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L’inconscio di Macbeth

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A volte, di fronte a un lavoro teatrale, si ha la netta impressione che, al di là dell’operazione, spesso meritoria e interessante, manchi un’architettura solida, che sappia far dialogare le parti e perimetri – in qualche modo – la ricerca, sottoponendo la stessa a tagli, sacrifici anche dolorosi ma necessari. Quando uno spettacolo riesce a far dialogare le due istanze, quella feconda ma pericolosamente proteiforme dell’intuizione e quella contenitiva della forma, esso gode di un’incidenza, una forza diversa: si imprime. Questo capita con il nuovo lavoro di Carmelo Rifici, Macbeth, le cose nascoste, presentato la settimana scorsa in prima assoluta al LAC di Lugano e frutto di un lungo lavoro di meditazione e decodificazione durato ben due anni. Scopo di Rifici era capire quanto di quel testo risuonasse ancora nell’uomo contemporaneo, che, come Shakespeare, si trova a vivere una svolta storica fondamentale. Lo scrittore inglese viveva infatti a cavallo di un’epoca che stava definitivamente voltando le spalle al mondo primitivo, quello popolato da fantasmi, streghe, quello in cui l’inconscio era ancora legato alla natura e non si percepivano divisioni nette fra il mondo interiore e quello esteriore. Non che oggi questo patrimonio sia del tutto tutto scomparso, cancellato con un colpo di spugna: ci sono ancora zone dove questa modalità di guardare alle cose, questo sguardo di fusione permane, e sono i luoghi onirici. Ebbene, se c’è una disciplina che si interroga sulla portata veritativa dei sogni, questa è la psicanalisi, in ispecie quella junghiana. Per questo la prima parte dello spettacolo di Rifici si apre con una seduta di analisi, condotta da Giuseppe Lombardi, presente in video, e gli attori, che a turno si sottopongono al colloquio, lavorando su quei temi che legano le loro storie personali a quelle dei personaggi scespiriani.

 

 

Rifici è un regista a cui piace – lo abbiamo visto anche con Ifigenia, liberata– portare in scena il lavoro a margine del testo, far ripercorrere al pubblico la strada che la stessa squadra di lavoro ha battuto per arrivare a un certo risultato finale. Scelta generosa, che confessa la volontà di pensare al teatro come luogo di riflessione e di pensiero ma che rischia al contempo di appesantire la macchina scenica. Ebbene, il pericolo in quest’ultimo lavoro è stato del tutto scongiurato. Gli attori, infatti, passano dalla riflessione con lo psicanalista all’interpretazione del personaggio con una naturalezza estrema, quasi come se vi cadessero dentro. Ognuno di loro incarna solo una parte di Macbeth o di Lady Macbeth, quella che più si avvicina a una verità interiore rintracciata lungo i lavori preparatori. Una scelta, questa, che si rivela essere molto potente, anche per quanto riguarda la qualità attorale: da notare, soprattutto, la possente interpretazione di Christian La Rosa (Premio Ubu under 35 del 2017) che, prima di commettere il regicidio, ha una sorta di crisi epilettica, entra in un mondo psichico dove le barriere fra le cose cadono e tutti i fenomeni mostrano il loro volto unitario. Un momento molto intenso, ricco di pathos, che però non aleggia in tutto il testo e anzi viene sapientemente smorzato in altri passaggi, per esempio durante il monologo più famoso della pièce, quello in cui Macbeth apprende della morte della moglie e parte con una riflessione dal sapore nichilistico sulla vita (“La vita è … un racconto narrato da un idiota, che non significa nulla”): lì si potrebbe spingere sul pedale della retorica, tranello scongiurato dal regista, che affida il testo a una sorta di coro formato da tutti gli attori, i quali a turno “eseguono” la loro battuta e lentamente si spengono, cadendo misteriosamente nel sonno. Potenti e vibranti anche le voci sussurrate delle streghe, cui si alternano le note intonate dalla bravissima Elena Rivoltini, esperta in canto rinascimentale, accompagnata anche dalle musiche composte dal talentuosissimo artista ticinese Zeno Gabaglio.

 


Il tema genitoriale è molto presente in questo lavoro, dal momento che il regicidio di Duncan corrisponde all’uccisione della figura paterna. Un atto terribile, ma necessario per imboccare la strada dell’autonomia. In fondo, a rifletterci bene, le ragioni del protagonista del dramma shakespeariano ci appaiono sotto un’altra luce dopo aver visto lo spettacolo: Macbeth, come fa notare un attore a inizio spettacolo, è un giovane valoroso, ha dimostrato molto, ma il trono non sarà suo, secondo una legge gerontocratica e anti-meritocratica (l’attualità del testo è palese) contro cui il protagonista decide di ribellarsi. Vorrei a questo punto sottolineare un elemento che spesso viene dimenticato o non si mette a fuoco a sufficienza quando si legge questo testo: il protagonista del dramma torna da una guerra, ha ucciso molti uomini, è un guerriero spietato. La sua descrizione non coincide esattamente con il cuore bianco attribuitogli dalla sua compagna. Ma fino a quando il crimine è compiuto sotto l’egida del re, è accettato: il salto che Macbeth compie è proprio quello di incarnare lo “stato d’eccezione” descritto da Carl Schmitt, di trasformarlo in qualcosa di perenne. Per realizzare questo piano ha bisogno di spostare il male all’esterno, di attribuirlo psicanaliticamente ad altro: prima di tutto alle streghe, che sono la sapienza primitiva, quella che non distingue fra bene e male perché pre-esiste a entrambi. In secondo luogo alla sua compagna, colei che non ha nemmeno un nome tutto suo, Lady Macbeth, la quale si farà carico della responsabilità di un male che ha radici altrove, e che a poco a poco la porterà alla pazzia. Il loro è un percorso di individuazione che ha preso una via distruttiva e autodistruttiva: l’acqua amniotica, presente lungo tutto lo spettacolo come tappeto su cui si muovono le parti schizofreniche dei personaggi interpretate dai diversi attori, è sì un riferimento al rifiuto della maternità da parte di Lady Macbeth, ma è anche l’elemento che ricorda la fusione panteistica con le cose. Un cammino, questo, che può essere generativo e fecondo, ma che al contempo si rivela essere pericolosissimo. E questo pericolo il pubblico lo avverte. Si sente chiamato in causa.

 

 


Un altro elemento su cui Rifici lavora da tempo è quello della vittima sacrificale. E il Macbeth si presta a questa lettura: nell’ultima parte dell’opera un bambino, il figlio di Macduff, viene brutalmente ucciso. Da lì il percorso sarà in discesa e porterà Macbeth alla morte. Ma prima che questo accada, prima che la storia – una storia distruttiva in questo caso – abbia corso, occorre che un innocente venga ucciso. In scena l’innocenza che muore è rappresentata molto efficacemente dal corpo appeso a testa in giù del convincente (e fresco) Alessandro Bandini, un’ipostasi molto forte, la scena più visionaria di tutta la pièce. Per il suo tramite si accede all’ultima parte dello spettacolo, il regno delle streghe. Che Rifici, attraverso le storie personali degli attori emerse in analisi (penso soprattutto a Tindaro Granata), ricollega ai riti della cultura contadina tradizionale del Sud Italia. Impossibile non leggere un riferimento agli studi di Ernesto De Martino, studioso attento a inglobare quelle zone della nostra cultura che dopo Cartesio sono state relegate nell’ombra. In questo momento storico in cui la tecnologia sta diventando una presenza sempre più importante in grado di creare nuovi spazi abitativi che pongono ulteriormente in crisi il nostro concetto di realtà, già minato alle basi dal Novecento, il regista ci invita a recuperare questo sapere arcaico. Legato alla terra, ai sogni, dove bellezza e terribile si fondono in un nodo indissolubile. Questa la sfida lanciata da questo importante, possente spettacolo al pubblico: tornare a guardare l’ombra. Anche quando abbiamo paura, soprattutto quando abbiamo paura. 

 

Fotografie Lac e Studio Pagi.

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Carmelo Rifici al Lac di Lugano
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Sicilia Immagina

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L'indagine sulla qualità della vita delle Città Italiane di Il Sole 24 ORE anche quest'anno è arrivata inesorabile, mettendo in evidenza il divario tra Nord e Sud. È Milano ad aggiudicarsi, per il secondo anno consecutivo, il primo posto nella classifica, fanalino di coda della classifica è Caltanissetta (107°), che occupa l’ultimo posto della classifica per la quarta volta. Senza nulla togliere alla classifica del Sole, ma ho deciso di partire e andare a vedere con i miei occhi che aria tira in fondo alla classifica. Un gruppo di piccole organizzazioni culturali attive nelle aree interne della Sicilia – come il

Collettivo SempliCittà, TrasFormAzioni e altre che citerò di volta in volta –   in modo completamente autonomo hanno organizzato un tour di presentazione del mio libro Artigiani dell'immaginario. Il viaggio l’hanno chiamato "Sicilia Immagina”. Le presentazioni sono state scusa perfetta per avviare un lavoro di creazione di una rete informale tra pratiche di innovazione culturale in territori considerati marginali o in ritardo di sviluppo. In sette giorni ho percorso migliaia di kilometri, ho incontrato amministratori locali, artigiani dell'immaginario, giovani entusiasti, progetti e cittadini. È emersa quella brace che arde sotto la cenere e che può appiccare il fuoco del cambiamento.

 

Arrivo all’alba del 28 dicembre a Palermo. Via mare, come piace a me. Prima tappa da raggiungere: Mussomeli. Non potevo però lasciare Palermo, prima di scaldarmi il cuore, attraversando le sue viscere. Entro al mercato di Ballarò, brulicante di voci, colori e volti segnati. Mi intrufolo tra le bancarelle e cerco di fare qualche affare. Appena fatto l’affare, una marionetta costruita alla buona con pezzi di legno, ritagli di stoffa e pezzi di ottone, mi dirigo verso l’auto per intraprendere il primo tratto del viaggio. La Palermo–Agrigento più che una strada è una cicatrice che segna un territorio. Ogni chilometro racconta una ferita. Ogni deviazione testimonia una questione irrisolta. Una sofferenza continua dell’irrisolto e nell’incompiuto siciliano. Per arrivare a Mussomeli devio dalla strada principale e percorro inconsapevolmente un raccordo spettrale. Il tratto a scorrimento veloce Mussomeli–San Giovanni Gemini è costato 40 milioni di euro in vent’anni di cantiere. Dopo solo un mese dal taglio del nastro è stata chiusa al transito e 6 chilometri e 100 metri di infrastruttura pubblica sono rientrati nel catalogo delle opere incompiute siciliane.

 

 

Arrivato a Mussomeli, mi accoglie la magnificenza del Castello eretto tra XIV e il XV secolo e il sorriso di Michele Schifano, un giovane insegnante che ha deciso di ritornare in Sicilia da pochi anni. Michele è uno degli “artigiani dell’immaginario” che hanno reso possibile il mio viaggio in questa Sicilia interiore più che interna. Tempo di un caffè e inizia a raccontarmi storie antiche e contemporanee di un paese di Sicilia arroccato. 

Mi sveglio a Mussomeli, è una giornata fredda, di neve, di quelle che non ti aspetti arrivando in Sicilia. Mi preparo, mentre la curiosità continua a crescere dentro di me. Sta arrivando il momento di scoprire le realtà, i segreti di un paesino come Mussomeli che, nascosto tra i suoi culti e le sue feste, cerca di camuffare le sue ferite. Sono pronto. Aspetto. Michele mi chiama, scendo giù. Iniziamo il nostro percorso attraversando quello che è l’impianto originario del paese: via Barcellona. Inizio a conoscere, a spostarmi, a scoprire. Vedo stendardi, scopro tradizioni, vengo a conoscenza di un’antica fiera del Castello di Mussomeli attiva da oltre un secolo. Forse il senso del viaggio è anche questo, continuare ad andare avanti senza mai dimenticare chi siamo stati prima. Continuare a mantenere una parte di noi ancorata al passato.

Proseguiamo il nostro cammino, inizio a scovare le famose “Casa a 1€” di Mussomeli, una triste realtà che alimenta ancor di più il divario economico di un paesino dell’entroterra siciliano che ancora oggi non riesce a riscattare il proprio valore. 

 

 

Arriviamo davanti a un forno, decidiamo di entrare, di conoscere uno dei pochi artigiani del centro storico. Conosco Tanino, che ogni notte accoglie nel suo forno decine di giovani che con la scusa di mangiare un cornetto caldo usano lo spazio come luogo di ritrovo caldo e accogliente. Usciamo, continuiamo a camminare fino a giungere davanti alla chiesa Madre che, fiera, si erge su tutto il centro storico di Mussomeli, lasciando costantemente a bocca aperta viaggiatori come me. Osservo, noto stemmi disparsi per tutto il quartiere. Michele inizia a raccontarmi storie antiche, di scontri, incomprensioni, indipendenze e decapitazioni. Continuiamo il nostro percorso, resto incantato da una casa poco più avanti, di epoca Medievale. È incredibile come tanta bellezza riesca a preservare tutta la sua vera essenza. Ci dirigiamo più avanti, vedo il cinema di Mussomeli, un edificio impossibile da ignorare visto la grandezza ed i colori stonati con il resto. Un piccolo cinema che da grande vorrebbe fare anche il teatro. Continuo a camminare, giungo davanti la Torre dell’Orologio. Sento il rumore degli ingranaggi in fondo al cuore.  Riprendiamo il cammino, giungiamo in Piazza Roma. Ci rifugiamo per qualche minuto in un’edicola lì vicino, cercando di riprendere un po’ di calore. Ritorniamo fuori, conosco il sindaco di Mussomeli: Giuseppe Catania, un uomo disponibile all’ascolto. Michele mi porta a conoscere Enza Di Maria, una giovanissima attivista della “Pescheria delle Idee”: uno spazio che ha l’obiettivo di accogliere le idee dei cittadini e di accompagnarle in un percorso di concretizzazione. 

 

 

 

Poco prima del tramonto con Michele ci trasferiamo a Caltanissetta, dove ci aspetta un gruppo di giovani creativi fondatori del Creative Spaces, che per definire la propria missione usano le parole di Elio Vittorini: "La cultura non è professione per pochi: è una condizione per tutti, che completa l’esistenza dell’uomo".

 

 

Conosco Eros Di Prima, uno dei fondatori di Creative Space, ritornato a Caltanissetta per scelta dopo aver studiato e lavorato all’estero come architetto, convinto che la sua terra sia il posto migliore dove impegnarsi per generare cultura e cambiamento, ci fa strada verso il Centro Espositivo d'Arte Contemporanea dell'ex Rifugio, uno spazio ricavato riutilizzando un rifugio degli anni '40, che per l’occasione ospiterà la nostra discussione insieme alla mostra Trasformazioni e rivoluzioni attraverso l’arte. Lungo la strada incrociamo la processione dei “Tre Santi”: il Redentore, l’Immacolata e San Michele Arcangelo (i tre protettori della Città di Caltanissetta), che da oltre 100 anni escono dalla Cattedrale in segno di ringraziamento per lo scampato pericolo dal terremoto che la mattina del 28 Dicembre 1908 distrusse Messina, e buona parte della Sicilia orientale. I canti dei portantini, mi fanno venire la pelle d’oca e mi rimandano a uno dei tratti più intensi del Sud: la devozione.

 

 

Arrivati all’Ex Rifugio, ci raduniamo in una stanza accogliente e ci raccontiamo in una dinamica informale, con la sempre buona scusa di presentare il mio libro. 

La mattina del 30 dicembre riprendo il mio viaggio, direzione: Milena. È un viaggio interessante, fatto costantemente di scoperte. Vedo “Cozzo Minnetta”, una delle possibili sepolture di Minosse, venuto in Sicilia alla ricerca di Dedalo; attraverso un ponte che con molta probabilità tra dieci anni non esisterà più.  Apprendo che Milena, è anche chiamata “Paese delle Robbe”. Le robbe sono nuclei di case costituenti piccoli villaggi dalla struttura priva di segni di centralità. La loro nascita è connessa alla gestione, in parte diretta e in parte in enfiteusi, dei fondi di proprietà del Monastero di San Martino delle Scale che, per incentivare la manodopera, concedeva la possibilità di costruire la propria abitazione nelle terre date in ‘affitto’ o ‘censo’. Tempo di pensare al sistema di relazioni generato dalle “robbe” che mi ritrovo in una sala piena di cittadini che aspettavano solo me e Michele. Si, sempre con la solita scusa del libo, entriamo subito nel vivo di una discussione accesa. Fioccano domande, prese di posizione e visioni contrastanti. Il dialogo è durato più di due ore. Abbiamo toccato temi scottanti e questioni delicate, come il coraggio di chi parte o di chi decide di restare, la fiducia, la cura dei legami nella comunità. 

 

Dopo l’incontro i ragazzi che hanno organizzato il festival Mi Fa Sol|MIlena FestivAl SOciaLe-è ora di cambiare musica! ci portano al Magazzino Culturale “Ex oleificio”, un ex oleifico che hanno trasformato in centro culturale aperto alla comunità. Qui continueremo la serata con una cena sociale, la proiezione di un cortometraggio e un concerto. Carmelo, uno dei tanti giovani siciliani che ha deciso di ritornare nel paese di origine, così mi racconta di questa esperienza del Festival: “È successo che, attraverso il confronto e il dialogo competente e sincero, gli slogan sulla viabilità sono diventati proposte per una nuova mobilità, sostenibile, moderna, necessaria e che risponda ai reali bisogni di un territorio fortemente cambiato e che non può più rispondere a schemi mentali ormai antichi.

È successo che, attraverso delle proposte concrete elaborate da operatori del settore, la parola sociale non è stata associata, come succede spesso, ad assistenza ma a opportunità, per le persone, per chi è più debole e ha minori opportunità, per tutto un territorio con la sua comunità. È successo che gli autori di piccoli sogni sul territorio si sono seduti allo stesso tavolo per capire insieme come far diventare i loro piccoli sogni tasselli di un unico progetto ancora più grande e possibile! È successo che due ragazzi ci hanno raccontato come una comunità si è unita per contrastare il degrado e l’inquinamento del proprio territorio e di come possiamo e dobbiamo sostenerli tutti. È successo che ci siamo emozionati impastando il pane e facendo le ‘mbriulate, riscoprendo il loro senso profondo e antico insieme al fatto che si possano ripensare i territori, in maniera diversa e più necessaria, partendo dal cibo e di come si possa fare economia vera e sostenibile, reale per la nostra terra.

 

È successo che donne e uomini appassionati ci hanno raccontato di come il gesso non sia un elemento geologico ma sia il nostro passato e possa essere il nostro futuro. Pane, gesso, ‘mbriulata, metafore di come eravamo e di come dobbiamo ricostruirci come comunità umana, racconto di tutto quelle cose che dobbiamo recuperare e imparare a riconoscere per rianimarle. È successo che dei giovani si sono uniti e hanno creato un movimento fatto di proposte concrete e possibili, costruite durante i loro racconti in giro per la Sicilia, perché vogliono riuscire qui senza per forza essere costretti ad andare via. È successo che una pescheria è diventata un incubatore di sogni ed è successo che dei giovani emozionati ci hanno raccontato di come hanno deciso di tornare e di mettersi in gioco. È successo che abbiamo analizzato le migrazioni di oggi osservando quelle antiche dei nostri nonni. È successo che siamo stati in Africa attraverso i racconti di uno che, a casa loro, c’è stato a visitare chi, a casa loro, davvero li aiuta. Ed è successo che abbiamo visto piangere vecchi e giovanissimi ascoltando tutto questo. È successo che tanti giovani, un sabato sera, hanno aspettato sino a tarda notte per poter fermarsi a parlare con una splendida teatrante alla fine del suo spettacolo. È successo che uno degli uomini che ha trasformato una follia in un sogno ci ha insegnato che potere è verbo e non sostantivo e che nel trasformare l’immaginazione in realtà nessuno può e deve essere escluso. È successo che si sono seduti allo stesso tavolo un artigiano dell’immaginario, un’artigiana dei significati della parola, un disobbediente, un obbediente, un’artigiana delle diversità e un sognatore ed è successo che le parole hanno preso forma concreta perché l’idea si farà azione.

 

È successo che una poesia d’immagini ci ha mostrato dolcemente come un rastone bocconiano, invece di guadagnare decine di migliaia di euro in giro per il mondo, ha deciso di tornare nel suo paese di 500 anime per fare l’agricoltore. È successo che bimbi biondi e neri giocavano a imboccarsi cibi camerunensi, pakistani, romeni cucinati da tre splendide donne che dopo la cena si saranno sentite un po’ meno straniere. È successo che un dolce e timido ragazzo nigeriano ci ha cantato Rosa Balistreri e come ha realizzato i suoi sogni. Tutto questo è successo e vogliamo che succeda ancora … tutto questo è successo ed è stato un successo, un arricchimento umano e un accrescimento culturale che mai si era visto a Milena, nel cuore profondo della Sicilia. È successo e qui (da oggi non più) non era scontato che sarebbe mai successo”.

La giornata termina con la musica di Chris Obehi, nome d’arte di Christopher Goddey giovane nigeriano di 22 anni in Italia da 4, che apre il suo concerto con Cu Ti Lu Dissi di Rosa Balistreri. Chris dopo essere scappato dalla persecuzione di Boko Haramè passato per i lager libici. Del viaggio sul barcone, durato due giorni, ricorda il pianto dei bambini. Tante donne, alcune incinte, e infine l’arrivo a Lampedusa su una nave militare, poi a Messina fino a trovare la sua casa a Palermo. Oggi vive e studia lì. La mattina al Conservatorio Vincenzo Bellini e di sera frequenta l’Istituto Tecnico economico per il turismo "Marco Polo", oltre a portare la sua musica in giro per la Sicilia e l'Italia. 

 

 

Sveglia di buon mattino. Ancora fiocchi di neve nell’aria si parte alla volta di Lentini. Arriviamo per ora di pranzo con ancora il sole alto oltre il vulcano Etna, li dove si estendono i fertili campi Leontini, quelli che Giorgio Franco, giovane e appassionato artigiano dell’immaginario, mi presenta come le "porte del sudest siciliano". Una terra che affonda le proprie radici nel mito: pare che Eracle "il fenicio/punico", ancor prima dei greci-calcidesi, fece dono a Demetra della sua Leonté e della pelle di un Leone, animale/simbolo che da allora divenne emblema del territorio Lentini/Carlentini (la Lentini di Carlo V). 

I ragazzi di Badia Lost&Found mi aprono le porte di Palazzo Beneventano, uno scrigno di storie e di tesori, luogo di memorie e di suggestioni, riconsegnato alla Città dopo infiniti saccheggi e decenni di abbandono e incurie. Monumentale dimora di una delle casate più illustri dell’Isola, residenza nobiliare tra le più importanti di Lentini, lo storico Palazzo della famiglia Beneventano è stato inaugurato grazie alla lungimiranza e alla passione di Giorgio e della storica dell'arte C. Pulvirenti, i quali, assieme ai volontari di Italia Nostra di Lentini, hanno trasformato dal 7 Maggio 2016 un luogo senz'anima in un grande polo culturale, vocato alle arti contemporanee. Sono stati necessari anni di accurati interventi di restauro e due finanziamenti per riportarlo ai suoi antichi fasti.

 

I due piani dell'ottocentesco Palazzo Beneventano ospitano un "luogo del contemporaneo", museo d’arte contemporanea: 8.200 mq di spazi espositivi, con installazioni site-specific, opere della collezione e installazioni temporanee. Il palazzo, che prende il nome dalla famiglia Beneventano della Corte (XIX sec.), è stato in buona parte restaurato e prevede l'ampliamento museale con l'allestimento di una sezione dedicata alla famiglia che vi abitò. Oggi offre al suo pubblico, insieme ai percorsi espositivi temporanei e permanenti, un Centro Studi, laboratori didattici, un bookshop/caffetteria e molto altro.

Nella sala principale del Palazzo abbiamo discusso con cittadini ed associazioni della necessità di continuare a produrre un nuovo immaginario per un piccolo paese del Sud, che è in costante ricerca di una sua nuova identità.

"Niente è come sembra" avrebbe affermato Manlio Sgalambro, filosofo contemporaneo leontino come un altro nell'antichità: il sofista Gorgia, discepolo di Empedocle. Lentini ha un territorio e una storia complessa, così la sua contemporaneità si apre in un polo culturale pensato e creato dal nulla, da un collettivo di giovani professionisti.

 

 

Dopo la presentazione, sfidando ancora la neve, siamo andati a incontrare 2 anziani che continuano a produrre il pane con gesti e sapienza antica. Un forno alimentato solo con legna di mandarlo e arancio. Un profumo di una terra centro di culture millenarie. 

 

Dopo giorni di cielo nuvoloso e fiocchi di neve, la mattina del 31 dicembre il cielo di Sicilia torna ad essere nitido e luminoso. Ci attende un lungo viaggio, dobbiamo attraversare tutte le province siciliane per arrivare a Castellammare del Golfo, precisamente alla frazione Fraginesi, dove ci aspetta Giordano Aquaviva e tutto il gruppo del Ponte di Archimede. Il viaggio è lungo ma non per questo spingo sull’acceleratore, al contrario, decelero e apro bene gli occhi.  La lentezza sa amare la velocità, sa apprezzarne la trasgressione, desidera anche se teme (quanta complessità apre questa contraddizione!) la profanazione contenuta nella velocità, ma la profanazione di massa non ha nulla della sacertà che pure si annida nel sacrilegio, è l’empietà senza valore, un diritto universale all’oltraggio. Nessuna esperienza è più stolida della voracità di massa, della profanazione che non si sa.

 

Nel viaggiare, nel percorrere i chilometri, finisco col raccontarmi attingendo al potere simbolico dei luoghi e del paesaggio. Chi viaggia per “arrivare” è diretto solo alla meta prossima o alle cose ultime. Per lui il viaggio non esiste e le terre che attraversa non esistono. Conta solo la meta. Così il viaggio muore durante il viaggio, muore in ogni tappa che lo avvicina alla meta. La meta cancella l’andare e chi punta solo alla destinazione procede come un cavallo con i paraocchi, non vede ciò che la via mostra al viandante. I viaggiatori sono coloro che percorrono ed esplorano la via spalancata tra inizio e fine. Mi convincono le parole di Galimberti, quando nel descrivere i viaggiatori dice: “l’andare ci salva cancellando la meta”. Lungo la strada le soste danno il ritmo. La prima sosta più che una pausa è stata una finestra del tempo, che mi ha portato secoli indietro. Deviazione dall’autostrada Catania-Palermo verso Piazza Armerina, cittadina tra i monti Erei meridionali, ma soprattutto luogo che custodisce la Villa Romana del Casale dichiarata nel 1997 Patrimonio dell'UNESCO per i suoi 3.500 mq di mosaici perfettamente conservati. In silenzio ho contemplato il corridoio della "Grande Caccia" (65,93 m di lunghezza e 5 m di larghezza), un vero e proprio compendio su come catturare le belve di due continenti.

 

Il sole cala pian piano e all’orizzonte inizia a stagliarsi il blu del mare della costa orientale. Lasciamo la strada principale e iniziamo ad arrampicarci tra le viuzze sterrate della montagna sopra Castellamare del Golfo. Nessuna illuminazione pubblica, solo la luna e le stelle a illuminare il tragitto. In lontananza s’intravede una casetta poco illuminata tra ulivi a perdita d’occhio. Siamo arrivati, questa è la casa del Ponte di Archimede. Giordano mi abbraccia, mi dà il benvenuto e mi lancia subito nei preparativi della cena dell’ultimo dell’anno. Accendiamo un fuoco, condiamo agnello e pollo e ci disponiamo attorno al fuoco. Un fuoco che per 3 giorni non abbiamo mai spento. Lentamente ci raggiungono altri compagni di lavoro di Giordano, ciascuno con biografie da scrivere in versi. Il Ponte di Archimede è un progetto che crea un legame orizzontale tra pratica artistica e pratica agricola. In un’area rurale di 16 ettari, tra querce bianche secolari, macchia mediterranea ancora intatta, ulivi, vacche e mare è attivo uno studio di post produzione e live recording. L’integrazione tra arte e natura, anche solo come “luogo” di lavoro, è alla base della loro ricerca creativa. Una matrice che può essere il punto di partenza per immaginare le nostre montagne e le nostre campagne non solo come campo d’azione dell’agricoltura, ma anche campo di sviluppo di processi creativi e culturali. 

 

Sono giunto alla fine di questo viaggio con la luce dell’alba del nuovo anno e con la consapevolezza che è necessario un nuovo vocabolario per descrivere il Sud. “Buon senso” e “saggezza” è ciò che si appella come “arte di arrangiarsi”, “progettualità” e “capacità di fare” è ciò che molti chiamano “incosciente festosità” dell’uomo meridionale. Scegliere le parole per raccontare il Sud ci proietta su un campo di azione piuttosto che un altro. Dobbiamo abbandonare gli stereotipi, inaugurare tradizioni culturali che richiedono la coesistenza, la fiducia, che promuovono la perseveranza: le donne e gli uomini che ho incontrato in questo viaggio sono ginestre! Il fiore che attecchisce nei suoli più aridi, il fiore solidale, che resiste. Le esperienze che ho raccontato non sono ispirate o governate dalle istituzioni, non sono cioè prodotte da un pensiero politico capace di ordinare la propria ripresa. Testimoniano un percorso spontaneo di ricerca e di esercizio dell’identità, di conoscenza e di interiorizzazione di modelli da indirizzare a un cambiamento interiore del territorio.

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Fiducia e cultura nell’aree interne
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Primo Levi, chimico della radio

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Da oltreoceano, agli inizi del 1964, arriva a casa di Primo Levi un pacchettino, con dentro un nastro magnetico. Sopra c’è scritto If This Is a Man ed è la versione radiofonica in lingua inglese, appena registrata, di Se questo è un uomo, prodotta dalla CBC, la radio canadese. Dura centoquaranta minuti. Levi aveva fornito qualche consiglio durante la stesura del copione, ma adesso non sa bene cosa aspettarsi. Certo non è la lettura del libro. Si tratta proprio di un adattamento. E per Levi – parole sue – è un’«autentica rivelazione»: «gli autori avevano capito tutto del libro, e anche qualcosa in più». Erano riusciti a realizzare per la radio «una ‘meditazione’ parlata, di alto livello tecnico e drammatico ed insieme puntigliosamente fedele alla realtà quale era stata» (Opere, a c, di M. Belpoliti, Einaudi, 2016, vol. I).

 

L’abile adattatore del testo si chiama George Whalley. Lavora da dieci anni alla CBC conducendo programmi di poesia e letteratura. Un suo radiodramma, Death in the Barren Ground, andato in onda nel 1954, a lungo è rimasto nella memoria degli ascoltatori, perché racconta la storia vera e misteriosa dell’ultimo tragico viaggio dell’esploratore John Hornby nelle zone artiche del Canada. Accanto a Whalley c’è sempre il produttore e regista John Reeves. Reeves non è un semplice impiegato della radio canadese. È un produttore all’avanguardia, conosce le moderne tecnologie sperimentate in Inghilterra e Germania. Nel 1959 è arrivato a Sorrento con il mento adorno di una mefistofelica barbetta nera a ritirare il Prix Italia, che ha vinto con The Last Summer of Childhood, radiodramma premiato assieme a Ceneri di Samuel Beckett. Quando decidono di affrontare il libro di Levi, è l’occasione per Whalley e Reeves di andare a scavare ancora più a fondo nelle teorie e nelle pratiche della radio. I tempi sono maturi. A Toronto, negli stessi anni, Marshall McLuhan insegna al St. Michael’s College. Naturalmente ne sono influenzati tutti. La radio è un mezzo di comunicazione di massa, raggiunge migliaia, milioni di persone, ma la relazione che instaura è sempre individuale, intima, “uno a uno”. L’ascoltatore è invitato a una partecipazione molto alta, perché è suo compito, tramite le suggestioni sonore, di immaginarsi i personaggi e l’ambiente circostante. La radio non l’ascolti, ma ci stai seduto dentro. Perciò Whalley vuole, con la messa in onda di Se questo è un uomo, far precipitare l’ascoltatore nell’ambiente sonoro di Auschwitz. 

 

Per ottenere l’effetto diventa fondamentale la ricostruzione sonora del campo, a partire dalle lingue utilizzate. Il narratore per chiarezza parlerà in inglese, ma tutti gli altri si esprimeranno nelle lingue che si sentono nel campo (tedesco, yiddish, francese, spagnolo, greco…). All’inizio dell’opera radiofonica l’annunciatore mette in guardia gli ascoltatori. Non tutto sarà comprensibile. Ma quando «brancoliamo sconcertati davanti a una battuta straniera e incomprensibile, proprio allora penetriamo a fondo nell’esperienza dell’autore, perché questo isolamento è la parte fondamentale della sua sofferenza». La composizione del cast è perciò assai accurata, perché si chiede agli attori di conoscere più lingue, a volte anche con precise sfumature dialettali. La società multilinguistica canadese favorisce il reclutamento di attori poliglotti. Alcuni sono appena arrivati dall’Europa, altri invece appartengono alla seconda generazione di immigrati. Tra gli attori ci sono anche persone che hanno compiuto personalmente l’esperienza del campo e questo rende le prove particolarmente commoventi. Il protagonista è Douglas Rain, attore noto della radio canadese, che verrà scelto pochi anni dopo da Stanley Kubrick per dare voce al computer HAL 9000 nel film 2001: Odissea nello spazio

 

I tecnici della CBC sono abili sonorizzatori e dispongono già di ampie ‘librerie’, che contengono i rumori più svariati. La ricostruzione procede minuziosamente, ma due suoni Whalley li vuole registrare dal vivo. Il primo è l’apertura delle porte dei carri di bestiame, da dove scendono i prigionieri appena arrivati ad Auschwitz. Per ricrearlo Reeves con Alex Sheridan, responsabile degli effetti sonori, si reca al mattatoio di Toronto di notte. Di nascosto registrano le porte sbattute dei carri con il bestiame condannato al macello. Il secondo suono è il vento gelido di Auschwitz. Anche in questo caso nessun rumore presente nelle librerie sonore sembra convincente. Raccogliere dal vivo il suono del vento è particolarmente complicato e richiede specifici microfoni antivento ancora poco diffusi. Sheridan, da virtuoso rumorista, riesce a ricreare il suono del vento alla vecchia maniera, soffiando lentamente sul microfono. La scena è quella dei moribondi. Il respiro si fa vento per poi tornare a intrecciarsi metaforicamente con il respiro dei malati.

 

 

If This Is a Man è una pietra miliare nella produzione radiofonica canadese. Reeves – che stringerà amicizia con Levi, incontrandolo più volte negli anni successivi, fino a pochi mesi prima della morte – è un grande innovatore tecnico che porta per primo alla CBC le tecniche di registrazione stereofonica e applica le metodologie del documentario radiofonico alla creazione di realistici ambienti sonori in particolari radiodrammi. Svilupperà negli anni successivi la quadrifonia e il surround, cioè gli impianti che possono circondare l’ascoltatore con il suono proveniente da tutti i lati. Contribuisce così alla messa a fuoco del concetto di paesaggio sonoro, elaborato pochi anni dopo dal suo collaboratore Raymond Murray Schafer. 

 

Mentre il nastro continua a scorrere, Levi precipita di nuovo nell’atmosfera del campo e rimane turbato. Capisce adesso chiaramente che la radio – come spiegherà in un’intervista a Giorgina Arian Levi in occasione dell’adattamento del La tregua nel 1978 – «è estremamente sottile, più sottile della televisione: suggerisce all’ascoltatore emozioni e sentimenti attraverso canali impercettibili» (Giorgina Arian Levi, La tregua alla radio, in cit., Opere, a c. di M. Belpoliti, Einaudi, vol. III).

 

La reazione è immediata. Levi vuole realizzare anche in Italia un adattamento simile a quello canadese e lo propone ai dirigenti della Rai. I tempi, in effetti, sono maturi. La produzione radiofonica italiana sta per attraversare un importante periodo di trasformazione. Certe sonorità cominciano ad apparire vecchie, consumate. C’è una nuova generazione di registi che cerca qualcosa di nuovo. La diffusione del nastro magnetico offre la possibilità di uscire fuori dalle sale di registrazione. Il desiderio è di andare a catturare le voci e i rumori inchiodati nei loro luoghi e non più ricrearli in studio. Ci si allontana dai modelli teatrali e ci si avvicina a quelli cinematografici. 

 

Il regista prescelto è il giovanissimo Giorgio Bandini, entrato a lavorare in Rai nel 1958. Lidia Motta, responsabile del settore prosa, lo definisce «imprevedibile e fantasioso». Nel 1964 ha già mandato in onda alla radio, in netto anticipo sulla rappresentazione teatrale, Il custode di Harold Pinter. Ha curato la regia dei radiodrammi di Samuel Beckett, Ceneri (1960) e Tutti quelli che cadono (1961). Nella seconda metà degli anni Sessanta sperimenterà, tra i primi, la stereofonia, vincendo anche il Prix Italia con Nostra casa disumana (1968).

 

L’incontro sarà particolarmente fecondo. Le prove durano quarantasette giorni, che Levi ricorda fra «i più felici della mia carriera postbellica, della mia carriera di scrittore», perché poter «lavorare in squadra, lavorare con altri, non da solo come fa lo scrittore a tavolino» è come partecipare a un grande «gioco» (P. Levi, Il teatrino della memoria [1982], in Primo Levi. Conversazioni e interviste 1963-1987, a c. di M. Belpoliti, Einaudi, 1997). Le riprese si svolgono soprattutto di notte e all’aperto, per ricostruire con meticolosità l’ambiente sonoro. Levi suggerisce idee sonore e indicazioni rumoristiche, affiancando il lavoro del regista e seguendo da vicino la Compagnia di prosa di Radio Torino e i numerosi non-professionisti – spesso sopravvissuti ai campi – coinvolti nel radiodramma. Il punto di partenza è l’opera canadese e si adopera la medesima tecnica del dialogo multilinguistico. L’adattamento italiano di Se questo è un uomo va in onda il 24 aprile 1964, alla vigilia dell’anniversario della liberazione. Ed è un successo. L’opera verrà considerata inaugurale di una nuova stagione della radiofonia in Italia.

 

Dopo il saggio di Luca Scarlini (1997), il ciclo di nove puntate di Pantheon a cura di Lorenzo Pavolini dedicate da Radio 3 Rai a Primo Levi e la radio (2017), gli adattamenti radiofonici pubblicati nel volume delle Opere (Einaudi, 2016), curate da Marco Belpoliti, e qualche saggio recente (Giuseppe Episcopo, On Solid Air: Primo Levi and the Radio Rai, in Interpreting Primo Levi. Interdisciplinary Perspectives), è evidente che il contributo di Levi alla radio non è né occasionale né marginale. Da alcuni racconti – in alcuni casi sarebbe meglio chiamarli veri e proprio radiodrammi – contenuti in Storie naturali a La tregua, la radio spunta fuori molte volte ed è utilizzata in modo mai banale, anzi con un certo gusto per la ricerca e la sperimentazione. Addirittura in Intervista aziendale (1968), che è un’improvvisazione radiofonica degli attori del ‘Teatro Gruppo’ diretti da Carlo Quartucci a partire da un’idea di Levi, l’autore prenderà direttamente parola. E sarà straordinario seguirlo nelle indicazioni fornite agli attori, nella contrapposizione al regista e al contempo nella consapevolezza di essere fisicamente dentro le sperimentazioni in atto della scrittura su nastro. Un altro capitolo da raccontare (R. Sacchettini, Nastri magnetici, materiali sonori: Carlo Quartucci e la radio in Donatella Orecchia, Carlo Quartucci 1959-1979. Vent’anni di memoria in corso di stampa).

 

La qualità dei suoni e dei rumori, la potenza espressiva delle voci, le componenti principali della narrazione orale e la capacità di ascoltare (e di ascoltarsi nell’atto dell’ascolto) sono gli elementi fondamentali che Levi riesce a distillare, quando avvicina il proprio orecchio alla radio, e poi a miscelare, quando opera da autore/adattatore delle sue opere. Insomma un modo di procedere che fa venire in mente il titolo di un libro di Tiziano Bonini sulla storia dei generi radiofonici. Levi, un chimico alla radio, o meglio un chimico della radio.

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Ligabue e Presley

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È uscito in questi giorni, presso l’editore Mimesis, il volume di Vanni Codeluppi Ligaland. Il mondo di Luciano Ligabue. Pubblichiamo in anteprima un estratto da questo volume relativo al rapporto esistente tra il cantautore emiliano e il cantante americano Elvis Presley.

 

 

Elvis Presley ricorre frequentemente nei discorsi di Ligabue. Si potrebbe quasi dire che è stato per questi un punto di riferimen­to costante. Il film Radiofreccia si conclude con la scena del funerale del prota­gonista Freccia, accompagnato dalla banda musicale di Correggio che suona Can’t help falling in love, il celebre brano con il quale Presley solitamente terminava i suoi con­certi. E all’interno di questo film è presente anche il cantante correggese Little Taver, sorta d’imitazione “alla buona” di Presley. E che dire delle luccicanti giacche tipiche dell’ultimo Presley che sono state più volte indossate da Ligabue durante i concerti? E delle canzoni Un figlio di nome Elvis, Buon compleanno, Elvis!, ma anche Ultimo tango a Memphis, una personale versione della celebre Suspicious Minds del cantante ameri­cano? Soprattutto, però, Presley è presente nel titolo dell’album Buon compleanno El­vis, che secondo molti rappresenta il vertice della carriera musicale del cantautore emilia­no. E, per presentare tale album alla stampa italiana, Ligabue ha scritto una lettera nella quale si è rivolto direttamente a Presley e gli ha detto tra l’altro: «Non sono uno dei tuoi milioni di fan, ma sono uno che ti stima e che ti vuole ringra­ziare soprattutto per una cosa che al rock hai dato e senza la quale il rock non potrebbe vi­vere: il Sogno».

Forse Ligabue ha guardato spesso a Presley perché questi è stato il primo personaggio musicale a diventare realmente intermediale, cioè un fenomeno di massa che vendeva milioni di dischi e appariva contemporaneamente in radio, televisione, stampa e cinema. Aveva dunque delle carat­teristiche molto simili a quelle di un cantante contemporaneo di successo come lui. 

 

Probabilmente, però, Ligabue ha guardato a Presley anche perché questo è stato il pri­mo divo musicale a sentire profondamente sulla sua pelle, sino all’autodistruzione, il peso della celebrità. Ad avvertire cioè di do­ver affrontare il faticoso lavoro di conciliare la propria identità personale con la fama e il successo. In Ligabue, infatti, compare spesso il tema delle difficoltà che tutti i per­sonaggi di successo sono costretti ad affron­tare per tentare di convivere con la loro im­magine pubblica. Lo troviamo per esempio in canzoni come Uno dei tanti o Sulla mia strada. Ligabue ne ha parlato anche nel libro di racconti Fuori e dentro il borgo, dove ha presentato se stesso come qualcuno che «cerca almeno di non farsi devastare dall’idea che chiunque possa, sulla base di due note, di una foto, di un’apparizione televisiva, di un’intervista pubblicata con i suoi begli ag­giustamenti, arrivare a emettere sentenze su di lui, su tutto ciò che ha scritto, sulla sua ani­ma» (p. 175). 

 

 

Più in generale, come si è detto, il tema dell’identità è sempre stato centrale nei lavori del cantautore emiliano. Al punto da essere anche il principale legame che tiene insieme buona parte delle canzoni di un inte­ro album: Nome e cognome

È evidente comunque che tutti quelli che fanno musica rock non possono che considerare Presley un fondamentale punto di rife­rimento. D’altronde, il dj Alan Freed viene di solito considerato l’inventore nel 1951 del termine “rock’n’roll”, da lui attribuito alla musica che trasmetteva dall’emittente ra­diofonica WJW di Cleveland nell’Ohio, ma è nel 1954 che si ritiene sia effettivamente nato il rock’n’roll. Quando cioè dagli studi dell’etichetta indipendente Sun Records, situati a Memphis nel Tennessee e di proprietà di Sam Phillips, sono uscite le prime can­zoni registrate da Presley (seguite successi­vamente da quelle di Carl Perkins, Johnny Cash, Jerry Lee Lewis e numerosi altri). 

 

Il rock’n’roll riusciva a fondere insieme per la prima volta la ritmica e secca scan­sione del rhythm & blues con la melodia morbida e altalenante del country & western, la musica dei neri con quella dei bianchi, i suoni della campagna con quelli della città. Rendeva così possibile fare accettare al pub­blico dei giovani bianchi quel ritmo travol­gente che caratterizzava la musica dei neri. E Presley era il personaggio adatto per otte­nere questo risultato, grazie alla sua capacità di integrare una voce profonda da nero e un forte senso della musicalità con un aspetto esteriore da bravo ragazzo bianco. 

Va anche considerato che all’epoca nelle aree suburbane i giovani bianchi soffriva­no notevolmente a causa di una situazione sociale insoddisfacente rispetto alle loro aspirazioni e si sono perciò identificati con facilità in una musica come il rock’n’roll, che percepivano come autentica espressione di una condizione di vita difficoltosa quale quella vissuta dai neri. Una musica, inoltre, che veniva proposta da cantanti che avevano la loro stessa età, a differenza degli stagio­nati interpreti di quella musica melodica che aveva avuto successo sino a quel momento sul mercato discografico. Una musica, in­fine, che permetteva loro di ribellarsi all’educazione e ai valori trasmessi dai genitori, dalla scuola e dall’intera società degli adulti.

 

I media hanno notevolmente amplificato l’impatto sociale ottenuto dal rock’n’roll. La televisione si è diffusa infatti su larga scala presso le famiglie americane durante gli anni Cinquanta ed è stata perciò in gra­do di portare direttamente nelle abitazioni le immagini dei nuovi divi della musica. Va considerato, inoltre, che la musica dei giovani e lo schermo televisivo hanno in comune la stessa modalità comunicativa: un flusso di immagini, stimoli, frammenti dove la velocità la fa da padrona sul senso razionale delle parole. E la scrittura punti­forme dello schermo televisivo è semplice e approssimativa come la struttura musicale del rock’n’roll. Ma proprio perciò, come ha messo in luce il mediologo canadese Marshall McLuhan nel volume Gli strumenti del comunicare, l’incompletez­za rende attivo l’individuo, coinvolgendo i suoi sensi attraverso la spinta a completare il messaggio parziale offerto.

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Roma: Città eterna, città interna

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Cento anni fa, il 20 gennaio 1920, nasceva a Rimini Federico Fellini. Lontano dalle celebrazioni, su doppiozero vogliamo raccontare un regista-antropologo che ha saputo penetrare come pochi altri l’identità (politica, storica, sessuale) italiana. Uno sguardo critico e al tempo stesso curioso, da “osservatore partecipante”, che si affianca a quello di tanti altri intellettuali e artisti (da Leopardi a Gramsci, da Salvemini a Bollati) che negli ultimi due secoli hanno cercato di spiegare quello strano oggetto chiamato Italia. 

Abbiamo voluto raccontare Fellini attraverso i personaggi e i luoghi dei suoi film: dallo Sceicco Bianco a Casanova, da Gelsomina a Cabiria, da Sordi a Mastroianni, dalla Roma antica a quella contemporanea, passando ovviamente per la provincia profonda durante il Ventennio fascista. Una sorta di “album delle figurine” per aprire nuovi sguardi su un cineasta forse più amato (e odiato) che realmente studiato. Per questo abbiamo deciso di aprire l’album con un intervento del nostro collaboratore Alessandro Carrera, che, con il suo recente Fellini’s Eternal Rome: Paganism and Christianity in Federico Fellini’s Films (Bloomsbury 2019), ha fornito un’originale contribuito ai più recenti studi sul regista.

 

 

Che Roma, per Fellini, sia stata una metafora del corpo materno (sua madre era romana) non è certo una novità. Nel 1965, in un'intervista al “New Yorker”, raccontò il suo arrivo a Roma da diciassettenne come la sensazione di essere finalmente a casa. Roma non era una città, era il suo appartamento privato, le strade erano corridoi. Roma è ancora la madre, aggiunse Fellini, Roma ti protegge.

 

 

Non c'è dubbio che Fellini abbia sempre considerato Roma come una preda da sedurre e dalla quale essere sedotti. Rossellini (nessuno era più romano di lui), piuttosto irritato del successo del suo ex assistente, dichiarò che La dolce vita era il film di un provinciale. Orson Welles fece notare che il provincialismo di Fellini era una delle ragioni del suo fascino. Senza sentirsi offeso, Fellini ribatté che ogni artista è un provinciale in viaggio tra la realtà fisica e la realtà metafisica, rispetto alla quale siamo tutti provinciali. In una delle sue conversazioni con Charlotte Chandler, Fellini fa capire che Roma è una città tanto “eterna” quanto “interna”, un appartamento ma anche una stazione di transito, una sosta tra due tappe che può durare un’intera vita. Voleva mettere i puntini sulle i solo davanti all’accusa di essere un decadente. Nelle varie interviste contemporanee all’uscita del Fellini-Satyricon affermò con forza che la decadenza non era la morte di una civiltà ma anzi il segno di una nuova vita che stava per nascere. 

Era stato Pasolini a rintracciare in Fellini un decadentismo specificamente italiano e cattolico, ma in Fellini mancano due tratti chiave del decadentismo cattolico, l'estetizzazione del peccato e l’eroticizzazione della salvezza. Fellini stesso dichiarò all'epoca di La dolce vita che nel film aleggiava lo spirito di Giovenale. Interpretazione curiosa: ignorava l'aspetto sarcastico-risentito del verso di Giovenale per concentrarsi invece su quella che per Fellini era una satira sempre trasfigurata dal volto gioioso della vita. Anche in un paesaggio di rovine, aggiunse Fellini, la luce che lo rischiara è magnifica, festosa, dorata. Afferma, nonostante tutto, che la vita è dolce.

 

Fellini è decadente come è moralista, realista come è onirico. In un suo breve intervento sull’incompiuto Don Chisciotte di Orson Welles, Giorgio Agamben si è chiesto fino a che punto dobbiamo prendere sul serio le nostre immaginazioni. La risposta implicita di Fellini è che l’artista che prende sul serio le sue immaginazioni fa del realismo. Da qui nasce Roma come città interna, perché solo la città interna ci dà accesso al Reale di se stessa. A Roma, i personaggi di Fellini sono sempre in viaggio attraverso gli intestini di un grande corpo. All'inizio di La dolce vita, Maddalena e Marcello si fanno portare da una prostituta in un appartamento inondato d’acqua, in una strada che ha il nome fin troppo rivelatore di Via dei Cessati Spiriti. Come sacerdotesse di un culto antico, Maddalena e la prostituta guidano la discesa di Marcello nelle umide interiora del corpo materno della città. Nella notte che passa tra quelle acque primordiali, Marcello penetra nel godimento incestuoso che è Roma, e da quell’abbraccio non sarà più capace di liberarsi; nessuna donna che incontrerà sarà così forte da spezzare quell'incantesimo. 

 

 

Se l'appartamento della prostituta è una pozza immobile nel tempo, il Colosseo (un’ossessione per i non romani, e dunque per Fellini) al contrario è un vortice dove l’intera città potrebbe scomparire. Toby Dammit, protagonista dell’omonimo episodio del 1967, avrà la testa mozzata grazie a un trucco del diavolo, ma non è il diavolo a uccidere Toby, è il labirinto che Roma è diventata. La città che Fellini esplora in Lo sceicco bianco, Il bidone, Le notti di Cabiria, La dolce vita, Toby Dammit e Roma, si stava ampliando più rapidamente di come mai le era accaduto. Tra il 1961 e il 1971 Roma crebbe del 27%. Non c'era urbanista, architetto, giornalista o scrittore che non denunciasse ogni giorno il disordine caotico, gli ingorghi del traffico, la perdita d’identità di una città rimpiazzata da una metropoli per quei tempi mostruosa. Il piano regolatore approvato nel 1962 (il precedente, a firma di Mussolini, era del 1931) non fu mai completamente realizzato. Gli edifici più o meno abusivi che spuntavano intorno al vecchio perimetro delle Mura Aureliane raggiunsero infine il Grande Raccordo Anulare, realizzato fra il 1952 e il 1970, creando così una terza città, oltre al centro storico e all'immediata periferia. La Roma della Dolce vitaè una città amabilmente asincronica, perfino pastorale, in cui l'automobile americana che porta al suo albergo una diva di Hollywood può ancora essere fermata da un gregge di pecore. Sette anni dopo, in Toby Dammit, veniamo invece precipitati nel post-boom economico di una mutazione rapidissima, una città abitata da una popolazione che non sa di vivere in un labirinto senza uscita e comunque non ha desiderio di uscirne (ne ritroveremo una versione ancora più degradata in Ginger e Fred del 1986).

Il viaggio di Toby Dammit dall'aeroporto di Fiumicino al Colosseo è una cartella clinica sui mutamenti che la città ha attraversato. Anche se molti dettagli sono ricostruiti in studio, il montaggio non segue le curve sinuose che sono tipiche di Fellini. Abbiamo invece una frenetica serie di inquadrature, in una spirale che tende verso il buco aperto del Colosseo, vero blocco libidinale dell’intera città, come se i mezzi di trasporto stessero eternamente circolando intorno a una gigantesca cloaca senza avere la possibilità di caderci e scomparire. 

 

Fellini non tratta mai Roma come se fosse la capitale d’Italia; dai suoi film non abbiamo mai l’impressione che esista una connessione vitale tra Roma e il resto della nazione. I suoi personaggi partono per Roma come se andassero in un altro paese, è come se Roma potesse esistere senza l'Italia e l'Italia senza Roma, che poi, come la descrive Fellini, è una città plebea, di sottoproletari, prostitute, aristocratici decadenti e preti sempre frettolosi. La gente lavora nel mondo dello spettacolo, nei media, o non lavora affatto. Gli intellettuali della Dolce vita radunati nel salotto di Steiner sono caricature, il proprietario della casa di Fregene dove si tiene l’orgia finale della Dolce vita parla furtivamente di avvocati e incontri ministeriali con il tono di un losco palazzinaro. Intellettuali degni di questo nome, persone che gestiscono un vero potere, imprenditori spregiudicati ma anche coraggiosi, seri membri del clero, semplicemente non ci sono. La Roma di Pasolini è ancora più selettiva, ma per scelta dichiarata. Fellini invece ci vuole convincere che Roma è un gran circo abitato da giocolieri e pagliacci, anche quando i pagliacci fanno paura. La sfilata di moda ecclesiastica in Roma raggiunge il suo culmine quando i presenti vanno in estasi davanti a un simulacro di Pio XII, il vero Sceicco Bianco, il papa che fu l’ultimo vero rappresentante dell’“aristocrazia nera”.

 

 

La strana verità che Fellini ci mostra è che Roma è un’entità autonoma Altre città hanno avuto il ruolo di capitale morale o culturale del Paese, non l'hanno mai lasciato volentieri a Roma, e appena possono se lo riprendono. Roma è il “ventre” d'Italia (Napoli fa caso a sé, è il ventre di se stessa), e il giudizio che Fellini dà sulla città dopo il completamento di Romaè tanto partecipe quanto spietato:

 

Giacché Roma è una madre, ed è la madre ideale, perché indifferente… Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando vai, come il tribunale di Kafka… Con il suo pancione placentale e il suo aspetto materno evita la nevrosi ma impedisce anche uno sviluppo… Qui non ci sono nevrotici ma nemmeno adulti… Questa cancellazione della realtà… nasce forse dal fatto che [il romano] ha qualcosa da temere o dal papa o dalla gendarmeria o dai nobili… si rinchiude in un cerchio gastrosessuale… Roma è abitata da un ignorante che non vuole essere disturbato… un ignorante che vuol bene alla famiglia… Un grottesco bambinone che ha la soddisfazione di essere continuamente sculacciato dal papa.

 

Fellini descrive una popolazione che vive in uno stato d’inesplicabile, masochistica servitù. Se il suo giudizio pare eccessivo, dobbiamo almeno confrontarlo con quello di Giacomo Leopardi, altro illustre provinciale, per capire le radici di questa psicologia della sconfitta compiaciuta:

 

Roma, la prima e più potente città che sia stata al mondo, è stata anche l’unica destinata e quasi condannata a ubbidire a signori stranieri regolarmente, e non per conquista né per alcuno accidente straordinario. Ciò negli antichi tempi… e ciò di nuovo ne’ moderni sotto i Papi (moltissimi dei quali non furono italiani)… Così la prima città del mondo… pare per una strana contraddizione e capriccio della fortuna essere stata… condannata a differenza di tutte le altre ad una legittima e pacifica e non cruenta schiavitù, e quasi conquista. (Zibaldone, Bologna, 1 Dec. 1825)

 

Venuto a Roma per sfuggire l'atmosfera soffocante di Recanati, Leopardi rimase deluso dalla città come dai suoi abitanti. Ma Fellini, caustico con i romani, non lo è mai stato con la città. A volte una strada familiare gli appariva in un colore sconosciuto, altre volte una brezza delicata gli faceva alzare lo sguardo e vedere vecchie case come non le aveva mai viste prima, stagliate contro l'azzurro del cielo. Sentiva un’eco musicale, una vibrazione, una sorta di immobilità africana, una differente consapevolezza del tempo, priva di angoscia, e quando questo incanto lo afferrava tutti i giudizi negativi sulla città sparivano, restava solo la sensazione di avere la fortuna di poterci vivere.

 

 

Due momenti di Roma sono altrettanto cruciali della sfilata di moda ecclesiastica: la scoperta della casa sepolta durante lo scavo della metropolitana e la corsa finale dei motociclisti senza volto che conquistano la città per poi abbandonarla, scomparendo verso Ostia e il mare. Entrambe le scene richiederebbero una lunga analisi. Prima che gli operai della metropolitana raggiungano la casa sepolta, però, un ingegnere informa che i primi progetti della metropolitana di Roma risalgono addirittura al 1871, quando la città divenne capitale. Il montaggio che alterna il tunnel mentre viene scavato e i 110 km di documenti sepolti nell’Archivio di Stato dura solo poche inquadrature, ma raggiunge l'obiettivo. Nei suoi diari di sceneggiatura, Bernardino Zapponi osserva che l’Archivio di Stato è il cimitero dei segreti del paese. Vi si può trovare di tutto, dal pettegolezzo sussurrato alla tavola di Re Vittorio Emanuele II ai rapporti della polizia fascista, dalle annotazioni di paranoici funzionari di polizia che vedevano congiure dovunque alle lettere dei poveri e dei pazzi, indirizzate a ministri e Presidenti del Consiglio, e che non hanno mai ricevuto risposta. L’Archivio di Stato, così furtivamente inquadrato, è l'unico luogo felliniano in cui Roma è veramente la capitale d'Italia, una nazione che per sopravvivere nel presente deve mitizzare il suo passato e al tempo stesso umiliarlo.

 

Nota bibliografica

L'intervista al regista apparsa sul “New Yorker” si può leggere ora in Fellini on Fellini, (trad. I. Quigley; New York, Da Capo 1996); mentre quella di Charlotte Chandler è reperibile nel volume, a cura della stessa Chandler, I, Fellini, New York, Random House 1995. La dichiarazione di Fellini a proposito di La dolce vita, che risale a un’intervista del 1960, è riportata sulla quarta di copertina della sceneggiatura del film, pubblicata nel 1981 da Garzanti. L'intervento di Giorgio Agamben sul Chisciotte wellesiano si trova nel suo Profanazioni, Roma, Nottetempo 2005. L’ampia citazione di Fellini su Roma, infine, è tratta da Fare un film, Torino, Einaudi 1980.

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20 gennaio 1920 - 20 gennaio 2020
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Far paura, ai limiti del visibile

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A cercare in rete qualche informazione sulle più recenti tassonomie delle paure dei bambini si scopre – prevedibilmente – che queste si possono dividere in paure spontanee e paure culturali. Queste ultime sarebbero le paure generate e alimentate dal contesto familiare, sociale e culturale in cui il bambino è immerso dalla nascita e per tutta la sua formazione alla vita e ai sentimenti. Sono le paure legate ad esperienze oggettive (traumi passati) o potenziali (l’abbandono del genitore, il dolore fisico), ma anche quelle originate dalla fantasia (i mostri, i ladri) nutrita di storie, figure e colori che popolano l’immaginario quotidiano di ognuno, grande o piccolo. Al contrario, le paure spontanee sarebbero quelle che prescindono da qualsiasi costruzione culturale, le paure presenti fin dalla nascita e che sono generalmente motivate dall’irruzione di qualcosa di inatteso, si tratti di una trasformazione fisiologica improvvisa (un rumore, un lampo) o dall’ingresso di un elemento inconsueto nel paesaggio abituale e confortevole del bambino (la paura dell’estraneo).

Proprio al confine tra queste due categorie dell’orrore quotidiano si colloca quella che per certi versi potrebbe essere considerata una paura costante della condizione umana, originaria e al tempo stesso nutrita di miti, leggende ed esperienze sociali: la paura dell’ignoto e di quella che potrebbe essere considerata la sua più classica manifestazione fisica, il buio.

 

Ha scritto Michel Pastoreau in Nero. Storia di un colore (2008): «L’essere umano ha sempre avuto paura del buio. Non è un animale notturno, non lo è mai stato, e anche se nel corso dei secoli ha più o meno addomesticato la notte e l’oscurità è restato un essere diurno». Una considerazione come questa consente di comprendere il senso di un’espressione – Far paura: ai limiti del visibile– che dà il titolo a un bel volume collettaneo, da poco edito da Silvana editoriale, che raccoglie gli esiti di un progetto di ricerca internazionale (Paradigmi della creatività), condotto tra le Università di Bergamo e della Sorbona, sotto la cura scientifica dei professori Franca Franchi e Pierre Glaudes. Al centro di contributi dalle impostazioni metodologiche e dalle afferenze disciplinari più diverse – dalla musicologia (Philippe Cathé) alla storia del teatro (Anna Maria Testaverde, Elena Mazzoleni), dalla letteratura (Marco Belpoliti, Michel Delon, Jacques Dürrenmatt, Pierre Glaudes, Francesca Pagani, Nunzia Palmieri) alle arti visive (Alberto Castoldi, Elio Grazioli, Arnaud Maillet, Giovani C.F. Villa, Andrea Zucchinali), dalla storia (Riccardo Rao) alla cultura visuale (Franca Franchi) – campeggia costante il tentativo di definire i modi in cui nell’arte, come nella cultura popolare, la paura ha acquisito intensità e forza dal suo radicarsi in qualcosa che è rimosso dalla vista, invisibile (fantasmi, spiriti), ma anche letteralmente inguardabile (il terrifico, il macabro, il disumano). 

 

In un romanzo che assegna agli spiriti dei defunti il ruolo di protettori dell’identità e di garanti della continuità di una famiglia, come La casa degli spiriti (1982) di Isabel Allende, una delle protagoniste, la piccola Alba, viene addestrata dallo zio Nicolás a vincere il dolore e altre debolezze: «Il suo metodo consisteva nell’identificare le cose che infondevano paura. La bambina, che aveva una certa inclinazione per il macabro, si concentrava secondo le istruzioni dello zio e riusciva a visualizzare, come se la stesse vivendo, la morte di sua madre. Vedeva la processione di amici che entravano in silenzio, lasciavano il loro biglietto da visita e uscivano a testa bassa. Sentiva l’odore dei fiori, il nitrito dei cavalli impennacchiati della carrozza funebre. Immaginava la sua solitudine, il suo abbandono, l’essere orfana». L’immaginazione si attiva, genera mostri, amplifica rumori e presenze possibili, ma comincia a definire i contorni di qualcosa che potrà essere visualizzato, affrontato, nominato. E così la paura originaria diventa meno spaventosa.

È per questo motivo, per la creatività che la paura stimola e con la quale la paura può essere esorcizzata che le arti appaiono come gli strumenti privilegiati per indagare la nascita e le trasformazioni di quella che secondo gli psicologi è «la più primitiva delle emozioni umane» (Belpoliti). L’arte riesce a intercettare e rappresentare gli archetipi che abitano l’inconscio collettivo, come dimostra il bellissimo saggio del compianto Professor Alberto Castoldi (scomparso lo scorso aprile): una rapsodia storica attraverso le figure della paura e del terrore nell’arte pittorica, dagli inattuali supplizi del Massacro ordinato dai triumviri (1566) di Antoine Caron, in cui la gratuità delle torture sollecita una fascinazione irrefrenabile, fino alle perfide creature che animano le scene oniriche di Alfred Kubin e la regressione darwiniana che subordina la nascita dei mostruosi protagonisti delle opere di Odilon Redon, passando per la caravaggesca Medusa, per gli incubi di Füssli e ancora per Ernst, Magritte e Picasso. Opere molto diverse tra loro, ma accomunate da una medesima, e criptata, dimensione autoritrattistica: i quadri, come macchine narrative, azionano un immaginario onirico, in cui erotismo e terrore dialogano, e in cui l’autore si specchia, invitando lo spettatore a riconoscersi a sua volta. 

 

 

È evidente, qui come in molti dei saggi del volume, che la paura ha uno stretto legame con l’inconscio individuale e assume spesso, quindi, forme di quello che Freud aveva definito unheimlich, il perturbante, ciò che al tempo stesso appare familiare ed estraneo. Una situazione rappresentata esemplarmente dalla bambola, oggetto statutariamente ambiguo e ambivalente, nato per sembrare qualcos’altro – un umano – e per dissimulare la propria vera natura, di simulacro. È proprio Freud a spiegare questa nozione a partire dal Mago sabbiolino (Der Sandmann) di E.T.A. Hoffmann, «in cui la bambola-automa Olimpia, oggetto di disputa tra i suoi due creatori che se ne contendono il possesso, è distrutta davanti agli occhi di Nathanaël che, innamorato di lei, la credeva una donna vivente». Franca Franchi nel suo contributo tratteggia un vero e proprio immaginario della bambola, che dalla metà del XIX secolo acquista una posizione centrale nella cultura occidentale, catalizzatore 

di un «erotismo spettrale», come nel caso dei primi manichini di cera utilizzati nelle vetrine dei negozi parigini, assurti al rango di feticci per i surrealisti (ma si potrebbe parlare anche delle più recenti love doll). Nella bambola la paura viene concretamente raffigurata, ma perde di definitezza a causa di un’altra carenza sensoriale, quella uditiva: «ciò che consente di identificarsi e di perdersi, di proiettare in essa ogni sentimento e comportamento umano al fine di renderla la compagna ideale, fedele e complice, è la scoperta del suo spaventoso e incommensurabile silenzio».

 

La paura prospera sempre laddove la pienezza sensoriale dell’individuo è impedita da qualche ostacolo. Talora a esser limitata è la vista, come nel caso della porta inaccessibile che nasconde i segreti del castello di Barbablù, la cui fiaba, musicata da Paul Dukas in Ariane et Barbe-Bleue (1907) su libretto di Maurice Maeterlinck, viene analizzata da Philippe Cathé; o come nel caso delle segrete dei castelli che popolano l’immaginario del romanzo gotico, studiato da Michel Delon. In entrambi i casi «le cause delle angosce sono uditive»: da un lato è la modulazione dei temi musicali a definire la trama della paura, sottolineando l’assenza inquietante di Barbablù e invece illuminando la presenza di Ariane, unica donna che potrà svelare il mistero; dall’altro lato, invece, l’eco che restituisce i passi e i respiri delle protagoniste non fa che amplificare le loro inquietudini.

E di segrete del castello si parla anche in un racconto di Italo Calvino, uno dei più raramente citati e anch’esso destinato a esser musicato (da Luciano Berio), ovvero Un re in ascolto (1982). Contenuto in Sotto il sole giaguaro e pensato all’interno di un progetto di indagine narrativa dei cinque sensi, Un re in ascolto è un lungo monologo che, come ricorda Nunzia Palmieri, «consente di dar forma ai segni sonori che giungono fino al trono e di mettere in scena allo stesso tempo il processo di decifrazione che li ricompone in una logica superiore». La perfetta meccanica di ascolto e decifrazione, che permette al re di esorcizzare «la vertigine dell’innumerevole, dell’inclassificabile, del continuo», viene rotta nel momento in cui nel consueto paesaggio sonoro intervengono due varianti inattese – ancora –: l’assenza di rumori, che prelude a un agguato del nemico, il pretendente al trono, e una voce femminile, che al contrario restituisce speranza al re. Sono il terrore e il desiderio che intervengono a turbare la quiete in cui il sovrano si era trincerato, a esporlo ai rischi del “continuo”, dell’ignoto.

 

La paura diventa il sentimento che mette a rischio la dimensione coatta della vita che il re si era ritagliato su misura. Altrove però Calvino ha ragionato ancora sulla paura e sulla sua funzione di collante identitario profondo: nella fiaba di Giovannin senza paura, raccolta e riscritta per le Fiabe italiane (1956), si delinea il profilo di un personaggio apparentemente incapace di provare paura, tanto che riesce a superare una prova che aveva invece visto perire tanti prima di lui. Non teme di trascorrere la notte da solo in un palazzo abbandonato, non si spaventa di fronte alla visione di un uomo fatto a pezzi che lo invita a seguirlo. Giovannino supera tutte le prove, tranne quella più infida, la prova inattesa della propria ombra: «un giorno gli successe che, voltandosi, vide la sua ombra e se ne spaventò tanto che morì». Come spiega Marco Belpoliti nel saggio d’apertura, Giovannin non ha paura della paura (soprattutto di quella esplicitata dai timori altrui) – e per questo Calvino lo apprezzava –, ma ha paura della parte nera del proprio sé; ha paura di un timore che fa parte della sua personalità, una passione forte e inaggirabile che definisce la sua stessa identità. 

 

«La paura è la prima e ultima passione della sua e della nostra vita. Che è poi anche la paura di morire» (Belpoliti). Ogni rappresentazione artistica cerca in fondo di esorcizzare questa paura, ma nessuna rappresentazione, nessuna visualizzazione riesce effettivamente a esorcizzarla. La piccola Alba della Casa degli spiriti, diventata grande e imprigionata dai militari golpisti che vogliono da lei una delazione, cercherà di mettere in atto le strategie di visualizzazione della paura insegnatale da suo zio Nicolás, ma le troverà inefficaci. Il supplizio delle umiliazioni, i dolori della tortura rendono impossibile qualsiasi immaginazione e obbligano la ragazza ad abbandonarsi senza speranza e senza visione al proprio destino. Sembra dunque esserci un limite oltre il quale il visibile – anche quello immaginario – non può spingersi; una soglia oltre la quale la sensibilità si anestetizza e si entra in una dimensione di paura pura, senza attributi. Qualcosa di simile alla sensazione provata dai pochi, selezionati spettatori della performance Blind date di John Duncan, realizzata a Los Angeles nell’estate del 1980. Il pubblico venne invitato a entrare in un piccolo magazzino – una porta, nessuna finestra, nessuna sedia all’interno: al buio Duncan spiegò di aver comprato il cadavere di una donna a Tijuana, di averci fatto sesso, versando in lei l’ultimo seme attivo prima di sottoporsi a una vasectomia; spiegò perché aveva deciso di rendere pubblica la propria azione e diffuse la registrazione della seduta con il cadavere. Una performance che mette gli spettatori di fronte all’illegittimo, all’illegale, all’immorale, che produce in loro reazioni di sdegno, di orrore, di totale rifiuto. E lo fa al buio. In questa performance, come spiega Elio Grazioli, forma e contenuto coincidono perfettamente: il buio è infatti la stanza della performance, ma è anche «il simbolo dell’oscurità stessa dell’operazione, è il suo contenuto e la sua forma, il suo medium». Ma soprattutto il buio, questa non-sostanza, questa pura assenza, espone l’individuo alla paura senza offrirgli alcun contesto entro cui leggerla e interpretarla: «l’oscurità mette di fronte a se stessi e la paura diventa quella di entrare all’interno, di andare a fondo, nel profondo di sé». 

Quel luogo che nessuno conosce e di cui tutti, in fondo, abbiamo paura.

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L’uomo ha tre dimensioni

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È un crescendo, ma anche un diminuendo o il ritmo piano di una spirale che si può aprire e poi sprofondarci. L’io-tu-noi forma un triangolo esistenziale in ogni individuo, dà vita a una costruzione originale: una trama di effetti sliding doors e “conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali”, come il filosofo e psicologo Wilhelm Wund definiva l’eterogenesi dei fini.

La convivenza della molteplicità dei nostri io con il tu insondabile di un altro, con il noi di un ambiente esterno che per ognuno è diverso, insieme reale e mentale, rende il collettivo una dimensione della psiche individuale.

In Io, tu, noi. Vivere con se stessi, l’altro, gli altri (Utet, 2019) Vittorio Lingiardi dichiara di voler “raccontare un’intersoggettività ideale immaginandola come una sfera armillare composta dall’intreccio dei tre anelli dell’io, del tu e del noi”. Un soggetto elastico e dinamico, in dialogo, disposto a correre l’azzardo del con, capace di inseguire i collegamenti tra le barriere sociali e politiche e i muri in testa.

Come nei precedenti Mindscapes (Raffaello Cortina Editore) e Diagnosi e destino (Einaudi), la scrittura va sempre veloce, la riflessione psicoanalitica spazia tra molti autori, contamina altri campi, dal cinema alla letteratura. Mentre la psicoanalisi stessa incontra pensieri diversi, dalle neuroscienze ai gender studies. Il discorso clinico così si affaccia su una rappresentazione culturale della contemporaneità. 

Punto di partenza imprescindibile rimane l’idea del conflitto dei mondi interni e dei mondi esterni, qualcosa di impossibile da semplificare. Perché, seppure con intensità diverse, ognuno di noi conosce e sperimenta l’Uno, nessuno e centomila. E il vivere connessi abitua, e forse costringe un po’ tutti, allo switching, a passaggi repentini di identità. Qualcosa che si può anche chiamare neo-identità. Ma, per chi soffre di sintomi dissociativi, si amplifica in “stati di personalità”: una realtà oggettiva, una realtà soggettiva, una ulteriore abitata da alter. Lingardi è d’accordo con un autore come Bromberg, in particolare con le conclusioni di un testo importante come il suo Clinica del trauma e della dissociazione. Standing in the spaces (Cortina, 2007), che la salute “non consiste nell’integrazione, la salute è la capacità di rimanere negli spazi tra realtà diverse senza perderne alcuna”. 

 

 

Un percorso analitico, ma potremmo aggiungere ogni ricerca di individuazione, migliora la nostra competenza autobiografica, permette di avvicinarci a quello che dice Freud quando si accinge a parlare di Dora, il suo primo caso: “una storia clinica conseguente, intelligibile e non lacunosa”. Una narrazione in contemporanea, nella quale non c’è mai un prima e un dopo, perché il nostro io è già il prodotto di una concatenazione interdipendente, tra aspetti costituzionali, anche quelli fisiologici, e il modo in cui siamo stati accuditi, visti, accolti. Qui, come in altri suoi testi, l’autore sottolinea quanto, nel doppio movimento etologico di attaccamento e separazione, le rotture e le riparazioni non siano modalità date una volta per tutte, ma una ripetizione nel continuum del ritmo di una relazione duratura, compresa quella analitica. 

Il rapporto d’amore è il fulcro della parte intitolata Con te. In un momento storico in cui l’io-tu della relazione amorosa è in sofferenza, in oscillazione tra le difficoltà di stabilire un contatto e le lacerazioni di trascinamenti simbiotici e fusionali. L’idealizzazione rende impossibile raggiungere l’altro, e gli incontri non diventano storie, e le storie non diventano convivenze. È ancora un film, The Hole, il buco, di Tsai Ming-Liang, a metterlo in scena. “In due appartamenti, uno sull’altro, di un grigio condominio di Hong Kong, vivono un uomo e una donna. Due esistenze ritirate in un mondo inospitale, caldissimo e umido, ininterrottamente battuto dalla pioggia. Due solitudini che non si incontrano mai, vite passate in stanze tristi, tra oggetti inerti. (…) Finché un idraulico, con una riparazione maldestra crea una crepa, un passaggio pavimento-soffitto tra i due appartamenti. Nella scena più emozionante del film, la donna si sveglia di soprassalto da un incubo. Mentre respira affannosamente, dall’alto, dal buco, scende il braccio dell’uomo che le porge un bicchiere d’acqua”.  

 

Di tutto questo la sessualità, spesso un campo di battaglia, è un rispecchiamento. Anch’essa forse nutrita dall’inconscia speranza che i nostri amanti riparino ciò che all’origine nessuno ha voluto/potuto vedere. Lingiardi cita Fonagy: “Di fronte all’eccitazione sessuale dei loro bimbi piccoli, la stragrande maggioranza delle madri afferma di distogliere lo sguardo”. Sensazioni che allora abbiamo dissociato potrebbero rivelarsi nell’incontro con l’altro, potrebbe essere questa la traccia di “disregolazione” nella sessualità. Una pista significativa laddove la sessualità oggi appare liberalizzata, ma non liberata. 

Nei Legami d’amore, così suona anche uno dei suoi titoli, Jessica Benjamin ci dice che è riconoscimento la parola chiave. E in un testo recente e fondamentale sull’argomento, Il riconoscimento reciproco. L’intersoggettività e il Terzo (Cortina, 2019), vede l’identità di ciascuno costituita dalla tensione tra un desiderio di onnipotenza e uno di contatto. Dobbiamo accettare la dipendenza da un altro indipendente che a sua volta dipende da noi, perché solo in questo modo è possibile uscire dallo stato illusorio che porta a un’idea di dominio. Quella del riconoscimento potrebbe essere chiamata una dialettica del controllo poiché, quando il sé controlla completamente l’altro, l’altro cessa di esistere e, viceversa, se è l’altro a controllare completamente il sé, allora è il sé che cessa di esistere. Condizione di una vera esistenza indipendente è solo il riconoscimento dell’altro, della sua diversità, della sua autonomia e infine del bisogno che abbiamo della sua presenza concreta. 

 

Il Terzo indica “la posizione in cui riconosciamo implicitamente l’altro come un ‘soggetto simile’, un essere che possiamo sperimentare come ‘altra mente’, una posizione costituita dal mantenere la tensione del riconoscimento tra differenza e uguaglianza, intendendo l’altro come un soggetto separato ma equivalente che agisce e conosce, con il quale tuttavia è possibile condividere sentimenti e intenzioni”. Jessica Benjamin parla della sua esperienza di madre, di terapeuta, ma anche del suo impegno politico con l’Acknowledgment Project durante la seconda intifada. In un mondo attraversato dal timore di perdita, invita a un cambio di postura: attivo versus passivo. È la consapevolezza della forza che deriva dal poter dare a risultare liberatoria, a permettere di non mostrificare l’altro con proiezioni spaventose. 

Con il pensiero di Jessica Benjamin Lingiardi introduce la parte conclusiva dedicata alla dimensione politica del lavoro psichico. E ricorda l’appello dell’aprile 2019 di più di mille psicoanalisti che, superando distinzioni di scuole e appartenenze, scrivono a Mattarella per esprimere la preoccupazione per il “clima di intolleranza e disumanità”, “razzismo crescente”, timore che si generi “una società psicopatica, paranoica e autoritaria”. Mentre sono sempre più numerosi i terapeuti impegnati nel lavoro con profughi, richiedenti asilo, traumatizzati da guerre, abusi sessuali, sfruttamento, torture. Perché la cura dell’io è cura del noi.

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Emilio Prini: tautologia, letteralità e paradosso

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Emilio Prini è stato uno degli artisti più misteriosi che si potessero mai incontrare. Non solo la sua opera, pochissimo esposta, per volontà sua, ma anche la sua vita è stata ammantata di mistero. Rarissime apparizioni pubbliche, era chiuso nel suo rifugio, prima a Genova poi a Roma e riceveva solo chi voleva – ci ha fatto un libro d’artista Luca Vitone, raccogliendo le telefonate tra loro per un appuntamento mai andato a buon termine (Effemeride Prini, Quodlibet, Macerata 2016). Colpito dalla malattia degenerativa che l’ha poi ucciso, negli ultimi decenni si reggeva male in piedi, a volte cadeva mollemente a terra mentre stava parlando con te e continuava a parlare come se niente fosse successo; le sue reazioni erano imprevedibili, poteva ingiuriarti se ti chinavi ad aiutarlo o prenderti la mano per sollevarsi come per non dare nell’occhio. Non aveva, credo volutamente, nessuna nozione del tempo; parlava tantissimo, ininterrottamente, su qualsiasi argomento, ma sempre dirigendo lui il discorso; ti teneva a parlare per ore, guai a interromperlo o fargli fretta per un appuntamento o un impegno. È stata la persona più geniale che abbia conosciuto, e l’ho conosciuto tardi e purtroppo pochissimo; era un vulcano di idee, nessuna scontata, nessuna puramente riportata, sempre ripensate e fatte proprie.

 

 

Niente era scontato con lui. Poteva mandare a monte – e l’ha fatto varie volte, mi risulta – qualsiasi impegno; non sapevi se avrebbe veramente esposto o avrebbe rispettato un appuntamento. A Montalcino, per la manifestazione “Arte all’arte” a cui l’avevo invitato, nel 2003, espose un vecchio lavoro modificandolo fino a cinque minuti prima dell’inaugurazione, chiuso dentro il luogo d’esposizione con il suo assistente mentre tutti aspettavamo fuori, senza la sicurezza che ci avrebbe fatto entrare!

Si usciva e si esce da una sua mostra, del resto rarissime – e già è una ragione per non perdersi assolutamente questa in corso alla Fondazione Merz di Torino fino al 9 febbraio –, storditi, con l’impressione di non aver trovato nessuna chiave per potersi orientare tra i numerosi indizi che comunque si è percepito sparsi lungo il percorso. Lo dico senza timore di autodenuncia di ignoranza critica, ma perché in realtà questa mi sembra proprio una delle chiavi, o meglio la cornice, per cominciare a comprenderlo: quello di Prini è stato un costante gioco di assenza e di dirottamento, di rottura dei luoghi comuni e di sorpresa, di vertigine dell’affermazione.

 

 

Per esempio, l’aspetto più evidente è quello dell’esecuzione di un’opera, un esercizio più che un oggetto, il quale ultimo può non essere esposto oppure è dichiarato svanito o perso o svolto o presente altrove. Così le Ipotesi d’azione (1967-68) o le dichiarazioni con cui partecipa al famoso libro Arte povera che lancia il movimento nel 1969 e che intitola Lato di vita chiave biologica. “La fotografia che ho scattato è svanita”, “Ho ricoperto una grande porzione del prato in adesione totale al terreno. Per azione della luce la foto si è progressivamente consumata, è stata arrotolata. Per azione del buio la porzione d’erba coperta è risultata bianca. La foto consumata è stata tagliata e accatastata in una stanza”. Sono tautologie vertiginose, come pochi in quel periodo di arte concettuale osavano o sapevano fare. Joseph Kosuth le intendeva in senso “analitico”, gli altri del gruppo americano in quello “processuale”, Prini in “chiave biologica”: non il concetto, ma l’esistenza biologica dell’artista. “Tutta la mia vita” è la dichiarazione principale della serie: “biologia” sta appunto per il significato vivo, organico di “biografia”. (Nel periodo in cui l’ho frequentato ricordo l’insistenza con cui tornava su un’idea che riprendeva da Gino De Dominicis, cioè quella dell’“immortalità del corpo”, piuttosto che dell’anima, sottolineava, questa è l’immortalità.) Nella vita non c’è presenza senza assenza, ma non c’è neanche assenza senza presenza: vedi Mostro – una esposizione di oggetti non fatti non scelti non pensati da Emilio Prini (1974-75). Così le Ipotesi d’artista sono sottotitolate “Scritte che restano scritte”.

 

 

Le sue opere oscillano tra la tautologia, la letteralità e il paradosso. Così un’opera paradigmatica resta Il cartello del film non fatto (1967-68), che tale è, un cartello con la scritta del titolo. Il film non è stato fatto ma il cartello ne dichiara una sorta di esistenza: anche il non fatto esiste in qualche modo nel momento in cui è dichiarato. Non fare è un fare, come hanno insegnato Marcel Duchamp e John Cage.

Del resto il meccanismo diventa il seguente, come dichiarato in Standard 1969: “Il registratore registra a consumo del meccanismo”, ovvero “Lo standard nel pieno possesso delle proprie attività dimensionali è intero nel senso del termine”. Così la fotografia della macchina fotografica: l’opera si realizza nel suo rimando interno e attraverso il suo consumo, è un Racconto che si fa da solo (1969).

L’idea di standard è uno dei fili conduttori della sua opera. Standard significa modello, tipo, norma cui si devono uniformare, o a cui sono conformi, tutti i prodotti e i procedimenti di una stessa serie, ma per Prini significa al tempo stesso “identico alieno scambiato”. Standard sono i rifacimenti di un gradino tipo per porta (1967) o il muro in curva o il sottopassaggio (1967/1995). I riferimenti reali li trovi nelle foto esposte nelle bacheche, ma, appunto, quale è il reale ora, quale il modello? È questo il collegamento tra la “vita” e l’oggetto-opera. In un’opera fotografica – l’uso della fotografia in Prini è tutto particolare, come si intuisce dagli esempi – scrive nel titolo “Ci sono anch’io”, per evidenziare il valore “biologico” dell’immagine. Standard sono anche le barche usate come fermacarte (Fermacarte, 1995), tra le sue opere più famose, o i Fogli da un taccuino di legno (1996): assurdi, dal punto di vista della funzione, ma reali.

 

 

Le ultime opere sono sbalorditive, se possibile ancora più enigmatiche e fuorvianti, cioè inattese. Per esempio La Pimpa Il Vuoto, del 2008, una serie di stampe fotografiche di vignette del famoso personaggio di Altan che disserta con gli amici su vari argomenti, all’insegna del “vuoto”, che non viene mai nominato ma sottende tutti gli pseudoragionamenti e aleggia sull’intera sequenza; anzi è letteralmente “presente” negli spazi vuoti lasciati appositamente all’inizio e alla fine, o meglio prima e dopo: l’esistente è già iniziato, continua...

Oppure Colori, del 2016, quindi sicuramente la sua ultima opera, composta da cartoni dai diversi colori, disposti in un ordine di cui non vedo una logica chiara, ma con il bianco al centro.

Standard è anche la regola – del mercato, del sistema dell’arte – a cui si chiede all’artista di sottostare, quella che si chiama stile o forma, riconoscibilità. La varietà dei mezzi, materiali e modi diventa allora essenziale per Prini, come strategia di spiazzamento, di paradosso, di inafferrabilità, di non volersi adattare, con-formare. (Questa lezione l’ha còlta Gianluca Codeghini che alla galleria Six di Milano, ha una mostra, intitolata significativamente Si spiega ma non si spezza, ispirata da un suggerimento in tal senso che gli venne appunto da Prini più di venti anni fa: sfuggire alle aspettative, degli altri ma su cui ci si regola anche noi stessi. Ma non solo Codeghini, anche tutto un gruppetto di artisti, tra cui Maurizio Cattelan, Maurizio Mercuri, Mirko Zandonà, che nei primi anni ’90 non per niente si scambiavano perfino tra loro: “identico alieno scambiato” appunto.)

 

L’arte è questo esercizio. Ha un senso? Ognuno risponda per sé. Resta anche il risvolto politico della questione. Prini non lo evita, anzi: c’è un Governo non standard – Due linee che si uniscono in basso, del 1986. È significativo che Prini abbia detto “governo”, non teoria ma propriamente esercizio della cosa pubblica. Eterno – o almeno secolare – problema del rapporto tra arte e politica: come si può concepire un governo che risponda all’indicazione dell’arte? La divisione resta inesorabile o le due linee si uniscono “in basso”?

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Un giorno di Dante che dirvi non so

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Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

(Giorgio Gaber)

 

«Dì» è parola dantesca, dall’«ultimo dì» che Capaneo ricorda nel XIV canto dell’Inferno (v. 54: «onde l’ultimo dì percosso fui») al «sol dì» di un ipotetico miracoloso mese invernale nel XXV canto del Paradiso (v. 102: «l’inverno avrebbe un mese d’un sol dì»). Sembra più che legittimo allora intitolare a Dante un dì, come ha fatto il Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo Dario Franceschini, proclamando il 25 marzo Dantedì, in coincidenza con quella che sembra la data più probabile per l’inizio del viaggio dantesco nell’aldilà. Di «dì» aggiunti a cose e nomi in funzione celebrativa e commerciale, esemplati sull’ovvio modello dei giorni della settimana (lunedì, martedì, mercoledì, ecc.), l’italiano ne ha già in verità alcuni, fino ai recenti Soledì, orologio meccanico da parete con ingranaggio a vista, il cui nome significa “giorno di sole” per suggerire «che ogni giorno è un giorno di sole e di speranza», come si legge nella pubblicità su amazon, e Caffedì, il caffè del lunedì secondo McDonald’s. Ma l’appropriazione a fini di branding, come si dice ora, di parole col suffisso in –dì non è certo nuova, a cominciare dal famosissimo e buonissimo Buondì Motta (il «Buondì mio», che «me lo merito, me lo merito io!»). L’inglese naturalmente aiuta sempre, perché il Dantedì sarebbe un Dante Day, con eco di quel D-Day che ha segnato lo sbarco in Normandia e l’inizio della liberazione dell’Europa dall’occupazione nazista. Un nuovo D-Day nel nome di Dante potrebbe far liberare chissà quali potenzialità represse degli studenti italiani e portare a un’improvvisa esplosione di fantasia poetica. 

 

La mancanza di creatività linguistica dei politici italiani non sorprende (nonostante l’autorevole sostegno dell’Accademia della Crusca e della Società Dante Alighieri), ma sorprende la loro straordinaria abilità nell’uso carnevalesco della cultura. Essendo il carnevale, come ha dimostrato il più grande interprete del carnevale nella cultura occidentale, il filosofo e filologo russo Michail Bachtin, un giorno di eccezione anziché normalità, in cui l’eccezione serve proprio a ribadire e rifondare la regola, i politici si rivelerebbero straordinariamente sapienti nell’applicazione dell’aureo motto populista panem et circenses: re per un giorno, il festeggiato ritornerà suddito per il resto dell’anno. Dante celebrato il 25 marzo potrà essere legittimamente dimenticato a partire dal giorno dopo e fino al 24 marzo dell’anno successivo: non sarà mica tutti i giorni, la sua festa? 

 

Che una giornata dantesca possa avvicinare giovani e meno giovani alla lettura della Divina Commediaè naturalmente solo auspicabile, ma le giornate di questo tipo, one-off, servono di solito, lo ha spiegato Daniele Giglioli qualche anno fa a proposito della ben più seria giornata della memoria, a trasformare quella che dovrebbe essere un’operazione quotidiana (il ricordo della Shoah o, in questo caso e con le dovute proporzioni, la lettura della Commedia) in un evento spettacolarizzato e salvifico, che esonera dalla pratica quotidiana proprio in virtù della partecipazione all’evento stesso. Succede insomma che basta dire di aver partecipato alla giornata della memoria o al Dantedì per sentirsi esentati dal pensare alla Shoah o dal leggere la Commedia. Il rischio è dunque più forte dell’auspicio. 

Con l’invito a celebrare piuttosto che capire attraverso la lettura paziente e la faticosa interpretazione, la storia si riduce a lezioncina morale e il passato si appiattisce sull'attualità: «non chi non ricorda, ma chi non capisce il passato è condannato a ripeterlo», ammoniva Giglioli di fronte alla diffusa «tentazione», sempre più frequente anche tra gli accademici, «di piegarsi a una storiografia da beccamorti, ossessivamente intenta ai cadaveri, ai corpi dilaniati, alle mummie, alle reliquie, come se non ci fosse più vita da raccontare». Dante rischia di venire ancora una volta monumentalizzato e mummificato, come è avvenuto con le tante statue che gli furono dedicate subito dopo il Risorgimento, durante il primo periodo unitario e poi il ventennio fascista. 

 

 

La lezione è comunque chiara: non contano l’esperienza, la dedizione, lo sforzo e il lavoro, ma la capacità di cogliere l’occasione al volo, la prontezza e l’opportunismo, perché ciò che importa, in linea con le caratteristiche della società dello spettacolo come l’ha descritta Guy Debord fin dal 1967, è esserci anziché studiare, farsi vedere anziché meditare e approfondire, approfittare della festa anziché crescere emotivamente e intellettualmente. In tal modo, Dante sarà un ulteriore strumento dell’infantilizzazione di massa cui la società capitalistica sottopone i suoi sudditi devoti da quando dispone dei grandi mezzi di comunicazione mediatica. Leggiamo Dante sarebbe slogan più eticamente responsabilizzante e politicamente rilevante del Dantedì; ma forse meno efficace mediaticamente e meno invitante per lo show business

La perplessità più grande riguarda tuttavia il carattere assolutamente passivo ed epigonale dell’operazione, che s’ispira al nome di Dante nella convinzione che Dante sia un patrimonio nazionale da salvaguardare e promuovere, un po’ come la pizza DOP e i vini IGT. Questa propaganda ha aiutato gli italiani a trovare una casa comune nella letteratura prima che nello Stato al tempo in cui uno Stato unitario non esisteva, ma in seguito ha costruito un’idea vuota e retorica dell’Italia e dell’italianità, come se essere figli di Dante fosse di per sé sufficiente ad assolverci da disunità strutturali, colpe storiche e responsabilità politiche. Protestava contro Dante, «tedescofilo seccante», già un poeta pur fascista e nazionalista come Massimo Bontempelli, proprio sotto il fascismo, individuando nel mito di Dante costruito tra fine Ottocento e inizio Novecento, la subordinazione della cultura italiana a modelli di pensiero e di civiltà costruiti fuori d’Italia, perché Dante era stato usato strumentalmente per aderire ai miti anti-italiani della Riforma mancata e del ritardo italiano rispetto alla modernità. 

 

Facciamo un solo esempio qui di quest’«Italia di Dante» costruita dallo sguardo straniero. Giuseppe Gazzino, il primo traduttore italiano del Childe-Harold di Byron, preponeva alla sua traduzione (1836) un sonetto in cui il Bardo britannico, poeta serio, veniva programmaticamente contrapposto ai poeti italiani dediti al canto di favole ed amori, che si apriva con questa quartina:

 

Terra di Dante!È ben ragion se abbomini

Il pervicace stupido cantor,

Che d’esser cote a tua virtù dimentico,

Sol di fole ti assonna e turpi amor.

 

Tutti tranne uno, l’italiano eccezionale che era più simile agli inglesi che agli italiani. Dante sarebbe stato l’unico poeta della tradizione letteraria italiana a evitare di essere un «pervicace stupido cantor», un ostinato e cretino devoto del bel canto, mentre tutti gli altri, dimenticando di stimolare la virtù (la coteè una pietra per affilare, quindi equivale a «sprone»), si sarebbero dedicati solo a favole noiose e storie d’amore più o meno lascive. L’opposizione tra virtù e canto suggerisce un’opposizione tra etica ed estetica che porta all’identificazione tra Dante e la virtù, da un lato, e tra la letteratura e la stupidità, dall’altro lato. Non più poeta, ma maestro di etica civile all’inglese, Dante potrà quindi essere usato politicamente, con l’auspicio che l’Italia si riconosca con la «terra di Dante» anziché di quelle fole e quegli amori che ne popolavano la letteratura da Petrarca in poi. Se si pensa che la parola «fole» è associata già da Dante, poi anche da Petrarca, ai romanzi, l’allusione si riferirà soprattutto alla tradizione cavalleresca, a quegli Ariosto e Tasso che al tempo erano percepiti, in endiadi, come cantori di «turpi amor». Dante, insomma, è modello etico anziché estetico, funzione ideologica della costruzione di un’identità nazionale moderna e laica, esemplata sulla lezione dei grandi pensatori europei della modernità borghese: in opposizione, soprattutto, alla tradizione letteraria italiana.

 

 

L’Italia di Dante, come ha spiegato Amedeo Quondam in un libro davvero importante di qualche anno fa, è infatti l’Italia di una parte politica progressista e borghese, che ha fatto di Dante il campione dei propri valori, l’individualismo, l’operosità, la coerenza morale, l’iniziativa imprenditoriale, la competitività di mercato, la polemica contro l’ingerenza della Chiesa negli affari terreni, secondo una linea di lettura moralistica che va da De Sanctis fino all’ancora diffusa didattica scolastica della Divina Commedia. Ma Dante è, per fortuna, anche altro, perché è un poeta-filosofo (e teologo) che conosce il valore della contraddizione come strumento conoscitivo ed esplora le potenzialità della parola a fini intellettivi. Senza tenerne conto, chi ha proclamato l’identità tra Dante e l’Italia ha pensato insomma a una sola Italia, come se altre ipotesi alternative non avessero più ragion d’essere nel nome di una ragione prima, identificata archetipicamente con Dante, che diventa la logica stessa di fondazione dello Stato borghese. Ora, che all’Italia di Dante si debba contrapporre l’Italia di Petrarca, come suggeriva un po’ manicheisticamente Quondam, col corollario che la prima sarebbe stata, ideologicamente, laica e liberale e la seconda, implicitamente, più comunitaria, includendo con ciò potenzialmente tanto un’impostazione cattolica quanto una comunista, obietterei che non è di garanti o santini che abbiamo bisogno, ma di pratiche condivise che allarghino il discorso e promuovano condivisione, contrapponendo all’Italia di Dante l’Italia di tutta la letteratura italiana – un’Italia senza eroi, che si distingua per la capacità di creare spazi di dialogo e confronto anziché continuare a ricorrere a simboli salvifici.

 

Dante coinciderebbe allora col peggio della tradizione nazionale: un’Italia moralistica e ipocrita, borghesemente operosa, ma in fondo chiusa e classista; quella della «congiura del Buon Senso, del perbenismo nazionale», contro cui polemizzava Ruggiero Jacobbi; quella della «coda di paglia», per dirla con Antonio Delfini; quella «retorica e letteraria», che Cesare Garboli disprezzava, associandola proprio a Petrarca e Dante. Tutti gli altri con Dante, ovvero tutti sul carrozzone nazionale, tutti per un’Italia sostanzialmente mediocre e materialista, tutti italiani brava gente dai buoni sentimenti. «Dai suoi poeti più unificatori di suolo e raccoglitori d’anime, dal suo tesoro figurativo e di pensiero, dalle sue rivolte e guerre passate […] l’italiano moderno (un’astrazione, ma non so come evitarla) non ha avuto in consegna che una patria simbolica e semiceleste, un regno dell’aria, per il quale non alzerebbe un dito, perché l’uomo non sente che la forza della terra, e quando combatte è l’alito di madre a spingerlo e a ubriacarlo», ammoniva più tardi, invero un po’ retoricamente, sia pure dalla parte opposta a quella della propaganda nazionalistica attraverso la letteratura, Guido Ceronetti. 

 

Certo, la politica ha bisogno di simboli, che aiutino a identificarsi collettivamente e che veicolino le passioni condivise, come ci ha ricordato magistralmente Gustavo Zagrebelsky in un aureo libretto di qualche anno fa. Ma i simboli dovrebbero nascere dall’esperienza comune anziché venire calati dall’alto. Se leggendo Dante gl’italiani trovassero nelle sue parole una fonte d’identificazione collettiva tale da farne un simbolo delle loro lotte e dei loro ideali, come successe durante il Risorgimento, ben venga; ma se Dante dovesse essere ancora una volta lo strumento di una negazione della letteratura, con la sua complessità, nel nome di una retorica politica unificante e semplificante, allora la sconfitta dell’Italia e della sua cultura sarà sotto gli occhi di tutti. Andrebbe riletto, alla vigilia dell’anno di celebrazioni dantesche che si prospetta, l’intervento che Benedetto Croce, in qualità di Ministro dell’Istruzione Pubblica dell’ultimo gabinetto Giolitti, tenne a Ravenna il 15 settembre 1920 proprio per inaugurare quello che sarebbe stato il sesto centenario della morte di Dante:

 

È probabile che, durante quest’anno dantesco, molti celebreranno in Dante il più ispirato apostolo della nazionalità italiana, o il maestro della vita morale e politica; così come per il passato egli fu variamente adoperato a insegna e sussidio delle pratiche lotte, ora per esaltare la grandezza della religione cattolica, ora per combattere la chiesa di Roma e il cattivo clero, ora per favorir l’idea di una ghibellina unità d’Italia, or quella di una sua guelfa federazione, ora per asserire con ardente fermezza il diritto all’indipendenza del popolo che aveva prodotto un tanto genio ed era in certo senso suo figliuolo, da lui generato o rigenerato e provvisto da lui di un viatico nei secoli. 

 

Questo Dante, diceva Croce, non era Dante, ma il Dante simbolo: perché agli uomini sommi tocca di diventare simboli e venire idealizzati. A nessun uomo, però, ammoniva Croce, si può chiedere di simbolizzare un ideale, «per la ragione che l’ideale non si rinserra nei limiti di nessun individuo, per grande che egli sia». Svincolato dalle strumentalizzazioni di parte, ma soprattutto liberato dalla responsabilità di essere politico e filosofo, Dante poteva tornare a essere solo uomo e poeta: 

 

il più alto e vero modo di onorare Dante è anche il più semplice: leggerlo e rileggerlo, cantarlo e ricantarlo, tra noi e noi, per la nostra letizia, per il nostro spirituale elevamento, per quell’interiore educazione che ci tocca fare e rifare e restaurare ogni giorno, se vogliamo “seguir virtute e conoscenza”, se vogliamo vivere non da bruti, ma da uomini.

 

Comprensibilmente il Dantedì piacerà agli stranieri che si occupano di Italia, i quali hanno ormai completamente introiettato l’idea che la cultura sia una merce in vendita e da vendere, soprattutto se insegnano lingua e letteratura italiana a scuola e all’università: come strumento promozionale e commerciale funzionerà, ne siamo convinti. Non vorremmo ritrovarci però, in pieno XXI secolo, nella condizione che Byron descriveva due secoli fa alla fine del suo The Prophecy of Dante: «the Italians, with a pardonable nationality, are particularly jealous of all that is left them as a nation – their literature», come se davvero non ci fosse che la letteratura a tenerci uniti. Se ci restasse solo Dante, non ci resterebbe che piangere. Ce lo ha ricordato più di recente, con grazia e umorismo, un grande poeta, Giorgio Caproni, che di Dante capiva certamente qualcosa di più dei politici che oggi ci governano: 

 

Ahimè

Fra le disgrazie tante

che mi son capitate,

ahi quella d’esser nato

nella «terra di Dante».

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Viaggi attraverso il grande schermo

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In Sherlock Jr. (in italiano La palla n.13), diretto da Buster Keaton nel 1924, il proiezionista di un piccolo cinema di periferia, interpretato dallo stesso Keaton, cade addormentato durante un film e sogna di “entrare” letteralmente nel grande schermo. È la prima immagine che mi è venuta in mente sfogliando due libri pubblicati di recente: Una visita al Bates Motel di Guido Vitiello (Adelphi 2019, pp. 251, 38 euro) e il Dizionario del cinema immaginario compilato da Alberto Anile (Lindau 2019, pp. 328, 24 euro). Più che due libri “di cinema” si tratta di libri “cinefili”: due «capriole della visione», per dirla con Anile, due tuffi «negli abissi dello schermo». Entrambi nascono, mi sembra, dal desiderio di penetrare quasi fisicamente nel film, di abitarlo, di esplorarlo scena per scena, metro per metro. 

 

Buster Keaton, “Sherlock Jr.”, 1924.


Detto questo, i due lavori sono profondamente diversi. Rispetto al volume Lindau, più modesto nella grafica e contenuto nelle dimensioni, quello targato Adelphi, sontuosamente illustrato a colori, è una festa per gli occhi: non solo un libro, ma anche un oggetto di pregio, come vuole la tradizione della casa (e in modo particolare della collana “Imago”, nella quale è pubblicato). Nella sua Visita, Vitiello, che insegna Teoria del cinema all’Università La Sapienza, sembra sfruttare il “paradigma indiziario” individuato da Carlo Ginzburg. Particolari all’apparenza trascurabili, poco più che casuali, molto spesso visibili a prezzo d’una più che attenta osservazione, si rivelano al contrario decisivi per individuare fenomeni più ampi: come, in questo caso, la visione del mondo di un regista (gli appassionati di coincidenze non potranno fare a meno di notare come “Imago” si sia aperta nel 2015 con un volume di Ginzburg). Proprio da uno di questi lapsus Vitiello incomincia la propria indagine intorno più famoso film di Alfred Hitchcock, Psycho

 

Novello Auguste Dupin, l’autore individua la propria “lettera rubata” in un articolo dell’Hollywood Reporter del 10 giugno 1959, in cui si annunciava che Hitch era al lavoro su un nuovo progetto: «Hitchcock to Film “Psyche”», era il titolo. Avete letto bene: “Psyche” in luogo di Psycho. Siamo dalle parti del Manganelli lettore di Pinocchio, che imbastisce una delle sue memorabili digressioni sul refuso “inverno/inferno”; o, più di recente, da quelle del Sofri alle prese con le traduzioni de La metamorfosi di Kafka. «Non v’è dubbio che l’uso di un refuso come indizio interpretativo sia, dal punto di visto della corretta filologia, assolutamente mostruoso», scriveva Manganelli; eppure, proprio seguendo questa “mostruosa” pista interpretativa, Vitiello ci conduce subito all’interno del thriller hitchcockiano, e per di più in una delle scene apparentemente più anodine. Lila (Vera Miles) e Sam (John Gavin) – rispettivamente sorella e amante di Marion Crane (Janet Leigh), brutalmente assassinata da un’ombra misteriosa sotto la doccia nella sua stanza al Bates Motel – si recano dallo sceriffo locale per denunciarne la scomparsa. Ebbene, alle spalle dei personaggi, appoggiata su una mensola rifilata sul fondo dell’inquadratura, c’è una statuetta in porcellana, una comune riproduzione in serie di un’opera di Canova. Si tratta di Amore e Psiche.

 

Alfred Hitchcock, “Psycho”, 1960.


Antonio Canova, “Amore e Psiche”, 1787-1793.


Anche se dichiara di non aver voluto “torturare” Psycho, di fatto Vitiello passa ciascuna inquadratura della pellicola «all’argano della moviola» per farle confessare ogni segreto. Inquisitore, dunque, ma anche restauratore (Psychoè qui considerato alla stregua di un dipinto o un affresco da passare ai raggi X) e persino curatore museale, poiché Una visita al Bates Motelè anche una sorta di minuzioso catalogo degli elementi che costituiscono il décor del film, squadernati uno per uno e disposti come pezzi di una collezione impossibile – o, per utilizzare una parola molto adoperata nel libro (e fin troppo di moda oggi, da Wes Anderson agli stessi volumi Adelphi), di una wunderkammer. D’altronde, secondo Vitiello, il Bates Motel è di fatto una wunderkammer da esplorare; e come tale lo tratta lo stesso Hitch, in veste di protagonista di un noto trailer del film, le cui orme il lettore del libro è invitato a seguire.

 

Che cosa scopriamo? Per esempio, che il quadro sotto cui si cela il pertugio attraverso il quale Norman (Anthony Perkins) spia Marion denudarsi, in una scena che è l’apice del voyeurismo hitchcockiano (e del voyeurismo novecentesco tout-court), è un dipinto di Willem van Mieris del 1731, trafugato nel 1972 e mai più ritrovato, che raffigura l’episodio biblico di Susanna e i vecchioni. Un dipinto del tutto coerente con la scena, dunque, ma non solo: qualche minuto (e poche righe) più avanti, Vitiello aggiunge un’ulteriore pennellata “warburghiana”, mostrando(ci) che il gesto disperato di Susanna in balia dei due assalitori, è riprodotto tale e quale da Marion ferita a morte: un omicidio che è quasi uno stupro, come già aveva osservato François Truffaut. 

 

Willem van Mieris, “Susanna e i vecchioni”, 1731.


Janet Leigh in “Psycho”.


Ma Vitiello non si accontenta di fare da cicerone (o, per usare le sue parole, “mistagogo”) fra le varie stanze del Bates Motel e della magione annessa. Come indicano i titoli delle due parti in cui è grosso modo suddiviso il libro (“Misteri Minori. Bates Motel” e “Misteri Maggiori. Bates Mansion”), l’autore sembra individuare una sorta di messaggio cifrato tra le opere di questa ipotetica collezione. La statuetta pseudocanoviana di Amore e Psiche in casa dello sceriffo; le due Veneri presenti nel salotto del motel (a malapena visibile la riproduzione della Rokeby di Velázquez, un poco di più quella di Tiziano); le raffigurazioni allegoriche della primavera appese in casa Bates; la statuetta di Orfeo nella camera della madre di Norman, Norma… In un’intervista, citata da Vitiello nelle prime pagine del libro, sir Alfred spiega alla columnist Louella Parsons che il suo nuovo film (il futuro Psycho), sarà «un’escursione nel sesso metafisico». Informazione ironicamente criptica che Vitiello utilizza come indizio-chiave: da “normale” thriller, Psycho si trasforma in un percorso misterico in tre tappe, tre miti di amore, morte e rinascita. 

 

Così, il film di Hitchcock è la storia di una Psiche (Marion) che insidia Eros (Norman) sotto lo sguardo minaccioso di una Afrodite invisibile e crudele (Norma Bates); ma è anche la storia di un Orfeo (di nuovo Norman) che non riesce a resuscitare la sua Euridice (la madre-amante Norma); e infine di una Proserpina (Mrs Bates, anche qui) che non tornerà più dall’Ade. «Un rito ciclico di morte e rinascita è celebrato nelle stanze di casa Bates», conclude l’autore. «La donna deve morire affinché, dalle sue braci, possa nascere la Diva […] è così per la signora Bates, avvelenata e sepolta per risorgere come grande fenice. Ma stavolta qualcosa è andato storto. […] Restava una Demetra ghignante dalle orbite nere». Psycho come morte dello star-system, quindi – e, più in generale, del cinema classico hollywoodiano: il film di Hitchcock esce nel 1960, lo stesso anno in cui La dolce vita di Fellini vince a Cannes la Palma d’Oro e nelle sale debuttano L’avventura di Antonioni e Fino all’ultimo respiro di Godard, capisaldi di quella che sarà la modernità cinematografica. 

 

Si esce dalla visita colti da un leggero senso di vertigine. «Non si sa bene, al termine di questa appassionante lettura, se la perfezione del sistema […] sia frutto dell’opera che essi analizzano o soltanto del loro pensiero»: così, pochi mesi prima di morire, André Bazin recensiva la monografia su Hitchcock firmata nel 1958 da Claude Chabrol ed Eric Rohmer. La cautela del fondatore dei Cahiers du Cinéma vale anche per questa Visita al Bates Motel? L’impressione è che il libro ci dica più delle ossessioni personali dell’autore che non di quelle hitchockiane. Sia ben chiaro: era difficile dire qualcosa di nuovo a proposito di uno dei film più interpretati (o sovrainterpretati) della storia del cinema, che ha dato vita a tre seguiti ufficiali, una serie TV, un remake a colori “frame-by-frame” (lo Psycho di Gus Van Sant, 1998) e un numero incalcolabile di parodie e omaggi. E se forse il libro manca il bersaglio che si era prefissato, ne centra in pieno un altro: l’importanza, mai abbastanza sottolineata, del décor nell’opera del regista britannico: «Hitchcock non lasciava nulla al caso», scrive Vitiello. «Robert Clatworthy, uno degli scenografi, lo ricorda, prima del ciak, intento a disporre cianfrusaglie, ninnoli e soprammobili con un’attenzione maniacale». 

 

 

All’ingresso della mostra Hitchcock et l’art, allestita a Montréal e a Parigi fra il 2000 e il 2001, nella quale venivano esposti, a mo’ di ready-made, gli oggetti che avevano fatto la storia (e le storie) del cinema hitchcockiano, erano riportati i versi di una poesia che Godard aveva composto per le sue Histoire(s) du cinéma (1988-98): 

 

Abbiamo dimenticato/ su cosa/Montgomery Clift mantenga/ eterno silenzio/ e perché Janet Leigh/ si fermi al Motel Bates […] ma/ ci ricordiamo/ di una fila di bottiglie/ di un paio di occhiali/ di uno spartito/ di un mazzo di chiavi/ perché con questi/ e attraverso questi/ Alfred Hitchcock riuscì/ là dove fallirono/ Alessandro Giulio Cesare/ Napoleone/ avere il controllo dell’universo

 

Il cinema come luogo del dominio assoluto. Non a caso, parlandone con Truffaut, Hitchcock definiva Psycho «l’esperienza più appassionante che ho fatto di gioco col pubblico. […] Non è un messaggio che lo ha incuriosito. Non è una grande interpretazione che lo ha sconvolto. Non è un romanzo molto apprezzato che l’ha avvinto. Quello che ha commosso il pubblico è stato il film puro».

 

Allontaniamoci dal Bates Motel e torniamo a Keaton, che abbiamo lasciato in balìa dello schermo cinematografico. Proprio il suo Sherlock Jr., infatti, ci può fornire un’ottima chiave d’accesso per il secondo libro di cui stiamo parlando. Mentre sappiamo quasi tutto del capolavoro di Keaton, pochissimo, anzi nulla, sapevamo invece di Hearts and Pearls, la pellicola che egli stesso proietta nel corso del film. Fino a oggi, quando, grazie al Dizionario del cinema immaginario di Anile, questo titolo negletto non è più soltanto un nome: 

 

Hearts and Pearls or The Lounge Lizard’s Lost Love (Usa, 1924, b/n muto).**

Un giovane bellimbusto corteggia una bella ereditiera con lo scopo di sgraffignarle una preziosa collana di perle; a colpo riuscito, l’uomo si scopre innamorato della sua vittima, le restituisce il bottino e la chiede in sposa: convoleranno a nozze e avranno due gemelli. Melodramma leggero in cinque rulli, prodotto con gusto dalla Veronal Film Company. Non troppo originale ma di fattura gradevole e privo di svenevolezze. Ignoti regista e interpreti, non menzionati nei cartelli.

 

Di schede come questa ce ne sono altre 389, ciascuna completa di trama, giudizio e stellette (da * a ****). Tutte ispirate, con una ironia che non esclude l’affetto, a uno dei più noti dizionari dei film, quello di Paolo Mereghetti: il quale, dal canto suo, “benedice” l’iniziativa con una apposita prefazione. Cinema immaginario, ovvero i film che, come l’esempio appena citato, esistono soltanto all’interno di altri film. «Estrapolati dai film reali», scrive Anile nelle semiserie Istruzioni per l’uso, «i film immaginari ritrovano una trama coerente, rivendicano una critica onesta, rinascono a nuova vita, ottengono finalmente piena cittadinanza». 

 

 

Conosciuto fra lettori e studiosi per i suoi saggi di storia del cinema (da Totò a Welles, da Rossellini a Visconti), Anile si è dato due contraintes nella sua compilazione: che il film “ospitante”, o porteur, fosse un’opera destinata alla sala cinematografica (pochissime le eccezioni: Vanità e affanni di Bergman, l’episodio di Masters of Horror diretto da Carpenter e The Other Side of the Wind di Welles); che il film “ospite”, o porté, avesse un titolo: niente scheda dunque per la trasposizione evangelica che si vede girare ne La ricotta di Pasolini, né per la pellicola che apre a mo’ di prologo Stardust Memories di Allen, né per il film pacifista che Emmanuelle Riva va a interpretare in Giappone all’interno di Hiroshima mon amour di Resnais. 

 

Per il resto la schedatura copre oltre un secolo di cinema, dalle origini al 2019. Fra i titoli troviamo anche i film girati in Italia da Rick Dalton/Leonardo DiCaprio all’interno di C’era una volta a… Hollywood e Sabor, leggendario esordio di Salvador Mallo/Antonio Banderas rievocato nell’ultimo film di Almodóvar. Nessuna concessione all’autorialismo: il giudizio sul film-nel-film prescinde spesso dal valore sul film che lo contiene, senza distinzioni fra esempi celebri e semisconosciuti, capolavori e oscenità.

 Il lettore si potrà imbattere in titoli emblematici: La rosa purpurea del Cairo (inteso come film-nel-film), che risulta purtroppo perduto poiché «tutte le copie della pellicola sono state ritirate e i negativi distrutti in seguito alla clamorosa sortita di un personaggio dallo schermo di un cinema del New Jersey»; Vi presento Pamela, al centro del truffautiano Effetto notte; l’Odissea diretta da Fritz Lang all’interno del Disprezzo di Godard («Sta al peplum come Metropolis sta al cinema di fantascienza»: quattro stelle).

C’è però spazio anche per alcune perle per i più cinefili, come le schede dedicate a See You Next Wednesday/Ci vediamo mercoledì, titolo che scorrazza a mo’ di tormentone in diversi film di John Landis; e persino a Le casalingue, il porno cui assistono inopinatamente Fantozzi e la signora Pina in una scena cult di Fantozzi va in pensione.

 

Al pari di Vitiello, Anile non esita a sottoporre un film allo scorrimento “frame-by-frame”, se l’indagine lo richiede. Si scoprono così dettagli inaspettati: qualcuno si era mai accorto, per esempio, che il titolo del leggendario musical morettiano sul pasticcere trotskysta, vagheggiato in Caro diario e parzialmente realizzato in Aprile, è La solitudine del trotskysta? E quanti sapevano che Coming Up Daisy, la commediola che Frances McDormand e George Clooney vanno a vedere al cinema in Burn After Reading dei fratelli Coen, è (nella finzione del film, ovviamente) diretta da Sam Raimi su sceneggiatura di Cormac McCarthy?

 

Silvio Orlando ne “La solitudine del trotskysta” (da “Aprile” di Nanni Moretti, 1998).


Il Dizionario è un gioco. Anzi, come suggerisce l’autore stesso, «un gioco a quiz ad alta gradazione cinefila». Come tutti i giochi è programmaticamente “aperto”: ognuno cioè vi potrà trovare le proprie preferenze, lamentare le esclusioni e colmare eventuali lacune (personalmente, mi ha sorpreso l’assenza della Salomè diretta da Colin McKenzie, fantomatico protagonista del mockumentary di Peter Jackson Forgotten Silver, ma confido in una seconda edizione accresciuta). Un gioco, ma non uno scherzo. In apertura, Anile definisce il Dizionario «un atto di fede»; e, nella postfazione In lode del cinema immaginario, reindossa i panni dello studioso per approfondire e ripercorrere, non senza una punta di polemica, le fortune e i fraintendimenti cui è andato incontro il metacinema nel corso degli ultimi trent’anni. 

 

Per almeno un decennio, tra la fine degli anni ’70 e la metà degli anni ’90, in piena sbornia postmoderna, il metacinema era avvertito come il primo sintomo della morte del cinema stesso: «Il succo del dibattito dell’epoca è che al cinema fosse rimasta soltanto la prospettiva di ripetersi con la consapevolezza del proprio mandato, ovvero di raccontare metaforicamente se stesso, alludendo di continuo ai meccanismi della visione». 

Oggi sappiamo com’è andata a finire: il cinema sta per celebrare il proprio 125esimo compleanno, e, a dispetto delle innumerevoli trasformazioni e dei radicali cambiamenti nei modi di fruizione, appare ancora vivo e vegeto. «La tentazione, il desiderio, la voglia di parlare di cinema nel cinema, o di cinema col cinema, non è appannaggio esclusivo di un’epoca post-qualcosa, ma attraversa tempi, culture, continenti diversi». Il metacinema può essere molte cose: omaggio, critica, riflessione. Eppure, suggerisce l’autore, esiste una distinzione fondamentale: un conto è ricostruire in un film la lavorazione di una pellicola del passato (da Ed Wood di Burton a Celluloide di Lizzani), altro è creare un’opera ex nihilo per poi raccontarne la storia all’interno di un altro film. «Quando Ettore Scola rimette in scena in C’eravamo tanto amati il set della Dolce vita, con i veri Fellini e Mastroianni», scrive Anile, con un paragone particolarmente azzeccato, «il suo sforzo è quello di evocare qualcosa di esistente cercando la maggiore somiglianza possibile. Quando invece lo stesso Scola nella Terrazza propone L’apostata, “scandaloso” film immaginario da proiettare in una snobistica anteprima […], ha dovuto pure scegliersi nuovi volti, un nuovo stile, immaginare una trama minimamente originale». In altre parole, ha dovuto compiere un’operazione creativa.

 

La troupe di “I sopravvissuti” (da “Lo stato delle cose” di Wim Wenders, 1982).

 

In casi come questo, la mise en abîme non è soltanto un’operazione gelidamente teorica. «Se per il regista il film è una specie di figlio», scrive ancora Anile, «il film immaginario dentro il film reale è una specie di nipotino, gracile e incompiuto». Un “oggetto” che va maneggiato con delicatezza e dal quale, talvolta, ci si congeda persino malvolentieri. «Sono contento di come è riuscito questo film», ha dichiarato Wim Wenders a proposito de Lo stato delle cose, «anche se, forse, non avrei dovuto interrompere il “film-nel-film”». 

 

Lo stato delle cose si apre appunto con un prologo che fa il verso all’ultimo film diretto da Allan Dwan, The Most Dangerous Man Alive. La pellicola, un esempio di science-fiction distopica, si intitola The Survivors, “I sopravvissuti”. Trascorsa una settimana di riprese, racconta Wenders, uno strano incantesimo sembrava essersi impossessato della troupe: «gli attori cominciavano a sentirsi a loro agio nei ruoli, nei costumi e avrebbero voluto continuare quel film». Il regista ricordava di aver girato la panoramica con cui si passava da The Survivors al suo dietro le quinte «nel dispiacere generale». Come molti film sul cinema, Lo stato delle cose racconta dell’impossibilità di portare a termine una pellicola “maledetta”, una resa all’impossibilità di raccontare storie sul grande schermo. «Le storie esistono solo nelle storie», spiega alla sua troupe Friedrich Munro (Patrick Bauchau), regista del film-nel-film, rimasto senza fondi per proseguire. «Un’idea preconcetta», ribatte lo stesso Wenders. Però, una volta sul set, il film porté, il B-movie di fantascienza, gli era sfuggito di mano e lottava per non morire, sacrificato sull’altare di un mero assunto teorico. Non ce la farà, ma riuscirà a inoculare un po’ della sua fiction nel corpo del film principale: «Un po’ di finzione salva quest’opera di “anti-finzione”», conclude Wenders: «Allan Dwan ha finito per vincere». 

 

A dispetto delle apparenze, il Dizionario del cinema immaginario, questo singolare capriccio vagamente oulipien, si rivela allora qualcosa di più serio. Un tuffo talmente profondo nel grande schermo da spingersi ben oltre la pura e semplice ossessione. Più che un atto di fede, è una dichiarazione d’amore: non nei confronti del gesto creatore del regista-demiurgo, ma di chi il cinema lo pensa, lo vive, lo fa. 

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Paolo Maccari, I ferri corti

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Uno dei tanti sintomi del fatto che la letteratura conta sempre meno, nella cultura generale, sta in una scissione curiosa quanto sinistra. Tra gli intellettuali sotto i cinquant’anni, i più dotati di idee e di gusto la considerano di solito un parco archeologico, un tavolo su cui i giochi sono fatti, e si compiacciono di maneggiare solo corpi ben morti: non sono interessati ai precari esperimenti estetici che restano possibili in quelli che Luigi Baldacci chiamava «tempi di proroga». Viceversa, coloro che si trovano direttamente impegnati nella narrativa o nella poesia sembrano tipi piuttosto inclini al bovarismo. Da una parte i nerd, insomma, dall’altra i velleitari. È quindi un sollievo imbattersi in un letterato consapevolissimo della storia e dei mezzi che usa, ma al tempo stesso indisponibile a rinunciare al rischio che esige la letteratura viva e intera, in fieri, come lo esige la vita che la nutre e ne è nutrita: una letteratura, cioè, che sia luogo di conoscenza e di responsabilità totale, anziché fuga nell’estetismo. Così la concepisce Paolo Maccari, classe 1975, che in I ferri corti, un’autoantologia pubblicata da LietoColle, raccoglie oggi «circa un terzo delle poesie e delle prose» pubblicate a partire dal 2000. Quell’anno Maccari esordiva con i versi di Ospiti, introdotti proprio da Baldacci. Il titolo allude, tra l’altro, alla sezione incentrata sul suo servizio civile in un ospizio, dove registra impotente il progresso del «male». «S’osservano, si chiamano», dice il poeta dei parenti in visita, «cercano a vicenda nell’altro un nuovo / specchio, la mossa giusta nella dama / del rimorso. Ma vanamente, un rovo / di timore punge. E si entra: la chiama // ha inizio. I vecchi vanno incontro ai figli, / ai nipotini, ai mariti e alle mogli. / Alcuni, impazziti, osservano i tigli // del parco, come se niente fosse. E cogli / negli occhi dei cari un breve sollievo. / “È inutile venire, lo sapevo”». Prevalgono qui le forme chiuse: ma gonfie, sbrecciate, come in suppurazione. L’onestà di Maccari sta nel descrivere le agonie con severa aderenza, senza fingere di poter comprendere ciò che è mostruoso e senza fingere di poter rinunciare alla mediazione culturale del dolore. Nella casa di riposo parlare è inutile, eppure farlo è giusto, come giustaè la preghiera del «Gesù in croce» che odia «il silenzio del Padre». Ma prima d’inquadrare questo male scultoreo, il poeta provava a circoscriverne uno meno visibile, che gli sviluppi successivi avrebbero rivelato poi come il suo tema dominante. 

 

Alludiamo alla sofferenza dei «nervi», termine ricorrente che indica il punto d’incontro e di scarico delle tensioni psicosomatiche e psicosociali. Dai primi testi fino agli ultimi inediti, Maccari ha rappresentato con sempre maggiore plasticità e sottigliezza questo «dolore paludoso», dai confini labili, di cui non si sa mai dire con certezza se venga dall’esterno o sorga dall’io: un male “ospite”, nel doppio senso del termine, di una condizione esistenziale e universale di sfacelo. Spesso ne dà conto, con calcolato eccesso di allegorismo, attingendo al bacino semantico della guerra, della strage, ossia di quella lotta dichiarata fin nel titolo michelstaedteriano dell’antologia. E del resto anche i vecchi dell’ospizio, bloccati in un letto con le sbarre, vengono associati ai martiri dei circhi romani: la fiera che li divora è dentro, mentre fuori il pubblico assiste al «massacro». Si direbbe che il linguaggio bellico svolga due compiti opposti: dà forma e dignità a una malattia e a una battaglia che sembrano non averne, e che non concedono dunque l’onore delle armi, ma insieme, appunto per questo, suggerisce che qualunque forma è inadeguata a rendere la loro natura sfuggente, pervasiva e spettrale. Nessun paesaggio, tragico o idilliaco, riesce infatti a significarle, a trovare riscontro in un correlativo soggettivo. La nettezza metallica di certi scenari militari, allucinati e incolori, fa pensare ai modi con cui Fortini cercava di dar corpo ai propri fantasmi ideologici. Il suo primo libro si apriva sull’immagine di una «città nemica» e di un pugnale piantato nelle viscere; e così accade anche in Ospiti, dove Troia e i guerrieri nascosti nel cavallo accennano già a una ferita immedicabile, a un parassita interiore e a uno sdoppiamento. 

 

A oroscopo della vicenda maccariana potremmo prendere i versi precoci di Codice d’onore. In un crepuscolo per nulla crepuscolare, ma anzi cupo e straziante, ci si propone di architettare un duello. Purtroppo mancano le regole alle quali attenersi, e la sagoma dell’avversario è inafferrabile come la propria. Eppure in questa frustrazione, sulla quale aleggia l’ombra del suicidio, sta anche la prova forse più nobile dell’esistenza, quella di chi affronta la battaglia sapendo di non poterla rivendicare, ovvero di non potere esibirsi in un’arena che risarcisca almeno il narcisismo: «Non è esattamente così, tra luci / flebili e incerte, che combatte / l’eroe più valoroso?». La solitudine di un tale combattimento, e il rimuginio da cui questa solitudine è occupata, sono rimessi in scena poco più avanti in una collana di sonetti che registra L’ultima voce di un prigioniero, unico superstite di un gruppo terroristico senza volto come il potere che l’ha sterminato. In cella, nella mente tutto gli si confonde: ogni verità si rovescia di continuo nel suo contrario. Ed è appunto questa trappola dell’autocoscienza, che se non vuole mentirsi non può evitare di farsi lo sgambetto, a fiaccare qualsiasi resistenza: nel mondo di Maccari si vive come in una «camera / dove i pensieri rimbalzano / e quando si urtano provano / per se stessi pena e rabbia / senza bersaglio». Le forze si disperdono in un ballo nervoso simile a quello del ragazzino protagonista di una prosa commovente, che vessato dal coro dei compagni non sa mai su chi scagliarsi. Ogni moto, in questa ressa intestina, si affloscia su sé stesso o si perde in un moto più vasto e indistinto; e così succede alla sofferenza da cui è generato e che genera, alla riflessione da cui è innescato e che innesca. Anche quando un dolore appare a prima vista nuovo, originale, «ricade nel suo capitolo di storia», è subito affiancato da una consapevolezza che «non infiamma, / non lenisce il male», si esprime «con le parole / del vocabolario universale». Non se ne esce, ma «Nemmeno il saperlo / è un nuovo dolore». Siamo di fronte alla burrascosa staticità di un mare nel quale onde e maree consumano i relitti, li rivomitano levigati, e intanto si cancellano a vicenda come nella virtuosistica Correnti. E come le pance dei pesci morti senza lottare di un’altra notevole allegoria marina, questo spazio che nega l’attrito ha per colore «Un bianco omertoso senza segnali».

 

Nelle liriche di Maccari spiccano anche tinte da fosca pittura secentesca, «Scarti violenti di luce e vaste ombre» che si stemperano in tramonti di un rosa sfatto; ma servono ancora a dipingere una realtà dove la vitalità più cruda e la dolcezza più nauseante si fanno indistinguibili come lo sono nei fiori, topos della poesia moderna di cui un testo coglie tutta la cieca e candida volontà d’infestazione. Se si cerca di reagire a questi segni doppi e reversibili, si finisce fatalmente per replicarli. O si sconta lo stallo «fermi», lasciandosi scivolare nella pania dei legami, morbidi in apparenza ma in fondo non meno costrittivi dei letti con le sbarre, o si è presi dalla «foga» di strappare alle sabbie mobili di vergogna e paura almeno qualche brano di «emozione sconosciuta» – la stessa emozione che il bambino della prosa citata sopra, con una violenza fuori controllo, ruba rompendo la normalità che gliela nega. Vivere allora, come dichiarano le due parabole animali di Un banchetto e I modi della volpe, significa o uccidere per non essere uccisi o esercitare un sadismo gratuito, lasciarsi andare a un’ingordigia efferata che serve a raggiungere una momentanea ebbrezza con la quale far fronte ai «tempi grami»: mentre si ferisce e ci si ferisce, si dà corpo a ciò che altrimenti si prova a stringere invano come un’ombra. 

 

 

E così abbiamo definito il problema morale di Maccari, le cui mosse e contromosse derivano dallo strenuo tentativo di non cedere alle mistificazioni che appaiono quasi indispensabili alla sopravvivenza: non a quelle romantiche della gioventù, magistralmente fissate nella prosa di Era luglio, né a quelle più infide dell’età di mezzo, terra prosciugata di eventi e speranze dove la freccia del tempo inverte il suo corso. Il rigore del poeta non gli permette di aderire alla «mondanità» (titolo di una sua plaquette che evoca scenografie frivole e terrori gnostici), cioè in sostanza di rimuovere la pena immodificabile della vita; ma non gli permette nemmeno di adagiarsi nel gesto altero del rifiuto, perché negli opachi compromessi mondani siamo invischiati tutti, e tutti ci scivoliamo torpidamente in un gioco senza fine di autocommiserazioni e alibi che forse è una cosa sola con la coscienza.

 

Eppure, proprio per questo, non c’è precauzione che tenga: nella durata informe della quotidianità si cede mille volte al giorno. Ogni «tana» in cui si cerca riparo è una «docile» «resa» – con l’aggravante che spesso non si sa a chi ci si arrende, chi si sta tradendo; e d’altra parte, ogni rivolta si scontra coi «traditori» che dentro e fuori di noi ci avvisano di «non crederci migliori». L’«impresa» agonistica è retorica e lusingatrice quanto la pigrizia; o se si preferisce, il «grande oceano della consuetudine» non è meno pericoloso di quella ribellione che di solito si rivela nient’altro che «languida infantile ammirazione / per noi stessi». «No, non saranno esaudite promesse / e preghiere invischiate con presagi / disperati, e non sono ammessi plagi // di altrui spensieratezze», si ammonisce la voce che ci parla dalle pagine dei Ferri corti, e che evita quindi sia la recita di un interventismo muscolare negli affari del mondo, sia la recita di un Aventino troppo facile e sdegnoso. Anche la sua opzione, però, si traduce in uno scacco. La battaglia su tutti i fronti sfocia in un caos statico, nell’allarme perenne e confuso del già citato «bianco (…) senza segnali». 

 

In un modo o nell’altro, insomma, si manca inevitabilmente a ciò che sarebbe dovuto, mentre la vita passa nel rimorso. Si potrebbe rispondere che se l’umanità è tanto debole, e la realtà al tal punto irredimibile, non può esserci colpa. Ma Maccari, riconosciuta la credibilità delle due osservazioni, non ammette la conseguenza. Per questo scrittore dostoevskiano, il peso dei destini generali grava comunque ogni momento intero su ogni nostra decisione. Se «tutti siamo colpevoli / vuol dire allora / che siamo tutti innocenti?», ribatte alla voce che lo invita a considerare le sue inadempienze come un prezzo necessario dell’esistenza. Nel caso, l’io del poeta sta condannando il rapido oblio di un cane avuto nell’infanzia, per cui ha disposto l’eutanasia e che ha visto spirare. Non si tratta dunque nemmeno di un peccato commesso davanti agli uomini; ma appunto perché quella creatura può testimoniare di sé meno ancora dei vecchi dell’ospizio, tanto più forte avverte il dovere di ricordare il suo passaggio sulla terra. Invece basta poco e si torna a vivere dimenticando, incapaci di tener fede alla memoria, ai sentimenti, ai propositi e ai rapporti; perfino il rimorso si riduce a un vizio, a una discarica di pensieri mozzi che si neutralizzano a vicenda. È così che ci si inoltra in una maturità senza maturità e si tocca la stagione nella quale è impossibile invocare il perdono per le proprie mancanze, perché ormai «sappiamo / ciò che facciamo. Ne siamo / persuasi. Noi bambini ubbidienti a noi vecchi». Nessuna scelta è libera dalla cattiva coscienza, e nessuna offesa inflittaci dalla “bestia sociale” ci autorizza ad assolverci. Non possiamo neppure trovare pace in una resa da saggi orientali al Tutto, dato che è evidentemente falsa quando in quel tutto non comprendiamo anche il male leopardiano, il male senza ragione. Se la vita va presa intera, commenta il poeta, allora «Perfetto: ne colgo intimamente l’unità, / richiamo alla mente ciò che è empio dimenticare. // Dopo tutto, / rimane che tu soffri, e appena esisti, / e io ti immagino, e furiosamente / sono con te e fuori è notte». 

 

Ma in questo passaggio dal cielo astratto della metafisica a un tu fantasmatico eppure vicino, urgentemente evocato, s’intravede con la disperazione anche uno spiraglio di luce, senza il quale la disperazione stessa non avrebbe motivo di essere. Al di là del miscuglio di disattenzioni e soprusi che gli uomini dimostrano di essere quotidianamente l’uno per l’altro, un’altra umanità preme per emergere. Su tutto il libro di Maccari trascorre l’ombra calda, l’attesa coraggiosa e palpitante di quello che Vittorio Sereni chiamava il «grande amico». A un certo punto, nei Ferri corti si sostiene che l’amicizia o la complicità «esistono / tra due felici o due infelici». Ma poi nella prosa più lunga, dove il narratore ricorda un amico morto a sedici anni, in un capoverso di straordinaria penetrazione psicologica e morale (le due cose non sono separabili: il che testimonia già della statura di Maccari) si accenna a un’intimità diversa e pure possibile, quella che sorge quando ognuno accetta di riconoscere e affrontare le parti dell’altro con cui non può conciliarsi. I due ragazzi giocano insieme in una squadra di calcio, esultano e si difendono a vicenda in campo, escono accoppiati con le moto. Un giorno, per il bisogno di condivisione totale dell’adolescenza, il narratore affida all’amico una cassetta di Janis Joplin sperando che la ami quanto lui. Ma l’amico l’ascolta in macchina con un gruppetto di ragazzi che deridono quella voce urlante, e seppure con imbarazzo si associa allo scherno. Poi però, accortosi della delusione del compagno, gli si rimette goffamente accanto, gli fa sentire «una carezza di calore»; e il narratore capisce quel giorno «che la musica, e tutto il suo giro di mozioni e risonanze sentimentali, era – per i ragazzi come me – una sublime scorciatoia, che unisce un momento, per poi svaporare come i fumi dell’hashish dentro cui si fraternizza, e dopo l’estraneità torna a aggredirti. Ancora di più: è tollerabile ogni differenza se l’affetto non nega che è dolorosa, ma rilancia se stesso come altra via, più accidentata, faticosa, per ritrovarsi». 

 

Basti questa citazione a dimostrare che nei Ferri corti, oltre a molte poesie bellissime, si trovano prose degne di figurare nella più intransigente antologia della migliore prosa italiana contemporanea. Anche e soprattutto di quella narrativa. Non si tratta infatti di prose poetiche, ma quasi di torsi romanzeschi, capitelli di architetture che l’autore non ha sentito la necessità di costruire. I racconti aumentano via via verso la fine, in dialogo stretto con i versi; i quali versi a loro volta cambiano a poco a poco, e dopo un attraversamento delle forme chiuse né inerte né parodico, cioè affrontato col consueto senso di responsabilità di chi vuole scontarne l’intero peso, si liberano e sfrangiano nella mobilità sapiente del finto appunto, dei «Pensieri sceneggiati» (vedere Quasi trent’anni, Il foglio sotto la giacca, o Mattina). Tra distensioni farraginose e contrazioni taglienti, nominali, la metrica qui resta in sordina, secondo la lezione di Raboni; e ne risultano suggestivi effetti oratori. Spesso il poeta ribatte sugli stessi termini, li rimescola in differenti assetti sintattici: procedimento che insieme con l’accumulo di aggettivi e avverbi sontuosi, ingombranti ma mai pleonastici, mira a far sentire come tutto nella palude del pensiero e del reale si trascini ossessivamente. Con questo stile misto, nel giro di vent’anni, Maccari ci ha dato forse il romanzo più libero e più vero di una generazione, di un mondo che tutti abitiamo.

 

E lo ha fatto con esperimenti che non sono mai messi al sicuro sotto l’insegna di qualche etichetta sperimentalista, dato che chi li compie, nella sua onestà, non può mai sapere prima di cosa dovranno dar conto. La preferenza va sempre più ai ritratti, cioè agli sguardi da fuori, ma di un fuori che può essere lo stesso io trasposto in teatro; e quest’io, avvisa Maccari, non coincide per forza con quello immediatamente autobiografico: precisazione non inutile, se è vero che malgrado l’overdose di metaletteratura troppi studiosi di lirica sembrano dimenticarlo. Concludiamo allora segnalando uno dei ritratti più riusciti. Il personaggio è al centro della paginetta narrativa che s’intitola Madri coraggio, e che ci pare rifletta al meglio quello sguardo maccariano in cui, senza mai conciliarsi, convivono l’accensione sentimentale per un’umanità inerme e la coscienza del fallimento al quale è destinato qualsiasi tentativo umano di sottrarsi alla complicità col male. In questo capolavoro, piccolo solo per misura, troviamo una madre che entra «nel bar dove vendono la droga» e strepitando acciuffa il figlio sedicenne, offende il barista, ingiuria gli avventori. Ne nasce un battibecco di grida infuriate e di sfottò, che prosegue finché lei «sente che la disperazione la sta calmando». Allora lascia sciogliere la tensione, ride con qualche ragazzo, si fa offrire un martini, e a poco a poco «perdona tutti un po’ accetta che sia tutto sbagliato, ma proprio tutto, suo figlio, il concepimento del figlio, l’uomo che l’ha ingravidata, la donna che fu gravida di lei». Spia il barista che le fruga con gli occhi lo scollo, se ne compiace appena. Poi il locale ricade nel torpore, finché la madre «miagola al figlio una protesta d’amore, e svuotata si dirige verso casa». 

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Celati, muro contro muro

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Intorno alla figura e all’opera di Gianni Celati s’è detto tutto e il suo contrario. Che non è la solita frase fatta, perché tutto e il suo contrario è esattamente ciò che il lavoro di questo colosso della letteratura italiana contemporanea ha evocato e continua a ricordare. Giocando col canone occidentale per pervertirlo dal di dentro e osservarlo dall’esterno, per trasgredirlo e rimontarlo in altro modo: modificandone l’intelligibilità. Relativamente facile, e nondimeno necessario, mettere in fila la serie di antinomie che i suoi libri mettono in campo, la lunga sfilza di coppie concettuali –di categorie semantiche oppositive – che nei suoi scritti, ma potremmo dire altresì nei suoi gesti, si agitano, stridono, combattono, per svolazzare infine via, disciolte, con una certa soddisfazione.

 

Eccone alcune, in relativo disordine (con l’accortezza di non sovrapporle: molte possono essere invertite, parecchie sono intercambiabili): scrittura/teoria, narrativa/saggistica, scrittore/professore, grasso/magro, aggiungere/levare, manierismo/spontaneità, artificialità/naturalezza, paesaggio/spaesamento, lettura/visione, Calvino/Ghirri, banalità/follia, linguaggio/quotidianità, parola/esperienza, finzione/filosofia, comico/drammatico, circense/semplice, letteratura/antropologia, sintassi/semantica, corpo/mente, strutturalismo/post-strutturalismo, umanesimo/post-umanesimo, razionalità/irrazionalità… Alcune sono evidenti, altre andrebbero forse spiegate, ma per i lettori di Comiche e Finzioni occidentali, Lunario del Paradiso e Verso la foce, Narratori delle pianure e Cinema naturale si tratta di consuetudini tematiche e stilistiche, di atteggiamenti ricorrenti, di aporie fatte metodicamente scoppiare. 

Siamo lontani, si badi, dalle paciose risoluzioni della dialettica hegeliana (la famigerata Aufhebung, che toglie le contraddizioni conservandole), perché, come ha sottolineato Marco Belpoliti nell’introduzione al Meridiano consacrato a questo scrittore (da lui curato con Nunzia Palmieri, Mondadori 2016), Gianni Celati pone la letteratura in bilico sull’abisso, senza mai tornare indietro ma senza mai cadervi dentro. A differenza degli scrittori della generazione precedente come Italo Calvino o Umberto Eco, tutti presi dall’alternativa radicale fra razionalità e irrazionalità, per l’autore delle Avventure di Guizzardi o delle Quattro novelle sulle apparenze questa dicotomia viene vissuta, per così dire, dal di fuori, come un fantasma di cui ci si è appena liberati e di cui si percepisce ancora, per quanto sbiadita, la scia fluorescente.

 

Lo sforzo continuo di Celati, sostiene Belpoliti, è quello di spingere la letteratura oltre se stessa con i mezzi della medesima letteratura, non rinnegandola ma usandola per sovvertirla, per sfondare il muro del linguaggio e ritrovare l’esperienza intima o la realtà sociale come effetti che è il linguaggio stesso, la sua facciata letteraria, a congegnare. Un termine chiave che può in parte racchiudere tutto ciò (e che attraversa la storia letteraria del Novecento, da Šklovskij a Brecht, da Benjamin a Barthes) è straniamento. Straniamento rispetto alla percezione del mondo, rispetto al linguaggio, rispetto alle consuetudini letterarie. Raccontare è straniare, straniare è raccontare.

Sappiamo quanto Gianni Celati abbia spinto il pedale della letterarietà, abbia lavorato sul testo letterario e poetico e teatrale per arrivare alla parlata quotidiana, alla vita di tutti i giorni, alle banalità del fare come anche all’esperienza della follia o all’ingenuità della fanciullezza. E grazie a tutto ciò far ritorno, con estremo contegno, alle più sottili sofisticatezze poetiche. Seguendo in questo la lezione di alcuni dei suoi personali maestri (ogni scrittore, secondo Borges, crea i suoi predecessori) come London o Joyce, Stendhal o Queneau. 

Costituirebbe una diminutio, perciò, leggere Celati come uno scrittore vecchio stile, tutto chiuso nella torre d’avorio della letteratura fine a se stessa. Accanto alle sue straordinarie prove letterarie (romanzi, racconti e cronache raccolti da Belpoliti e Palmieri del Meridiano di qualche anno fa) occorre considerare con altrettanta attenzione il suo lavoro teorico, altro volet di un’antinomia che non è tale, senza il quale l’opera di Celati zoppicherebbe su una gamba sola, rischiando a ogni momento di cadere in quell’abisso su cui vuol stare in perenne, stentato equilibrio. 

 

 

Da qui la recente pubblicazione di due volumi che (in attesa di un auspicabile secondo Meridiano celatiano che metta insieme saggi e interviste) colmano in parte questa lacuna. Il primo è Narrative in fuga (a cura di Jean Talon, Quodlibet, pp. 342, € 18), un libro che raccoglie quattordici testi di Celati su alcuni dei suoi autori prediletti: americani (Melville, Twain, London, Hawthorne, Poe), francesi (Stendhal, Céline, Michaux, Perec) e irlandesi (Swift, O’Brein, Beckett, Joyce). Messi accanto, disegnano una mappa tematica e testuale tanto originale quanto necessaria. Il secondo è la nuova edizione della rivista Riga dedicata a Celati (a cura di Marco Belpoliti, Marco Sironi e Anna Stefi, Quodlibet, pp. 510, € 28), con circa duecento pagine in più rispetto alla prima versione del 2008. Vi si trovano conversazioni e interviste, lettere e progetti editoriali, racconti, testi su viaggi e paesaggi, riflessioni sul lavoro del tradurre, scritti sull’arte, articoli e recensioni, saggi. In tutto, le pagine autografe di Celati, raccolte con estrema cura filologica, e alcune delle quali inedite, occupano all’incirca la metà del volume. Tra gli autori presenti che dialogano con Celati: Calvino, Gramigna, Giuliani, Ghirri, Arminio, Cavazzoni, Trevi, Manganelli, Corti, Mauri, Belpoliti, Cortellessa, Starnone, Prete, Bartezzaghi e moltissimi altri. 

Rendere conto della mole di questioni che questi due volumi sollevano è assai arduo. L’opera di Celati viene smontata e rimontata più volte, con esiti molteplici e variegati. Due libri da comodino, soprattutto il secondo, che si pone come un testo necessario, imprescindibile per chiunque d’ora in poi voglia visitare la galassia Celati. (Parentesi: a quando le dovute lodi di questa rivista, Riga, che s’avvia al trentesimo anno d’età?). 

 

Basti qui attivare un’eco tra le tante possibili. Il primo testo di Narrative in fugaè l’introduzione di Celati a Bartleby lo scrivano di Herman Melville, da lui stesso tradotto per Feltrinelli nel 1991 (è rimasta celebre la scelta di rendere le formula “I would prefer not to” del protagonista con “avrei preferenza di no”). Uno degli scritti del Riga celatiano, del 1970, è un parere di lettura indirizzato alla casa editrice Einaudi relativo alla Logique du sens di Gilles Deleuze. Parere non negativo ma dubbioso, tant’è che il libro è invece uscito da Feltrinelli qualche anno dopo. Cosa tiene insieme questi due testi? La risposta è ovvia – Celati stesso –, ma va detto perché. 

La Logica del senso di Deleuze (1969) è un libro fondamentale, non solo il testo migliore di questo filosofo che non potremo smettere di rileggere con estremo profitto, ma una pietra miliare del pensiero del Novecento, che si libera dalle pastoie del pensiero negativo verso cui il decostruttivismo alla Derrida stava tendendo, per aprire a una visione positiva del mondo che non abbandona il piglio critico del migliore strutturalismo – francese e non. Vi si parla di singolarità ed effetti di superficie, eventi incorporei e flussi temporali, umorismo e ironia, paradossi del senso e del nonsenso. I suoi nemici sono le altezze apollinee, da una parte, e le profondità dionisiache, dall’altra. Gli autori di riferimento sono gli stoici, dal coté filosofico, e Lewis Carroll, da quello letterario. Celati, che coltiva per Alice nel paese delle meraviglie una passione continua, coglie immediatamente la portata innovatrice del libro, e lo riassume molto bene per il suo editore, segnalandone tuttavia un limite: la mancanza di esiti pratici, cioè politici. “Dopo aver scoperto il valore rivoluzionario del paradosso, Deleuze si limita a descriverlo anziché usarlo”, scrive. E da qui le esperienze dei seminari al DAMS del ’76-’77 su Carroll, la cura del volume collettivo Alice disambientata, il culto per la figura carrolliana in tutto il movimento bolognese del ’77, Radio Alice in testa, a cui Celati è stato vicino.

 

Ma in che cosa consiste questa prassi rivoluzionaria basata sul paradosso deleuziano? Presto detto: nei pacati rifiuti di Bartleby lo scrivano, in quella “preferenza di no” che questo personaggio oppone tatticamente a chi vuol costringerlo all’etica fattiva del capitalismo finanziario, al culto dell’azione accumulatrice, al delirio della definizione che generalizza. Bartleby, con le sue preferenze incongrue e alquanto buffe, è pura singolarità, esattamente quella identificata nella Logica deleuziana, e per questo mette in comunicazione il senso francamente con il non senso, dribblando le scaltre pretese del senso comune e del buon senso. Il rifiuto di Bartleby (al quale lo stesso Deleuze, del resto, ha dedicato un saggio fondamentale) è programmatico, insieme smarrimento e determinazione. “Bartleby – scrive Celati – incarna una maniera d’essere su cui la ratio della legge e dell’utilitarismo non hanno più presa, perché è perfettamente inerte, in stato di riposo; non è più il figlio smarrito da riscattare con qualche intenzione, ma l’orfano assoluto su cui le buone intenzioni non fanno più effetto”. Da qui la sua “divina inerzia”, la sua “sovrana indifferenza” che mima il gesto paradossale degli asceti che si ritirano nel deserto per meglio affrontare il mondo. Parlare con lui, cocciuto per com’è, è parlare col muro, ed è proprio un muro ciò che lo scrivano continua ostinatamente a fissare. Sta proprio in questo muro contro muro, radicale e simbolico al contempo, ironico e comunque ineluttabile, la prassi politica rivoluzionaria innescata da Bartleby. La quale si differenzia parecchio, anche storicamente, da un altro modo di scagliare un muro contro un altro muro: quello del terrorismo, banalissima violenza carica di buon senso normalizzatore, di mortifero senso comune. A cui Celati si oppone radicalmente. Tutto e il suo contrario?

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Al padre e alla madre morti, nella carne della figlia

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La capitale francese è avvolta da un’atmosfera sospesa a causa del perdurare degli scioperi contro la riforma previdenziale proposta dal governo di Emmanuel Macron. Il discorso politico si mostra in tutta la sua necessità di essere pubblico, condiviso e agito. Le manifestazioni nelle strade di Parigi sembrano ancora evocare l’eco distantissima della Rivoluzione. Questo è un momento in cui tout le monde, in un certo senso, è in strada. In questi stessi giorni il Théâtre National de La Colline ha presentato due spettacoli della drammaturga, regista e attrice spagnola Angélica Liddell, Una costilla sobre la mesa: Padre e Una costilla sobre la mesa: Madre. Queste produzioni, date in alternanza, fanno da contraltare all’atmosfera politicizzata di Parigi presentando un discorso estremamente introspettivo e intimo. Non si tratta di requiem ai genitori scomparsi, ma di affondi di natura puramente teatrale che scavano nelle radici del processo di individuazione umana, nei modi in cui questo si scioglie, o si cristallizza, quando il corpo del genitore non è altro che una dolorosissima materia fredda davanti agli occhi dei figli, e allo stesso tempo il segno di una maggiore prossimità del figlio stesso con la morte. Questo processo, che il decesso dei genitori allo stesso tempo interrompe e alimenta, è per Angélica Liddell uno spazio attraversato con lo stesso coraggio con cui, in questi anni, l’abbiamo vista mettersi alla prova con temi altrettanto radicali: la fede, il potere, il sacrificio, la morte.

 

Padre, ph. Tuong-vi Nguyen.


Dopo la trasgressiva riflessione sul senso di colpa presentata nella scorsa stagione sempre a La Colline in The Scarlet Letter, tratto dal romanzo di Nathaniel Hawthorne, Liddell torna a Parigi con due odi dedicate al padre e alla madre, deceduti entrambi nel 2018. 

Il filo conduttore principale, legame tra gli spettacoli del 2019 e del 2020, è la riflessione sul dolore, sulla colpa e sull’espiazione nella quale Liddell si spinge in prima persona con il suo corpo e con il suo consueto, spudorato ardore. La sua arte è nel saper rendere ulteriormente carnali quegli strumenti del teatro — la parola, l’immagine, il corpo — che le offrono la possibilità di aprire ferite universali dell’esperienza umana per guardarci dentro. Il suo dono, non semplicemente quello di regista, ma quello che lei, da artista, offre al pubblico, consiste nel consegnare pièce che coniugano gli estremi e mettono in contatto il cielo con la terra. Nelle sue regie così come nella sua scrittura drammaturgica, pur giungendo allo spettatore distinti e distinguibili, gli opposti sono articolati visivamente e verbalmente in scene che scuotono direttamente i sensi; da qui la sua scelta non inconsueta di immagini conturbanti (chiaramente disturbanti, per alcuni), suoni capaci di pervadere l’orizzonte del senso della parola, azioni corporee che sconvolgono per l’acuta sfrontatezza e la diretta frontalità.

 

Il pubblico è, anche in queste ultime creazioni, testimone del dispiegarsi della sua interiorità che, in teatro, esonda come un fiume incontenibile. Mentre sul palcoscenico la Liddell-regista dà vita a queste scosse percettive, la Liddell-attrice amalgama la densità dei discorsi che lei stessa pone all’attenzione del pubblico arrivando a dimostrare come il sacro e la bellezza siano la prova del valore della componente oscura dell’umanità. Questo processo di svelamento delle forze interiori e il loro incontro con un’estetica costantemente pervasa da riferimenti colti e popolari, avviene con la stessa naturalezza con cui i nostri sensi, dalla platea, reagiscono alla bellezza di un’esperienza estetica. La separazione che si percepisce tra teatro e vita è minima, la sensazione è quella che si può provare di fronte a chi davvero fa di sé un’opera d’arte. Coscienza, incoscienza, amore e morte, mescolati nel magma di una follia ancestrale, fanno esplodere ritualità sceniche che sono richiamo e incitazione, talvolta violenti e disturbanti, a un risveglio interiore, uno sguardo capace di allargarsi fino a contenere gli opposti. 

 

Annunciata, di Antonello da Messina.


In The Scarlet Letter, la violenza della mentalità puritana veniva ferocemente accostata al discorso sulla religione, un discorso che Liddell sembra considerare come fonte solo marginale delle forme contemporanee della censura. Attraverso una raccolta vastissima di alte citazioni letterarie e filosofiche e una sequenza di azioni fisiche estremamente esplicite, anche sessuali, la regista-drammaturga indagava il fondamento del senso di colpa e il rapporto che questo intrattiene con la carne, luogo di piacere, tormento e punizione. Nella sua lettera scarlatta, Liddell poneva le basi di un discorso intrinsecamente controcorrente sul femminile nello stesso periodo in cui il movimento #metoo era all’apice dell’attualità. Nello spettacolo tratto da La lettera scarlatta come nelle due ultime produzioni, l’artista assume su di sé, in quanto donna e artista, l’immoralità, la follia e più in generale la colpa dell’essere umano, il senso di colpa originario. E, come un veleno che giunge insieme al proprio antidoto, Liddell inscena anche gli strumenti necessari a liberare il corpo, ovvero il giudizio e la punizione. Quello che sembrava voler esprimere, nella risoluta frontalità della pièce del 2019, era una visione del delitto come espressione di una libertà che non è più difforme e spaventosa della repressione che viene applicata in una società come la nostra. Nel 2020, con il discorso stimolato dai genitori defunti, Liddell si tende con tutta sé stessa verso una verità estrema, verso il teatro e quindi verso la vita. La sua dolorosa, urlata vitalità, di fronte alla morte del padre e della madre, fa ardere la scena d’amore e di morte, ma anche di adorazione e di blasfemia.

 

Padre, ispirato a Il freddo e il crudele di Deleuze, inizia con un monologo attorno a un tavolo da obitorio sul quale è disteso un bambino. L’attrice gli domanda: “Come faccio a farti morire?”. Sopra questa immagine sono proiettate due mani, una rivolta al cielo e una verso la terra. Scopriremo, successivamente, che sono le stesse mani di una gigantografia del dipinto della Vergine dell’Annunciazione di Antonello da Messina che campeggerà sul fondale nella seconda parte dello spettacolo che è, interamente e intimamente, in un dialogo gemellare con Sul concetto di volto nel figlio di Dio di Romeo Castellucci. Da Castellucci, Liddell riprende la scenografia di arredamenti chiari sovrastati dall’immagine non dell’Ecce Homo, questa volta, ma della Vergine. La contrapposizione tra il candore e gli escrementi che proprio il padre anziano, l’attore Camilo Silva, è costretto a pulire dai genitali della figlia in un ultimo momento in cui il rapporto padre/figlia non è invertito dal peso dell’età del genitore e dall’avvicinarsi del trapasso, sono un riferimento esplicito a una prospettiva femminile su quanto esplorato da Castellucci, il cui discorso era orientato all’interrogazione della fede. Un corpo di ballo di nude veneri botticelliane dai movimenti geometrici abita lo spettacolo nella prima e nella seconda parte con pose statuarie e sequenze che punteggiano scene dove Angélica Liddell esplora la relazione tra sofferenza, fascinazione e vanità. Schiavi, santi, martiri, filosofi, ma anche la bellezza e la ricerca dell’ideale vengono chiamati a servizio di un cammino che spesso vuole passare da ciò che è “non rappresentabile”. In un ritmo incalzante, la pièce intrattiene un dialogo con il mistero dell’Annunciazione, e con la possibilità che sia stata proprio una parola a fottere Maria per fare di lei una madre cristologica, in cammino verso il mistero di cui tutto il dittico si nutre e dal quale attinge scena dopo scena. Nel finale, in cui un carro funebre viene calato dall’alto, Liddell si trova circondata dalla morte del padre inscenata dalla morte del proprio schiavo. Il tableau vivant è un’immagine che si vorrebbe durasse a lungo, ma la fine dello spettacolo interrompe la visione così come la morte chiude, per sempre, la vita. 

 

Madre, ph. Susana Paiva.


Nell’altro spettacolo, Madre, la regista attinge ampiamente alla cultura spagnola della religione cattolica e dà vita a una pièce costellata dalle liturgie e dal culto del lutto. Tutte le scelte, sonore e visive, concorrono a comporre un grido di collera profondissima, e di amore, che rispetto a Padre è ancorato diversamente al corpo e alla parola. “Non abbiamo più nulla da distruggere, madre”, così Liddell dichiara la morte come unica occasione di sospensione del conflitto con il materno. Una madre, quella che descrive, che lasciandola figlia unica l’ha resa anche assassina dei suoi fratelli non nati. Davanti a questa donna, in fotografia in proscenio, l’attrice si fa letteralmente mettere in croce da un uomo che le lega gli arti a un gioco di legno posto sulle sue spalle. L’immagine, dolorosa, è un lamento che, come uno Stabat Mater, annuncia il miracolo: un addio senza odio e la possibilità che dalla ferita nella quale Angélica Liddell si immerge non esca un sangue nero di odio, ma pietas, sostanza che si aggira nel suo corpo e che la morte consente di far emergere, perché davanti alla morte la vita si inginocchia facendo spazio alla radice pura del sentire. 

A conclusione della visione di entrambi gli spettacoli resta la percezione di aver assistito alla professione di un profondo atto di fede nei confronti della vita, ma anche di un severo desiderio di oblio dei genitori defunti, da mantenere vivi dentro di sé come preziose immagini mancanti.

 

L’ultima fotografia, di Madre, è diLuca Del Pia.

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4. Alcune piccole donne crescono

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Accogliere le ragazze e i ragazzi di origini non italiane in una classe di una scuola in un quartiere ad alta demografia di immigrati non è più il lavoro più difficile. Lo è ancora, facendo una statistica di questi miei anni di scuola, nelle classi terze; non lo è nelle classi prime. Probabilmente la ricaduta finale del Grande Bla Bla sull’immigrazione (che sappiamo enormemente più allarmato dei reali dati di afflusso) ha delle varianti locali; rilevo che in questo momento essere nati due anni dopo rende la coscienza “italiana” nelle classi molto più diffusa. Gli undicenni sono decisamente oltre i loro genitori: sia i figli di origini non italiane, sia i figli di italiani di modesta estrazione sociale che qui vivono si sentono tutti italiani. Quando spiego che invece esiste purtroppo una legge piuttosto iniqua in merito alla cittadinanza dei minorenni (ius sanguinis invece di ius soli) 3-4 quattro per classe scoprono con dolore di non essere proprio uguali agli altri, e i loro compagni sono indignati per questa ingiustizia per loro insensata. Nelle classi terze, invece, non ho ancora capito bene se per il coagularsi adolescenziale di una propria identità, i gruppi etnici si compattano (maghrebini, africani in particolare) e si compattano purtroppo molto i gruppi religiosi (“noi siamo musulmani, voi no”).

 

 

Nella terza gli episodi di villania mortificante dei maschi che induce alle lagrime la vittima femmina abbondano: di musulmani ai danni di musulmane, o cristiane; di italoalbanesi ai danni di afroitaliane adottive (con condimento di nuca abbassata sulla propria patta come dichiarazione di interesse del rude ometto), di musulmani al danno di italomoldave che inviano un biglietto d’amore e che subiscono plateale derisione perché «lei è racchia e io sono carino, cosa dovrei fare?».

Così dall’indice del libro di testo di “antologia”, pessimo e frammentario come tutti gli attuali testi di antologia, montati per tematiche omogenee che riducono i testi a briciole che mai avranno possibilità di essere assimilate come nutrimento, ho scovato e letto a tappeto quello dedicato alle coraggiose figure femminili nella storia e nella letteratura; Frida Kahlo, e tante altre; di Frida Kahlo è rimasto molto bene impresso a tutti che il marito la tradiva e la picchiava: spero nella giusta ricezione etica da parte dei maschi. Azeeza è rimasta folgorata dalle righe dedicate a Louisa May Alcott e a Piccole donne: le quattro sorelle, la madre sola a tirarle su con una dedizione costante, l’autocostrizione religiosa al sorriso incoraggiante nelle avversità.

 

Deve esserci qualcosa di attuale anche per una ragazza di origini marocchine come lei, a vedere una famiglia unita che si compatta, litiga e si perdona all’interno di un nucleo abitativo sempre accogliente, nel rispetto per il venerabile padre, nella solidarietà per i più poveri, nella dignità con cui si attraversano le stanze delle amiche più ricche, nella grinta ribelle con cui Amy sfida il maestro repressivo e cattivo, pronta a farsi vergare a sangue il palmo della mano; Azeeza, che ha subito svariati interventi ortopedici per tenere dritta la sua colonna vertebrale nata tutta storta, è corazzata tutto il giorno da un rigido busto, proprio come le quattro sorelle che trattengono il fiato mentre sul dorso tirano i lacci dei loro crudeli corsetti per niente ortopedici.

 

Simone De Beauvoir, Nada Khalfi.


Una mattina Azeeza arriva e mi dice che si è presa in prestito in biblioteca Piccole donne, e se lo sta leggendo! Questi sono momenti davvero pazzeschi, per un prof di Barriera: come è stato possibile questo miracolo? Come mai una ragazza che urla come al banchetto di un mercato tutto il giorno per rintuzzare le villanie dementi dei compagni arriva spontaneamente a Louisa May Alcott? Così, poiché nel 2018 furono i 150 anni dalla pubblicazione del capolavoro molto autobiografico della Alcott, e poiché un po’ in ritardo sono partite ristampe dei libri di Alcott e produzioni televisive come quella BBC e cinematografiche come quella contemporaneissima di Greta Gerwig, ho invitato anche gli allievi della prima a leggersi durante le vacanze di Natale Piccole donne o La guerra dei mondi di H.G. Wells. I maschi sono arrivati ovviamente senza aver letto nulla, alcune ragazzine sono arrivate con Piccole donne già letto per metà! Ho atteso che arrivasse nelle sale il film di Gerwig. Ho scelto un primo pomeriggio di sabato e ho invitato privatamente i colleghi simpatici e le poche piccole donne che crescono in classe a trovarci insieme alla cassa, per vederlo vicini di posto.

 

Piccole donne, Sara Dagnogo.


Non è venuto nessun collega, con varie scuse. Non è venuta Azeeza, che si è rammaricata per non riuscirci (temo che i 10 euro del biglietto fossero troppi per lei). Ma sono venute tre piccole donne dalla prima: Cristina, Mara e Felicetta, accompagnate da un papà o una mamma che si sono congedati al nostro ingresso. Le ho avvertite delle ricerche serissime e minuziose svolte da Gerwig al Metropolitan Museum of Art di New York: il ciclo di dipinti di Seymour Joseph Guy ha ispirato la ricostruzione degli interni e dei costumi di quegli anni Sessanta dell’Ottocento nel Massachusetts unionista, e loro si sono incantate ai costumi meravigliosi disegnati da Jacqueline Durran, con gamme di colori empatiche con i sentimenti provati da quel personaggio in quella sequenza, costumi originali già nei libri di Alcott, poiché la creatività delle quattro piccole donne, capaci anche di cucire e tagliarsi gli abiti, le portava ad essere sempre molto personali. Ho spiegato una sola volta la tecnica di montaggio narrativo della regista, che alterna  sempre più rapidamente l’«oggi» della fine della storia a un «sette anni prima». Hanno visto quanta differenza ci fosse dal film del 1949 di Mervyn LeRoy che abbiamo  visto insieme a scuola. Io e Cristina ci siamo girati più volte a fulminare con lunghi sguardi pieni d’odio la spettatrice della fila dietro che continuava a ravanare pop corn anche nella silenziosissima scena del funerale di Beth. L’avremmo uccisa!

 

Dipinto di Seymour Joseph Guy (1824-1854).


Fuori hanno voluto stare ancora insieme, Felicetta, Cristina e Mara, mentre parlavo con i loro genitori; ho chiesto se sarebbe loro piaciuto indossare quegli abiti meravigliosi: Cristina ha detto «sì tutto il tempo!», Felicetta ha detto: «Mmm… solo un giorno, a Carnevale». Per lunedì scriveranno le 200 parole che ho chiesto loro di scrivere dopo il dettato su Simone De Beauvoir: tutti dovranno raccontare chi prepara tavola a casa, e se secondo loro oggi ragazze e ragazzi sono pari. Dalila, che era venuta con me e la collega Maria ad ascoltare in piazza Greta Thunberg, accompagnata dal padre e lasciata lì con noi (ho rischiato un’ernia per prendermela sulle spalle e mostrarle la piccola Greta a 50 metri da noi!) era tristissima perché le è venuta la febbre, ma venerdì mattina mi ha portato il suo ritratto di Simone De Beauvoir. Con Dalila le piccole donne che crescono alla fine sono davvero quattro! Sono così contento che mi metterei a saltare come Jo e Teddy in una delle più belle sequenza di Gerwig, quella che racconta come solo da ragazzi si possa essere ogni tanto così sfrenatamente felici in un angolo di mondo. Tengo da parte la malinconia di Greta (Gerwig, Thunberg è invece indignata) e sono contento di essere prof anche di sabato, anche lontano da quelle “quattro mura scolastiche” (come diceva il professor Aristogitone alla radio in Alto gradimento).

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Sorry We Missed You: dalla parte degli sfruttati

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Cosa si prova uscendo dalla sala in cui abbiamo visto l’ultimo film di Ken Loach? Come uscendo da un incubo in cui siamo stati picchiati ingiustamente, perseguitati, spinti ai gesti più disperati per cercare di sopravvivere, tutti inutili, tutti patetici. Il piccolo pubblico, che ha assistito con grande partecipazione emotiva, si divide in gruppi sempre più piccoli che si allontano nel freddo intenso della notte. Pochi i commenti. Nessuno dice che bel film o che brutto film. Un giovane serio dice a un altro: “Ha fatto bene Antonio a non venire. Me l’ha detto: se sei messo male, meglio che non lo vedi”. 

 

A me invece è tornato in mente un libro scritto da un ragazzo tra il 1842 e il 1844, durante la sua lunga permanenza a Manchester, cuore della rivoluzione industriale. Il ragazzo (poco più che ventenne) si chiamava Friedrich Engels e il suo libro, il primo di una lunga serie, La situazione della classe operaia in Inghilterra. Non interessano qui le interpretazioni politiche e tantomeno le previsioni (per lo più sbagliate) contenute nel libro, che ricordo appena, ma contano le descrizioni. Gli operai vivono molto peggio dei loro genitori, muoiono di varie malattie giovanissimi, vivono di stenti e di umiliazioni. Per loro la rivoluzione industriale è soltanto morte e emarginazione sociale. Sono trattati come prigionieri, subiscono ogni genere di vessazione senza potersi difendere.

 

 

Il confronto con il film di Loach non è arbitrario, anche se sono passati quasi due secoli dall’uscita di quel libro. Perché tutto è cambiato ma niente è cambiato. Forse le classi non esistono più ma l’Inghilterra è ancora fortemente classista. Gli operai schiavi, nella metafora di questo film, si sono trasformati in padroncini messi l’uno contro l’altro dal programma di un computer, che traccia orari, consegne, velocità di movimento. Lavorano per una grande ditta di proprietà anonima: il capetto ducesco, che non fa che eseguire ordini, si riferisce soltanto a misteriosi azionisti. Devono consegnare pacchi e pacchetti ordinati su internet. Quello della distribuzione è il grande tema del secolo: eliminati tutti gli intermediari resta il momento delicato della consegna a casa del cliente. Spendendo il meno possibile e senza assumere nessuno, con condizioni di lavoro semi-schiavistiche non più sindacalizzabili. I colleghi di Ricky, il protagonista maschile, anche loro disperati e distrutti dalle strazianti giornate lavorative interminabili e piene di multe e penalità da pagare, non possono esprimere alcuna solidarietà. Non hanno alcun potere, sono niente, tutti sostituibili in cinque minuti. Basti pensare alla truffa (non ostacolata da nessuno) delle partite IVA in Italia. Un esercito di schiavi-padroncini e schiavi-imprenditori. 

 

Ricky e sua moglie Abby (interpretati da due ottimi attori: Kris Hitchen e Debbie Honeywood) sono ancora giovani, e hanno due figli, un sedicenne problematico e una bambina più piccola. Sono genitori responsabili, entrambi grandi lavoratori. Lei è una sorta di badante e vaga per la città (Newcastle) assistendo anziani che non le risparmiano niente ma che non infrangono la sua buona disposizione d’animo; sorride anche di fronte a spettacoli strazianti di vecchi dementi sprofondati in solitudini assolute. Abby tratta tutti come se fossero i suoi vecchi genitori, con la stessa pietà, direi addirittura con lo stesso amore. È uno splendido personaggio, dalla dolce fermezza illuminata da un sorriso mai forzato. Per permettere al marito di acquistare il furgone per il suo nuovo lavoro deve vendere la sua utilitaria e spostarsi con i mezzi pubblici, aumentando quindi di molto il tempo dedicato al lavoro.

 

 

I due coniugi si ritrovano a casa la sera alle nove, e sono entrambi distrutti, con pochissime energie da dedicare ai figli. Naturalmente il maschio adolescente crea problemi sempre più grandi: non va a scuola, fa il graffitaro, ruba le vernici che gli servono per i graffiti in un supermercato e la polizia lo ferma. Un ritmo infernale, così simile alla vita quotidiana di molti che qualcuno ha trovato il film artefatto, troppo adagiato sulla catena di disgrazie che inevitabilmente si susseguono. Le storie artificiali, magari con più sorrisi e speranze che comunque si sviluppano, sono più credibili delle storie vere, o che vere vogliono essere nella sostanza. In realtà, la vita di questa giovane coppia racconta esattamente la vita quotidiana di milioni di persone, ormai così schiacciate in questa realtà che non potrebbero neppure sopportare la visione del film, che per certi versi potrebbe apparire impietoso. 

 

Come si esprime su grande scala questo sentimento? Dove si sfogano rabbia e frustrazione? Voglio dare dell’attuale Inghilterra una visione esterna ai suoi confini. Viaggiando nei paesi dell’Europa orientale si nota una presenza extracomunitaria assai fastidiosa ovunque. Non ci sono nigeriani, da quelle parti (“Non siamo razzisti ma i negri non li vogliamo”, è la frase più diffusa nei bar): gli extracomunitari più temuti sono proprio gli inglesi, che arrivano a migliaia con i voli low cost e passano tre giorni ubriacandosi e rendendo sgradevole la vita di tutti. Bande di decine di giovani inglesi (ma non mancano persone più mature) che si aggirano pieni di vodka e gin gridando e attaccando briga nei locali. In un bar dell’aeroporto di Cracovia, alle sette di mattina, ho visto tre coppie di ultrasessantenni inglesi farsi un doppio whisky a poco prezzo prima di partire. Dai loro vestiti si capiva che non erano pezzenti e barboni, e neppure operai, forse erano quel che restava della vecchia middle class, qualcosa che non ha più neppure una classe di appartenenza o un nome – ma che ha votato Johnson e Brexit. 

 

 

Pensando alla pulizia della City, alle infinite automobili di lusso e ai grattacieli sempre più stile Manhattan, con poliziotti a ogni angolo di strada, dove ti multano se fumi nel parco, ci rendiamo conto che l’antica descrizione di Engels dialoga ancora con il presente. Le infezioni che falcidiavano i primi operai della nascente industria lasciano il posto alla cirrosi epatica e all’angoscia individuale. Engels prevedeva ingenuamente una prossima rivoluzione sociale mai avvenuta, oggi non ci sono più illusioni. Il nazional-populismo anglo-americano segna il declino del grande sogno della democrazia occidentale. In fondo questo è il tema del film, che infatti si conclude con una scena di pazzia. 

 

Con una scrittura in questo momento forse troppo meccanica (in una struttura che è invece compatta e fluida, con ottimi dialoghi a volte quasi teatrali), Loach ha scelto di chiudere il film con una piccola apocalisse: Ricky viene rapinato e picchiato a sangue da una banda di giovani delinquenti e deve pagare tutti i danni, non essendo un dipendente della ditta. Con costole rotte e un occhio chiuso per le botte decide di riprendere subito il lavoro, mentre la sua famiglia disperata cerca di fermarlo. Non ha scelta, non può fare nient’altro. Sembra un suicida ma non è altro che una persona perbene e responsabile che si batte fino all’ultimo per la sua famiglia. Per essere responsabile deve diventare irresponsabile. Non ha altro, né compagni di lavoro né sindacati. Se davvero Sorry We Missed You sarà l’ultimo film di Loach il suo messaggio è chiaro e coerente con la sua lunga storia d’autore: anche se non si può più parlare di classi (eliminate dalla lingua ma non dalla realtà) lui resta sempre dalla parte degli sfruttati.

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Sostenibilità e scelte radicali

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La nostra prossima automobile sarà elettrica. Un circolo virtuoso tecnologico-commerciale si sta per avviare, e creerà presto condizioni favorevoli alla diffusione di questo tipo di autoveicoli: prezzi accessibili, rete capillare di colonne per la ricarica veloce, ragionevole autonomia delle batterie. Con la nostra auto elettrica potremo andare a prendere i figli nelle scuole del centro con la coscienza tranquilla, finalmente, perché nei tre chilometri tra andata e ritorno non avremo emesso gas serra, né polveri sottili e nel complesso avremo utilizzato meno energia di quanta ne richiede il diesel euro 6.2 temp su cui viaggiamo adesso, perché i motori elettrici sono più efficienti di quelli a combustione interna.

“Sì, però…”, ci dice il nostro amico a cena, “l’energia che carica la batteria la devi pure generare da qualche parte e vedrai che lì, all’altro capo della presa di corrente, i gas serra vengono fuori lo stesso”.

“Non è detto…”, rispondiamo pronti, “Non c’è alcuna emissione, se all’altro capo ci mettiamo un campo fotovoltaico o eolico o una cascata di acqua fresca che fa girare una turbina!”

 

Nel 2017 negli stati dell’Unione Europea il 13,9% della domanda di energia è stata coperta da fonti rinnovabili (Eurostat). Il 4,3% di questa energia è stata prodotta da impianti fotovoltaici, eolici e idroelettrici, il tipo di impianti, cioè, a cui generalmente ci riferiamo quando diciamo “energia pulita”. Il resto invece si basa su quello che si può ottenere dalla biomassa, bruciandola direttamente nelle caldaie o bruciando il biocombustibile prodotto tramite il compostaggio o altri processi di fermentazione. La combustione in tutti i casi produce CO2 e polveri sottili e se vogliamo sostenere la sostenibilità del motore elettrico preferiamo escludere dal conto l’energia da biomassa, anche se per molti versi è preferibile a quella da fonti fossili. 

Il 4,3% è un po’ poco, bisogna ammetterlo, per poter affermare che la Tesla del nostro vicino di casa è alimentata dal vento, ma confidiamo che la percentuale possa crescere molto nei prossimi anni, per effetto del progresso tecnologico e delle pressioni che l’opinione pubblica sta cominciando a esercitare sui governi. 

Potremo mai contare in futuro sul 100% di energia pulita emancipandoci una volta per tutte dai combustibili fossili?

 

David MacKay, fisico e matematico all’Università di Cambridge, ha provato a rispondere seriamente a questa domanda con un lavoro di ricerca e di calcolo che definirei titanico, riferito alla Gran Bretagna ma di valore universale per metodo e risultati. Nel suo libro del 2008, consultabile online, Sustainable Energy Without the Hot Air, che in italiano tradurremmo Energia sostenibile senza aria fritta, elabora una stima della quantità massima di energia sostenibile che ci si può aspettare di ottenere nel paese, considerando scenari ai limiti della plausibilità. Per esempio, ipotizza di installare parchi eolici off-shore (in mare aperto) su un terzo dell’estensione dei fondali più adatti, cioè con profondità inferiore a 25 metri, disponibili all’interno delle acque territoriali britanniche. Solo un terzo, per assicurare un minimo di agio al traffico navale e alle attività di pesca; comunque un’area vastissima, di poco più grande dell’intera Lombardia. Si tratterebbe di 44.000 turbine da 3 MW, che, messe idealmente in fila a 67 metri una dall’altra, coprirebbero tutti i 3000 km di costa della Gran Bretagna.

 

 

Visualizzare mentalmente un simile schieramento lungo le bianche scogliere di Dover o meglio ancora lungo la riviera romagnola e poi su fino a Trieste e giù fino a Santa Maria di Leuca e poi di nuovo su fino a Ventimiglia aiuta a capire cosa si intende per “scenari ai limiti della plausibilità”. MacKay stima la quantità di energia che tutte queste turbine sarebbero in grado di produrre per ciascun cittadino e poi somma questa quantità al possibile contributo pro capite di tutte le altre fonti di energia sostenibile, anch’esso calcolato sulla base di casi limite ipotetici: solare fotovoltaica, solare termica, energia da moto ondoso e da maree, idroelettrica, eolica terrestre, geotermica ecc. Parallelamente, l’autore elabora una stima dell’attuale domanda di energia pro capite, includendo il riscaldamento invernale, il raffrescamento estivo, i viaggi in auto e in aereo, la produzione di beni e di cibo, l’illuminazione ecc. Infine, confronta le due stime (quella dell’attuale domanda e quella della possibile offerta) e mette in evidenza come, anche considerando i casi limite, le fonti di energia sostenibile non riuscirebbero a soddisfare completamente il nostro attuale fabbisogno energetico. Il divario diventa scoraggiante quando si introducono i correttivi di plausibilità legati all’impatto paesaggistico di certe soluzioni e ai costi di realizzazione e manutenzione – pensate per un momento al MOSE nella laguna di Venezia e subito dopo immaginate la sfida ingegneristica di un parco eolico con, poniamo, 10.000 turbine sui fondali dell’Adriatico. 

 

La conclusione che se ne trae è che non possiamo illuderci di vivere di energia pulita se assieme allo sviluppo di tecnologie capaci di sfruttare in modo efficiente le fonti alternative, non si avvieranno iniziative serie orientate alla drastica riduzione della nostra domanda. 

 

Abbiamo una fiducia incrollabile nella capacità della tecnologia e del mercato di rendere i nostri stili di vita più sostenibili senza chiederci di modificarli. Colleghiamo la promessa di energia green e di automobili a emissioni 0 – assieme alla promessa di bioplastiche e altri materiali compostabili, di galline ovaiole allevate a terra, di carne sintetica (Memphis Meats), di pomodorini idroponiciall-season, di cotone sostenibile – alla prospettiva di continuare indefinitamente a vivere così, accendendo i condizionatori ai primi sentori dell’estate, muovendoci in auto da soli nelle città anche per brevi tratti, usando contenitori monouso, mangiando quasi ogni giorno carne, uova, formaggio e pomodorini freschi imbustati, acquistando compulsivamente abiti nuovi ai saldi di stagione e gettando via quelli dell’anno scorso, logorati dalla moda prima che dall’uso. Questa fiducia incrollabile ci impedisce di vedere con chiarezza che nel nostro stile di vita, invece, qualcosa deve cambiare. E ci fa credere che, se abbiamo acquistato un SUV ibrido, abbiamo già fatto la nostra parte per salvare il pianeta e che non dobbiamo fare molto altro. Con tutto quello che ci è costato! Il SUV ibrido. 

 

“Sì, però...”, ci dice il nostro amico a cena, “per i tuoi spostamenti in città, la bicicletta sarebbe 30 volte più efficiente del tuo SUV ibrido, in termini energetici. E in termini di emissioni, beh, dipende dall’impronta ecologica di quello che hai mangiato, cioè dall’origine dell’energia che muove i tuoi muscoli. Ma dopo aver mangiato le stesse cose, quelle che mi hai preparato questa sera, io che torno a casa in bici emetterò zero polveri sottili e 0g/km di CO2, mentre tu col tuo SUV ibrido emetteresti almeno 100g/km di CO2 e chissà quante PM10. E il bello è che in bici ci si muove più in fretta in città su brevi distanze e fino a 6-7 km i tempi di percorrenza sono simili a quelli del tuo SUV ibrido nel traffico urbano, provare per credere. Tutto questo”, continua il nostro amico, che si è infervorato, “sarebbe ancora più vero se i piani per la mobilità urbana dessero priorità alla bicicletta, con una rete di ciclabili ampie e sicure e con un’appropriata regolamentazione a favore del ciclista. Inoltre, se treni e bus fossero attrezzati per caricare all’occorrenza i ciclisti e le loro bici, una persona che abita fuori città, potrebbe raggiungere il centro in treno e poi muoversi in bici. E nota che un treno pieno è 18 volte più efficiente, per persona trasportata, del tuo fottuto SUV ibrido con te solo a bordo. Bisogna fare pressioni sulle amministrazioni e per fare pressioni bisogna innanzitutto mettersi a pedalare tutti assieme”.

Cosa si può rispondere a uno così? Che ha ragione, che anche noi in effetti dovremmo… ma…

 

Le motivazioni che seguono questo tipo di “ma…” sono il vero nucleo del problema quando si tratta di sostenibilità. Sono tutte motivazioni riconducibili a un’idea di comfort immediato e privato al quale non sappiamo rinunciare e nel caso del confronto tra SUV e bicicletta hanno a che fare con la protezione dagli agenti esterni, con il non arrivare sudati e il poter indossare il tailleur di Armani, con la comodità dei sedili, con l’indulgere alla pigrizia – largamente compensato dall’ora serale in palestra – e col piacere narcisistico di essere alla guida di un’auto così. Razionalmente comprendiamo che sarebbero rinunce ridicole rispetto alla posta in gioco, che è, nel breve termine, la riduzione dei rischi sanitari associati alla concentrazione di polveri sottili nell’aria che respiriamo, e nel lungo termine, la preservazione di un pianeta abitabile per i nostri nipoti. Questa consapevolezza razionale, però, non si traduce in un sentimento di urgenza abbastanza forte da indurci a cambiamenti di questo tipo. Benché il nostro amico a cena si sia portato dietro un sensore di polveri sottili tascabile e due giorni fa abbia rilevato nella nostra zona valori di concentrazione doppi rispetto al limite di sicurezza, le polveri sottili restano invisibili e oggi, in questa mattina di festa, radiosa e freddissima, i camini fumanti sui tetti di Bologna ci parlano solo di famiglie al caldo e di calze piene di dolciumi, in una sorta di idillio urbano postmoderno che ci incanta al di là della finestra. Le PM10 sembrano un problema davvero remoto. La salute dell’umanità e il riscaldamento globale che la minaccia sono ancora più lontani. Riconosciamo che si tratta di problemi seri e reali, perché ci fidiamo dei molti esperti che ce li rappresentano in termini chiari, ma per il momento ci sembra di poter rinviare qualsiasi nostra iniziativa seria al riguardo. Almeno fino a quando non potremo permetterci di sostituire il SUV ibrido con uno completamente elettrico. A quel punto il nostro amico non avrà più nulla da rimproverarci. O no? O ci dirà che non abbiamo capito niente? Dopotutto, non lo inviteremo più a cena.

 

 

La contraddizione tra la lucida consapevolezza del problema del riscaldamento globale e l’assenza di un impulso etico verso un’azione collettiva all’altezza del problema è un tema centrale nell’ultimo libro di Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo prima di cena. Questa contraddizione viene ricondotta alla differenza tra sapere e credere. Possiamo sapere che una minaccia incombe su di noi, ma non crederci. Se non ci crediamo vuol dire che non pensiamo veramente che la gravità della situazione pretenda da noi una scelta radicale. Confidiamo sul fatto che in qualche modo tutto si aggiusterà grazie all’intervento di un deus ex machina e che la stessa entità della minaccia sia stata magari sopravvalutata. Tutti gli ebrei polacchi, dice Foer, proponendo un parallelo un po’ estremo, sapevano che la minaccia nazista si stava avvicinando e concretizzando. Quelli che, oltre a saperlo, ci credevano, hanno avuto la forza per compiere una scelta radicale: hanno abbandonato la loro casa e si sono salvati – la nonna di Foer era una di loro. 

 

La questione per Foer non è credere o non credere che il riscaldamento globale abbia un’origine antropica e che si debba fare urgentemente qualcosa per evitare gli scenari catastrofici che ci si prospettano – né il suo libro, né lo studio di MacKay, né le riflessioni contenute in questo articolo si rivolgono ai negazionisti, bensì a lettori già sensibilizzati. La questione, invece, è credere o non credere che l’unica cosa da fare urgentemente per salvarci dalla catastrofe sia abbandonare la nostra casa. Non in senso letterale, ovviamente – per andare dove, poi? – ma nel senso figurato di abbandonare il modello di benessere nel quale ci siamo accomodati e ci sentiamo al sicuro. Un modello di benessere basato su un’assurda e insostenibile sproporzione tra l’irrilevanza di molti nostri bisogni e l’enorme quantità di risorse che consumiamo per soddisfarli. 

 

La nostra sensibilità ecologista è cresciuta rapidamente negli ultimi anni e sta cominciando a incidere in modo significativo sulle nostre scelte. Lo testimonia lo sforzo straordinario che l’industria e il mercato stanno compiendo per assecondare questa sensibilità. Un marchio di acqua minerale italiano, ad esempio, considerando la nostra crescente avversione per gli imballaggi di plastica, ha cominciato a imbottigliare l’acqua in lattine di alluminio da 33 cc, anziché in bottigliette di PET, nel quadro di un’iniziativa commerciale rivolta soprattutto ai baristi e ai ristoratori. Grazie a questa iniziativa, il barista, mentre ci serve acqua in lattina, può spiegarci che l’alluminio è molto più sostenibile della plastica, perché infinitamente riciclabile senza perdita di qualità e meno dannoso se disperso nell’ambiente. Così sentiamo di avere dato, noi e lui, un altro piccolo contributo alla difesa del pianeta. In più la lattina entra perfettamente negli appositi scomparti del nostro SUV ibrido, che abbiamo parcheggiato qui fuori in seconda fila. 

 

“Sì, però…” ci dice il nostro amico che ormai incontriamo soltanto al bar “rispetto all’acqua del rubinetto, anche considerando la pulizia delle brocche e dei bicchieri, l’acqua in lattina ha un’impronta ecologica nell’ordine delle mille volte superiore. Che sia in lattina o in plastica l’acqua imbottigliata deve essere trasportata e questa in particolare ha fatto almeno 300 km prima di arrivare qui. Perché allora il barista, se vuole darsi arie da ecologista non ti propone acqua del rubinetto e perché tu non gliela chiedi? Perché le amministrazioni pubbliche non obbligano i baristi a includere acqua del rubinetto nel servizio e vendere acqua imbottigliata solo su richiesta, se proprio uno la vuole?”

Al discorso sulla sostenibilità sta accadendo ciò che da più di un secolo accade a quello sulla nutrizione: l’industria trasforma le tesi dominanti, semplificandole, in leve di marketing, affinché la nostra anima sempre più ecologista e salutista possa rispecchiarsi nelle opzioni che ci offre (su questi temi consiglio la lettura di Nutritionism, di Gyorgy Scrinis che delinea una interessantissima storia delle teorie nutrizioniste e dei loro intrecci con l’industria alimentare a partire dalla metà del XIX secolo). Ai claim nutrizionali come senza grassi saturi, senza zuccheri aggiunti, senza olio di palma, ricco di proteinee fibre ecc. ora si affiancano i claim ambientalisti: packaging sostenibile col 20% di plastica in meno, col 50% di plastica riciclata, 100% riciclabile, plastic free, confezione biodegradabile ecc. 

 

Sia chiaro: è una cosa buona. Significa che l’industria finalmente si sta assumendo la responsabilità del suo impatto sull’ambiente e sta prendendo misure opportune per ridurlo. Significa anche, ne siamo convinti, che sulla spinta di questa consapevolezza la tecnologia e il mercato sapranno sviluppare in futuro soluzioni impensate e ancora più efficaci. Perfino al problema che sta più a cuore a Foer, cioè la produzione industriale di carne e latticini basata sull’allevamento intensivo di animali, che secondo lui e molti altri, è il principale fattore climalterante. L’azienda americana Beyond Meat, a questo riguardo, si sta presentando come il deus ex machina nella tragedia globale della carne. I suoi famosi beyond burger 100% vegetali a base di legumi, surgelati e distribuiti negli Stati Uniti e in qualche paese europeo, forniscono la stessa esperienza sensoriale di un hamburger di manzo, ma la loro produzione ha un’impronta ecologica nettamente inferiore. Così potremo mangiarne quanti ne vogliamo senza preoccuparci di nuocere al pianeta. Bello! È pur vero che se mangiassimo direttamente i legumi senza passare attraverso il raffinatissimo ed energivoro processo industriale che li trasforma in burger e poi li surgela per spedirli in giro per il mondo, l’impronta sarebbe ancora più piccola, molto più piccola; ma noi non vogliamo rinunciare al valore aggiunto di un burger vegetale e a goderne tutte le volte che ci pare. L’economia su cui continuiamo a prosperare si regge su questo tipo di valore aggiunto e di emissioni aggiunte. 

 

Il limite dei nostri dei ex machinaè che la machina da cui ci si aspetta che escano è sempre la stessa e c’è chi pensa che sia proprio la machina in sé ad essere insostenibile. “Dopo quasi mezzo secolo di ricerche e sperimentazioni sul tema della transizione verso la sostenibilità, oggi sappiamo per certo che essa richiede un cambiamento radicale del sistema sociotecnico e culturale.” Questo non lo dice il nostro amico al bar, ma Ezio Manzini in un libro importante: Politiche del quotidiano, progetti di vita che cambiano il mondo, dove si parla dei modi in cui questo cambiamento può determinarsi. Si afferma in particolare che un cambiamento sistemico radicale su larga scala non sarà possibile finché non si saranno accumulati cambiamenti radicali a livello locale, attraverso progetti di innovazione sociale e sistemica di piccola scala, come, ad esempio, i gruppi di acquisto solidali, le iniziative di carpooling o di co-housing ecc. A Bologna, la mia città, ce ne sono alcuni che vorrei citare: Arvaia e Camilla, che propongono modelli alternativi di produzione del cibo e distribuzione dei beni di consumo, il cohousing Porto 15, o la fattoria e caseificio Lama Grande, dove le mucche mangiano erba e muoiono di vecchiaia. Quando questi e altri progetti pionieristici avranno ispirato altri progetti dello stesso tipo, replicandosi cento o mille volte e affermando cento o mille volte un nuovo modello di benessere, allora si saranno create le condizioni per un cambiamento radicale su scala maggiore. 

 

Anche i comportamenti individuali hanno un ruolo in questo processo di transizione. Ogni cittadino che ha lasciato l’auto per muoversi in bicicletta, dice Manzini, ha creato un mutamento sistemico. Minimo, ma radicale. Quelli che hanno acquistato un’auto ibrida, invece, si sono limitati a un cambiamento incrementale, perché la loro scelta, per quanto green la si voglia considerare, non esce dalle logiche del sistema dominante dei trasporti, fondato sulla mobilità automobilistica individuale che è intrinsecamente insostenibile. 

Per capire meglio in che senso dobbiamo considerare radicale e sistemica la scelta innocentissima di andare in bicicletta e sui mezzi pubblici, basta immaginare cosa accadrebbe se questa scelta fosse fatta dalla collettività. Il cambiamento avrebbe effetti negativi sul mercato delle automobili e quindi sull’intero sistema economico, di cui l’industria automobilistica è uno dei pilastri. Effetti che definiremmo recessivi, nei termini del sistema sociotecnico e culturale corrente: la machina. È per questo che il cambiamento fa paura anche a chi lo auspica e lo promuove. Allo stesso tempo però la collettività sperimenterebbe i vantaggi di una mobilità agile ed efficiente e il piacere di muoversi in città più pulite, sgombre e silenziose. A quel punto, un ipotetico ritorno al traffico congestionato da migliaia di SUV ibridi con una sola persona a bordo, che oggi accettiamo come un portato inevitabile del benessere a cui aspiriamo, sarebbe diventato insopportabile. 

 

Un tempo tolleravamo anche il fumo di sigaretta al ristorante come un fastidio inevitabile e avremmo perfino giudicato come un rompiballe fanatico chiunque si fosse messo a fare delle storie e avesse cercato di negare a un nostro commensale il legittimo piacere di fumarsi una sigaretta a tavola. Ora, dopo che un divieto imposto dall’amministrazione pubblica ha allo stesso tempo formalizzato e contribuito a formare un consenso generalizzato attorno all’idea che fumare al ristorante è sbagliato, il fumo delle sigarette al ristorante è diventato insopportabile, perché abbiamo sperimentato direttamente quanto è migliore un ambiente senza fumo. 

La transizione verso la sostenibilità potrà davvero compiersi, quando l’insostenibile diventerà insopportabile

 

Epilogo

 

Elon Musk, fondatore di Tesla e imprenditore visionario, dopo aver letto questo articolo ebbe una crisi di coscienza. Si pentì di avere lanciato il Cybertruck, il nuovo pickup della gamma Tesla di automobili elettriche con guida semiautonoma. “Non c’è niente di disruptive in questa proposta”, pensava tra sé. “È solo un altro macchinone pacchiano in circolazione, con una carrozzeria blindata, tesa e spigolosa, che è una dichiarazione di ostilità verso il mondo esterno, una formidabile munizione dei confini dell’io e del privato possesso, contro l’aggressione del Bene Comune. Mio Dio, cosa stiamo facendo!”

Al Salone di Parigi nell’ottobre del 2020, in occasione della sua ultima apparizione pubblica, Elon spiazzò la folla di adepti che era convenuta lì da ogni parte del mondo per assistere alla presentazione dell’ennesima geniale innovazione. Dopo essersi esibito in una danza folle e sgraziata, in preda a una strana euforia, uscì dal palco per un paio di minuti e poi rientrò in sella a una bicicletta pieghevole, sulle note della Pastorale di Beethoven. “Signore e signori” disse “ecco BCC (Before the Climate Changes), una bicicletta pieghevole, perfetta per il trasporto intermodale, alimentata a fagioli e acqua di rubinetto.

 

Con questo mezzo straordinario sono arrivato fino a qui dal mio albergo in Saint-Germain-des-Prés in 25 minuti, vale a dire 10 minuti in meno del mio collaboratore in Cybertruck. E senza disturbare nessuno!” Alle prime risate fragorose del pubblico, seguì un muto sbigottimento, appena ci si rese conto che Musk diceva sul serio. Mentre illustrava con passione sincera tutti i vantaggi di muoversi in BCC nei centri urbani, cominciarono a levarsi alcuni mormorii di disapprovazione. Poi qualcuno urlò qualcosa, dando voce alla frustrazione di tutti e innescando un’escalation di rabbia che culminò nella violenza. La grande sala delle conferenze fu ridotta a un cumulo di macerie. Musk fu prontamente scortato fuori dall’edificio e rientrò in albergo su un Cybertruck della polizia francese. Gli ci vollero 54 minuti, perché c’era un ingorgo. 

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La parte inventata, di Rodrigo Fresán

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“Meglio che ascoltiate soffiare il vento, anche se in realtà il vento non soffia. Il vento fa un’altra cosa, per la quale non è stato creato un verbo preciso, giusto, corretto. Il vento – più che soffiare – corre. Il vento corre su sé stesso. Il vento non è circolare, è un circolo.”

Ogni tanto compare un libro che ci ricorda che le possibilità della letteratura non sono ancora esaurite. Un libro, per intenderci, che ci spinge a togliere la bandierina dal confine che credevamo d’aver raggiunto, la mappa non era finita, il sud è più a sud, il nord è molto più in là. Un’opera, infine, che ci porta a rinegoziare i motivi per cui leggiamo. Quando esce un romanzo così ogni lettore deve essere contento, perfino chi non lo leggerà. L’ogni tanto è il 2019, il libro è La parte inventata di Rodrigo Fresán (Liberaria 2019, traduzione – superba – di Giulia Zavagna). Non è catalogabile: è postmoderno ma ha pure il sapore di un classico, è pop e non lo è. Fresán fa ridere e commuovere come Foster Wallace, ha il passo e la tenuta di scrittura di Bolaño e di Cortázar (ma non somiglia a nessuno dei due, ha solo la stessa rilevanza), la capacità di disorientarti di Borges. È argentino ma scrive come un europeo, come un americano, perciò scrive come un argentino. In questo romanzo il protagonista è uno scrittore che decide di sparire, fino a ricongiungersi alla particella di Dio, diventando di conseguenza lo scrittore ideale. La storia non esiste, la trama è un gioco, la lingua è invenzione, lo stile è tutto. 

 

L’incipit è l’incipit di tutta la narrativa “Come cominciare. O meglio: Come cominciare?”. La sorpresa di questo libro sta tutta nell’architettura, Fresán progetta una costruzione dove il linguaggio vive e si rinnova pagina dopo pagina, generando nel lettore una serie costante di stimoli, che viaggiano per tutte le settecento pagine senza mai fermarsi, che si realizzano attraverso lo stupore, la conoscenza, la memoria, il ricordo, il sorriso, la suggestione, il pensiero profondo e qualcosa che assomiglia all’amore per la parola scritta.

“Le parentesi sono il futuro.”

Rodrigo Fresán è nato a Buenos Aires nel 1963 ed è considerato oggi uno dei maggiori scrittori argentini. Vive a Barcellona da molti anni, città che ha condiviso per qualche anno con il suo carissimo amico Roberto Bolaño. Amicizia, come è stato più volte raccontato da entrambi, basata sulle conversazioni piene più di  risate che di letteratura. Il suo libro d’esordio, la potentissima raccolta di racconti Historia Argentina è del 1991 e sorprese e convinse tutti all’istante, il libro non è mai stato tradotto in italiano come molte delle cose scritte da Fresán, nel tempo sono usciti Esperanto (Einaudi 2000, traduzione di Paola Tomasinelli) e il bellissimo I giardini di Kensington (Mondadori 2003, traduzione di Pierpaolo Marchetti). Dobbiamo il suo ritorno nelle librerie italiane al fiuto e al coraggio di Alessandro Raveggi (curatore) e di Liberaria editrice.

 

Scegliere di far tradurre e pubblicare un’opera così complessa e vasta, nella palude che è il mercato editoriale italiano di questi anni, è una mossa quasi eroica, perché La parte inventata (primo volume di una trilogia che speriamo di veder pubblicata tutta) cambia la visione di chi legge, dopo aver affrontato questo romanzo ogni lettore diventerà più esigente e sarà più contento, quasi sollevato. Si può fare, si può continuare a fare. 

“Una biblioteca senza confini precisi nella quale non si trova mai il libro che si sta cercando ma dove si trova sempre il libro che si dovrebbe cercare.”

 

 

Fresán ho avuto la fortuna di incontrarlo e di moderare la prima presentazione italiana del suo libro, qualche mese fa a Pistoia. Ha un’aria distante, all’apparenza, e gli occhi che si muovono lentamente, ma con quella calma osservano e catturano tutto; è una persona cordiale e disposta alla conversazione. Poni una domanda sul libro, sulla scrittura, sullo stile, e le sue risposte apriranno mappe, passaggi segreti, saranno serie e brillanti, il piano della letteratura si inclinerà, scivolerà nell’abisso, salirà quanto più in alto si possa. Riesce a condensare in pochi minuti ampi stralci della storia letteraria sudamericana, a parlare di Faulkner e di Beatles, di suo figlio, dire di Borges, spiegare come ogni paragone col maestro argentino non stia piedi, e perché nessun paragone stia in piedi. La parte inventata possiamo immaginarlo (anche) come una lunga conversazione profonda e ricca di umorismo e di stile, l’interlocutore è il lettore, non ci sono domande, non sono previste risposte, il risultato è una sorta di miracolo letterario.

 

“La parte inventata che non è, mai, la parte disonesta, anzi è la parte che trasforma davvero qualcosa che è semplicemente accaduto in qualcosa così come doveva accadere.”

Eccola qua, la potentissima chiave di lettura fornita dall’autore stesso. Questo romanzo è un grande (avventuroso) campo di battaglia, anzi da gioco, dove il vero (la realtà) e il verosimile (l’invenzione letteraria) disputano una partita memorabile rispondendo più e meglio dei critici. Il vero non conta ai fini narrativi se l’autore non gli aggiunge una parte inventata, quella sintassi, quella lingua che sia capace di ricondurre un fatto reale alla pagina scritta, fino a farlo diventare verosimile, di volta in volta divertente, avvincente, poetico, misterioso. Dire solo che si tratti di fantasia non basta, l’immaginario – fino a un certo punto nascosto – si svela solo grazie allo stile e al ritmo, elementi che per Fresán sono tutto, la trama così come la intendiamo solitamente è solo un accessorio, è un passaggio obbligato dentro il quale far muovere i personaggi, gli scomparsi (lo scrittore) e chi lo insegue, lo studia (due ragazzi).

Il libro si divide in tre parti Il personaggio reale; Il posto dove finisce il mare perché possa ricominciare il bosco; La persona immaginaria; ed è arricchito da una nota di ringraziamento che vale come un capitolo a sé. L’edizione italiana è impreziosita da una bella introduzione di Vanni Santoni che mette in chiaro due aspetti fondamentali, quello della vicinanza di Fresán a scrittori come Gaddis, Glass o Wallace e quello della dimensione del gioco. Il romanzo moderno non può prescindere dall’intertestualità, dal meta-testo, del resto uno scrittore che sparisce è un meta-scrittore.

 

“Entrare in un aereo è come entrare in un pessimo romanzo. Uno di quei romanzi realisti (e così orgogliosi di esserlo e di proclamarlo) che, per quanto si sforzi, non riesce a convincerci di nulla di ciò che dice e del quale prevediamo ogni sviluppo perché l’abbiamo già vissuto, ci siamo già stati, ci è già successo: un dejà-visité più che un dejà-vu.”

In La parte inventata ci sarà posto per i sogni impossibili che si coltivano da giovani, famiglie irrisolte, realtà parallele, canoni letterari reinventati, immaginari, biblioteche ipotetiche con dentro ipotesi di libri, prima ancora che colme di libri. Questo romanzo è un’ipotesi di romanzo e di altri romanzi, uno dentro l’altro. È poi un viaggio nelle ossessioni dello scrittore argentino e nei suoi temi cari: l’infanzia, la perdita, la memoria. Si tratta di un libro che non risponde ai consueti comandi (impulsi) ma ne crea – pagina per pagina – di nuovi. Si attraversano secoli da un paragrafo all’altro, si corre negli elenchi (meravigliosi) di Rodrigo Fresán, ci si può commuovere, si ricorda, si immagina, si sorride, molto spesso si ride. Si ritorna bambini, pronti ogni volta a ricominciare. Da Elvis Costello a Nabokov, da Bob Dylan a Faulkner, dai Pink Floyd a Scott Fitzgerald, e così via, e siamo i Beatles e siamo Borges, scompariamo – come lo scrittore – e diventiamo una buona storia.

Questo romanzo, questo enigma letterario fatto di tessere che si aprono dentro ad altre tessere è illuminante e luminoso, sta già influenzando (e influenzerà a lungo) la mia vita di lettore e di scrittore. Cos’altro abbiamo da chiedere a un libro?

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Cedro del Libano

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La domanda li sorprende sempre: «che alberi sono quelli di Piazza Ateneo Nuovo?». È un piccolo test che talora pongo agli studenti del mio corso di letteratura italiana contemporanea sul loro grado di curiosità e di attenzione a un elemento costante nella loro vita quotidiana. Di solito tirano a indovinare, e non ci azzeccano mai. Una volta una studentessa, forse per spiritosaggine, rispose: albicocchi. Eppure, passano sotto quegli aceri in tutte le stagioni dell’anno, si siedono sulle panchine sotto le loro chiome.

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Mercatino degli orrori

Racconto d'Inverno. Un'altra deportazione

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Nel mese di novembre del 1945 esce Racconto d’inverno uno dei primi resoconti dei campi di prigionia tedeschi. L’ha scritto tra aprile e luglio un ventiduenne appena ritornato dai Lager nazisti. Si chiama Oreste Del Buono e, nonostante la giovane età, già inserito nei giri letterari milanesi. Alla fine degli anni Trenta è stato infatti un collaboratore del giornale satirico Bertoldo, inoltre ha scritto sui giornali degli universitari fascisti milanesi e lombardi. Nel 1943 insieme a Domenico Porzio e a Marco Valsecchi ha poi fondato una rivista, di cui sono usciti nove numeri, che si è intrecciata con il gruppo comasco animato da Renzo Cantoni, fratello del filosofo Remo, facente capo a una libreria dove gravitano Dino Buzzati, Antonio Banfi, Giuliano Gramigna, Carlo Bo, Luciano Anceschi e i poeti Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo. Del Buono, chiamato alle armi di leva, ha lasciato i due amici per arruolarsi in marina e partecipare alla guerra che volge male per le sorti italiane.

 

L’ha fatto, racconterà in seguito, in memoria dello zio, Teseo Tesei, un eroe di guerra medaglia d’oro disperso nelle acque di Malta durante un attacco alle navi inglesi. Oreste non crede alla guerra, ma si sente spinto ugualmente a fare questa scelta. Il momento è peggiore, il 24 aprile 1943. Siamo alla vigila del Gran Consiglio che decreterà la caduta di Mussolini. Così dopo l’8 settembre Oreste, figlio di una ricca famiglia toscana trasferita a Milano, viene catturato dai tedeschi nelle isole di Brioni e spedito in Germania. Fa parte di quel contingente di militari italiani catturati dalle truppe tedesche dopo l’armistizio: oltre 800.000, secondo gli storici. Di questi solo 186.00 restano fedeli all’alleanza con il Terzo Reich. La maggior parte viene perciò internata in diversi campi di prigionia, alcuni molto duri, tra Polonia e Germania.

 

Gli Imi, ovvero i militari italiani internati, saranno costretti a diventare manodopera nelle fattorie, nelle aziende e nelle fabbriche tedesche. Una deportazione che è stata per lungo tempo ignorata a vantaggio della deportazione politica, in modo simile a quella ebraica, la cui rimozione continuò a lungo, anche a guerra terminata, se è vero che, dieci anni dopo la fine del conflitto bellico, nel 1955, Primo Levi ne scriveva su un giornale torinese ribadendo la dimenticanza dello sterminio ebraico. I soldati di leva o i militari di carriera che non entrarono tra le truppe di Salò, o direttamente nei reparti tedeschi come le SS italiane, furono smistati in vari campi di prigionia e lavoro. La loro vicenda è stata raccontata di recente in vari volumi di studiosi: Gabriele Hammermann (Gli internati militari italiani in Germania 1943-45, Il Mulino 2004) e Mario Avagliano e Marco Palmieri in I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi (1943-1945) edito sempre da Il Mulino.

 

Sante Peli, nella Storia della Resistenza in Italia (Einaudi) uscita nel 2006, dedicava finalmente un capitolo ai “Protagonisti dimenticati”: le donne resistenti e i militari italiani nei Lager tedeschi. Il giovane Oreste finisce così nel campo di concentramento a Gerlospass in Tirolo, dove si trovano anche prigionieri ucraini e polacchi. Per un anno e mezzo lavora alla costruzione di una linea elettrica tra il Tirolo e il Salisburghese. Si tratta di un lavoro duro, come racconta nel suo libro, condotto al freddo in un ambiente climaticamente ostile. Certo non sono i campi della morte, di cui hanno reso testimonianza i deportati politici subito dopo la fine della guerra, o quelli per l’eliminazione di ebrei, uomini e donne, alcuni dei quali apparsi già nel 1945 e 1946. Le condizioni di vita nel campo di Gerlospass sono decisamente migliori. Del Buono e i suoi compagni devono tuttavia trasportare sulla neve con slitte i piloni e i materiali della linea elettrica che attraversarà i monti delle Kitzbuheler Alpen. Un lavoro molto faticoso e anche rischioso, ma non c’è l’eliminazione sistematica dei malati o dei deboli come accade nelle selezioni di cui racconta Primo Levi. La tempestività del libro del giovane Oreste è dovuta alla sua evasione dal campo. Già una prima volta nell’ottobre del 1944 si è allontanato da Gerlospass, ma la fuga è durata solo una settimana, perché stanco di girovagare, fa ritorno al campo.

 

La seconda fuga è invece quella definitiva, perché riesce a ritornare in Italia, a Milano, la sua città, il 23 aprile del 1945, due giorni prima della insurrezione generale e della liberazione, cui non partecipa perché malato di itterizia. Strano destino il suo: la sua attività di militare, prima addestrato e poi internato, si svolge nell’intervallo di tempo che corre tra la destituzione del Duce e la sua esecuzione, il tempo segnato appunto in Italia dalla lotta di Resistenza nei due lunghi anni che cambiano la storia del nostro paese. In realtà Racconto d’inverno non è esattamente una testimonianza, o almeno non solo, perché si tratta di un vero e proprio romanzo. Il finito di stampare reca la data del 15 novembre 1945; ne vengono tirate 1000 copie. Lo pubblica Edizioni di Uomo e fa seguito ad un racconto redatto dall’autore subito dopo il ritorno, “Fine d’inverno”. Sergio Antonielli, anche lui autore di un libro di memorie di prigionia, Il campo 29, situato in India, uscito nel 1949 presso le Edizioni Europee di Milano, dopo essere stato respinto in Einaudi da Cesare Pavese e Natalia Ginzburg, sostiene a ragione che Racconto d’inverno inaugura in Italia la serie dei documenti di guerra e di prigionia, il cui libro più famoso è oggi Se questo è un uomo.

 

 

La distanza tra il libro del chimico torinese e quello del giovane marinaio non può essere maggiore. Mentre il primo ha redatto un memoriale scritto in una lingua scabra, essenziale e decisamente classica, il secondo ha optato per un romanzo fornito di una lingua a tratti espressionista, inventiva e fortemente letteraria. Riletto oggi alla sua quarta ristampa in oltre settanta anni, presso Minimumfax con la postfazione di Ernesto Ferrero (dopo la prima del 1945 lo ristampa Scheiwiller del 2003 e poi entra nel primo volume dell’antimeridiano delle opere di Del Buono a cura di Silvia Sartorio, Isbn edizioni, 2010), ci si rende conto come il neorealismo, se di questo si tratta, abbia avuto anche una sua corrente espressionista, linea decisamente minoritaria, di cui i primi due libri di Del Buono, questo e il successivo La parte difficile (1947), rappresentano uno dei punti alti. Non c’è niente di spontaneo, diretto in queste pagine, niente è tratto dal parlato in questo incunabolo della letteratura del Lager.

 

Non si capisce da dove Oreste Del Buono abbia tratto questa lingua così ricca, mentale, e al tempo stesso così concreta e diretta. Forse dagli scrittori americani che leggeva, o provava a leggere, negli anni Trenta, o dalla letteratura francese che seguiva. Fatto sta che Racconto d’inverno appare diverso da qualsiasi altro libro dell’epoca, così che non trovò né subito né in seguito veri estimatori. Lo stesso autore negli anni Sessanta liquidava quel primo romanzo con una alzata di spalle, quasi fosse un errore giovanile. Mentre è interessante proprio per il suo stile che scarta sia dal realismo moraviano di Gli indifferenti che dal neorealismo degli autori letterari degli anni Quaranta, mentre è vicino al neorealismo cinematografico. Raccontato in terza persona, da un narratore onnisciente, comprende un personaggio in cui la voce narrante tende a identificarsi, seppur distanziandosi a tratti; è Tommaso, un perdente, un’indolente, quasi un anticipo del personaggio esistenzialista.

 

Forse che Del Buono aveva già letto La nausea di Sartre uscito nel 1938 in Francia o Lo straniero di Camus del 1942? Non è dato di sapere. Di certo Tommaso e gli altri soldati italiani prigionieri in un campo di lavoro tedesco soffrono il loro “male di vivere” a contatto con i custodi tedeschi violenti e oppressivi. Travagliano nella neve, patiscono il cibo scarso, lo sporco, l’abbandono, il non-senso del vivere dentro l’esperienza del Lager (parola che Del Buono non usa mai). Consumano il margine in cui sono ridotti, dice il narratore, mentre intorno a loro il mondo è in guerra, tra le montagne dove trasportano i piloni dell’alta tensione sperimentano tutta la loro miseria provocata certamente dalla condizione di prigionia, ma anche dal proprio senso interiore d’abbandono. Tommaso va a letto con una donna ucraina, Kata, una derelitta come loro provata dalla vita, e se ne vergogna. Questo sentimento è quello dominate, insieme al rancore, al senso di rabbia per la propria condizione di abbruttimento. Sono dei ragazzi di diversa origine sociale, per età ed esperienza, scarsi di vita; vivono costrittivamente insieme in un contesto che non è né di lotta né di ribellione. Cercano di sopravvivere. Luciano e Serafino si chiedono: “Che colpa abbiamo della guerra?”.

 

Nessuna colpa, nessuna responsabilità. L’hanno subita. A renderli soli è la prigionia, ad unirli è invece lo sconforto, la condanna, la vergogna. A tratti emerge anche qualcosa di cristiano nei discorsi dei giovani prigionieri, un senso del peccato e colpa. Tommaso ha paura delle donne, chiosa la voce narrante. Sono giovani maschi senza una coscienza politica e neppure sociale. Atomi alla deriva. La figura dei loro carnefici – il capo del campo e gli altri sgherri – non ha nessuna profonda malvagità; sono degli scherani, stupidi e crudeli, figure mediocri, modeste. Anche nella crudezza di alcune scene, in cui i capi pestano i prigionieri, non c’è mai la presenza d’una spietatezza senza fine. Quello che emerge non è quindi un elemento testimoniale, quanto la carica espressiva del linguaggio usato da Del Buono allora giovanissimo. Qui sono al loro debutto i futuri protagonisti dei quasi venti tra romanzi e libri di racconti pubblicati dallo scrittore toscano tra il 1945 e il 1987. I suoi “eroi” sono personaggi senza qualità, che attirarono forse non a caso la reprimenda di Vittorini che definisce La parte difficile: “Grigio, triste, noioso”.

 

Racconto d’inverno scarta certamente dalla letteratura postbellica dominante, dal mito politico che prende forma in Uomini e no, e si apparenta in forma simmetrica e rovesciata ad un altro libro in controtendenza, Il sentiero dei nidi di ragno. Forse non a caso fu Calvino a promuovere i libri di Del Buono in Einaudi molti anni dopo. Riletto oggi Racconto d’inverno ci presenta uno scrittore di valore a lungo incompreso, anche perché sommerso dalla mole di attività che l’infaticabile Del Buono ha per decenni condotto nel mondo editoriale e giornalistico. Resta un magnifico libro sui campi di prigionia dei dimenticati militari italiani, quelli che non aderirono alla Repubblica di Salò, e resistettero alle pressioni dei nazisti e dei fascisti. Una storia tutta da raccontare, o raccontare di nuovo, all’interno della complessa vicenda della deportazione nazista, che attende ancora il suo riconoscimento. Un pezzo mancante della nostra memoria collettiva.

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