento ma avendo ora di fronte il capitalismo avanzato del secolo ventesimo.

 

Lo scetticismo nei confronti della razionalità astratta, avulsa cioè dalle condizioni reali del mondo a cui essa dovrebbe applicarsi è dunque uno dei tratti più marcati ed evidenti della teoria critica francofortese. Un aspetto questo che ha profondamente influenzato e ha avuto sviluppi interessanti nella filosofia francese del secondo dopoguerra e fino agli anni Ottanta.

Michel Foucault riconosce alla Scuola di Francoforte il merito di aver posto una serie di problemi, primo tra tutti quello dell’esercizio di una ragione che si trasforma in strumento di dominazione illiberale.

Emblematico è il titolo di una conversazione che egli ebbe con Gerard Raulet e che apparve nel 1983 sul primo numero della rivista tedesca ‘Spuren. Zeitschrift für Kunst und Gesellschaft’ (Tracce. Rivista di arte e società): “A che prezzo la ragione dice la verità?”

Questa domanda se l’è posta più di un secolo prima Leopardi nello Zibaldone dei pensieri che contiene, tra le altre cose, una patografia accurata della Modernità e dei mali che l’esercizio della razionalità astratta comporta. Ad essa solo la natura sa opporre, paradossalmente, le ragioni della civiltà mentre il destino della razionalità moderna è la barbarie.

Per sfuggire a questo destino l’unica possibilità è data dall’assunzione di un soggetto che si carica del peso della sua determinazione storica concreta e quindi della fallibilità della sua ragione. 

 

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La scuola di Francoforte 4
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Walter Benjamin e la scrittura generosa

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Di fronte a un’autobiografia il tracciato delle nostre attese di lettori segue una direzione piuttosto convenzionale. Ci aspettiamo una struttura dai tratti – almeno in parte – codificati: innanzitutto la distanza critica e cronologica dell’autore dall’oggetto del racconto, il proprio io, che viene inserito in una cornice, all’interno della quale i fatti sono disposti in maniera scrupolosamente lineare. Ci aspettiamo, poi, quel momento cruciale e rivelatore che consente all’autore di rileggere sotto una luce del tutto peculiare le proprie vicende di vita: il momento – o i pochi momenti –– di una rivoluzione interiore, di un capovolgimento: la crisi e la svolta. Tutto questo fa parte dell’interesse giustificato di un lettore di autobiografie. 

Nondimeno, il volume pubblicato quest’anno da Neri Pozza, gli Scritti autobiografici di Walter Benjamin, invita il lettore a rimodulare il proprio orizzonte di attesa già a partire dal titolo. L’allusione esplicita alla pluralità degli scritti denota una scrittura all’insegna della frammentarietà, che non si compie in un progetto. Si tratta, infatti, di una silloge di testi dal sapore autobiografico, ossia di diari, appunti di viaggio e frammenti, che i curatori tedeschi dell’Opera completa hanno raccolto in un unico volume. 

 

Benjamin è sempre stato un autore generoso, non solo in ragione del numero di scritti straordinari che ci ha consegnato, ma soprattutto in virtù della naturalezza con la quale è stato in grado di confinare il proprio ego oltre la frontiera della scrittura. Dietro lo scrivere si cela quasi sempre anche uno scriversi, ma, per Benjamin, l’aspetto pronominale sembra ripiegarsi perlopiù sulla superficie della scrittura stessa, sulla necessità vibrante di un atto capace di esorcizzare il peso ingombrante dell’io. Infatti, nella Cronaca berlinese, materiale preparatorio per la più nota Infanzia, Benjamin ammette che, se lui scrive “in un tedesco migliore della maggior parte degli scrittori della sua generazione, è dovuto in gran parte alla ventennale osservanza di un’unica piccola regola. Essa dice: non usare mai la parola ‘io’ tranne che nelle lettere” (p. 319). Allora cosa succede quando la scrittura si rivolge finalmente al soggetto? Benjamin è incerto e prende delle precauzioni per non liquidare con leggerezza ciò che è riuscito a conservare gelosamente: se stesso.

 

La precauzione che viene esplicitata nella Cronaca può valere come chiave di lettura per tutti i testi di questo volume: “I ricordi, anche i più estesi, non sempre costituiscono un’autobiografia. E questa di certo non lo è, nemmeno per quanto riguarda gli anni berlinesi, di cui qui solo mi occupo. Infatti, un’autobiografia ha a che fare con il tempo, con una sequenza, e con ciò che costituisce il flusso continuo della vita. Qui invece in questione c’è uno spazio, ci sono momenti e discontinuità” (p. 332). In questione, quindi, c’è lo spazio, ci sono gli spazi e i luoghi vissuti: Berlino, Capri, Parigi, Mosca, Ibiza sono tutti nodi dell’individualissima costellazione ‘Benjamin’, dispersa più nello spazio che nel tempo. Il profilo biografico e intellettuale dell’autore spicca nel collegamento di queste coordinate spaziali, che, tuttavia, non mettono con facilità i ricordi a disposizione di chi li cerca. Il passato è rinserrato in questi luoghi e chi scrive e tenta di recuperarli deve comportarsi come un archeologo, come uno scavatore capace di sicuri colpi di vanga. 

 

Di tutti gli scritti raccolti, però, solo la Cronaca e l’Infanzia possono rivendicare a pieno titolo un intento archeologico, dal momento che cercano di riattivare la carica elettrica che stringe il luogo al tempo passato. Invece, i diari di viaggio (il viaggio in Italia, il diario moscovita, il diario spagnolo), che sono quasi sempre redatti da Benjamin nel corso del viaggio stesso, ricalcano i passi dell’autore là dove le tracce sono ancora fresche, in un’attività di raccolta che è pericolosamente vicina al presente, che rincorre l’attimo dell’impressione già quasi inghiottita. In questi tratti, la scrittura sembra solcare i percorsi abbozzati dall’osservazione curiosa di Benjamin, che attraversa in maniera discontinua una galleria di dettagli e di frammenti. Il senso della ricerca immanente di “deboli forze messianiche”, momento centrale di alcune delle più ricche riflessioni teoriche dell’autore, sembra essere stato anche il frutto di un’esperienza biografica decennale.

 

 

I torsi simbolici abbandonati negli angoli delle città, ai margini di un paesaggio o nei racconti che nessuno è più capace di ascoltare, costeggiano le riflessioni di viaggio dalla giovinezza alla maturità. In qualche modo, si potrebbero considerare tutti questi momenti alla stregua di minute e quasi impercettibili conversioni che accompagnano l’autore in una vita che non è segnata da grandi rivoluzioni interiori, ma, piuttosto, dalle momentanee interruzioni della continuità individuale. E, d’altra parte, Benjamin raccoglie ciò che semina, poiché negli appunti e nelle considerazioni di questi scritti si intravedono già i motivi principali delle riflessioni successive: il collezionismo, i giocattoli, la moda, i pensieri sulla storia e sulla memoria. Tutto ciò non fa che rafforzare l’impressione di un pensiero cresciuto in affinità con l’esperienza vissuta, di un pensiero rappreso e non sospeso.

 

L’attenzione nei confronti dei dettagli marginali, che talvolta diventa quasi una ricorrenza ossessiva, si concilia con alcuni pensieri sulla storia che vengono registrati già a partire dal 1931. In occasione di una conversazione con un paio di amici, per esempio, Benjamin riporta alcuni pensieri su di una metodologia storica alternativa, che prevede la sostituzione del concetto evoluzionistico di ‘sviluppo’, metaforicamente identificato con il flusso continuo di un fiume, con l’immagine del vortice. Il vortice, infatti, porta con sé il segno dell’origine e anche quello dell’annullamento (“della pre- e della post-storia”, p. 281), è la figura dinamica e leggera che accompagna l’acqua nella sua corsa disordinata. Questa traccia mnestica, che nella storia collettiva diventa il sigillo di “certi immutabili status di tipo concettuale e percettivo” (ibid.), nella storia individuale di Benjamin sprigiona una forza simbolica non meno evidente. La passione per i cortili e per le logge, per esempio, può essere facilmente sovrapposta alla forma del vortice, dove la cavità che rosicchia il tessuto metropolitano si configura sia come nicchia familiare, rifugio originario, sia come vuoto vero e proprio, sospensione di ogni attività. Lo stesso principio vale per il sogno, spazio virtuale indeterminato, che interrompe la continuità del vissuto cosciente e che porta in superficie qualcosa di sommerso.  Almeno in questi scritti, Benjamin non si dedica a un’interpretazione dei sogni che racconta, ma sembra godere di queste temporanee sospensioni della regola.

 

I pochi sogni menzionati nei diari assumono il valore eccezionale di tappe di un cammino iniziatico, che, tuttavia, comincia e finisce all’interno del sogno stesso. È piuttosto singolare che l’elemento ricorrente di questa dimensione onirica sia costituito, oltre che dalle figure delle donne amate, dalle lettere dell’alfabeto, dalla lettura e dalla scrittura. Nel 1939, nel raccontare uno di questi particolarissimi sogni a Gretel Adorno, Benjamin commenta scrivendo che si tratta di uno “di quei sogni che faccio ogni cinque anni e che si intessono intorno al tema ‘leggere’” (p. 503). In questo caso, il protagonista del sogno si trova in un labirinto di caratteri tipografici, che si piegano, ripetendo i movimenti del dorso delle montagne circostanti. Un’interpretazione forse azzardata, ma che collima con alcune conclusioni che si possono trarre da questi scritti, è che la scrittura e la lettura rappresentino per Benjamin il medium attraverso il quale questi riesce a penetrare nella selva labirintica della realtà che lo circonda. In effetti, le descrizioni minuziose dei paesaggi naturali e urbani, delle emozioni, così come le considerazioni critiche in campo estetico e sociologico, non appaiono mai come trascrizioni mimetiche, bensì come gli unici strumenti che siano in grado di cogliere gli aspetti più effimeri della realtà. La scrittura, come scrive Benjamin a proposito di Hemingway, non segue il pensiero, ma lo plasma. Scrivere ciò che si pensa significa innanzitutto pensare.

 

La raccolta di questi testi, quindi, più che un percorso di vita lineare, sembra ripercorrere l’itinerario di un pensiero inquieto e in costante attività, che prende forma nella scrittura. Anche la riabilitazione dell’io, in fondo, più che motivo di un’opera di introspezione, è un pretesto per poter adottare un punto di vista soggettivo sulle cose. Accade, però, che il punto di vista si ribalti e che la realtà osservata si rovesci con irruenza sull’osservatore. È in questo margine di possibilità che, ancora una volta, risiede la generosità di Walter Benjamin: nel lasciar defluire i messaggi che il mondo rilascia, senza cercare di imprigionarli in una gabbia prospettica. Un’impostazione che ancora oggi ci dà da riflettere, se confrontata con quel narcisismo privativo, che preclude l’esperienza di un contatto autentico con la realtà. Lo slancio verso il mondo, peraltro, non elide l’individualità, ma l’accentua, estende la sua potenzialità, riconducendo al soggetto della scrittura un mondo che “nasce e muore con lui” (p. 246). 

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Levi al naturale

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Mario Dondero

Mario Dondero ha scattato diverse immagini di Primo Levi a metà degli anni Ottanta. Sono tutte immagini prese senza mettere in posa lo scrittore. Catturate al volo, mosse o appena sfuocate, perché questo è il modo di scattare di Dondero. Si può dire che la sua sia una “fotografia naturale”; il contrario dell’“istante perfetto” di Henri Cartier-Bresson, per cui il fotografo cerca di cogliere il momento unico, di fermarlo nel continuum temporale che scorre davanti ai suoi occhi. Dondero amava fotografare in modo imperfetto, per cogliere il flusso medesimo della vita. Sono immagini che somigliano agli istanti di memoria, che non si staccano da ciò che è accaduto, ne conservano un’intensità che sembra perpetuarsi. Quando si ricorda, nulla è davvero totalmente a fuoco, nitido come in una fotografia. Questo scatto, che coglie Levi mentre parla con una persona, non è esattamente una fotografia; eppure lo è, almeno materialmente, poiché Dondero ha premuto il pulsante della sua macchina analogica.

 

Qui lo scrittore è a fuoco, cosa che non si può dire del suo interlocutore, di cui scorgiamo solo la nuca. Anche ciò che si vede sullo sfondo è sfumato, fuori fuoco, confuso. Tuttavia l’espressione di Levi appare perfetta, colta in un momento del dialogo, dell’interlocuzione. Giacca quadrettata, cravatta, penna, o altro strumento, infilato nel taschino. Si scorge persino, dietro gli occhiali che ricoprono parte del viso, un suo leggero strabismo, che non è visibile in altre fotografie che gli sono state fatte.

 

In questa, come in altre immagini di Dondero, sì. Possiamo dire che questo è un Primo Levi al naturale, per quanto non sia proprio un ritratto, bensì qualcosa che appartiene piuttosto alla visione che si poteva avere di lui incontrandolo. Non è sempre facile per un fotografo sfuggire alla messa in posa, alla tentazione di ritrarre il grande scrittore – filosofo o artista o intellettuale – seguendo la sua immagine pubblica. Questo tipo di immagini precede la fotografia che verrà fatta, come se colui che lo ritrae avesse già in mente lo scatto giusto. A un certo punto della sua vita Primo Levi, per via del pizzetto bianco, della fronte ampia, dei capelli bianchi, poi soprattutto per quello che era diventato agli occhi degli altri, dei suoi lettori, della gente in genere, per la fama, il prestigio e la considerazione di cui godeva, era visto soprattutto come un profeta laico, un ruolo che lui rifiutava decisamente. Diceva di sé: sono solo un uomo di buona memoria. Ecco che il ritratto di Mario Dondero ce lo restituisce così com’era: un uomo di buona memoria.

 

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Memoria ed eredità di un narratore seriale

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“La memoria” è il nome della collezione editoriale dove Andrea Camilleri ha pubblicato la maggior parte dei suoi libri, certamente tutti quelli ‘vigatesi’ (montalbaneschi e no) ma non solo. Battezzata così da Leonardo Sciascia per l’editore Sellerio di Palermo. E adesso che non è più con noi, il dovere e la necessità della memoria si impongono più che mai. Leggerlo e rileggerlo ancora, senza dubbio. Non foss’altro che per allontanarci il più lucidamente possibile dalle passioni forti che la sua immensa opera ha regolarmente provocato, nei lettori entusiasti come nei critici accigliati. Passando così da una prima impressione allungata per oltre trent’anni – che in queste ore la rete in generale e i social in particolare stanno intensificando al massimo grado – a una seconda opinione, si spera, un po’ più meditata. Camilleri, si sa, ha diviso il pubblico, senz’altro con un po’ troppa di improvvisazione. Ora è fatalmente arrivato il momento di cambiare marcia, e sperabilmente direzione. 

 

Provo a tirar giù dagli scaffali qualche suo libro, fra i cento possibili, in modo da trovare spunti o far emergere ulteriori ricordi. Sono troppi, molto diversi, tutti ricchissimi. Li rimetto a posto. Per adesso. Del resto, in quel labirinto fittissimo che è l’opera di Andrea Camilleri, qualsiasi entrata può andar bene, sia essa quella dei romanzi polizieschi come di quelli storici, delle opere teatrali o dei saggi, delle spigolature storiche o delle interviste autobiografiche. Tanto vale fare come consigliano i maestri e partire dalla fine. Da quella che oggi, fatalmente, è diventata la fine: è cioè dal Cuoco dell’Alcyon, da diverse settimane in testa alla classifica dei libri più venduti in Italia, testo che da questo momento in poi deve essere considerato come l’ultimo del Camilleri in vita (si è favoleggiato spesso di altre storie nel cassetto, addirittura in cassaforte: vedremo).

 

Si tratta di un libro strano, assai diverso dalla maggior parte dalle altre storie di Montalbano, non foss’altro perché il protagonista sembra più volte esser uscito di senno: ride, canta, fa lo scemo, va a zig zag in macchina, sembra proprio matto. Non va, come Astolfo, sulla luna, ma certo riprende nei toni altisonanti e nei gesti teatrali i pupi dell’opera siciliana – la quale, si sa, alle gesta dei paladini di Francia e degli eroi ariosteschi si ispira per lo più. Del resto, lo straordinario successo dei libri di Camilleri non dipende soltanto dal fatto, come pure è stato ribadito, che essi riprendono la formula del racconto poliziesco, rilanciandola sul mercato editoriale e dando adito a centinaia di avatar. Dipenderà anche dal fatto che questi libri seguono un’altra marca narrativa: quella del racconto a puntate e a episodi, presente sia nel folklore orale sia nel poema cavalleresco, sia, oggi, nelle serie televisive.

 

 

Dunque un mondo dove personaggi, motivi, oggetti, situazioni, idee, valori si ripetono come tormentoni, intrecciandosi fra di loro, modificandosi a poco a poco, per poi ritornare, un po’ stralunati, al punto di partenza. Una serialità (postmoderna?) che non poteva non giovare anche ai film tv, i quali non a caso vengono programmati e riprogrammati di continuo, di modo che lo spettatore medio non può non perdere il senso dello scorrere del tempo, come se tutto tornasse sempre al punto d’avvio, per poi festosamente ricominciare come se nulla fosse successo. Se il Montalbano letterario è invecchiato nel corso dei suoi venticinque anni di storia (La forma dell’acqua, del ’94, lo dà nato a Catania nel 1950; e gli acciacchi progressivamente prendono il corpo del commissario di Vigàta man mano che i due romanzi l’anno vengono regolarmente fuori), quello televisivo resta prestante come sempre. Il fisico di Luca Zingaretti regge benissimo, come resta quarantenne il suo fortunato personaggio. E se pure s’è fatto spesso il nome di Pirandello, ricordato a più riprese da Camilleri stesso, per dare ragione della moltiplicazione delle identità degli eroi di Vigàta (otto e novecenteschi), a esso vanno accostati quanto meno quelli di Boiardo e di Ariosto, maestri assoluti, appunto, dell’arte di intrecciare storie e situazioni, felicemente misconoscendo la narrazione lunga e conchiusa del romanzo moderno.

 

Ma le stranezze non si concludono in queste gesta sgangherate del commissario siciliano. Ce ne sono alcune di dettaglio, come il fatto che Salvo Montalbano, dopo aver a lungo amato profondamente la buona tavola ma sempre disdegnato fornelli e ricette, improvvisamente si mette a cucinare, e dopo quattro affrettate lezioni della sua amata cammarera Adelina, si trova a esercitare professionalmente – non senza messinscena teatrale a fini di detection – il mestiere di chef (da cui il titolo del libro). Roba da render furiosamente perplessa la sua enorme schiera di fan: Salvuccio che cucina? Non sia mai! Ma ci sono stranezze più sottili e insieme assai più eclatanti. Come quella della doppia nota finale, dove leggiamo alcune bizzarre dichiarazioni autoriali. Innanzitutto, ci viene detto che lo spunto di questa storia proviene dal soggetto di un film mai girato, motivo per cui il testo romanzesco “risente della sua origine non letteraria”. E fin qui nulla di particolare. Ma poi leggiamo anche che, nonostante alcuni elementi datati, la storia comunque tiene: “a malgrado che i capitoli non corrispondano perfettamente alle dieci pagine del mio computer, a malgrado che Montalbano abbia un’energia che oggi se la sogna, a malgrado che i boss del mondo non abbiamo bisogno oggi di riunirsi fisicamente su una goletta ma gli basta un ‘clic’, vorrei dire che il linguaggio è totalmente contemporaneo, l’ho aggiornato tutto e mi pare un buonissimo Montalbano”. Che dire? Sembra di capire che le dieci pagine originarie (il soggetto del film) siano fuoriuscite dal computer di Camilleri per tornarvi sotto forma di romanzo, che poi lui ha sistemato, ha approvato, dando il beneplacito per pubblicarlo. Più che un autore, Camilleri è divenuto giudice di se stesso, o meglio di quella che è, al di là della sua esistenza fisica, la sua funzione stilistica, letteraria, editoriale. 

 

Ritroviamo così, esplicitata quasi interamente, quella dicotomia fra due differenti Camilleri, quello reale e quello funzionale (finzionale?), che – come ha ragionevolmente sostenuto Nunzio La Fauci in un numero di “Micromega” dello scorso anno – attraversa l’intera opera camilleriana. Opera nel doppio senso del termine: insieme di testi artistico-letterari e gesta complessive di chi li ha dati alla luce. Una cosa difatti è (è stato) il Camilleri come persona e come corpo (che tanto ha fatto scrivere: la voce roca, l’età avanzata, l’eterna sigaretta, la cecità…), un’altra il Camilleri come cifra stilistica, rintracciabile per La Fauci soprattutto nella sua straordinaria capacità di produzione linguistica (che trascende il dialetto siciliano per inventarne uno tutto suo, ed estremamente cangiante), e che forse può essere estesa, più in generale, alla sua expertise narrativa. La serialità di cui s’è detto, tanto antica quanto attuale, va in questa direzione: laddove il genere del romanzo giallo fa da specchietto per le allodole, traspare al di sotto di esso la rete affabulatoria di mirabolanti avventure dei cavalieri arturiani e dei paladini di Francia, dei pupi siciliani e delle affannate produzioni di Netflix. La narratività camilleriana (del Camilleri  funzione) trascende così la narrazione camilleriana (del Camilleri persona). Per diventare che cosa? Beh, questo dovranno vedersela i suoi eredi. Quelli che sapranno e potranno riprenderne le sorti. Beninteso artistiche. 

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La scomparsa di Camilleri
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Il corpo-modello in Martin Kippenberger e Maria Lassnig

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BODY CHECK. Martin Kippenberger – Maria Lassnig, a cura di Veit Loers presso il Kunstbau del Lenbachhaus di Monaco di Baviera, fino al 15 settembre, è una mostra a due, che il visitatore italiano, curioso di cose tedesche e austriache, ha già forse avuto modo di sezionare al Museion di Bolzano.

 

Le premesse di BODY CHECK si possono adagiare su una domanda relativamente semplice: che rapporto esiste tra la disciplina della storia dell'arte e quella della curatela? La quale genera di conseguenza: è la storia dell'arte che informa la curatela o è la curatela, in fondo, che è o deve essere autonoma? Sempre ci sia consenso – orrenda parola – su cosa si intenda per entrambe. Se la storia dell'arte è interpretata come presentazione lineare, aderente all'identità di un'epoca, di un percorso artistico, allora la curatela e la scelta eccentrica hanno il piacere di giocare il ruolo del trickster. Martin Kippenberger (1953-1997) e Maria Lassnig (1919-2014) presentano proprio questo, un lavorìo e un corpus di difficile collocazione.

Innanzitutto il nesso puramente storico della mostra a due non c'è e viene ammesso: per un breve periodo, alla fine degli anni Settanta del Novecento, Kippenberger e Lassnig vivono contemporaneamente a Berlino, ma non ci sono testimonianze dirette e inconfutabili – le cosette che piacciono a noi storici – che supportino una conoscenza diretta, più o meno amichevole, dei due. Il dialogo delle opere in mostra avviene dunque sulle relative specificità delle stesse, su analogie e differenze del rispettivo processo artistico, scegliendo la pittura come metodo generale e principale di approccio alla visione. 

Di che cosa si occupa qui la pittura? Il titolo della mostra è altrettanto chiaro: del corpo, non solo inteso come figura, dispositivo mimetico, ma anche come oggetto metaforico. Il corpo è modello, ma come questo modello – in fondo un topos fondamentale del fare artistico – viene interpretato ci si rivela in variopinte frammentazioni.

 

Elfie Semotan Maria Lassnig, 2000 © Elfie Semotan, courtesy Galerie Gisela Capitain, Colonia.


La tematica del corpo come modello è naturalmente uno dei tratti centrali di Lassnig, fatto che la critica ha sempre fatto fatica a inserire in una categoria facilmente assimilabile. Alla domanda “Se fondassi una scuola di pittura, come la chiameresti?”, Lassnig rispose: “Se esistesse: la Scuola della Pittura Drastica [drastische Malerei].” Una pittura drastica che ha bisogno del modello dal vero per mettere in moto la trasformazione pittorica, un imperativo che Lassnig ha rispettato – quasi – sempre nel suo lungo percorso. Ma, come in ogni cosa della vita, esistono anche le eccezioni, ed eccole: in mostra due dipinti dalla serie dei Kellerbilder (Die Braut badet den Bräutigam, 2005, dal Lenbachhaus, e Macht des Schicksals, 2006, dalla ISelf Collection, Londra), in cui i modelli sono da lei fotografati e poi riconsegnati alla pittura. Ed è evidente come il suo scetticismo nei confronti del medium fotografico si risolva in questi dipinti come un saggio visivo di ciò che suggerisce la pittura da quel modello: estremo artificio e figure umane ridotte a bambole e pupazzi. Vallo a dire a Gerhard Richter.

Ma il vero corpo-modello per Lassnig rimane lei stessa. Attraverso ciò che lei chiama “Körpergefühl” (sensazione corporea), l'artista utilizza il proprio sé esteriore come veicolo di indagine pittorica e scettica del proprio “Körperbewusstsein” (coscienza corporea), anticipando quindi le riflessioni di Judith Butler sul corpo e sull'identità di genere in quanto costrutti performativi e culturali. Sia che Lassnig si ponga direttamente davanti allo specchio, sia che chiuda gli occhi di fronte alla tela, sia sdraiandosi e dipingendo l'impressione che ha di sé in quella posizione, Lassnig intrattiene un rapporto col corpo che non fa del concettualismo identitario, quanto un discorso visivo deragliato sul “tradizionale” dialogo tra pittura e modello.

 

Martin Kippenberger Ohne Titel (dalla serie Das Floß der Medusa), 1996, olio su tela, 150 cm x 180 cm © Estate of Martin Kippenberger, Galerie Gisela Capitain, Colonia.


Il corpo-modello di Kippenberger è centrale in una delle sue ultime serie di lavori (1996), incentrate sulla Zattera della Medusa (1818-1819) di Théodore Gericault. Cercando, questa volta, di tralasciare l'ironia cinica di lavori precedenti, l'artista qui si “identifica” nei personaggi della zattera gericaultiana. Se forme parodiche sono presenti in questa mostra, come quelle sulla scultura di Henry Moore in Familie Hunger (1985, dalla Collezione Grässlin, St. Georgen), la loro carica eversiva è spuntata dalla banalità della scelta del soggetto – a chi interessa un commento visivo cinico su opere di artisti morti e consegnati alla storia? Eppure nella serie sulla Medusa, dunque riferendosi a un'opera ancora più indietro nel tempo, oltre il modernismo novecentesco, Kippenberger attua una trasformazione audace e potentissima, in cui invece la funzione parodica apre a diverse considerazioni. L'artista ricostruisce in studio le pose dei naufraghi e si fa riprendere dalla fotografa e moglie Elfie Samotan. Attraverso un processo di trasformazione meta-pittoriale – dall'opera storica, alla fotografia, infine alla pittura e al disegno –, Kippenberger si chiede sostanzialmente cosa rappresenti la storia per un artista e quale concezione di “contemporaneità” possa sussistere, nel momento in cui le vicende della vita e dell'occhio lo portano al Louvre e a meditare sulla forma e sulle storie realmente accadute, che inevitabilmente quel capolavoro si porta dietro. Fino alla cronaca stretta di quegli eventi, fatti di cannibalismi e disumanità varie dei superstiti di allora, per restare vivi. Attraverso la disumanità, universalizzata dall'arte, Kippenberger trasforma quindi il suo processo creatore in personale tragedia.

 

L'identificazione con il martirio, quindi insistendo su una concezione romantica del sé-artista, si trova anche in Lassnig, nella satirica Die Lebensqualität (2001, dalla Maria Lassnig Stiftung, Vienna): l'artista si rappresenta come figura cristologica, al limite della morte per acqua, mentre regge un bicchiere di vino e viene azzannata da un piranha. Sul fondo, i relitti di tecnologia e cultura. L'evidente metafora satirica sui rituali dell'arte – spesso teatrali e artificiosi – si innesta su una simbologia che Kippenberger condivide. Il binomio artista-Cristo più l'alter ego Fred la ranaè un motivo ricorrente della sua pratica a partire dal 1990: tra le opere in mostra, è presente il senza titolo Dankeschön bitteschön (1990, da una collezione privata svizzera), dove l'artista-rana, evidentemente appesantito da una vita al massimo, si adagia sull'immagine di un crocifisso romanico dipinto a reticolo.

 

Questi lavori non testimoniano solo la riflessione sulla pittura in sé e sul rapporto col modello, ma anche un lavoro critico sul sistema culturale in cui l'opera viene prodotta, già accennato in Die Lebensqualität. Per esempio l'acquarello su carta, sempre di Lassnig, Ich bin der Nachahmer meiner Epigonen (c. 1998, dalla Maria Lassnig Stiftung, Vienna), già nel titolo si fa beffe di nozioni quali imitazione (Nachahmung) ed epigonismo, criticando meta-artisticamente la base di consenso della storia dell'arte, la maledetta influenza – quell'ansia teorizzata da Harold Bloom, la quale, però, proprio non si riscontrerebbe nell'arte “al femminile”. Scrive Bloom su Virginia Woolf, che “solo [Laurence Sterne] sembra aver suscitato una certa ansia nella Woolf”, quando invece l'ansia da influenza colpisce certamente gli scrittori “maschi”. Lo scetticismo di Lassnig è più che ragionevole: l'influenza è ciò che vuole vedere lo studioso, quando l'artista non sa che farsene: forse che l'influenza sia un mito anche per l'arte “al maschile”? Forse che l'artista intrattiene sempre una funzione parodica di scelta, quando vede? E il “femminismo” di Lassnig è forse lo stesso di Woolf, un femminismo estetico ed epicureo, “un rinnovamento del potere creativo, che solo al sesso opposto è dato in dono”, scrive Woolf, senza essere specchio del narcisismo maschile.

Che Kippenberger e Lassnig si conoscessero o no, non è dunque a oggi dato saperlo. Non su una contingenza storica si basa la mostra, ma su una ben più alta ambizione: che una mostra ripensi la storia dell'arte – e le sue ansie da metodologia – e non il contrario.

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Il sogno di Keplero

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Cinquant’anni fa - il 20 luglio 1969 - lo sbarco dell’uomo sulla Luna. In questa occasione abbiamo preparato quattro pezzi (qui il primo) dedicati a questo evento visto da diversi punti di vista, recensendo alcuni libri apparsi in occasione dell’anniversario e pubblicando un capitolo inedito del libro di un filosofo sulla Luna, per concludere con la lettera che Giacomo Leopardi ha scritto a Neil Armstrong in occasione della sua passeggiata sulla superficie del Satellite, e che ha ispirato alcune sue meravigliose poesie.

 

Günther Anders sosteneva che «il geocentrismo, come principio pragmatico», non fosse stato «messo in discussione da Copernico» e non lo fosse stato «neppure questa volta», dopo i voli che hanno portato uomini fuori dall’orbita terrestre, intorno e sulla Luna (Anders 1970, 27). Al contrario, quel principio sembrava uscire persino rafforzato dall’estendersi dello spazio conquistato, come se fosse una sorta di assicurazione contro lo straniamento, un bisogno di appartenenza e di suolo rispecchiato nella tesi provocatoria di Husserl secondo cui «la Terra non si muove» (Husserl 1934, 7). La differenza che separa il principio pragmatico dalla conoscenza scientifica non rende le due posizioni necessariamente incompatibili. Commentando le parole di Husserl, Pierre Bourdieu ha parlato di un regime di «doppia verità» che separa la scienza dal mondo della vita, ma che d’altra parte deve ricollegarla a quest’ultimo come alla sua base di senso, se la scienza non vuole perdere del tutto il suo contatto con l’esperienza reale, vissuta. Husserl, prosegue Bourdieu, non ha voluto negare la validità del copernicanesimo ma ricordare che il suo valore si situa a un livello «più alto» dell’oggettivazione: un livello che tuttavia inariderebbe se recidesse le radici che lo collegano alla sfera della Lebenswelt (Bourdieu 1997, 191). 

Nel Sogno visionario che Keplero scrisse a margine dei suoi lavori di astronomia, come atto di testimonianza in favore del sistema copernicano, si immagina che un allievo di Tycho Brahe, Duracoto, compia un viaggio magico verso la Luna e conosca le popolazioni che vi abitano, i lunari. Questi, immagina Keplero, chiamano Levania il luogo nel quale abitano e fanno riferimento al nostro pianeta, chiamato Volva, per suddividere le regioni del loro globo. Vi è infatti un emisfero che «gode senza interruzione » della visione della Volva, e che perciò è detto “subvolvano”, mentre ve n’è un altro che ne è sempre privo, ed è chiamato conseguentemente “privolvano”. Il Sognoè uno scritto giovanile, che risale probabilmente agli anni universitari di Keplero, ma al quale egli continuò ad aggiungere note e commentari fin quasi alla morte, lasciando che la contestatissima pubblicazione venisse alla luce soltanto postuma, per iniziativa del figlio. Di continuo Keplero vi ribadisce la piena compatibilità fra universo copernicano e percezione della stabilità terrestre ricorrendo appunto alla Luna come a un esempio estremo e dimostrativo. «Ai suoi abitanti», spiega un demone a Duracoto prima del suo viaggio, «Levania non pare meno immobile, mentre gli astri corrono in cielo, di quanto a voi uomini sembri immobile la Terra».

 

È questa, osserva Keplero nelle Note, l’argomentazione fondamentale del Sogno«a favore del moto terrestre», o piuttosto «la confutazione delle argomentazioni contrarie basate sulla percezione dei sensi». Eppure si tratta anche di una riabilitazione della stessa verità dei sensi, il cui diritto a persistere non si scontra

con le verità della nuova astronomia, ma vi si colloca accanto: «noi terrestri riteniamo senza dubbio che il suolo sul quale ci troviamo e, con esso, le cime delle torri campanarie, se ne stiano perfettamente immobili», ma «questa percezione nulla toglie e nulla aggiunge alla verità delle cose», dato che «allo stesso modo i lunari pensano che il loro suolo» sia immobile, quando invece «noi sappiamo con certezza che la Luna è uno dei corpi celesti in movimento» (Keplero 1634, 49, 93, 107). E ancora: 

 

L'altro lato della luna fotografato dall'Apollo 16 il 24 aprile del 1974.


Tutti strepitano che il moto delle stelle intorno alla Terra è evidente agli occhi di chiunque, come pure lo stato di quiete della Terra. Io ribatto che agli occhi dei lunari risultano invece evidenti la rotazione della nostra Terra, cioè della Volva, e anche l’immobilità della Luna. Se mi si obiettasse che i sensi lunatici dei miei lunari si ingannano, con pari diritto potrei obiettare che sono i sensi terreni di noi terrestri a ingannarsi, quando sono privi della ragione. (Keplero 1634, 111-112)

 

Keplero ha ipotizzato nel suo Sogno non solo che la Luna sia abitata, ma che i suoi crateri siano formazioni regolari di origine artificiale, costruiti a partire da un palo di fondazione attorno al quale una struttura viene aperta come per una rotazione di compasso. La percezione della stabilità del suolo implica, del resto, che vi sia qualcuno a percepirla e che questi sia un produttore di senso, se non l’artefice di vere e proprie costruzioni. L’immobilità, infatti, non è prodotta solo dalla forza di gravità, ma dall’operare di esseri pensanti, cioè dalla regolarità del senso che si istituisce nell’agire, ed è perciò da considerare sia come effetto di condizioni fisiche, ambientali, sia come esito della prassi.

 

Certo non si deve riconoscere in Keplero un precursore di Husserl, con la sua immagine delle due Terre e dei due suoli, così come non lo era stato il Giordano Bruno di La cena de le ceneri, scrivendo in difesa di Copernico «che non più la luna è cielo a noi, che noi alla luna» (1584). Piuttosto si deve osservare che l’esperimento intellettuale condotto da Husserl è in fondo la meditazione di un copernicano coerente, che sa distinguere l’astronomia dall’estetica. Quest’ultima, come dottrina della sensibilità, insegna che non c’è nessun corpo celeste, nell’universo, che possa essere percepito in movimento quando diventa suolo d’esperienza. Considerati in rapporto alla percezione e alla relazione che stabiliscono con il nostro corpo, movimento e immobilità del nostro ambiente corrispondono a una disposizione e a un bisogno della nostra psiche, alla flessibilità di cui è dotata e alla stabilità che le è necessaria per raggiungere equilibrio nel cambiamento. Immaginare la vita sulla Luna è stato per Keplero come invocare una garanzia di continuità dell’esperienza pur di fronte al rovesciamento di paradigma del sistema copernicano. Trecento anni dopo, Husserl ripete l’esperimento, lo aggiorna a un futuro tecnologico che si poteva supporre imminente e di fronte ad esso afferma un principio di continuità dell’esperienza.

Più tardi ancora, quando ormai la Luna era stata raggiunta e abbandonata, nell’opera Keplers Traum del compositore Giorgio Battistelli (1990) prende rilievo un altro aspetto che sembrava per sempre sacrificato dal disincanto della tecnica e dei suoi successi: l’elemento magico e poetico del nostro rapporto con la Luna. Battistelli affida alla strumentazione elettronica, dunque a un dispositivo direttamente in debito con la tecnica, il compito di intensificare l’apporto di due personaggi fondamentali in questa prospettiva di rivalutazione dell’incanto estetico e lunare: la strega Fiolxhilde, madre di Duracoto, e il demone che, come voce recitante, istruisce il giovane sulle abitudini degli abitanti di Levania.

 

Nel 1961, a pochi mesi dall’impresa di Gagarin, Piero Manzoni collocò a Herning, piccolo centro danese nello Jutland 300 km a ovest di Copenhagen, la terza delle sue “basi magiche”, intitolata Socle du Monde: Base del mondo. È un parallelepipedo di ferro e bronzo che misura 82x100x100 cm il cui titolo è scritto a lettere capovolte su una delle facce laterali insieme al sottotitolo completo: Socle magique n. 3 de Piero Manzoni1961Hommage à Galileo. L’effetto è quello di un ribaltamento: siamo saldamente poggiati al suolo, eppure quella scritta da leggere al rovescio suggerisce che in realtà siamo appesi alla Terra, poggiata a sua volta su un piccolo piedistallo sospeso nel vuoto e proiettato verso il cielo. Così lo ritrae anche una bellissima fotografia pubblicata vivente l’autore nel catalogo della collezione del Museo di arte contemporanea di Herning (Heart), con il cielo in basso e la base del mondo al lavoro (figura 8). Manzoni aveva già ideato negli anni precedenti altre due Basi magiche e la suggestione, in quel caso, voleva essere quella di trasformare «qualunque persona, qualsiasi oggetto vi fosse sopra, finché vi restava», in «un’opera d’arte». La Base del mondo sembra però fare di più, reagendo alla nuova intuizione della Terra seguita al volo di Gagarin: con l’inizio dell’èra spaziale lo spazio copernicano – o galileiano, per rimanere all’omaggio di Manzoni – ha smesso di essere solo un’immagine scientifica del mondo ed è diventato per la prima volta estetico, cioè sensibile. Abbiamo avuto consapevolezza fisica del nostro pianeta come di un corpo orbitante, fluttuante, e dunque della reversibilità dei nostri sistemi di orientamento sulla sua superficie.

 

Piero Manzoni aveva cominciato a sentire la Terra come possibile teatro di un’intuizione estetica anche prima di quel momento, in anticipo sulle esperienze americane che sul finire degli anni Sessanta, in parallelo con l’avvicinamento degli uomini alla Luna, si sarebbero esercitate in progetti di Earth Art, nome che Robert Smithson utilizzava per il tipo di operazione in seguito chiamato con il più domestico appellativo di Land Art. A partire dal 1959, due anni dopo il lancio del primo Sputnik, Manzoni aveva pensato di stampare su carta “Linee” da seppellire in diverse città, arrotolate e chiuse in appositi contenitori, la cui lunghezza totale avrebbe dovuto essere pari alla circonferenza del nostro pianeta. La morte improvvisa dell’artista a soli 36 anni, nel 1963, avrebbe interrotto il compimento del progetto, che prevedeva anche una linea di carta bianca di lunghezza uguale al Meridiano di Greenwich. Ma proprio a Herning, un anno prima della Base del Mondo, Manzoni aveva seppellito nel giardino del Kunstmuseum una Linea di 7.200 metri, rinchiusa in un cilindro di zinco.

La Base del Mondo aggiunge a questo piano di opere invisibili un effetto sorprendente e immediato. Dato che la sua riuscita dipende dall’uso distorto della scrittura, la si può paragonare a un motto di spirito, l’azione linguistica che giocando con le parole mostra, attraverso connessioni inattese, la fragilità del nostro

 

modo abituale di pensare (cfr. Virno 2005). Manzoni, tuttavia, coglie l’elemento di novità che nel 1961 dava al suo motto di spirito un principio di realtà inatteso. La Base del Mondo non indica infatti il piano del possibile, non suggerisce solo ironicamente che la nostra percezione potrebbe essere ribaltata, ma indica che le cose stanno effettivamente anche al rovescio e che, dopo Gagarin, non possiamo evitare di sentire la relatività della nostra posizione nel cosmo, del nostro punto di vista. La Base del Mondoè perciò la prima opera che rende concretamente visibile sulla Terra il passaggio epocale verso una nuova visione dello spazio in cui abitiamo. La sua semplicità dipende dal fatto che una verità nota da tempo, ma mai vissuta e sperimentata dal nostro corpo, viene offerta alla percezione comune da un’esperienza paragonabile a una rivelazione.

 

Leggi anche:

Matteo Meschiari, Dalla Luna alla Terra

Enrico Palandri, La distanza dalla luna

 

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Conversazione con Carolyn Christov-Bakargiev

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Parlare di Carolyn Christov-Bakargiev, significa parlare dell’eccellenza nell’ambito della curatela d’arte contemporanea. 

Nata nel 1957 a Ridgewood, in New Jersey, da padre bulgaro e madre italiana – nello specifico, piemontese –, si è trasferita per la prima volta in Italia per concludere i suoi studi in lettere e filosofia alle Università di Genova e Pisa. In seguito, ha iniziato a scrivere per importanti testate quali Flash Art e Il Sole 24 Ore, per poi intraprendere l’attività curatoriale a Villa Medici con l’incarico di organizzare le mostre estive (1998-2000). Dopo essere stata, dal 1999 al 2001, Senior curator al P.S.1 Contemporary Art Center a New York, è tornata in Italia per assumere, dal 2002 al 2008, il ruolo di capo curatore del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea di cui ha ricoperto la direzione nell’anno 2009. Ha curato le più prestigiose manifestazioni internazionali d’arte contemporanea: la Biennale di Sydney nel 2008, dOCUMENTA(13) nel 2012 e la Biennale di Istanbul nel 2015. Dal 2016 è tornata a Torino per assumere la direzione congiunta della GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea e del Castello di Rivoli. Lasciata la GAM nel 2018, attualmente è la direttrice del Castello di Rivoli e della Fondazione Francesco Federico Cerruti.

Francesco Bonami nel suo libro il Bonami dell’arte la definisce a buon diritto “una delle migliori curatrici del mondo”, “una fondamentalista della curatela”, creatrice di “mostre che in certi momenti diventano pura magia”. A lei dobbiamo inoltre la scoperta di artisti, divenuti poi importantissimi, come William Kentridge, Pierre Huyghe e Doris Salcedo, e mostre che hanno avuto il merito di portare in Italia celebri artisti internazionali, tra cui, recentemente, Ed Atkins (2016), Wael Shawky (2016), Anna Boghiguian (2017), Nalini Malani (2018), Hito Steyerl (2018-2019) e Anri Sala (2019).

Come direttrice del Castello di Rivoli, oltre a confermare le sue ormai note qualità curatoriali, sta dimostrando una particolare abilità nell’intrecciare rapporti di collaborazione con enti pubblici e privati piemontesi, italiani e internazionali, tra cui la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, le OGR, la Fondazione Merz, la Whitechapel Art Gallery e la Tate di Londra e anche il Getty Research Institute di Los Angeles. Le mostre finora proposte dal Castello di Rivoli sotto la sua direzione, non solo hanno rivolto l’attenzione verso gli artisti con cui Carolyn Christov-Bakargiev ha sempre mantenuto un rapporto, dimostrando così la continuità del suo operare, ma nell’approccio, nell’allestimento e nel catalogo che sempre le accompagna, hanno impressa chiaramente la sua eccellente “firma”: mai scontate, sono sempre aperte a molteplici livelli di lettura, sottendono temi di importanza globale, sono caratterizzate da una forte attenzione sia allo spazio espositivo che diventa parte integrante dell’esposizione, sia alle nuove produzioni realizzate appositamente dagli artisti. L’oscillare tra il taglio analitico e quello più allargato nell’affrontare tematiche relative al nostro essere nel mondo, costituisce infine un’altra loro importante qualità.   

 

Carolyn Christov-Bakargiev in occasione del conferimento dell'Audrey Irmas Awards, 2019, ph Lisa Quinones.


Seppur adesso nelle vesti di direttrice, Carolyn Christov-Bakargiev è e rimane nel suo profondo prima di tutto curatrice: sceglie gli artisti, idea con loro le mostre, ne segue la realizzazione, incide sovente nella realizzazione stessa delle opere, al fine di creare esposizioni che fungano da dispositivi per elevarsi dal particolare al globale, dal presente al futuro. Grazie a questo suo onnicompresivo lavoro, il Castello di Rivoli è ancora oggi uno dei più importanti musei di arte contemporanea al mondo e, nello specifico, nel 2019 ha raggiunto ulteriori traguardi.

Innanzitutto, il 17 aprile 2019, a New York, Carolyn Christov-Bakargiev ha ricevuto l’Audrey Irmas Award for Curatorial Excellence 2019, il più importante premio alla carriera curatoriale a livello mondiale, conferitole dal prestigioso Center for Curatorial Studies, Bard College (CCS Bard). Negli ultimi venti anni, il Premio Audrey Irmas ha premiato curatori di fama internazionale il cui lavoro ha contribuito a trasformare la percezione della creazione artistica e la sua valorizzazione nell’esposizione al pubblico. Tom Eccles, Executive Director del CCS Bard, ha affermato che “Carolyn Christov-Bakargiev è una forza singolare nel campo dell'organizzazione mostre. Le sue idee di vasta portata e il suo audace impegno per gli artisti che realizzano opere nuove e ambiziose vanno di pari passo con la sua esplorazione delle storie artistiche e il loro riproporsi. La sua eccezionale dOCUMENTA(13) è stata indubbiamente una delle grandi mostre del nostro tempo”.

Questo premio ha dato ulteriore prestigio e visibilità anche al museo che Carolyn Christov-Bakargiev dirige e che, il 4 maggio 2019, ha aperto al pubblico il suo nuovo polo costituito dalla villa e dalla collezione privata di Francesco Federico Cerruti (Genova, 1922 – Torino, 2015), imprenditore e collezionista scomparso nel 2015. La collezione include quasi trecento opere scultoree e pittoriche che spaziano dal medioevo al contemporaneo, con libri antichi, legature, fondi oro, e più di trecento mobili e arredi tra i quali tappeti e scrittoi di celebri ebanisti. Lo scopo di questo nuovo polo del Castello di Rivoli è creare un modello nuovo di museo d’arte in cui l’arte del passato è osservata da prospettive contemporanee innescando un dialogo unico tra collezioni, tra artisti attuali e capolavori del passato. 

Infine, il 7 maggio si è inaugurato a Venezia, presso Combo – una nuova sede espositiva in campo dei Gesuiti -, The Piedmont Pavilion; ovvero una mostra che, nata da un concetto di Carolyn Christov-Bakargiev e Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, ma curata da Marianna Vecellio, presenta opere d’arte provenienti dalle Collezioni del Castello di Rivoli e della Collezione Sandretto Re Rebaudengo oltre a prodotti dell’industria e del territorio piemontese come la Fiat 500 del 1957 e la sonda orbitante TGO (Trace Gas Orbiter) della missione europea ExoMars. 

In attesa dei nuovi traguardi ai quali Carolyn Christov-Bakargiev condurrà il Castello di Rivoli, nella seguente conversazione con lei abbiamo approfondito i tre succitati eventi che recentemente l’hanno vista protagonista. 

 

 

Quest’anno hai ricevuto l’Audrey Irmas Award for Curatorial Excellence, a conferma della tua eccellenza in ambito curatoriale. Guardandoti indietro, quali sono, a tuo avviso, le principali caratteristiche del tuo modo di curare le mostre?

 

Mi hanno conferito l’Audrey Irmas Award for Curatorial Excellence 2019 per le mostre collettive tematiche che ho curato, dalla Biennale di Sydney Revolutions – Forms ThatTurn a dOCUMENTA(13), dalla Biennale di Istanbul SaltwaterA Theory of Thought Forms a quelle, in precedenza, curate al Castello di Rivoli tra cui Volti nella folla (2004-2005) e La sindrome di Pantagruel (2005). 

Ciò che ha caratterizzato il mio lavoro è stato l’oscillare tra mostre personali dedicate ad artisti – che a volte si sono dimostrati grandi dopo che ho realizzato le loro prime personali – e importanti mostre tematiche collettive. 

La mostre tematiche collettive sono sempre state connotate da una complessità dal punto di vista dell’argomento trattato, capace però di non mettere in ombra le opere realizzate dagli artisti per quelle occasioni. Per complessità intendo il tentativo di toccare le più rilevanti problematiche dell’epoca in cui viviamo, tra cui, ad esempio, la negoziazione tra rivoluzione digitale e crisi ambientale, lo statuto della soggettività umana all’interno di un mondo in cui occorre trovare una collaborazione tra tutte le specie e le entità viventi sul pianeta. Spesso sono riuscita non solo a mettere a fuoco, ma anche a introdurre molto fortemente questi grandi temi. Ad esempio, dOCUMENTA(13) parlava della relazione tra umano e non umano dal punto di vista dell’equilibrio del pianeta, ma era anche focalizzata sulla distruzione della cultura materiale, delle opere d’arte, poiché la nostra epoca è caratterizzata da grandi guerre, conflitti, diaspore, migrazioni e di conseguenza da una notevole quantità di distruzioni. L’interconnessione così da me messa a fuoco, per cui la catastrofe ecologica e il collasso della biodiversità vanno di pari passo con il collasso della diversità della cultura materiale e immateriale, non era ancora stata affrontata da nessuno e farlo a dOCUMENTA(13) ha permesso di conferire una maggiore profondità a una manifestazione volta, già di per sé, a porre domande, più che a dare soluzioni. 

 

Carolyn Christov-Bakargiev in occasione del conferimento dell'Audrey Irmas Awards, 2019, ph Lisa Quinones.


Altra importante caratteristica del tuo modo di operare è il rapporto con gli artisti, soprattutto in merito alle nuove produzioni…

 

Sì, in queste manifestazioni solitamente ho incluso anche numerose opere realizzate per l’occasione.  Quello che faccio è parlare con gli artisti, non solo di arte, ma soprattutto del mondo. Da queste conversazioni sul mondo gli artisti trovano l’ispirazione per realizzare opere di grande qualità. Sono infatti nota per aver creato le premesse e le condizioni per l’emergere di capolavori. Spesso le persone pensano che le opere nascano solo dalla mente dell’artista, ma invece sono frutto di un contesto e di una rete di relazioni che le portano ad avere un impatto sulle coscienze. Le opere d’arte partecipano infatti nel dialogo e nel destino del mondo, mettendo a fuoco problemi e indicando possibili soluzioni.

 

Quando dici che le tue mostre tematiche affrontano le più rilevanti problematiche dell’epoca in cui viviamo, ti riferisci ai temi di più cogente attualità?

 

No, non mi riferisco all’attualità, in quanto sono d’accordo con l’idea di profonda inattualità espressa da Nietzsche. Il mio obiettivo è invece vedere le cose prima che siano attuali, in modo da agire, da parteciparvi. A dOCUMENTA(13) le opere ruotavano attorno a problematiche ambientali di crisi ecologica (ricordo il notebook che ho pubblicato in quell’occasione sull’antropocene), ma non si era ancora sviluppato un dibattito in merito all’antropocene che è seguito. Non si tratta quindi di riflettere sull’attualità, ma di capire l’emergere di certe condizioni in modo da far sì che il mondo vada in una direzione piuttosto che in un’altra, che avvengano fatti positivi e siano evitate le catastrofi. Si tratta di partecipare al modo in cui una data questione diventa attuale, ma prima che lo diventi. 

 

Passiamo adesso a un secondo traguardo raggiunto in questo anno che riguarda invece il Castello di Rivoli da te diretto: l’apertura al pubblico del nuovo polo del museo costituito dalla Collezione Cerruti. Potresti raccontare quando è iniziata questa vicenda e come si è sviluppata?

  

Villa Cerutti esterni.


L’apertura della Collezione Cerruti è il terzo grande momento nella storia del Castello di Rivoli. Il primo fu nel 1984 con l’apertura del Castello, sotto la direzione architettonica di Andrea Bruno e artistica di Rudi Fuchs. Il secondo fu il 1999 con l’apertura della Manica Lunga, ancora una volta sotto la direzione architettonica di Andrea Bruno quando al museo era direttore Ida Gianelli. Il terzo momento è il 2019 con l’apertura della villa Cerruti che si trova a soli 400 metri dal Castello.

Sono ormai tre anni che lavoro alla costituzione di questo nuovo polo del museo. L’accordo con la Fondazione Cerruti è stato firmato nella primavera del 2017 e nel luglio dello stesso anno abbiamo fatto l’annuncio accompagnandolo con una mostra al Castello dedicata ai capolavori di de Chirico presenti nella collezione Cerruti. Nella primavera 2018 al museo, inoltre, si è tenuto un convegno su celebri case museo. 

Il ragioniere Francesco Federico Cerruti, deceduto nel luglio 2015, era un collezionista riservato ma ben noto nel mondo dell’arte: ad esempio, prestò la sua opera di Bacon per la mostra Volti nella folla al Castello nel 2005, e acquistò un’opera di Franz Kline dopo aver visto al Castello la mia mostra dedicata proprio a quell’artista. Era anche stato iscritto al gruppo degli Amici del Castello di Rivoli nel 1995. Io non l’ho mai conosciuto personalmente, ma sapevo dell’esistenza della sua bellissima collezione tramite Ida Gianelli. 

 

Villa Cerutti interni.


Pochi mesi dopo la sua morte, nel 2016, quando ero appena diventata direttrice del Castello di Rivoli, il dottor Gianluca Ferrero, suo esecutore testamentario, mi ha riferito che la villa e le opere erano confluite nella Fondazione Cerruti, con il lascito di trasformare la villa in spazio aperto al pubblico affidandola in gestione al vicino Castello e con il vincolo di non spostare la collezione in un altro luogo. Per questa ragione la villa e le opere sono state date in comodato al Castello di Rivoli per la relativa gestione e valorizzazione. 

Per quanto invece concerne la ristrutturazione dell’immobile, è partita nel 2017 e si è svolta dopo aver portato in depositi tutte le opere, i mobili, i tappeti, i libri che sono stati poi studiati dal punto di vista conservativo e storico-artistico: Luisa Mensi ha studiato e fatto le necessarie manutenzioni e interventi di restauro ai dipinti e sculture, Gherardo Franchina i mobili, Mirco Cattai i tappeti, il centro per il restauro di Venaria i libri. Sono stati realizzati tre impianti d’avanguardia: un impianto di sicurezza ai massimi livelli mondiali per evitare di aggiungere vetrine di protezione (ogni oggetto è infatti stato taggato digitalmente e la sua collocazione è identificata esattamente nella centrale di sicurezza); un sistema di climatizzazione che controlla la temperatura e il livello di umidità; un impianto antincendio capace di garantire il non danneggiamento delle opere in caso di attivazione. 

Dopo questo lungo processo di ristrutturazione e studio, il 4 maggio 2019 la villa Cerruti è stata aperta al pubblico: vi possono entrare gruppi di sole dodici persone accompagnate da guide per motivi di sicurezza legati agli ambienti che sono molto piccoli. 

 

In quale modo la collezione del Castello di Rivoli si relazionerà con quella della villa Cerruti?

 

Veduta di The Piedmont Pavilion, Venezia 2019, ph Formentini Zanatta.


La visione delle opere della collezione Cerruti è molto importante: per questa ragione, alcune di esse sono state e saranno esposte al Castello secondo percorsi tematici. 

Dopo l’esposizione delle opere di de Chirico, il Castello ha accolto alcune delle opere di Andy Warhol provenienti dalla villa e a metà luglio 2019 ospiterà altri lavori, tra cui una Madonna col Bambino dell’allievo di Leonardo Marco d’Oggiono e un omaggio alla Gioconda di Gino De Dominicis, in una mostra legata ai cinquecento anni dalla morte di Leonardo. 

Fondamentale è capire che la villa Cerruti fa parte della vita di un museo d’arte contemporanea. Dopo l’era del critico d’arte con Clement Greenberg e dopo l’era del curatore con Harald Szeemann, adesso siamo nell’era del collezionista. Viviamo in un’epoca di archiviazione, dove le modalità secondo cui vengono aggregati dati e informazioni assumono sempre più rilevanza: per questa ragione il metodo intuitivo e associativo del collezionista diventa quanto mai importante da studiare come fenomeno, anche da un punto di vista di sociologia dell’arte. Il Castello di Rivoli, essendo un museo d’arte contemporanea, non poteva pertanto non “collezionare il collezionista”. Esistono alcuni musei d’arte enciclopedici come il Metropolitan e il Louvre che si sono dedicati anche all’arte contemporanea, ma non era mai successo che un museo d’arte contemporanea inglobasse l’antico.

 

Infine, una domanda sul Padiglione del Piemonte inaugurato a Venezia pochi giorni fa. Come è nata l’idea di dedicare una mostra al Piemonte?

 

La mostra è curata da Marianna Vecellio. Siamo in un’epoca in cui si assiste a un forte ritorno dei nazionalismi, o almeno a una costruzione mediatica di nazionalismi. Allora ho pensato che ci fosse un vuoto in merito ai regionalismi che invece erano stati molto importanti negli anni Sessanta e Settanta quando si studiava il folklore, le canzoni popolari, si valorizzavano le culture, il cibo e l’ambiente locali. Negli anni Ottanta e Novanta ci sono stati i separatisti regionalisti, anche con la nascita della Lega Nord in Italia, ed erano legati a fattori economici in quanto miravano a rendere autonome le aree economicamente più fiorenti dalle altre con più difficoltà. 

Essendo quella attuale un’epoca caratterizzata da grandi nazionalismi, chiamati oggi “sovranisti”, che si contrappongono alla globalizzazione internazionale, ho pensato di creare invece un padiglione per parlare di un territorio che risulta ormai vuoto di riflessione, cioè del territorio attorno al nostro rapporto con la terra locale e nello specifico con la terra della regione Piemonte, con il suo vino, i suoi tartufi, un territorio legato simbolicamente a temi come l’eternità, la metafisica, lo slow-food e l’understatement…. Mi sembrava che la conoscenza legata a una terra specifica fosse un territorio che potesse essere valorizzato in una mostra. 

Uno dei momenti propulsivi più importanti dell’arte contemporanea, per esempio, è stato il Congresso di Alba del 1956 voluto dall’artista-chimico-enologo Pinot Gallizio.

 

Villa Cerutti interni.


In quale relazione il Padiglione si pone nei confronti della Biennale di Venezia 2019 e quali tematiche affronta nello specifico?

 

Non si tratta esattamente di un padiglione. Non è un padiglione ufficiale della Biennale perché non esiste uno stato del Piemonte, ma è una mostra che si intitola Che tu possa vivere tempi interessanti ai piedi dei monti.… Come evidenzia il titolo, prende spunto dal tema della Biennale di Venezia di questo anno, il cui titolo May You Live In Interesting Timesè un’espressione della lingua inglese a lungo attribuita a un’antica maledizione cinese, della cui esistenza non si ha però effettiva prova e che evoca periodi di incertezza, crisi, guerre, catastrofi; “tempi interessanti” intesi come caratterizzati da eventi negativi. 

La mostra nasce da questa riflessione: se da un lato non esiste un paese che si chiama Piemonte, dall’altro esiste una realtà che noi tendiamo a non voler indagare; la specificità di certi territori. 

A mio avviso, il Piemonte ha alcune specificità tra cui la volontà di scavalcare le Alpi per connettersi con luoghi molto lontani. Non a caso è stata la Lavazza a ideare la macchina ISSpresso per la Space Station dove, a causa dell’assenza di pressione nello spazio, non era possibile fare il caffè. A Venezia, accanto ad opere d’arte, abbiamo perciò esposto oggetti e invenzioni piemontesi come la ISSpresso, ma anche come la sonda Odyssey, realizzata a Collegno da Thales-Alenia Space, grazie alla quale abbiamo ricevuto e riceveremo le fotografie di Marte. 

Altra specificità del Piemonte è il senso di essere orfani: orfani dei Savoia, orfani degli Agnelli e anche dell’Arte povera dei cui artisti in questa regione si vive nell’ombra ma anche fieri di averli avuti. Per la mostra a Venezia, il giovane artista Renato Leotta ha creato un’opera proprio da questa premessa: anziché invadere lo spazio con qualcosa di “suo”, ha deciso di illuminare la mostra con fari di automobile FIAT che ovviamente non illuminano le opere e gli oggetti esposti come farebbero i faretti del museo, ma emettono una luce “cacofonica”.

Caratteristica della mostra è quindi un’ironia e una leggerezza che vanno di pari passo, spero, alla complessità.

 

Forse l’unione di ironia, leggerezza e profonda complessità è anche caratteristica e qualità della stessa Carolyn Christov-Bakargiev che ringrazio vivamente per avermi concesso questa conversazione. 

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Dostoevskij nel gran teatro del Cimitero germanico

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Fu inaugurato cinquant’anni fa, dopo dieci anni di costruzione. Raccoglie i resti di 30.654 militari tedeschi caduti nel Centro e nel Nord Italia negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. Il Cimitero militare tedesco del Passo della Futa è una spirale che avvolge la collina con semplici lastre tombali, fino a una costruzione in pietra che si slancia come ala fatta a mosaico di pietre di colori diversi. Ha la forma del labirinto di Cnosso, senza mura, chiuso da quel volo, forse verso una vita non vissuta: i morti seppelliti sono in gran parte giovanissimi. Questo cimitero di guerra non ha niente delle Totenburgen monumentali, cimiteri-fortezze che altrove, soprattutto tra i due conflitti mondiali, raccoglievano i resti dei soldati tedeschi, come monito eroico in odore di ideologia hitleriana. Non contiene resti di criminali nazisti, anche se tra i militari sepolti ci sono appartenenti alle unità che si resero colpevoli della guerra totale contro le popolazioni civili dopo il 1943. Le parole che sono incise qui, nella cripta, con una scultura ferrea a forma di grande corona di spine, sono Leid, Trost, Ruhe, «dolore, consolazione, silenzio». 

 

 

Un libro per il teatro di Marte

 

Su questo luogo appartato sui monti – percorso dal vento e dal silenzio, sempre meno visitato da parenti dei defunti, ormai solo onorato con qualche mazzo di fiori di plastica scolorito e da alcune corone di quelle che nei paesi tedeschi si compongono per le feste – è stato pubblicato di recente un libro, Teatro di Marte. Il cimitero militare germanico della Futa, a cura di Elena Pirazzoli, una storica bolognese. Raccoglie saggi vari che raccontano la politica dei cimiteri di militari tedeschi dal 1919 al secondo dopoguerra, quando viene attuato un cambio decisivo nell’orientamento del senso di questi luoghi; approfondisce il difficile reperimento del terreno, anche per l’ostilità dei proprietari e delle popolazioni locali; illustra la lunga realizzazione del progetto dell’architetto Dieter Oesterlen (1911-1994). Molto interessanti sono le note sulla rimozione del luogo dalle cronache giornalistiche e dalla critica architettonica in Italia e le riflessioni sulle diverse forme – ideologiche – di lutto di guerra. Dopo l’introduzione della curatrice, scrivono brevi, penetranti saggi Birgit Urmson, Giacomo Calandra di Roccolino, Sofia Nannini, Carlo Gentile, e chiude la prima parte saggistica una riflessione di Luca Baldissara su Luogo di memorie, luogo di storia, dove, segnalato il progressivo scolorire della memoria diretta dei parenti, si riflette su come un luogo così contraddittorio, l’estremo approdo di pace di chi venne a portare guerra e distruzione feroce, diventi un sito di riflessione dove il bianco e il nero non sono consentiti, dove è necessario inoltrarsi nella complessità degli intrecci della storia, per rimettere in circolo attraverso l’analisi del passato uno sguardo sulle radici contraddittorie del presente.

 

 

Il libro per ora si può comprare solo online sul sito di un gruppo teatrale, che lo ha prodotto e pubblicato con la sua nuova casa editrice, Archivio Zeta, con lo stesso nome della compagnia, fondata e diretta da Enrica Sangiovanni e da Gianluca Guidotti (www.archiviozeta.eu). Loro è il merito se non di aver riscoperto il luogo, di averlo sicuramente valorizzato, ambientandovi dal 2003 spettacoli itineranti, in risonanza con l’ambiente. Iniziarono con I persiani di Eschilo, negli anni della guerra in Iraq, tra quei 30mila e passa morti, in quell’ascesa verso un cielo agognato e mai raggiunto, immobile e lontano dall’ala di pietra. L’antico dramma era una storia di invasori puniti per la loro hybris con la sconfitta, e di pietà e di pianto. 

Continuarono con altre tragedie greche, il teatro della violenza, della colpa e del tentativo di risolvere le spinte distruttive dell’umanità con la mediazione della volontà di conciliazione civile, con la democrazia, rivelandone nelle Eumenidi di Eschilo i calcoli spesso truffaldini. Teatro di parola e di spazi, teatro di contraddizioni racchiuso tra i monti, la memoria e la storia. Arrivarono all’ecatombe con squilli di trombe di gazzette e di chiacchiere di bar Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, desumendo poi da quell’opera mostruosa, “rappresentabile solo su un teatro di Marte”, il titolo del libro. Misero le mani nel Macbeth e nel mito del Minotauro; tornarono alla tragedia con la testimonianza etica di Antigone, contro le leggi ingiuste dello stato (quanto mai attuale in un tempo in cui chi salva vite umane in mare viene bollato come “trafficanti di uomini”). 

Tutto questo cammino ha permesso ogni estate a mille-duemila spettatori per anno di vedere, sentire il cimitero nella sua cangiante dimensione ascensionale, perlustrarne lo spazio ma soprattutto prenderlo come muto risonante testimone di una vicenda continua di sopraffazioni e di tentativi di dipanare un senso all’umana vicenda, oltre la violenza, oltre la tendenza alla distruzione. Tutti gli spettacoli, i viaggi teatrali tra campi, pietre tombali e apice di pietra del luogo, con i suoi spazi ugualmente a spirale, i suoi muri, le prospettive dell’ala che la fanno vedere, a seconda della posizione d’osservazione, come monolite, come tozzo muro a cuspide, come fortificazione, come slancio, sono documentati nell’ultima parte del volume, in un racconto con le fotografie di Franco Guardascione che segue i diversi spettacoli nel loro cercare nel cimitero scorci, scenografie, colori, momenti di meditazione.

 

 

Con Dostoevskij nel bene e nel male

 

Sabato 13 luglio è iniziato il nuovo cammino di Archivio Zeta, quello dell’estate 2019, con Pro e contra Dostoevskij, spettacolo che sarà rappresentato il sabato e la domenica in luglio e in agosto fino al 18, tranne il 3 quando la compagnia andrà a portare un brano ispirato da Vizio di forma di Primo Levi in quello che doveva essere il reattore nucleare della centrale atomica del Brasimone, ora un altro luogo dimenticato, dove si possono leggere gli intrecci della storia. 

Gli spettacoli sono sempre autoorganizzati e autofinanziati da questa compagnia caparbia, formatasi al magistero di Luca Ronconi, che crede nel teatro come testimonianza e luogo di riflessione, che prova a farlo a tutti i costi, con e senza finanziamenti pubblici. Perciò da sostenere, accorrendo a vederne gli spettacoli, in luoghi indimenticabili.

 

Pro e contra Dostoevskij, ph. Franco Guardascione.


Dostoevskij: il male, la volontà di potenza prima di Nietzsche, l’abisso di libertà dell’uomo che, abolito Dio, forza i limiti dell’arbitrio; e, di contro, l’ansia di senso, di assoluto, di legame, di religione, di fratellanza. L’abisso della tentazione della libertà e l’indagine sul bisogno di verità, di consistenza, di argini alle seduzioni, di silenzio, di ascolto interiore.

Era inevitabile arrivare alle polarità di questo autore, in un luogo simile. L’inizio come sempre è una silenziosa processione, fino a uno slargo di tombe, fino alla copertura in legno di uno degli originari pozzi di raccolta delle acque. Tre scure figure in rozze tonache con cappucci, incenso, canti di qualche liturgia ortodossa. Tarkovskij, Andrej Rublëv. Il rito, il legame, la tradizione, il viaggio di monaci vaganti… La prima parte dello spettacolo si dipana nella zona bassa del cimitero, fino a un sentiero tra aceri e querce, con fiorellini gialli e di altri colori che spuntano radi nel verde tra le tombe, con rumori di moto da cross in lontananza. Tra suoni di cimbali, canti e profumi, traccia una genealogia della sofferenza umana, della sua lotta contro la propria natura indifesa, desolata, e dei suoi tentativi per dare senso a un’esistenza continuamente da proteggere dagli insulti delle cose e degli altri esseri. Sullo sfondo, su un muretto in lontananza, un uomo intabarrato, coperto da un cappello. Di tanto in tanto riappare la bambina con treccine e con una lunga veste che all’inizio ha riempito di forme di pane due secchi. 

Si sale, verso un altro spiazzo, con un nudo materasso, dove l’uomo intabarrato racconta un suo viaggio in Europa, il crollo delle certezze in quel mondo di economia e consumi, la necessità di provare a oltrepassare i limiti, con stridenti suoni della Sequenza di Berio per viola che lo accompagna e poi si disfa in voci dissonanti. La bella colonna sonora di stridori e rapimenti è composta da Patrizio Barontini montando musiche del Novecento, atmosfere elettroacustiche, campane che spesso accompagnano il risveglio o comunque il risuonare di voci nuove nella coscienza; comprende anche motivi religiosi, con l’apparizione del Bach del Vangelo secondo Matteo di Pasolini nella cripta. La bambina, con uno scudo, come angelo o immagine archetipica, in una camminata in campo lunghissimo fa da contrappunto lento, rituale, d’anima profonda, alla frenesia di sperimentazione dell’arbitrio, dell’abisso, dell’uomo.

 

Pro e contra Dostoevskij, ph. Franco Guardascione.


Raccontare tutti i passaggi non è opportuno. Sorprendono – in ogni stazione, che rivela un luogo diverso, in un’infinita scenografia della meditazione. Così l’anima in pena del viandante incontra un clownesco diavolo in frac avorio e dorato che ancora di più lo tenta e lo spinge oltre i limiti, mostrando quando beffarda sia l’impresa; e poi appare il Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov (la prima parte della drammaturgia di Sangiovanni e Guidotti è ispirata al Sogno di un uomo ridicolo, sempre di Dostoevskij, del 1877; il resto alla parte finale dei Karamazov del 1879). E con il vecchio bruciatore di eretici, custode tetragono dell’ortodossia e del potere della Chiesa, compare l’Innocente, il Cristo, nella cripta, dentro la corona di spine, minacciato di essere messo al rogo per la sua religione d’amore che rifiuta i miracoli effettistici consigliati dal diavolo, trasformare i sassi in pagnotte per soddisfare la fame del popolo. 

Non c’è economia, vantaggio alcuno, nella purezza. E il grido del decrepito cardinale, che già risuonava nel finale del mitico Apocalypsis cum figuris di Grotowski, è “Vattene, e non tornare mai più”. Alessandro Vuozzo è perfetta controfigura del Cristo pasoliniano, contrapposto a Alfredo Puccetti, allampanato e ieratico nel mantello rosso, uno dei cittadini di questi monti trasformato da Archivio Zeta da anni in ottimo attore. Andrea Sangiovanni è il monaco narratore; in scena anche i figli della coppia di drammaturghi-registi, la bravissima piccola Antonia Guidotti e l’asciutto giovane fratello Elio, con Enrica Sangiovanni come pagliaccesco demone e Gianluca Guidotti nella parte del tormentato protagonista. 

 

Pro e contra Dostoevskij, ph. Franco Guardascione.


Lo spettacolo si chiude con un’apertura, dopo i baci del tradimento, della rottura, del rifiuto del Cristo, un bacio all’Inquisitore e uno al protagonista, rivestito dello stesso rosso manto, continuando a dibattersi nella domanda su cosa avvenga se tutto è permesso. Il finale si dilata in una scena dolcissima, dall’altra parte della costruzione centrale del cimitero, verso il sole che tramonta tra i monti verso il lago Bilancino sullo sfondo, con il sogno in volo dell’uomo ridicolo e la scoperta, il desiderio, l’affermazione poetica che il male non può essere lo stato normale degli uomini.

Alla prima qualcosa ancora sembrava da rodare, qualche passaggio da snellire. Ma questo spettacolo segreto nel luogo della storia del dolore, le sue domande urgenti sul fascino del possedere, sulle seduzioni del mondo, dell’economia, dell’ego smisurato che tutto giustificano, sulla paura, sul dominio degli altri, sembravano urgenti come scoperte, in momenti densi di pensiero e di una commozione silenziosa che andava a sondare i confini dell’interdetto, del sacro, del necessario.

Con un pensiero finale degli autori, agli applausi, tanti, affettuosi, al maestro Luca Ronconi, con cui Sangiovanni e Guidotti venti anni fa parteciparono ai Fratelli Karamazov romani, spettacolo monumentale che non arrivò a mettere in scena la fine del romanzo, che qui i due attori e registi provano a restituire con toni pasoliniani e di puro, essenziale grande teatro popolare.

 

La fotografia finale, di Franco Guardascione, raffigura un momento dei Persiani, da Eschilo, di Archivio Zeta, 2003.

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Ferdinand Deligny, Una zattera sui monti

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Stare accanto a bambini che non parlano

C’è un intero continente di saggi scomparsi che gli editori italiani non ristampano più. Eppure in mezzo a loro ci sono delle vere perle, libri che possono aiutarci a capire il mondo intorno a noi, anche se sono stati pubblicati quaranta o cinquanta anni fa; con questa serie di articoli proviamo a rileggere questi libri, a raccontarli e indicare l’aspetto paradigmatico che contengono per il nostro presente.

 

Antoine Doinel, il bambino protagonista di I 400 colpi di Truffaut corre sulla spiaggia verso il mare. Libero, pieno di gioia, Antoine si lancia verso l’acqua: il mare è l’incommensurabile. A suggerire questa memorabile scena, che chiude il film d’esordio del regista, è stato uno strano educatore oggi dimenticato, Ferdinand Deligny, uno dei personaggi carismatici della cultura francese del dopoguerra. Nato nel 1913 ha studiato da maestro elementare; per sbaglio finisce a insegnare in una classe differenziale a Parigi, una di quelle istituzioni dove vengono relegati i bambini difficili, caratteriali, con problemi di comportamento, ribelli e agitati. Qui, come racconta in I vagabondi efficaci (Jaca Book 1973, tr. di LNT, Giuliano Mangano e Francesca Rigotti), scopre la misteriosa condizione rigettata da tutti: l’infanzia disadatta. Nel 1939, alla vigilia della Seconda guerra mondiale è nell’ospedale psichiatrico di Armentières a breve distanza da Dunkerque, dove l’esercito inglese viene respinto dai tedeschi. Si occupa di ragazzi molto simili ad Antoine anche se con un livello di pericolosità sociale più forte: irrecuperabili devastatori, ladri, sabotatori, teppisti. Sono loro che diventano ben presto l’oggetto dell’attenzione di questo educatore. Utilizzando lo stato di guerra, e la conseguente confusione, Deligny prova a creare una diversa condizione di vita per quei bambini e ragazzi. A guerra terminata gli viene affidato un incarico nella regione di Lille: stare con i giovani disgraziati, quelli rigettati da tutti. Il progetto fallisce, ma nel 1948 Deligny ha l’idea di organizzare la Grande cordata. Si prende a carico i ragazzi che nessuno vuole, e mette in piedi una rete di “libera cura”: niente letti di contenzione o porte chiuse, niente oppressione o ordini stabiliti. Tutti liberi di andare e venire. Crea una rete di rifugi, simili a ostelli, in rapporto con la “Clinique de La Borde”. Poi incontra Janmari, un giovane di dodici anni, autistico. Oggi tutti sanno cos’è questo disturbo nello sviluppo neurologico, che lede l’interazione con gli altri e anche la comunicazione verbale. I libri di Oliver Sacks e vari film l’hanno reso noto a molti.

 

Ma allora i lavori di Hans Asperger e Leo Kanner, i due scopritori dell’autismo, non erano ancora noti. Deligny accetta l’invito di Félix Guattari e si trasferisce sui monti delle  Cévennes, a Monoblet, per realizzare il suo progetto con ragazzi psicotici. Ci resterà sino alla morte avvenuta nel 1996 a 82 anni. Per chi non lo conosce ci sono alcuni suoi libri a disposizione. Una zattera sui monti - stare accanto a bambini che non parlano, cronaca di un tentativo per esempio, è uscito nel settembre del 1977 nella casa editrice di Elvio Fachinelli, L’erba voglio (traduzione di Mariolina Bertini), un libro scomparso che bisognerebbe ristampare. Il maestro francese è stato molto più che un educatore o uno psicologo: un nomade. Se c’è una figura cui si può accostare, seppur nella grande diversità delle esperienze, è don Lorenzo Milani. La Barbiana di Deligny è una rete stesa tra le montagne delle Cévennes, senza alcun appoggio istituzionale, accogliendo bambini problematici, o con sindromi autistiche, mandati a lui da psicoanalisti come Maud Mannoni, Françoise Dolto.

 

 

Maestro di Guattari e Deleuze, ha costruito per decenni fino a dodici comunità situate a distanza tra loro al massimo di dieci chilometri, dove i ragazzi erano liberi di andare e venire. Di quelle transumanze per i monti Deligny ha tracciato delle mappe, carte, le “linee-traccia” come le ha chiamate, che descrivono gli spostamenti dei bambini. Una zattera sui montiè il racconto di questa avventura, prima umana che educativa o psichiatrica. Deligny è stato definito un “Don Chisciotte a cavallo di una capra”, dal momento che le capre sono gli animali che accompagnano i ragazzi autistici nei loro spostamenti. La sua ricetta è semplice e difficile a un tempo: “fidarsi dei nostri occhi, fidarsi delle nostre mani, tracciare”.

 

I bambini di cui si è occupato non parlano, stanno da soli, sono aggressivi. Il maestro francese non ha alcun un progetto terapeutico; al centro della sua azione c’è piuttosto il lasciar essere queste creature perlopiù prive di linguaggio, incapaci di verbalizzare. Nessuna rieducazione e nessuna restituzione alla società degli uomini. Nel corso degli anni questa esperienza, che Deligny ha raccontato in una serie di scritti, è stata filmata, restituita attraverso il documentario e mediante fotografie, come quelle contenute nel libro delle Edizioni L’erba voglio: tracciati, incisioni, disegni a matita. In Francia il suo lavoro di scrittura, ricco di accenti poetici, lieve e intenso insieme, è stato raccolto in un voluminoso libro curato da Sandra Alvarez de Toledo per le edizioni L’arachéen, che attende ancora d’essere divulgato nella nostra lingua. Sono aforismi, brevi appunti, racconti di vicende personali, attività di scrittura che dura dal 1945 e che non ha eguali nella pedagogia e psicologia europea. L’uscita in lingua originale dei Vagabondi efficaci attira persone nelle Cévennes. Ci vanno giovani lettori, persone affascinate da questo metodo non-metodo.

 

Nel Sessantotto l’esperimento di Deligny affascina i giovani. Quell’anno Deligny lo trascorre, come racconta, seduto su un’antica roccia ercinica insieme a Jean-Marie J., un ragazzo di tredici anni che non ha mai pronunciato altro che: mammm mammm mammm mammm. Gli studenti della facoltà di lettere dell’università di Montpellier, dopo aver occupato la loro sede d’insegnamento, vanno a trovare Deligny. Gli parlano dello statuto della psicologia, ma Deligny non è psicologo. “Cosa avrei dovuto fare?”, si domanda in un testo il maestro. L’unica realtà che lui conosce, e di cui però non si dà scienza, è Jean-Marie e il suo suono articolato. La parola non è al centro del tentativo di Deligny; c’è solo lo stare insieme e poi il silenzio dei bambini. L’incapacità di fornire una cura a chi è incurabile, o almeno tale appare alla scienza psichiatrica; questo è il solo modo che Deligny ha escogitato per creare comunità. Uno stare assieme che racconta nei due libri, che sarebbe bello veder di nuovo circolare, per riscoprire un maestro non-maestro della nostra sconquassata contemporaneità.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano "La repubblica" che ringraziamo.

 

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C’era una volta Regalpetra, c’era una volta Leonardo Sciascia

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Sono trascorsi 30 anni da quel giorno di novembre in cui Leonardo Sciascia ci ha lasciati, trent'anni in cui il paese, che lui ha così bene descritto, è profondamente cambiato, eppure nel profondo è sempre lo stesso: conformismo, mafie, divisione tra Nord e Sud, arroganza del potere, l'eterno fascismo italiano. Possibile? Per ricordare Sciascia abbiamo pensato di farlo raccontare da uno dei suoi amici, il fotografo Ferdinando Scianna, con le sue immagini e le sue parole, e di rivisitare i suoi libri con l'aiuto dei collaboratori di doppiozero, libri che continuano a essere letti, che tuttavia ancora molti non conoscono, libri che raccontano il nostro paese e la sua storia. Una scoperta per chi non li ha ancora letti e una riscoperta e un suggerimento a rileggerli per chi lo ha già fatto. La letteratura come fonte di conoscenza del mondo intorno a noi e di noi stessi. De te fabula narratur.

 

“Regalpetra, si capisce, non esiste: «ogni riferimento a fatti accaduti e a persone esistenti è puramente casuale». Esistono in Sicilia tanti paesi che a Regalpetra somigliano; ma Regalpetra non esiste”. L’antifrasi è smaccata. Tanto scoperta da non potere essere scambiata per ironia. C’è ironia talvolta, come figura del discorso, nelle pagine di Leonardo Sciascia ma dire che la sua penna fosse fondamentalmente ironica lo si potrebbe solo per ironia. Una dose supplementare ne domanderebbe sostenere che fu soprattutto caratterizzata da un tratto ironico la sua figura pubblica. L’una e l’altra, le si potrà trovare chiare, severe, risentite, sottili, eleganti, polemiche, inquietanti, sferzanti e così via. Ma, al fondo, ironiche no. Nemmeno umoristiche. C’era una fede, in Sciascia, non solo e banalmente nel rapporto tra realtà e parola, ma anche, di ritorno, tra parola e realtà che poneva al riparo la sua espressione dalla consapevolezza tragica della fallacia ineluttabile e della sconfortante inanità di tali rapporti.

 

Consapevolezza senza la quale non c’è ironia né umorismo. Che sia un luogo comune, quando si parla di Sciascia, tirare in ballo Luigi Pirandello? Un luogo comune autorizzato dallo stesso Sciascia.

Un luogo comune ineluttabile, del resto. All’ingrosso, si può infatti dire che tra i due ci fu un luogo in comune. Tanto ingombrante nella percezione dei più, da nascondere i molti luoghi, anche materiali, oltre che spirituali, le circostanze sociali e soprattutto il tempo, con la sua aria determinante, che Sciascia non condivideva, né avrebbe del resto potuto condividere con Pirandello. Formarsi in un modestissimo agio micro-borghese non era come farlo nell’agiatezza, per quanto periclitante, di una schiatta d’imprenditori, Caltanissetta non era Roma né Bonn, Giuseppe Granata non era Ernesto Monaci e così via: dati di fatto, morali e biografici, e fatti storici e culturali così ovviamente noti che continuarne il lungo elenco suonerebbe oltraggio alla cultura e all’intelligenza di chi legge. 

E ammesso, come sopra s’è detto, che tra Pirandello e Sciascia ci sia stato almeno un luogo in comune, questo luogo non fu certamente Regalpetra, anche perché niente che somigli a una Regalpetra è riferibile a Pirandello. Invece, sotto la penna di Sciascia e per scoperta antifrasi, Regalpetra non solo esisteva, ma era proprio e apertamente la sua Racalmuto. Pubblicato il libro nel 1956, ci fu in proposito anche l’affettuosa testimonianza dei compaesani, felici, persino i ritratti in modo non proprio elogiativo, di riconoscersi nello scritto del loro giovane maestro. Una Racalmuto solo appena un po’ celata dietro l’omaggio a Nino Savarese e alla sua Petra (ci si tornerà), che era però luogo mitico, allegorico e integralmente letterario. Tale la Regalpetra, la Petra reale (come si può dire traendo profitto da un’accidentale omonimia) di Sciascia?  

 

Sullo sfondo della Sicilia, Regalpetra era certamente una Racalmuto in figura. E dunque una metafora, si potrebbe sentire dire per via di un altro luogo comune, anch’esso saldissimo. Sciascia stesso lo fomentò infatti sull’intera sua opera, nella maturità. No, non come metafora, va allora precisato. Regalpetra come sineddoche. Prospettata quindi da una specola metonimica, non metaforica. La parte per il tutto, in modo lampante: “Esistono a Racalmuto i salinari; in tutta la Sicilia ci sono braccianti che campano 365 giorni, un lungo anno di pioggia e di sole, con 60.000 lire; ci sono bambini che vanno a servizio, vecchi che muoiono di fame, persone che lasciano come unico segno del loro passaggio sulla terra – diceva Brancati – un’affossatura nella poltrona di un circolo. La Sicilia è ancora una terra amara. Si fanno strade e case, anche Regalpetra conosce l’asfalto e le nuove case, ma in fondo la situazione dell’uomo non si può dire molti diversa da quella che era nell’anno in cui Filippo II firmava un privilegio che dava titolo di conti ai del Carretto e Regalpetra elevava a contea”. 

Metonimica e non metaforica toccava del resto di essere a un’opera in cui si trovano “la ricerca documentaria e addirittura la denuncia”: così una recensione a caldo di Pier Paolo Pasolini. E – sempre parole di Pasolini – le concretava “in forme ipotattiche, sia pure semplici e lucide: forme che non soltanto ordinano il conoscibile razionalmente (e fino a questo punto la richiesta marxista del nazionale-popolare è osservata) ma anche squisitamente: sopravvivendo in tale saggismo il tipo stilistico della prosa d’arte, del capitolo”. Suona oggi buffo, questo minuscolo brano di prosa critica, non solo per l’inciso, ma soprattutto per esso. “Richiesta”, “marxista” e, correlativamente, “nazionale-popolare”, “osservata”: non c’è parola che vi ricorre che non meriterebbe un commento. Li si scioglie tutti qui in un sorriso: anche quanto a Pasolini, del resto, e non solo al Pasolini di allora, parlare di ironia si potrebbe solo per ironia. In una lettera privata i modi erano naturalmente meno trinariciuti e il poeta delle Ceneri di Gramsci aveva già scritto a Sciascia “ti ringrazio per il tuo bellissimo libro: ma veramente bellissimo. Non solo mi è piaciuto del piacere normale che danno le opere riuscite e necessarie, ma ha aumentato ancora, ed era già molta, la simpatia che avevo per te, fino a un vero, forte e commosso, senso di fraternità”.

 

Marcata dalla metonimia si può dire sia stata anche la vicenda della composizione di questa prima uscita di Sciascia sul palcoscenico della cultura letteraria nazionale. Tutto nacque da certe “Cronache scolastiche”. Tornato nella nativa Racalmuto dalla Caltanissetta degli studi e della maturazione di orientamenti politici e intellettuali, Sciascia vi faceva il maestro. Teneva frattanto in costante esercizio quella penna che, sin dall’adolescenza, gli aveva assicurato la considerazione degli insegnanti, il successo scolastico e alcune collaborazioni editoriali. Queste lo avevano già messo in contatto con importanti figure della cultura nazionale del Dopoguerra. 

Dalla riflessione sul suo lavoro, nel 1955 era venuto fuori uno scritto che tesseva narrativamente una materia documentaria, presentandola come viva testimonianza in prima persona. Aveva inviato le sue pagine a Italo Calvino, con la speranza che Einaudi ne facesse un volume dei Gettoni, la collana ideata e diretta da Elio Vittorini. L’esiguità impedì tale destinazione e così Calvino girò lo scritto a Nuovi argomenti, la rivista fondata un paio di anni prima da Alberto Carocci e da Alberto Moravia, che lo pubblicò subito. Lì lo lesse Vito Laterza che, battendo sul tempo un Vittorini divenuto frattanto anche lui vigile in proposito, suggerì a Sciascia di costruirci intorno un libro che trattasse, per quadri, della vita di un paese siciliano. 

 

 

A dire quanto un tema siffatto fosse percepito come esotico e potesse parere di conseguenza interessante nell’Italia culturale e della vita pubblica dei primi Cinquanta, basta un indizio linguistico minuscolo e apparentemente lontano, ma loquace. L’ENI di Enrico Mattei si stava affacciando in Sicilia, prospettando le rituali “magnifiche sorti e progressive” nella correlata propaganda nazionale e per la voce a commento di un reportage del cinegiornale dell’Istituto Luce gli abitanti dell’isola erano regolarmente “quelle genti”: caso esemplare dell’uso del dimostrativo come marca di distanziamento. Con la costruzione in Sicilia di impianti per la raffinazione del petrolio nord-africano e medio-orientale, si sarebbero aperte a “quelle genti” le vie del progresso e della modernità, diceva appunto il cinegiornale, alternando a scorci commiserevoli di qualche assolata Regalpetra immagini, altrettanto assolate, di fervidi lavori in corso.

Laterza seguì poi personalmente e indirizzò la composizione del libro sollecitato al giovane Sciascia, con modi che gli avrebbero assicurato la duratura gratitudine dello scrittore. Suggerì anche l’evocativo titolo. Accolse il toponimo di fantasia proposto dall’autore ma scartò le combinazioni con cui questi pensava di servirsene. Le parrocchie di Regalpetra giunse così in libreria nel volgere di un anno. A comporlo, intorno a “Cronache scolastiche”, l’amaro e sconsolato diario di un maestro davanti al lamentevole stato dei suoi ragazzi in un contesto di arretratezza sociale, economica e culturale, furono altre sette prose, che divennero otto nel 1963, per una nuova edizione. 

 

“La storia di Regalpetra”: dagli Arabi al Dopoguerra, con focalizzazione, in chiave accesamente anti-nobiliare, sulla lunga stagione di angherie imposte alla cittadina dalla famiglia del Carretto, nobilitata dagli Spagnoli; “Breve cronaca del regime”: su fasti e caduta del Fascismo, nell’esperienza di Sciascia, a Racalmuto e a Caltanissetta; “Il circolo della concordia”: una tipica istituzione della società paesana, palestra ideale per il bozzettismo del narratore; “Sindaci e commissari”: Regalpetra nelle turbolenze della Liberazione e del primo Dopoguerra, con gli intrallazzi e, tra prevaricazioni e attitudini malavitose, l’affermarsi dei partiti politici; “I parroci e l’arciprete”: per metonimia, la prosa che certamente innescò in Laterza l’idea del titolo complessivo, con figure e relativi aspri conflitti nella gestione della devozione popolare e degli orientamenti politici della cittadina; “I salinari”: lo scritto più apertamente sociale del libro, sulle condizioni dei lavoratori delle saline e sui correlati nella vita del borgo; “Diario elettorale”: la Democrazia cristiana e gli altri partiti, nella Sicilia e, in particolare, nell’Agrigentino di quegli anni. Come si diceva, aggiunta nel 1963, “La neve, il Natale”: la cittadina e, di nuovo, i ragazzi alla luce di una situazione meteorologica inusuale, per Regalpetra, e straniante, tale perciò da acuirne i tratti permanenti. 

Da esotici che erano allora, tutti temi oggi inattuali e resi ineluttabilmente tali da ciò che nei quasi settanta anni frattanto trascorsi è accaduto a Racalmuto, per metonimia (e quindi in Sicilia, in Italia, nel mondo). Generosamente inattuale suona anche la conclusione della premessa alla raccolta: a Regalpetra, scriveva Sciascia nel 1956, “è come se la meridiana della Matrice segnasse un’ora del 13 luglio 1789, domani passerà sulla meridiana l’ombra della Rivoluzione francese, poi Napoleone il Risorgimento la rivoluzione russa la Resistenza, chissà quando la meridiana segnerà l’ora di oggi, quella che è per tanti altri uomini nel mondo l’ora giusta” (il corsivo è dell’autore). Sciascia morì, come si sa,  in perfetta coincidenza con la fine del suo secolo, il secolo breve. Di ciò che ne sarebbe seguito, vide solo qualche annuncio. Ma fece di certo in tempo a rendersi conto di quanto l’arrivo di un’ora di oggi, da lui sperato e invocato in gioventù, stava rivelandosi equivoco, se non pernicioso, a Regalpetra non meno che altrove. A maturare la difficile convinzione che l’ora di oggi, solo in modo diverso da quella di ieri, resta sempre e ovunque un’ora profondamente ingiusta e come si deve sempre essere preparati all’eventualità che quella di domani lo sia ancora di più.

 

E la mafia? Nelle Parrocchie di Regalpetra, la mafia c’è, ma ancora soltanto come basso ostinato. Di lì a poco, sarebbe invece divenuta Grundthema della produzione d’invenzione di Sciascia, cioè dei romanzi che ne avrebbero fatto una celebrità, ben al di là della cerchia dei letterati, con tutto ciò che forse di non interamente positivo, per lo scrittore, certo, non per l’uomo (o anche per l’uomo?), la celebrità avrebbe trascinato con sé.

La pubblicazione del suo primo libro consacrò comunque e immediatamente il giovane maestro di Racalmuto come figura di rilievo del panorama culturale e letterario nazionale. La lista già stilata (peraltro, qui necessariamente solo parziale) di chi manifestò interesse per l’opera sin dal suo stato embrionale e ne favorì, determinò e salutò la pubblicazione rende appunto superfluo recare ogni ulteriore spiegazione di tale repentina consacrazione. È d’altra parte fuor di dubbio Sciascia sapesse scrivere e sapesse farlo al di là dei temi sociali, morali, politici di cui, per fare ciò che meglio sapeva, fin da allora si votò, ma di cui, nella sua successiva vicenda di personalità pubblica, c’è da chiedersi se la sua penna non abbia talvolta finito invece per diventare ostaggio.

 

Come si sa, a Roland Barthes si deve, proprio a cavaliere tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, l’individuazione di una moderna dicotomia o, forse meglio, di una dicotomia che prese una configurazione particolarmente rilevante e meritevole di attenzione critica nel mondo moderno: quella tra l’écrivain e l’écrivant. L’uno “travaille sa parole et s’absorbe fonctionnellement dans ce travail”. All’attività di scrittura, l’altro pone invece “une fin (témoigner, expliquer, enseigner)”. L’uno scrive intransitivamente, l’altro transitivamente: così lo studioso francese ritenne di chiarire l’opposizione. Fece però un uso non ineccepibile della terminologia grammaticale. Meglio sarebbe stato se avesse detto tipico per l’écrivain l’uso marcato e assoluto di scrivere, per l’écrivant quello non marcato e non assoluto.

In Sciascia, le due figure convivevano ma l’écrivain prevalse di norma sopra l’écrivant. Così accadde fin dal suo primo libro. Di conseguenza, quel “po’ di fede nelle cose scritte” che (lo si diceva in esordio) Sciascia dichiarò allora con lampante litote di nutrire e nutrì per la sua vita intera non era forse isomorfa a quella che, per sua testimonianza, possedeva grandemente “la povera gente” di Regalpetra. Questa era infatti convinta che “un colpo vibratile ed esatto della penna bastasse a ristabilire un diritto, a fugare l’ingiustizia e il sopruso” e, con tale convinzione, poneva l’accento sullo scopo. Al di là dello scopo e in modo assoluto, “vibratile ed esatto” era tuttavia quanto stava gerarchicamente in primo piano dal punto di vista di Sciascia écrivain, a dire non solo come, ma anche cosa il colpo di penna veramente fosse o potesse aspirare a essere.

 

Si trattava peraltro del punto di vista di uno scrittore la lingua del quale era nata e s’era nutrita sui libri, fino a diventare robusta come appare sin dalla sua prima sortita. Lo si sa, lo si dice, ma forse si trascura il rilievo estetico e correlativamente morale di tale circostanza. Non poteva essere diversamente, allora, per un giovane siciliano la cui cultura e, in maniera correlata, il cui gusto, il cui sentimento della lingua s’erano formati ed erano cresciuti tra le due guerre novecentesche e rigorosamente tra Racalmuto e Caltanissetta. Di sé e della sua formazione nell’arte della lingua scritta, Sciascia l’avrebbe detto dieci anni dopo la pubblicazione delle Parrocchie di Regalpetra, nell’introduzione a una riedizione del quel suo libro d’esordio.

 

Col pretesto di spiegare perché Regalpetra, presentò la cosa come una confessione collaterale ma tale da stupire qualcuno: “il nome del paese, Regalpetra, contiene due ragioni: la prima, che nelle antiche carte Racalmuto […] è segnata come Regalmuto; la seconda, che volevo in qualche modo rendere omaggio a Nino Savarese, autore dei Fatti di Petra. Di questa seconda ragione molti, forse, si meraviglieranno: ma a parte l’affezione che ho sempre avuto per l’opera di Savarese, e specialmente là dove tocca i miti e le storie della terra siciliana, debbo confessare che proprio sugli scrittori «rondisti» – Savarese, Cecchi, Barilli – ho imparato a scrivere. E per quanto i miei intendimenti siano maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un tale esercizio”. Un passo a suo modo esemplare, per esercitarsi pur se modicamente con la nozione freudiana di Verneinung. Soprattutto dove, in modo concessivo, vi si parla di “intendimenti [...] maturati in tutt’altra direzione”, rispetto agli scrittori rondisti, da parte di chi, svelando una colpa o una tabe, pare volersene dire un dì tocco ma ormai esente o guarito. Sarebbe difficile dire però in quale direzione diversa, quanto alla scrittura di Sciascia e quindi in ciò che concerne il suo essere écrivain. Ben al di là dei temi, forse non effimeri, ma certo transeunti, Le parrocchie di Regalpetra offre infatti ancora alla lettura, qui vivamente raccomandata, l’ormai raro godimento di una prosa letteraria di grande qualità.

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Sciascia Trenta
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La letteratura italiana nel nuovo millennio

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L’iniziativa di Paolo Grossi di dedicare un intero numero di «Cartaditalia» (n. 5, 2019) a un bilancio complessivo sulla letteratura italiana del nuovo millennio è encomiabile; e altrettanto dicasi per il lavoro compiuto dal curatore Emanuele Zinato e dagli altri autori, Morena Marsilio, Marianna Marrucci e Valentino Baldi, che hanno scritto rispettivamente sullo stato della narrativa, della poesia e della saggistica. Nel confuso e disgregato panorama attuale abbiamo più che mai bisogno, per orientarci, di criteri, mappe, bussole; e poiché negli anni passati sono uscite svariate sintesi – ultime, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea di Gianluigi Simonetti (Il Mulino 2018) e Il romanzo contemporaneo. Dalla fine degli anni Settanta a oggi di Carlo Tirinanzi De Medici (Carocci 2018) – un ragionamento d’insieme è più che benvenuto. Soprattutto, mi pare importante mettere al centro della discussione il problema del valore, che è come dire il problema della gerarchia dei valori. Quali sono gli scrittori, quali le opere di maggior rilievo della letteratura duemillesca? 

  

Nel campo della narrativa, la prima osservazione che occorre ribadire riguarda una questione di cornice, cioè la contrazione dei tempi. Oggi si pubblica molto, moltissimo; nessuno è umanamente in grado di padroneggiare il quadro. Inoltre – e questo è il punto decisivo – delle nuove uscite si parla per un tempo ridotto, perché l’avvicendamento sugli scaffali dei librai è incalzante e ininterrotto. Ora, quando parliamo di valore letterario possiamo avere l’illusione che il problema stia nell’individuarlo, nel riconoscerlo. Il compito della critica sarebbe di identificare e cogliere il valore, dove esso già si trova: un’attività diagnostica, per dir così. Nelle epoche di crisi e di trasformazione, poi, il valore assume i connotati di una malattia rara: tende a celarsi, a acquattarsi negli anfratti, quasi giocando a nascondino con la critica. Ma le cose, a mio avviso, stanno diversamente. Il valore non è un dato: è un prodotto. Non è qualcosa che si trovi bell’e pronto, è qualcosa si costruisce. Ed è il risultato di un’attività collettiva, alla quale partecipano, a diverso titolo, il pubblico dei lettori, le diverse categorie di esperti (agenti, editori, critici, accademici, insegnanti), nonché gli scrittori medesimi, che non fermandosi a un unico libro possono trarre profitto dall’accoglienza ricevuta anche in termini qualitativi, oltre che quantitativi.  

 

Detto altrimenti, la questione fondamentale, più che l’identificazione dei valori, consiste nel processo di valorizzazione. Quando viene pubblicata un’opera, il critico comincia a metterne in luce connotati e caratteri, ai quali attribuisce un segno positivo o negativo. Tale valutazione dovrebbe incontrarsi e interagire con le opinioni di altri; dovrebbe essere sottoposta a verifica, dopo qualche tempo (il proverbiale banco di prova della seconda lettura); dovrebbe intrecciarsi con la risposta dei lettori; dovrebbe infine ripercuotersi sull’attività stessa di chi scrive. Nel corso di questa vicenda – e potremmo ben dire: di questo dialogo a più voci – dovrebbero acquistare evidenza alcuni tratti distintivi, attorno a cui si coagulano sia apprezzamenti e consensi, sia indugi problematici e perfino considerazioni controverse, purché abbastanza ben messe a fuoco da tener desta l’attenzione. E poiché il divenire non conosce pause, nuove schiere e nuove leve di lettori e critici saranno nel frattempo entrati in gioco, ciascuno con le proprie esigenze e aspettative: sì che le valutazioni si consolidano, orientano le tradizioni, sedimentano – infine – nei canoni. Mutevoli a loro volta, beninteso: la storia non si ferma. Ma per intanto, non dimentichiamoci che quarant’anni fa Primo Levi non era un autore canonico, mentre Calvino cominciava appena a diventarlo; e che c’è stata un’epoca in cui Alfredo Panzini era più apprezzato di Giovanni Verga. 

 

Ora, perché un processo di valorizzazione abbia luogo, sono necessari certi tempi, che sono appunto ciò che oggi sembra mancare. Le novità si bruciano troppo in fretta; i confronti scarseggiano, o sono troppo precipitosi; le opere promettenti sono penalizzate dalla difficoltà a rimanere abbastanza a lungo entro il raggio d’interesse dei commentatori. La tendenza alla piattezza e all’omologazione, spesso lamentata dalla critica, dipende anche dalla distanza eccessiva da cui le opere sono sogguardate. Dopo tutto, una narrazione è una narrazione, e tutte le narrazioni, in quanto tali, si assomigliano. Certo, è possibile che una speculare contrazione dei tempi si verifichi sul versante della produzione dei testi. Capita – non sempre, ma non di rado – di leggere un’opera riportando l’impressione che l’autore non ci abbia lavorato abbastanza; e, allo stesso modo, è possibile che l’intervento editoriale sui dattiloscritti in lavorazione si esplichi più nell’applicazione meccanica di criteri generali che non nel tentativo di comprendere la legge interna del singolo testo, a volte anche al di là della consapevolezza degli autori (questo, non altro, sarebbe il lavoro dell’editor). Sta di fatto che l’effetto complessivo della contrazione dei tempi è una fomentazione dell’effimero: donde l’immagine tuttora piuttosto sfocata della narrativa non di oggi, ma degli ultimi due o tre decenni. Dopo la fine del Novecento – che a mio avviso si è consumata, nella letteratura italiana, con un decennio di anticipo sulla scadenza cronologica – i valori sonno rimasti piuttosto fluidi, i borsini instabili. Né mi pare appropriato insistere sul divario (stavo per dire: sullo spread) rispetto alla narrativa in lingua inglese o spagnola, se è vero che la base dei parlanti è di sette o otto volte superiore a quella degli italofoni. 

 

 

La seconda considerazione che vorrei fare riguarda il ruolo della scuola. A ben vedere, l’immagine della narrativa italiana del Novecento è stata sensibilmente condizionata dal varo di collane destinate al nuovo pubblico della scuola media unificata, istituita all’inizio degli anni Sessanta: le «Letture per la scuola media» di Einaudi, «Narratori moderni per la scuola» di Bompiani, «Airone» di Mondadori. E del resto, la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, prototipo e pietra di paragone di ogni canone letterario nazionale, nasceva dalla richiesta dell’editore Morano, convinto della necessità di un manuale scolastico per la nuova Italia. Sulle proposte editoriali odierne non sono aggiornato, ma credo di non sbagliare dicendo che nessuna collana è finora riuscita a lasciare davvero un segno. Proprio dei nostri tempi è semmai un altro fenomeno, sintomaticamente diverso: la periodica proposta di serie di classici contemporanei in vendita in edicola, in allegato a questo o quel quotidiano. Di nuovo, a dominare è l’accorciamento dei tempi: un volume a settimana, migliaia di copie vendute (buona cosa, sia chiaro), ma nessun investimento su una possibile durata. Anziché sui lettori potenziali – i ragazzi – si punta sui lettori esistenti, per lo più di età avanzata (tali sono, ormai, i frequentatori delle edicole). Ma forse varrebbe la pena di riprovare. Forse le case editrici potrebbero sforzarsi di selezionare un numero ristretto di libri sui quali scommettere: non per le adozioni scolastiche in senso stretto, ma per le letture consigliate, a qualunque titolo (per l’estate, ad esempio). Escludendo, va da sé, i libri troppo voluminosi: che forse (chissà) potrebbero trovare spazio in una collana ad hoc per chi è diventato già un lettore convinto.

 

Un’ultima nota di carattere metodologico. Nelle pagine di «Cartaditalia» – e ancor più nel dibattito che ne è seguito nei locali dell’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles – séguita ad aleggiare lo spettro di una logica di mercato considerata come intrinsecamente perniciosa. Una connotazione limitativa o censoria pesa su ogni occorrenza dell’aggettivo «commerciale», in sistematica antitesi con le ragioni dell’arte. Ora, a me pare che sarebbe utile farla finita una volta per tutte con una concezione del mercato così piatta e semplicistica. Noi viviamo in un’economia di mercato: tutti – scrittori, editori, librai – aspirano alla diffusione dei prodotti che contribuiscono a mettere in circolazione. Certo, ci sono differenze di qualità: chi lo nega? Ma lo stesso accade, che so, con gli abiti, o con gli alimentari. «Mercato» è sia la merendina confezionata o l’affettato in busta del discount, sia il dolce di pasticceria o l’insaccato che il salumiere competente insiste per tagliare a coltello e non a macchina. E attenzione: non si opponga l’artigianato alla grande industria, perché dipende tutto dal tipo di prodotti che prendiamo in considerazione. Nessun apparecchio televisivo, nessuna cassa acustica, nessun trapano elettrico è frutto di lavoro artigianale nel senso letterale della parola. Un mercato unico, indifferenziato, omogeneizzato, semplicemente non esiste. L’editore che pubblica libri mediocri non sta obbedendo a una logica di mercato: si sta solo indirizzando a un certo segmento del mercato, e non è affatto detto che ottenga i risultati che si augura, specialmente se ha confuso un segmento di mercato con un altro.

 

Cosa che accade, temo, molto più spesso di quanto non si pensi. Del resto, i bilanci delle case editrici, delle grandi specialmente, sono lì a testimoniarlo.

La demonizzazione del mercato ha però anche un risvolto di carattere propriamente critico, perché tende a obnubilare un dato importante. In campo culturale, molte innovazioni – la maggior parte delle innovazioni, anzi, se non tutte – vengono dal basso. Gli artisti le vagliano; ne raccolgono alcune, che elaborano e perfezionano; grazie quest’opera, gli esiti migliori potranno trovare dimora stabile anche nella produzione più raffinata. Questa è la storia della modernità, dall’avvento del romanzo allo «sdoganamento» dei generi popolari, dal successo del melodramma all’esplosione contemporanea della canzone. Perché se è vero, come asseriva Montale, che il gran semenzaio della poesia è la prosa, è vero altresì che la pépinière della narrativa è la produzione di intrattenimento. Peraltro, l’idea (condivisa da molti) che l’intrattenimento sia diventato la cifra dominante della letteratura attuale mi sembra infondata.

 

Non c’è motivo di pensare che i lettori, le lettrici, specie le giovani lettrici, non cerchino nei libri qualcosa di importante per la loro vita. In quali libri le cercano, naturalmente, è un discorso diverso: assai meno facile, peraltro, di quanto può sembrare – soprattutto a chi si appaghi della tradizionale tripartizione fra highbrow, middlebrow e lowbrow (implicitamente riecheggiata anche da Zinato), che, al pari della condanna indiscriminata dell’industria culturale, ha avuto un senso qualche decennio fa, ma oggi come oggi temo non serva a molto. Per rendere ragione dell’articolazione della letteratura attuale occorrono tassonomie alternative. Bisogna pensarci, sul serio. E poiché uno dei maggiori pregi di questo numero di «Cartaditalia» è che propone dei nomi, se questa discussione andrà avanti – come mi auguro – occorrerà entrare nel merito, e ponderarli con attenzione. Senza illudersi che il giudizio di chi scrive nel 2019 o nel 2020 su quanto è accaduto dal 2000 in poi sarà condiviso dai lettori del 2030 o del 2040.  

 

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Matteo Marchesini, Io romantico

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Franzobel, La zattera della Medusa

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18 luglio 1816: nel mare al largo della Mauritania il brigantino Argus avvista tra i flutti un relitto alla deriva. Avvicinandosi, i marinai vedono che – aggrappati a quello scampolo di assi di legno – ci sono i corpi consunti di quindici uomini, da tredici giorni alla deriva in mare, preda della fame, della sete, delle onde. Sono gli unici superstiti dei 147 passeggeri saliti a bordo di una zattera messa su alla bell’e meglio dopo che la nave francese Medusa si è arenata nelle sabbie africane d’Arguin. Mentre i superstiti raggiungono Parigi, la loro storia scuote e interroga l’opinione pubblica: cosa è successo su quella zattera? Come hanno fatto a resistere? E soprattutto: cos’è successo agli altri? 

 

Questo il plot, ferocemente giallistico, di LaZattera della Medusa, ultimo corposo romanzo di Franzobel (pseudonimo dell’austriaco Franz Stefan Griebl, una fra le voci più popolari della narrativa in lingua tedesca), da poco uscito per il Saggiatore. Un romanzo carnevalesco e polifonico, grottesco e sgraziato – una sinfonia animalesca intorno a un interrogativo tanto irraggiungibile quanto squisitamente pop: a quali abissi d’orrore può spingersi la natura umana una volta isolata dalla civiltà e pressata dal bisogno? Il tema del cannibalismo è, ovviamente, il centro del discorso, e lo è fin dalle reazioni dei contemporanei ottocenteschi, che intorno alla zattera della Medusa costruirono uno fra i primi grandi casi mediatici dell’età moderna. Ecco cosa scrive il ministro della marina francese, il generale Bouchage, al re Luigi XVIII: “Risparmio a Vostra Maestà la descrizione delle orribili scene causate dalla fame e dalla disperazione accadute su quella zattera.

 

E risparmio a Vostra Altezza serenissima anche la descrizione delle spaventose atrocità che sono state commesse in tredici giorni di abbandono. Al contrario mi rammarico profondamente che i giornalisti abbiano svelato dei fatti che sarebbe stato molto meglio tenere celati per sempre all’umanità”. L’orrore e il desiderio, la diffidenza e la morbosa attrazione, il chiacchiericcio, lo shock, la vana e ipocrita invocazione del pudore: intorno alla zattera della Medusa la Francia post-rivoluzionaria conosce un nuovo connotato – forse il più violento – dell’opinione pubblica. 

Ne è prova il fatto che da quell’episodio è nata una delle più solide e vittoriose icone del moderno da noi conosciute: il celeberrimo quadro di Théodore Géricault, che ora troneggia, più fotografato di una top-model, al Louvre, è diventato la formulazione di uno dei più forti postulati del Romanticismo in cui tuttora in parte sguazziamo: nel massimo dell’orrore si ritrova una componente di bellezza; nel dolore, guardato attraverso il prisma dell’operazione estetica, si ritrova una forma di piacere. Un piacere impuro e tutt’altro che innocente: un piacere ancestrale e morboso, in cui l’ammirazione si mescola alla vergogna, e l’estasi a un tacito, feroce sollievo: grazie Signore di avermi messo in grembo alla Civiltà. In forza di questo scandaloso piacere, non privo di una certa feroce ironia, Franzobel scrive un libro compiaciuto ma non compiacente, terribile e farsesco: una scomposta e colorata pornografia del tragico. 

 

 

Ma cos’è che disturba, scandalizza, spaventa nella vicenda della zattera della Medusa? In primo luogo, il modo in cui mostra il corpo umano. Si ha un ben tessere la gloria del corpo umano come riflesso del divino e tempio dell’infinito: qui viene osservato e verificato molto, anche troppo da vicino: e l’esperimento non regge. Il corpo umano diventa qui un misero, imperfetto meccanismo, privo di qualsiasi grandezza, e anzi assillato da defezioni e bisogni, non abitato da nessuna gloria: carne, macelleria di basso rango. La diabolica sarabanda corporale che Franzobel mette in scena – malformazioni, pustole, mutilazioni, secrezioni, clisteri, feci, umori – non serve che a un’incessante degradazione del fisico a cruda materia. La gente inizia a cadere in acqua, a impazzire, a uccidere e a morire, e man mano che passa il tempo tutto questo diventa sempre meno significativo, e paradossalmente tanto più insignificante quanto rovinoso: quello che deve succede succede, le barriere cadono rapide una dopo l’altra, è un precipizio neutro come la gravità, e per questo tanto più terribile. La natura non è melodrammatica, è meccanica. Lo sfascio è tragico solo negli occhi di guarda, ma dal punto di vista dei processi fisici, esso è un processo inesorabilmente coerente: la nave affonda, il tempo si dilata, il corpo denutrito deperisce, si aggrappa a quel che può, si nutre di quel che c’è – la mente allo sbando deraglia, la materia degrada. 

 

Ed ecco qui il secondo punto: la moralità non sembra avere nulla d’innato; è un fortunoso privilegio delle circostanze, al di sotto del quale c’è l’inferno. «Food first, then morality», ricordava Brecht. “Che ne sarà della nostra innocenza?”, si chiede uno dei personaggi. Ma il punto è proprio questo: al di sotto di un certo livello di soddisfazione dei bisogni primari, c’è il caos. La civiltà borghese, con tutti i suoi squilibri, assume qui di riflesso un valore teologico: diventa la linea che ci separa dal divorarci l’un l’altro come naufraghi affamati, la barriera che ci divide da quegli Estranei che noi stessi potremmo diventare gli uni per gli altri. Per questo, pur essendo uno straordinario e dettagliatissimo romanzo di mare, non associamo La zattera della Medusa solo ai capisaldi della narrativa di mare – Stevenson, Melville, Conrad – e a grandi affreschi di naufragi cinematografici – Titanic, The Terror – ma anche a certe grandi allegorie sperimentali, come Il battello ebbro di Rimbaud o Il naufragio del Deutschland di Hopkins. 

Poche epoche più della nostra hanno avuto una tale familiarità col tema e le immagini dell’apocalisse: tuttora conviviamo agevolmente e quotidianamente a stretto contatto con svariate immagini della fine.

 

È probabile che in questo ci sia una certa dose di civetteria nera, quella truculenta ironia che rende la nostra società insieme tanto cinica e tanto vulnerabile. Ma è forse vero anche quello che di recente ha scritto a proposito di un’altra di queste immagini – forse non così lontana da quella della zattera della Medusa – e cioè quella dell’apocalisse climatica: «È sbocciata in alcuni ambienti anche una naturale e profonda attrazione verso l’apocalisse. Nutriamo un certo fascino per la fine, siamo sedotti dalla tragedia suprema perché rende prevedibili le minacce pendenti a mezz’aria, dà un nome alla nostra mortalità, dà un volto concreto alle nostre fobie; l’ansia dell’incertezza svanisce». 

Forse varrà quindi la pena ricordare che alla Medusa – quella della mitologia greca – viene tagliata la testa a causa di un troppo vedere: e cos’è quel “troppo”, se non la propria stessa immagine allo specchio? 

 

Franzobel, La zattera della Medusa, Il Saggiatore, Milano 2019 (Paul Zsolnay Verlag, Wien 2017), pp. 544, 25 €. 

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Gombrowicz o l’immaturità è il nostro destino

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Il 24 luglio del 1969 moriva a Vence Witold Gombrowicz. E a Vence è seppellito. 

Dopo aver vissuto l’infanzia e l’adolescenza tra i possedimenti terrieri del padre e Varsavia (era nato nel 1904 a Maloszyce, a duecento chilometri dalla capitale) e aver pubblicato una raccolta di novelle, Ricordi del periodo della maturazione nel 1933 e il suo primo romanzo, Ferdydurke nel 1937, sbarcò quasi per caso a Buenos Aires, dove lo scoppio della seconda guerra mondiale lo «bloccò» per circa ventiquattro anni. In effetti, la sua lunga permanenza in Argentina si deve meno a un blocco navale che a una sovrana indifferenza nei confronti dei destini del mondo. Non che gli fossero indifferenti le tragedie degli uomini. È che, da uomo concreto, non sopportava gli uomini che per servire una causa, giungevano al martirio, respirando inebriati le idee di Patria, Nazione, Popolo, Arte… Non sopportava nessun genere di impegno, a destra come a sinistra. Un’arte esplicitamente moralizzatrice o devota a nobili sentimenti per lui era un semplice controsenso: «Il vuoto? L’assurdo dell’esistenza? Il Nulla? Non esageriamo! Un Dio o degli ideali non sono necessari per scoprire il valore supremo. Basta restare tre giorni senza mangiare affinché un pezzo di pane diventi tale valore; i nostri bisogni sono alla base dei nostri valori». Non soffriva neppure “gli anticomunisti” di mestiere o i “dissidenti” di professione. Ne conobbe molti, soprattutto fra i suoi compatrioti, ai quali non risparmiò il suo feroce sarcasmo. Anche per questo, come per molti altri aspetti, la lettura del suo Diario, scritto tra il 1953 e il 1969, è oggi, post rem, estremamente rigenerante. Così come il suo Testamento (1968) scritto in collaborazione con Dominique De Roux.

 

Probabilmente in molti di quegli uomini Gombrowicz vedeva manifestarsi storicamente ciò che esistenzialmente aveva scoperto scrivendo il suo primo romanzo: che, cioè, l’uomo tende come un arco verso la Maturità, ma la freccia che quell'arco scocca e che inevitabilmente lo trafigge è quella dell’Immaturità. L’uomo che serve un’idea, un valore, qualcosa di molto più grande di lui, dissimula la sua stessa Immaturità e cade nella protervia e nella prepotenza dell’uomo di idee, di convinzioni. Cade cioè nell’infantilismo.

Mi viene in mente che in uno dei miei pellegrinaggi alla sua tomba, un mattino sentii delle urla invadere la quiete: al di là della siepe del cimitero c’era una scuola materna. Il creatore di Ferdydurke, anche da morto, era condannato a perpetuare la sua lotta. 

Ricordate Shakespeare? «All is ripness». Tutto è maturità. Come raggiungerla? 

Tutti i ferdydurkiani del mondo sanno che si tratta di una lotta infinita perché l’uomo si pensa sempre più intelligente di quel che è: «Più si sa, più si è stupidi». E così facendo non fa i conti con quanto riesce davvero ad assimilare. In altre parole, non fa i conti con ciò che lo forma, costantemente, senza tregua. Da sempre l’uomo è un creatore di forme. È perfino ciò che contraddistingue la sua natura rispetto a quella delle altre specie. Tuttavia, è allo stesso tempo un essere sociale e politico, il cui spazio d’azione è inevitabilmente «interumano». Tutti i nostri modi di esprimerci, di manifestare i nostri sentimenti, i nostri pensieri o le nostre opere sono formati e deformati da coloro con cui entriamo in contatto. Anche quando siamo soli ci specchiamo negli altri. La pace dell’essere ci è proibita, perché non smettiamo di divenire, di dare forma a noi stessi a seconda delle situazioni. 

 

Gingio, il personaggio protagonista di Ferdydurke, a trent’anni si ritrova, grazie al professor Pimko, tra i banchi di un liceo. Deve constatare che il suo stato civile non ha più importanza. Il professor Pimko, gli altri studenti, il preside lo trattano come un adolescente. Il suo aspetto esteriore si è trasformato oppure il mondo è impazzito? Che fare? Quale dei due aspetti prenderà il sopravvento: l’immaturità o la maturità? Questa è la vera domanda, e su questa domanda si fonda il romanzo di Gombrowicz. Gingio attraverserà il mondo cercando una risposta: le tre tappe della sua avventura sono il liceo, la famiglia borghese dei Giovanotti e il castello di campagna. Nessuno lo aiuterà, nessuno si interesserà davvero alla sua ricerca d’identità. Un po’ quello che capita al personaggio di Rabelais, il grande progenitore, di cui Gombrowicz resterà sempre un lettore appassionato: Panurge non sa se sposarsi o no. Chiede responso a professori, a preti, a signorotti, a massaie, a chiunque, ma nessuno sa dargli una risposta. Nessuno è in grado di indicargli una strada per la maturità, che Panurge, innocentemente, pensa di potersi conquistare prendendo moglie.        

 

 

In effetti, l’esistenza, per Gingio, è un eterno «periodo di maturazione». L’immaturità è il destino dell’uomo: non sa perché è qui, in questo mondo, proprio in questa epoca e non in un’altra, non sa dove sta andando, l’avvenire è un enigma, il passato è corroso dalle termiti dell’oblio, la creazione è un mistero, la vita è una continua sorpresa. Quando ripete o ricorda un’esperienza non è mai sicuro di provare le stesse sensazioni, di conoscere meglio se stesso. La ripetizione di un evento non gli permette di elaborare una qualunque verità. Al contrario, Gingio è condannato a ripetersi in un eterno presente senza mai poter accedere al suo essere più profondo. Quasi fosse sprovvisto di memoria, è dominato dal demone del presente e dalla demoniaca presenza degli altri. Il suo corpo e la sua mente sono un campo di battaglia: è un essere in formazione o meglio in deformazione permanente, la sua forma dipende sempre dagli altri, deve sempre lottare per la sua maturità, ma allo stesso tempo combattere tale aspirazione che è in grado di infantilizzarlo. L’immaturità di Gingio è comica, ma l’uomo ferdydurkiano è tragico. Per Gingio non c’è tempo, non c’è pace, non c’è intimità, non c’è amore, non c’è nemmeno vera solitudine.

E non c’è scampo. Per tutto il romanzo il protagonista corre da un luogo a un altro, da una situazione all’altra, da un volto all’altro. Il romanzo finisce e Gingio sta ancora correndo. Come se Gombrowicz avesse presentito che la Storia avesse cominciato a quell’epoca del XX secolo – epoca di propaganda, di militarizzazione, di grandi miti (Violenza, Guerra, Gioventù), di scoperte tecniche al servizio di uomini in uniforme – a correre a una velocità superiore a quella dell’esistenza e che l’individuo in futuro sarebbe stato costretto a essere sempre in ritardo, sempre più incapace di lottare per la sua maturità, sempre più giovane, sempre più infantilizzato: un infante estasiato dalla velocità con cui la tecnica cambia il volto della Storia rendendolo irriconoscibile ai suoi stessi occhi di adulto.   

 

Ed è quel che è successo negli ultimi cinquant’anni. Dalla morte di Gombrowicz.

Invece di fare i conti con la forma, con il fatto che non siamo esseri mai completamente formati, l’uomo, in nome dell’unica religione che gli è rimasta, il progresso tecnico, si è messo a formalizzare sempre di più il sapere, a renderlo sempre più astratto. «Il formalismo è un nemico mortale della forma», ha scritto Gombrowicz, intendendo che ogni formalismo che non sia controbilanciato dalla coscienza che ogni nostro sapere si gioca in uno spazio «interumano», dove le nostre «zone inferiori» hanno un ruolo decisivo, è destinato a creare un Sahara esistenziale. Un Sahara post-umano, algoritmico, tecnologicamente perfetto, popolato da esseri eternamente giovani, liberi dal peso di ogni esperienza storica.         

 

«Non siamo dei, per questo scriviamo romanzi», diceva Ernesto Sabato, autore di un romanzo, Sopra eroi e tombe (1961), molto amato da Gombrowicz che, come è noto lasciò l’Argentina, salutando Virgilio Piñera e il piccolo gruppo di giovani che avevano contribuito a tradurre Ferdydurke in spagnolo, con un ironico: «Maten a Borges». 

Aspiriamo alla purezza – alla Maturità, direbbe Gombrowicz – ma il romanzo ci riporta sempre a terra! Ogni conquista romanzesca è una conquista del mondo adulto, capace di sostenere lo sguardo di fronte alla relatività delle cose e alla comprensione imperfetta che l’uomo ha di esse. Ma essere adulti, secondo Gombrowicz, è tenersi sempre a una certa distanza – un passo à côté – dalle due insopprimibili aspirazioni umane: essere dio e essere giovani, essere immortali e essere continuamente freschi come rose.  

Se il romanzo infine è per Gombrowicz un’arte e non semplicemente un genere letterario è anche perché il romanzo ha come missione quella di scoprire il mondo della prosa. La prosa, infatti, non è solo una forma del discorso distinta dalla versificazione, ma il volto quotidiano, concreto, momentaneo, «interumano», attraente proprio perché imperfetto, del mondo, alla cui continua formazione e deformazione dobbiamo restare fedeli per non cadere nell’assolutizzazione di verità tanto insostenibili quanto caduche.

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A cinquant'anni dalla scomparsa
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Levi e i sommersi

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Giovanna Borgese

Nel mese di maggio del 1986 Levi pubblica il suo l’ultimo libro: I sommersi e i salvati. L’ha pensato a metà degli anni Settanta e si è messo a scriverlo tra il 1977 e il 1978. Sono quasi dieci anni prima dell’uscita. Ha proceduto con lentezza e per accumulo, scrivendo e riscrivendo, anche se nella sua idea generale il tema gli era ben chiaro sin dall’inizio: un libro in cui ripensava a quarant’anni di distanza l’esperienza del Lager, arricchito dalle riflessioni sue e di altri ex deportati, dai libri letti e chiosati nel corso di quei decenni. Perché, nonostante tutto, Levi non si era mai staccato dal Lager. Il 12 giugno lo presenta a Milano, presso la Libreria Einaudi diretta da Vando Aldrovandi. Hanno disposto delle sedie nella piazzetta dietro la libreria, che si apre verso via Bompresso. Lo introducono Oreste Del Buono e Aldrovandi stesso. Arriva parecchia gente ad ascoltarlo, parecchi giovani, ma anche reduci dai Lager; tanti in piedi.

 

Il libro ha subito sollevato una discussione per via del suo capitolo centrale, La zona grigia. Giorgio Bocca ha usato l’espressione “zona grigia” in un suo articolo su “La Repubblica” dedicato a Kurt Waldheim, il presidente austriaco, che ha servito le SS come interprete militare durante la guerra. E questo non ha fatto piacere a Levi. A Milano va per varie ragioni, non ultima che ha parecchi amici nella città lombarda; inoltre non è troppo distante da Torino. Oreste Del Buono l’ha recensito favorevolmente su “il Corriere della Sera”. Il pezzo l’hanno titolato Il lager dei nonni, alludendo allo scarto di età tra i deportati di un tempo e le giovani generazioni attuali. Anche Del Buono, scrittore, traduttore, animatore culturale e mentore di molti editori italiani, è stato deportato in Germania. Lo dice nel pezzo, e anche in un suo libro pubblicato nel 1945, due anni prima di Se questo è un uomo: Racconto d’inverno, presso le Edizioni di Uomo; vi raccontava la vita dei deportati militari, non i campi della morte in cui era stato Levi. Del Buono ha scritto che l’esperienza del Lager “è indimenticabile”, non come incubo, “anzi, esattamente, per la ragione opposta”. L’espressione “lager dei nonni” è sua e figura nella conclusione dell’articolo, là dove manifesta un certo ottimismo di fondo: se per alcuni il Lager è stato il luogo della morte, “per altri nonni è luogo di nascita, la vera nascita. Nonostante i sospetti, nonostante le autocritiche, nonostante i pregiudizi nutriti e ostentati riguardo sé stesso, Primo Levi in I sommersi e i salvati commemora la sua nascita”. Lo scrittore torinese deve aver apprezzato questo finale.

 

Tuttavia quel giorno a Milano non sembra molto allegro; appare abbattuto, anche se come sempre disponibile e attento ai suoi interlocutori. Risponde alle domande di Del Buono e poi a quelle del pubblico. Tra loro c’è anche una fotografa, Giovanna Borgese. Conosce Levi da tempo e ha portato la macchina fotografica. Giovanna ha cominciato come archeologa, e fotografare all’inzio è stato solo un aspetto del suo lavoro; poi si è dedicata al reportage e alle foto d’attualità. Scatta diversi ritratti a Levi. Tra loro c’è questa immagine, che coglie Levi con la mano sinistra sotto il mento. Sta ascoltando un interlocutore, probabilmente lontano da lui, poiché ha alzato gli occhi verso l’alto, o forse vicino e in piedi. Si tiene il viso, non lo sorregge, tuttavia il gesto ha qualcosa a che fare con uno stato di riflessione. Non sappiamo cosa sta dicendo il suo interlocutore né quello che lo scrittore gli ha risposto. Giovanna Borgese ha afferrato quel momento di sospensione. La mano nasconde in parte il pizzetto d’alpino, che l’ha caratterizzato nell’ultimo decennio della sua vita e che gli dà quella aria di vecchio saggio. Indossa giacca e cravatta con un motivo a scacchi parzialmente replicato dalla camicia. Non è solo un vecchio signore, sta infatti per compiere, di lì a poco più di un mese, sessantasette anni. Un’età che all’epoca lo colloca tra gli anziani, come ha ricordato lui stesso in una breve e spiritosa intervista pubblicata su “Stampa Sera”: Vecchio, io?. Lo scatto di Giovanna Borgese lo coglie in un’espressione insolita di perplessità, molto spontanea. I mesi che seguiranno questa presentazione, prima della sua improvvisa scomparsa, dieci mesi, saranno segnati da uno stato di profonda depressione.

 

Dopo la sua morte, gli amici, i critici, i semplici lettori, leggeranno I sommersi e i salvati come un libro testamento. Non è così. Lo è diventato per il gesto compiuto da Primo Levi, anche se è indubbio che il libro contiene un elemento fortemente pessimistico, tenuto appena a freno dalla tensione intellettuale che percorre i vari capitoli del libro, che raggiunge punti molto alti nello stile e nel pensiero. Un libro notevolissimo soprattutto per la grande onestà intellettuale che lo connota, e che segna tutta la sua opera di testimone e di scrittore. L’immagine di Giovanna Borgese ci permette di continuare a pensarlo così, con quella perplessità giudiziosa che è una delle caratteristiche di quell’ultimo libro pubblicato da vivo.

 

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Toy Stories. Eternità e destino

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C’è una peculiarità che accomuna automobili, cuccioli e giocattoli: il fatto di passare di mano. Il cinema ha di tanto in tanto mostrato curiosità verso una tale prerogativa dei nostri oggetti di affezione, raccontando storie che ne seguissero le tracce lungo i loro cambi di proprietà. Si può ricordare, per esempio, Una Rolls-Royce gialla, (1964), in cui l’eccentrica vettura, passando di proprietario in proprietario, fa da unico trait d’union fra situazioni e personaggi assolutamente distanti, mettendo in fila un aristocratico inglese appassionato di cavalli o ancora un gangster italoamericano in vacanza, rispuntando, infine, nel bel mezzo del fronte jugoslavo durante l’invasione dei nazisti. Succede anche ai cagnolini. Un altro film, Wiener-Dog (2016) di Todd Solondz (ma ci viene in mente, in tema quadrupedi, anche il più pop Qua la Zampa!– 2017 – di Lasse Hallström), segue un bassotto fra i suoi differenti padroni, un ragazzino appena uscito da una gravissima malattia, una bizzarra coppia di coniugi affetti dalla sindrome di Down, uno sfigato professore di sceneggiatura in una scuola di cinema. Ad ogni nuovo padrone, il bassotto cambia nome, ogni volta offrendo se stesso come una tabula rasa, pronta a riempirsi di nuove storie, a diventare riflesso della vita del prossimo, senza protestare, senza gettare alcuna ombra sulla propria vita passata. 

 

“Toy Story 3. La grande fuga” (2010).


Capita qualcosa del genere anche ai giocattoli. 

Essi, proprio come automobili e cagnolini, accompagnano i propri detentori per un tempo limitato della loro vita e, una volta giunto il momento opportuno, vengono abbandonati, ceduti a nuovi soggetti, che chiederanno loro sempre la stessa cosa, ovvero di ricominciare da capo, di ricominciare a giocare, imperterritamente. I giocattoli risultano, così, portatori di un sapore dolce-amaro: da una parte, rappresentano un orizzonte di felicità e sicurezza, dall’altra, inscritto nel loro destino, c’è il fatto che devono essere abbandonati, per far posto ad altro. Questo destino dei giocattoli è il vero tema che accomuna tutti i film del ciclo di Toy Story. Essi diventano figura dell’infanzia, momento della vita sempre a repentaglio, da cui tutti i bambini prima o poi sono chiamati a venire fuori. La felicità dei bambini, fondata sulla ripetizione e sul gioco rappresenta, allora, un bene assoluto, da preservare da ogni accidente e il più a lungo possibile. Da questo punto di vista, un semplice trasloco (succede nel primo film della serie) può rivelarsi come un’incognita, pericolosissimo presagio di perdita del senso, fatalità in agguato attraverso cui il triste destino di abbandono – di bimbi e pupazzi – può eventualmente trovare il modo di compiersi. E allora tutti i film di Toy Story si presentano come storie di resistenza di fronte a una tale spaventosa prospettiva. Al contrario di quanto succede nei film dedicati ad automobili e cagnolini, infatti, la trovata dei film della Pixar sta nell’immaginare e mettere in scena una volontà autonoma dei giocattoli, un mondo in cui essi nascondano un’anima segreta, custode dell’incanto dell’esser bambini. I giocattoli, nei film in questione, pertanto, emergono non solo come silenziosi testimoni di scelte altrui quanto piuttosto come soggetti razionali e passionali, oggetti animati (il miracolo dei film di animazione!) dotati di autonomia e desideri, di memoria e identità. Ed è proprio in nome della loro memoria – del tanto tempo trascorso a giocare con il “proprio” bambino – che essi lottano, puntando tutto sulla relazione con lui, fuori dalla quale non riescono a vedere salvezza.

 

Ecco perché le storie raccontate dai film della quadrilogia si propongono come grandi narrazioni del ritorno, riproponendo sempre lo stesso schema in cui i giocattoli per un qualche accidente (il trasloco poc’anzi evocato) vengono perduti, sballottati in lungo e in largo, lontano dal loro legittimo proprietario, rischiando di venire dimenticati o, che è lo stesso, distrutti in una discarica di rifiuti. I film della serie si posizionano, così, sul registro del rocambolesco, drammatizzando le peripezie di questi soggetti-oggetti, nello scenario urbano in cui si ritrovano geworfen, heideggerianamente gettati, dovendo fronteggiare due ordini di difficoltà, quella di non dare nell’occhio, lasciando trasparire agli umani la loro autodeterminazione e autonomia, e quella di muoversi in un orizzonte fuori scala – loro così piccoli, la città così grande – pericoloso e ostile. Tutta la tensione narrativa delle toy stories si costruisce, dunque, intorno all’opposizione fra lo spazio domestico della cameretta (caldo e accogliente, sicuro) e quello della città, caotico e complesso, da cui fuggire in nome di una promessa di eterna giovinezza, garantita dall’orizzonte famigliare, al riparo da ogni pericolo. È forse questo aspetto ciò che respinge dei film: la stucchevolezza dell’altruismo e dei buoni sentimenti con cui i protagonisti-giocattoli si battono a tutti i costi per (in)trattenere il loro bambino nel loro mondo si scontra con l’esigenza di uscire fuori dalla condizione di minorità che l’infanzia stessa rappresenta, lasciandosi alle spalle ninnoli e trastulli. I giocattoli di Toy Story vorrebbero, egoisticamente, che questo tempo dorato non finisse mai e, perciò, si ingaggiano, senza tregua, per essere compagni di giochi dei loro bambini, facendosi, ogni volta, ritrovare al proprio posto, proprio dove erano stati lasciati. 

 

“Toy Story 4”, 2019.


Una caratteristica interessante di questa serie è che essa si sviluppa in un arco temporale molto lungo. Se è vero che il primo e il secondo film sono, in effetti, abbastanza vicini (il primo, Il mondo dei giocattoliè del 1995, il secondo, Woody e Buzz alla riscossa, del 1999), dovranno passare più di dieci anni perché si arrivi al terzo (La grande fuga, 2010) e altri nove fino all’ultimo, appena uscito e tuttora nelle sale. Questa evenienza non può che mettere in luce un problema di temporalità interna del film nel rapporto con i suoi spettatori. I 24 anni che ci separano dalla prima uscita dei film della serie hanno, infatti, fatto emergere il paradosso su cui si fondava il rapporto fra i due personaggi-cardine del film, Woody (il giocattolo) e Andy (il bambino). La promessa di eternità del loro sodalizio, infatti, non può che fare i conti con la disparità della loro condizione esistenziale: se il giocattolo vorrebbe ingabbiare il proprio bambino in una fanciullezza impermeabile al trascorrere del tempo, il bambino cresce e sarà lui a dover abbandonare il campo per primo, lasciando i giocattoli al proprio destino. Succede qualcosa del genere anche ai suoi spettatori. È difficile figurarsi che i bambini che nel 1995 erano stati così innamorati del primo film possano ritrovarsi nel 2019 in sala a vedere l’ultimo episodio della serie. Possiamo, allora, verosimilmente, immaginare che anche essi siano stati rimpiazzati da nuovi spettatori, nuovi bambini. Ed è, allora, in questi termini, che si pone il problema del passaggio di testimone, evocato in apertura. Il distacco non è, come sembrava nei primi due film, solo frutto dell’accidente (il trasloco!) ma è lo sbocco naturale del rapporto fra bimbi e giocattoli. Il terzo film della serie drammatizza proprio questo passaggio, mettendolo a fuoco dal punto di vista dell’ormai ragazzino Andy. Egli è ormai in età da college, non usa più i suoi giochi e deve disfarsene, con tutto ciò che una tale evenienza comporta, soprattutto simbolicamente. È la linea d’ombra fra giovinezza ed età adulta, tematica costantemente al centro della fiction della Pixar, marcata proprio dall’abbandono dei giocattoli. 

 

“Toy Story 4”, 2019.


Solo che, a ricevere in dono da Andy stesso la simpatica banda di puppies al centro delle vicende della serie, è una bambina di nome Bonnie. Nel quarto capitolo, si capisce come la circostanza di essere stato affidato a una bambina possa rappresentare un elemento di ulteriore insoddisfazione per il cowboy Woody e per l’esploratore spaziale Buzz Lightyear, giocattoli prettamente maschili. Essi finiscono velocemente nel dimenticatoio, rinchiusi nell’armadio, nonostante i tentativi di Woody di mettersi al centro dell’attenzione, “occupandosi” della sua nuova bambina. Egli la segue in asilo e la aiuta a costruire un proprio giocattolo, Forky, a partire da mezzi di fortuna, una forchetta di plastica e altri materiali di risulta. Sotto i suoi occhi si potrà, così, verificare il miracolo della vita: Woody è testimone di come questo sgarrupato giocattolo riesca a diventare, per Bonny, “vivo”, divenendo quello che egli stesso rappresentava per Andy, il suo giocattolo del cuore. Grazie a questa simmetria la fortunata formula delle precedenti avventure basata sul rocambolesco del ritorno può essere riproposta. Succederà, infatti, che il piccolo Forky verrà accidentalmente smarrito in viaggio, facendo scattare lo spirito d’iniziativa del cowboy Woody che s’intesterà di recuperarlo. Sarà, al solito, lui ad avere il polso della situazione, a motivare e coordinare la banda di giocattoli volta al suo salvataggio. In particolare, stavolta, egli sarà coadiuvato dalla sua innamorata, una statuetta femminile proveniente da una lampada da scrivania della camera della sorella di Andy, Molly, dismessa perché non più utilizzata dalla piccola. Il cui ruolo si rivelerà di grande importanza. Dopo essere stata data via, la statuetta, infatti, non riesce a trovare una vera collocazione presso qualche altro bambino, finendo in un negozio di antiquariato a prendere polvere. Per questo scappa e, per così dire, “si libera”, effettuando la sua scelta fondamentale, ovvero quella di smettere di pensarsi come la bambola di qualcuno, e, a dispetto della sua mise così compìta ed elegante, iniziando a vivere ai margini della società, in una specie di fiera itinerante, come soggetto autonomo e libero. Andy, al contrario, vive nella nostalgia. Egli sceglie di aiutare la piccola Bonnie nel nome del proprio lutto, della propria perdita, tentando a suo modo di garantire a Forky la fortuna che a suo tempo a lui era toccata ovvero quella di poter essere, per quanto più possibile, insieme al “proprio” bambino. Si capisce come, nella versione di Andy sia l’eterna metempsicosi a cui i giocattoli sono destinati, un destino veramente crudele. Egli non vuole ricominciare da capo.

 

Nella versione di Andy, se è vero che ogni giocattolo ha il suo bambino e viceversa, quando il tempo di separarsi giunge, non ci può essere modo di rimpiazzare questa perdita. Ricominciare da capo con un altro bambino sarebbe, per lui, una condanna insopportabile. Tutto ciò gli sarà ancora più chiaro a missione compiuta. Una volta restituito Forky alla sua legittima proprietaria, egli non potrà che prendere atto di come non ci possa essere più uno spazio affettivo per lui a casa di Bonnie. Di fronte a questa morte simbolica incombente, Woody troverà la forza di uscire dallo stato di minorità in cui la dipendenza da Andy lo aveva cacciato, osando uscire dall’inferno della ripetizione, della metempsicosi a cui la sua condizione di eterno piccolo lo avrebbe condannato. La sua generosità, la sua gentilezza, la sua purezza d’animo, la sua devozione verso il suo tanto amato Andy, devono fare i conti con la realtà della perdita e l’assunzione di responsabilità. Ed è questo il primo passo della sua liberazione e della sua nuova vita da giocattolo cresciuto, il primo passo oltre la linea d’ombra.

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Il corpo-modello in Martin Kippenberger e Maria Lassnig

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BODY CHECK. Martin Kippenberger – Maria Lassnig, a cura di Veit Loers presso il Kunstbau del Lenbachhaus di Monaco di Baviera, fino al 15 settembre, è una mostra a due, che il visitatore italiano, curioso di cose tedesche e austriache, ha già forse avuto modo di sezionare al Museion di Bolzano.

 

Le premesse di BODY CHECK si possono adagiare su una domanda relativamente semplice: che rapporto esiste tra la disciplina della storia dell'arte e quella della curatela? La quale genera di conseguenza: è la storia dell'arte che informa la curatela o è la curatela, in fondo, che è o deve essere autonoma? Sempre ci sia consenso – orrenda parola – su cosa si intenda per entrambe. Se la storia dell'arte è interpretata come presentazione lineare, aderente all'identità di un'epoca, di un percorso artistico, allora la curatela e la scelta eccentrica hanno il piacere di giocare il ruolo del trickster. Martin Kippenberger (1953-1997) e Maria Lassnig (1919-2014) presentano proprio questo, un lavorìo e un corpus di difficile collocazione.

Innanzitutto il nesso puramente storico della mostra a due non c'è e viene ammesso: per un breve periodo, alla fine degli anni Settanta del Novecento, Kippenberger e Lassnig vivono contemporaneamente a Berlino, ma non ci sono testimonianze dirette e inconfutabili – le cosette che piacciono a noi storici – che supportino una conoscenza diretta, più o meno amichevole, dei due. Il dialogo delle opere in mostra avviene dunque sulle relative specificità delle stesse, su analogie e differenze del rispettivo processo artistico, scegliendo la pittura come metodo generale e principale di approccio alla visione. 

Di che cosa si occupa qui la pittura? Il titolo della mostra è altrettanto chiaro: del corpo, non solo inteso come figura, dispositivo mimetico, ma anche come oggetto metaforico. Il corpo è modello, ma come questo modello – in fondo un topos fondamentale del fare artistico – viene interpretato ci si rivela in variopinte frammentazioni.

 

Elfie Semotan Maria Lassnig, 2000 © Elfie Semotan, courtesy Galerie Gisela Capitain, Colonia.


La tematica del corpo come modello è naturalmente uno dei tratti centrali di Lassnig, fatto che la critica ha sempre fatto fatica a inserire in una categoria facilmente assimilabile. Alla domanda “Se fondassi una scuola di pittura, come la chiameresti?”, Lassnig rispose: “Se esistesse: la Scuola della Pittura Drastica [drastische Malerei].” Una pittura drastica che ha bisogno del modello dal vero per mettere in moto la trasformazione pittorica, un imperativo che Lassnig ha rispettato – quasi – sempre nel suo lungo percorso. Ma, come in ogni cosa della vita, esistono anche le eccezioni, ed eccole: in mostra due dipinti dalla serie dei Kellerbilder (Die Braut badet den Bräutigam, 2005, dal Lenbachhaus, e Macht des Schicksals, 2006, dalla ISelf Collection, Londra), in cui i modelli sono da lei fotografati e poi riconsegnati alla pittura. Ed è evidente come il suo scetticismo nei confronti del medium fotografico si risolva in questi dipinti come un saggio visivo di ciò che suggerisce la pittura da quel modello: estremo artificio e figure umane ridotte a bambole e pupazzi. Vallo a dire a Gerhard Richter.

Ma il vero corpo-modello per Lassnig rimane lei stessa. Attraverso ciò che lei chiama “Körpergefühl” (sensazione corporea), l'artista utilizza il proprio sé esteriore come veicolo di indagine pittorica e scettica del proprio “Körperbewusstsein” (coscienza corporea), anticipando quindi le riflessioni di Judith Butler sul corpo e sull'identità di genere in quanto costrutti performativi e culturali. Sia che Lassnig si ponga direttamente davanti allo specchio, sia che chiuda gli occhi di fronte alla tela, sia sdraiandosi e dipingendo l'impressione che ha di sé in quella posizione, Lassnig intrattiene un rapporto col corpo che non fa del concettualismo identitario, quanto un discorso visivo deragliato sul “tradizionale” dialogo tra pittura e modello.

 

Martin Kippenberger Ohne Titel (dalla serie Das Floß der Medusa), 1996, olio su tela, 150 cm x 180 cm © Estate of Martin Kippenberger, Galerie Gisela Capitain, Colonia.


Il corpo-modello di Kippenberger è centrale in una delle sue ultime serie di lavori (1996), incentrate sulla Zattera della Medusa (1818-1819) di Théodore Gericault. Cercando, questa volta, di tralasciare l'ironia cinica di lavori precedenti, l'artista qui si “identifica” nei personaggi della zattera gericaultiana. Se forme parodiche sono presenti in questa mostra, come quelle sulla scultura di Henry Moore in Familie Hunger (1985, dalla Collezione Grässlin, St. Georgen), la loro carica eversiva è spuntata dalla banalità della scelta del soggetto – a chi interessa un commento visivo cinico su opere di artisti morti e consegnati alla storia? Eppure nella serie sulla Medusa, dunque riferendosi a un'opera ancora più indietro nel tempo, oltre il modernismo novecentesco, Kippenberger attua una trasformazione audace e potentissima, in cui invece la funzione parodica apre a diverse considerazioni. L'artista ricostruisce in studio le pose dei naufraghi e si fa riprendere dalla fotografa e moglie Elfie Samotan. Attraverso un processo di trasformazione meta-pittoriale – dall'opera storica, alla fotografia, infine alla pittura e al disegno –, Kippenberger si chiede sostanzialmente cosa rappresenti la storia per un artista e quale concezione di “contemporaneità” possa sussistere, nel momento in cui le vicende della vita e dell'occhio lo portano al Louvre e a meditare sulla forma e sulle storie realmente accadute, che inevitabilmente quel capolavoro si porta dietro. Fino alla cronaca stretta di quegli eventi, fatti di cannibalismi e disumanità varie dei superstiti di allora, per restare vivi. Attraverso la disumanità, universalizzata dall'arte, Kippenberger trasforma quindi il suo processo creatore in personale tragedia.

 

L'identificazione con il martirio, quindi insistendo su una concezione romantica del sé-artista, si trova anche in Lassnig, nella satirica Die Lebensqualität (2001, dalla Maria Lassnig Stiftung, Vienna): l'artista si rappresenta come figura cristologica, al limite della morte per acqua, mentre regge un bicchiere di vino e viene azzannata da un piranha. Sul fondo, i relitti di tecnologia e cultura. L'evidente metafora satirica sui rituali dell'arte – spesso teatrali e artificiosi – si innesta su una simbologia che Kippenberger condivide. Il binomio artista-Cristo più l'alter ego Fred la ranaè un motivo ricorrente della sua pratica a partire dal 1990: tra le opere in mostra, è presente il senza titolo Dankeschön bitteschön (1990, da una collezione privata svizzera), dove l'artista-rana, evidentemente appesantito da una vita al massimo, si adagia sull'immagine di un crocifisso romanico dipinto a reticolo.

 

Questi lavori non testimoniano solo la riflessione sulla pittura in sé e sul rapporto col modello, ma anche un lavoro critico sul sistema culturale in cui l'opera viene prodotta, già accennato in Die Lebensqualität. Per esempio l'acquarello su carta, sempre di Lassnig, Ich bin der Nachahmer meiner Epigonen (c. 1998, dalla Maria Lassnig Stiftung, Vienna), già nel titolo si fa beffe di nozioni quali imitazione (Nachahmung) ed epigonismo, criticando meta-artisticamente la base di consenso della storia dell'arte, la maledetta influenza – quell'ansia teorizzata da Harold Bloom, la quale, però, proprio non si riscontrerebbe nell'arte “al femminile”. Scrive Bloom su Virginia Woolf, che “solo [Laurence Sterne] sembra aver suscitato una certa ansia nella Woolf”, quando invece l'ansia da influenza colpisce certamente gli scrittori “maschi”. Lo scetticismo di Lassnig è più che ragionevole: l'influenza è ciò che vuole vedere lo studioso, quando l'artista non sa che farsene: forse che l'influenza sia un mito anche per l'arte “al maschile”? Forse che l'artista intrattiene sempre una funzione parodica di scelta, quando vede? E il “femminismo” di Lassnig è forse lo stesso di Woolf, un femminismo estetico ed epicureo, “un rinnovamento del potere creativo, che solo al sesso opposto è dato in dono”, scrive Woolf, senza essere specchio del narcisismo maschile.

Che Kippenberger e Lassnig si conoscessero o no, non è dunque a oggi dato saperlo. Non su una contingenza storica si basa la mostra, ma su una ben più alta ambizione: che una mostra ripensi la storia dell'arte – e le sue ansie da metodologia – e non il contrario.

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Santarcangelo Slow & Gentle

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La percezione frammentata, la magia (Massimo Marino)

 

Performance o conversazioni della durata di dieci-venti minuti o due ore di azione che si possono guardare per quanto tempo si vuole e poi uscire. Video, azioni che commentano il video e spostano il documento verso la metafora e l’emozione. Conferenze che chiamano lo spettatore a testimone. E un’esperienza unica, Guilty Landscapes di Studio Dries Verhoeven, una diretta internet con un’infernale fabbrica cinese di tessuti, in uno spazio nero, da solo a solo con un’operaia che sembra in un ambiente ovattato, ti saluta, ti guida, ti muove, e poi toglie le cuffie e fa precipitare il suo inferno di frastuono sopra di te. Spettacoli che guardano a discipline sportive e danze in loop che si reinventano continuamente. Concerti nelle piazzette della città e notti elettroniche sotto il tendone dell’Imbosco, tra gli alberi del parco, fino all’alba come nelle discoteche della vicina Disneyland di Rimini,

 

Dragon, Rest Your Head on the Seabed.


Santarcangelo 49 Slow & Gentle– ultima edizione del triennio con la direzione di Eva Neklyaeva e Lisa Gilardino e prima con la presidenza affidata al sociologo delle comunicazioni Giovanni Boccia Artieri – sembra riprodurre la percezione frammentata, molteplice, infinitamente dislocata e divagante dei nostri giorni: porta perfino in una vasca dove con Macao ci si allena a non far nulla, più o meno in assenza di peso, in sospensione. Sospende, come l’astronauta Samantha Cristoforetti nella sua astronave tra le stelle, contro la gravità della vita delle badanti dell’Est Europa, spinte in esilio dalla miseria del disfacimento dell’Unione Sovietica e approdate a tener dietro ai nostri vecchi, icone delle trasformazioni dell’Italia da paese familista a luogo di mille disgregazioni. 

Questo festival è un menù che lo spettatore deve comporsi, un’esperienza da ricercare. Puoi anche prenderti qualche fregatura, come lo spettacolo simbolo, Dragon, Rest Your Head on the Seabed di Pablo Esbert Lilienfield e Federico Vladimir Strate Pezdirc visto in una piscina olimpionica di San Marino, richiamo tra sport e rappresentazione al nuoto sincronizzato, alla mitologia e alla fiaba, che si rivela alla fine ben poca cosa, noiose evoluzioni in piscina che “destrutturano” tanto la disciplina da risultare solo slabbrate, senza creare effettivamente mai suggestione immaginale. Ma ci sta, in una manifestazione che si distende su dieci giorni e che ha qualcosa del luna park post-postmoderno, un’ora con pretese “pop” alquanto insulsa. 

Se non ti ripaga la nuova arcadia citazionista, ammiccante e compiaciuta, di Graces di Silvia Gribaudi, che continua a insistere con ironia ripetitiva (consumata?) sulla differenze tra corpo perfetto, mitologico, del danzatore e corpo normale tendente al largo, rivisitando nientemeno che il mito delle tre Grazie, il balletto classico e il musical, in un insieme che ha la sua ispirazione proprio nella sproporzione, nel fallimento, con vecchia tecnica da clown aggiornata con ghigno tardivamente attualizzato, trovi sempre qualcosa che ti fa saltare altrove, magari nella notte. Per esempio, nel primo fine settimana, l’incantante Ultras sleeping dances di Cristina Kristal Rizzo, su un tappeto bianco, al centro del grande spazio all’aperto dello Sferisterio, con macchie di materiale vischioso e colorato in qualche punto del plateau, con ballerine e ballerini con parrucche. Entrano, si rotolano, si contraggono, come durante un sonno agitato o cullato da sogni agitati o cullati da figure che noi spettatori possiamo solo immaginare. Poi a questo gioco ipnotico di rilassamenti e tensioni succede un liberarsi degli orpelli e mostrarsi con macchie di sangue, come morsi di vampiri, in danze in piedi sempre più libere, vorticose, dove come zombi, come contagiati dal Principe delle Tenebre, i corpi non si incontrano, non si scontrano, al massimo si sfiorano, per numerose uscite fuori scena, cedimenti, blocchi surplace, rollare, chiudersi per slanciarsi a roteare braccia, con occhi tinti di nero e piangenti, pianti, equilibri instabili, fragilità, mentre la musica da malinconiche cullanti atmosfere West Coast lascia il posto alla distillazione di un pianoforte e le materie viscose diventano uno degli ultimi travestimenti di una materia che si deforma, si strascina, si agita, si trasforma. Sogni di qualcosa sognata, di angosce, di slanci e desideri, consci, inconsci, oltre il prevedibile, oltre il possibile: una malia.

 

Ultras sleeping dances.


Teatro e documento (Enrico Piergiacomi)

 

Ci sono due modi di intendere il rapporto tra teatro e testimonianza. Il primo è pensare che l’esperienza performativa fotografi la realtà, il suo andamento e i suoi problemi, con finalità di denuncia politica. Ci troviamo di fronte qui al “documento del teatro”. Il secondo modo di intendere il rapporto consiste, invece, nel prendere la testimonianza come il punto di partenza e non di arrivo dell’attività performativa, orientandola verso la riflessione poetica. Avremo in questo frangente il “teatro del documento”.

Gli spettacoli Debriefing Session del collettivo Public Movement e Lighter Than Woman di Kristina Norman ospitati al Santarcangelo Festival sono due esempi di queste modalità complementari dell’esperienza teatrale. Un rapido confronto tra i due lavori aiuta, pertanto, a mostrare come la funzione del documento muti in base al tipo di teatro che si intende realizzare.

Cominciando da Debriefing Session, si nota qui che la forma teatrale è pensata per testimoniare, in modo rapido e diretto, l’esistenza di alcuni processi di rimozione della memoria storica. Un Agente del collettivo Public Movement prende da parte uno spettatore alla volta e, foglio alla mano, fornisce informazioni confidenziali su come lo stato di Israele abbia cancellato ogni ricordo delle opere degli artisti palestinesi precedenti al 1948, che non sostenevano l’ideologia allora dominante. L’aspetto che è registrato come rilevante è un sistema di assenze. Il teatro ambisce dunque qui a fotografare un vuoto creato dal potere, senza fornire idee o ricette per colmarlo. Lo spettatore è così chiamato dal documento a reagire con le risorse e le possibilità che può mettere in campo, trasformandosi a sua volta in agente oppositore dei processi di rimozione.

 

Debriefing Session.


Lighter Than Woman fa da contraltare narrando un tema nell’apparenza più dimesso. Norman raccoglie una serie di interviste ad alcune donne dell’Europa dell’Est, che si trasferirono dal loro paese di origine a Santarcangelo o a Bologna e si trovarono a lavorare come badanti per mantenere la famiglia che si erano lasciate alle spalle, o che ricostruirono in Italia. Diversamente da Debriefing Session, però, qui il documento è usato con finalità di carattere astrattivo ed estetico. Ciò che interessa Norman è infatti sottolineare somiglianze tra la badante e l’analogo a prima vista incongruo dell’astronauta. Come ad esempio il secondo diventa capace di staccare sé stesso e gli oggetti più pesanti dalla forza di gravità terrestre, non appena supera l’atmosfera, così la prima impara a sollevare il morale e il corpo dei suoi pazienti, dopo aver lasciato il suo paese. Il documento delle interviste fornisce così l’occasione per mostrare come la realtà sia più poetica di come siamo abituati a guardarla. Cielo e terra non sembrano più essere piani incomunicabili, se è vero che la badante può essere considerata un’astronauta della cura e della relazione.

Analizzati in termini più astratti, lavori così diversi evidenziano la presenza di polarità dissonanti dentro il teatro. Esso ricorre ai documenti come un fine (Debriefing Session) o un mezzo (Lighter Than Woman)? Facilita la rivoluzione o la contemplazione? Individua nessi precisi e scientifici sul piano del divenire storico, che alimentano la ragione, oppure crea accostamenti arditi e stranianti, che stimolano l’immaginazione? Oggi come in passato, il teatro continua a oscillare tra questi diversi sentieri, senza riuscire a indicare quale sia la via più giusta ed efficace. Chi coltiva il “documento del teatro” può tacciare gli artisti più poetici di non riuscire a cambiare il mondo, mentre chi favorisce il “teatro del documento” può sempre replicare ai suoi rivali che essi chiudono gli occhi davanti agli aspetti più complessi e magici della realtà. Una simile ricchezza di teoria e di prassi dimostra il carattere abissale dell’arte teatrale, in cui sia i reazionari sia i poeti possono trovare ugualmente casa e ispirazione.

 

Lighter Than Woman.


Quando la danza è dolce e gentile (Gaia Clotilde Chernetich)

 

A chiusura del triennio diretto da Eva Neklyaeva e Lisa Gilardino, Santarcangelo Festival ha confermato un’attenzione particolare alla coreografia. Già sulla carta il programma sembra voler inscrivere la visione di corpi in movimento nella loro durevole estemporaneità e nella loro dimensione trasmissibile. L’accento sembra essere stato posto, in linea con quanto sta accadendo su scala internazionale, sulla dimensione sociale, partecipativa e relazionale che mette in contatto l’atto performativo con la sua memoria e con la storia passata, presente e futura della comunità – anche temporanea – che vi assiste. Sia attraverso la diversità formale delle proposte, sia attraverso le modalità con cui gli artisti hanno scelto di incontrare lo sguardo del pubblico, il festival compone una panoramica che non si sottrae dalla possibilità di dare conto dei mondi entro cui possiamo parlare di danza. La qualità radicale dell’esperienza è nei formati, che giocano con la dimensione relazionale, offrendo una qualità comunitaria tanto all’individuo, la cui cura è messa al centro, quanto alla collettività, il cui senso e la cui forma viene esplorata. 

In Andamento unico della coreografa Elena Giannotti, Mia d’Ambra mostra una calligrafia coreografica che cattura la visione sia nella sua versione indoor sia all’aperto, dove la fisicità minuta della giovanissima danzatrice traccia traiettorie infinite, che congiungono le sue più piccole porzioni di movimento con una dimensione superiore, che la proietta al pubblico nel suo “stato di danza” travolgendo per limpidezza e complessità emotiva.

 

First Love.


Intima e trasmessa con cura, la dimensione personale evocata da First Love di Marco D’Agostin ha invece la capacità di disegnare un ricamo preciso per corpo e voce che connette una memoria importante della giovinezza del coreografo e interprete dello spettacolo con alcuni segni sonori che il ricordo porta con sé nel presente, quel luogo dove lo sguardo adulto dell’artista rivolto alla propria memoria ha la stessa magia dolcissima della prima neve che scende. Senza cedere alla vanità del ricordo né a quello della pura gestualità, la danza fonde allora il corpo a un virtuosismo della voce che, in perfetto accordo con il movimento, riproduce l’audio della telecronaca della gara con cui la sciatrice Stefania Belmondo vinse alle Olimpiadi invernali del 2002. Lo sguardo del pubblico si lascia allora coinvolgere divertito, sospeso tra la maestria della danza e la ferma delicatezza con cui Marco D’Agostin sa infondere nei propri lavori una possibilità di incontro tra la coreografia e la parola, intesi come oggetti concreti della performance, e una dimensione memoriale che assorbe l’effimero della nostalgia individuale rendendola nuovamente disponibile, come nuova materia prima, per chi osserva. 

Save the Last Dance for Me di Alessandro Sciarroni, invece, è un processo di trasmissione, sia didattico sia performativo, di un ballo di coppia tradizionalmente eseguito da uomini che, prima di questa edizione del festival, solo cinque persone erano ormai in grado di danzare. Salvata dall’oblio, la polka chinata è materia di nuova invenzione, in dialogo costante con la tradizione e con il mistero che una danza a rischio di estinzione naturalmente porta con sé.

“Slow and Gentle”, la danza a Santarcangelo è espressione del sottotitolo del festival. La comunità di sguardi è memoria del gesto e della sua prossimità con il presente e il futuro – speriamo – delle nostre visioni. 

 

Save the Last Dance for Me.


MK in viaggio verso Bermudas (Maddalena Giovannelli)

 

Se siete stanchi di brevi soli e di performance a corto raggio, Bermudas è la destinazione che fa per voi. MK presenta al pubblico di Santarcangelo una composizione ampia, corale, energica, che mostra come rigore e apertura possano felicemente convivere. 

Sul foglio di sala campeggiano ben tredici nomi di danzatori; tra questi, Biagio Caravano, colonna portante della compagnia fin dagli esordi, insieme a eccellenze della scena nostrana come Marta Ciappina. In realtà, sul palco, appaiono soltanto sette figure: Bermudasè un organismo collettivo che prende vita, volta per volta, con cast variabili e con alterni incontri di corpi e di presenze.

 

Bermudas.


Non è difficile riconoscere, già dal titolo, un nucleo di senso caro a Michele Di Stefano (per esempio in Impressions d’Afrique e in Il giro del mondo in 80 giorni): l’idea di un altrove non geografico che si genera come esito di dinamiche e posture corporee, un viaggio che è prima di tutto la capacità di “stare” in spazi di transizione, di attraversare le turbolenze inaspettate che si accendono nell’incontro con l’altro.

In Bermudas il patto con lo spettatore è limpido, e proprio in questa limpidezza risiede la complessità della sfida: nei primi istanti dello spettacolo, un danzatore si fa avanti, e ci svela le regole che detteranno il gioco performativo. Pochi gesti, apparentemente semplici e riproducibili. Largo, lungo, rovescio, lato.

A partire da quattro lettere coreografiche i performer continueranno a generare parole, e con quelle frasi, fino a costruire un’intera e vitale sintassi. Bermudas si rivela dunque un vero e proprio manuale sui processi di composizione, con possibili istruzioni per l’articolazione complessa di elementi semplici nello spazio e nel tempo (nella stessa direzione si muove un altro bel progetto recente, Alphabet di Gruppo Nanou).

Ma niente di più lontano da una lezione accademica algida e autoreferenziale. Il movimento verso lo spettatore è duplice: da un lato viene fatto cadere il velo, con semplicità, su ciò che normalmente in danza resta precluso, esoterico, legato al possesso di un sapere per pochi. Dall’altro l’energia dei performer, complice il ribollente ambiente sonoro (Kaytlin Aurelia Smith, Juan Atkins/Moritz Von Oswald, Underworld), immerge il pubblico in quarantacinque minuti di gioiosa entropia. Ai lati della struttura gremita, montata nello Sferisterio di Santarcangelo, gruppi di spettatori senza biglietto sbirciano da ogni angolazione, si siedono per terra, guardano dall’alto, attratti dagli attraversamenti scenici dei performer. Quella tensione in apertura, che pare invitare lo spettatore a farsi permeare dalle dinamiche corporee dei danzatori, è stata raccolta in Bermudas Forever: una naturale evoluzione del sistema coreografico di Bermudas dove la ripetizione ampliata dello schema (tre ore) e la condivisione delle istruzioni per entrare nel gioco arriva a coinvolgere il pubblico come una corrente. In tempi in cui si propaga implacabile il mantra dell’inclusione, Michele Di Stefano (che firma ideazione e coreografia del progetto) ne smonta la retorica con garbo, limitandosi a disporre con competenza i reagenti e a produrre l’energia di attivazione. E si conferma così una delle voci autoriali più vive, lievi e intelligenti del nostro panorama coreografico. 

 

L’ultima fotografia, da Bermudas, è di Andrea Macchia.

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Le aziende che producono degli strumenti di comunicazione promettono costantemente agli individui di offrire loro dei mezzi per vivere in un mondo più preciso e definito rispetto alla realtà quotidiana. D’altronde, in apparenza le rappresentazioni mediatiche odierne sembrano essere maggiormente accurate e coinvolgenti rispetto al passato. In realtà, è vero esattamente il contrario. Siamo di fronte infatti a una società che si muove decisamente più in fretta rispetto alla capacità umana di tenerle il passo.

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