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Fellini: Roma Città eterna, città interna

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Cento anni fa, il 20 gennaio 1920, nasceva a Rimini Federico Fellini. Lontano dalle celebrazioni, su doppiozero vogliamo raccontare un regista-antropologo che ha saputo penetrare come pochi altri l’identità (politica, storica, sessuale) italiana. Uno sguardo critico e al tempo stesso curioso, da “osservatore partecipante”, che si affianca a quello di tanti altri intellettuali e artisti (da Leopardi a Gramsci, da Salvemini a Bollati) che negli ultimi due secoli hanno cercato di spiegare quello strano oggetto chiamato Italia. 

Abbiamo voluto raccontare Fellini attraverso i personaggi e i luoghi dei suoi film: dallo Sceicco Bianco a Casanova, da Gelsomina a Cabiria, da Sordi a Mastroianni, dalla Roma antica a quella contemporanea, passando ovviamente per la provincia profonda durante il Ventennio fascista. Una sorta di “album delle figurine” per aprire nuovi sguardi su un cineasta forse più amato (e odiato) che realmente studiato. Per questo abbiamo deciso di aprire l’album con un intervento del nostro collaboratore Alessandro Carrera, che, con il suo recente Fellini’s Eternal Rome: Paganism and Christianity in Federico Fellini’s Films (Bloomsbury 2019), ha fornito un originale contribuito ai più recenti studi sul regista.

 

 

Che Roma, per Fellini, sia stata una metafora del corpo materno (sua madre era romana) non è certo una novità. Nel 1965, in un'intervista al “New Yorker”, raccontò il suo arrivo a Roma da diciassettenne come la sensazione di essere finalmente a casa. Roma non era una città, era il suo appartamento privato, le strade erano corridoi. Roma è ancora la madre, aggiunse Fellini, Roma ti protegge.

 

 

Non c'è dubbio che Fellini abbia sempre considerato Roma come una preda da sedurre e dalla quale essere sedotti. Rossellini (nessuno era più romano di lui), piuttosto irritato del successo del suo ex assistente, dichiarò che La dolce vita era il film di un provinciale. Orson Welles fece notare che il provincialismo di Fellini era una delle ragioni del suo fascino. Senza sentirsi offeso, Fellini ribatté che ogni artista è un provinciale in viaggio tra la realtà fisica e la realtà metafisica, rispetto alla quale siamo tutti provinciali. In una delle sue conversazioni con Charlotte Chandler, Fellini fa capire che Roma è una città tanto “eterna” quanto “interna”, un appartamento ma anche una stazione di transito, una sosta tra due tappe che può durare un’intera vita. Voleva mettere i puntini sulle i solo davanti all’accusa di essere un decadente. Nelle varie interviste contemporanee all’uscita del Fellini-Satyricon affermò con forza che la decadenza non era la morte di una civiltà ma anzi il segno di una nuova vita che stava per nascere. 

Era stato Pasolini a rintracciare in Fellini un decadentismo specificamente italiano e cattolico, ma in Fellini mancano due tratti chiave del decadentismo cattolico, l'estetizzazione del peccato e l’eroticizzazione della salvezza. Fellini stesso dichiarò all'epoca di La dolce vita che nel film aleggiava lo spirito di Giovenale. Interpretazione curiosa: ignorava l'aspetto sarcastico-risentito del verso di Giovenale per concentrarsi invece su quella che per Fellini era una satira sempre trasfigurata dal volto gioioso della vita. Anche in un paesaggio di rovine, aggiunse Fellini, la luce che lo rischiara è magnifica, festosa, dorata. Afferma, nonostante tutto, che la vita è dolce.

 

Fellini è decadente come è moralista, realista come è onirico. In un suo breve intervento sull’incompiuto Don Chisciotte di Orson Welles, Giorgio Agamben si è chiesto fino a che punto dobbiamo prendere sul serio le nostre immaginazioni. La risposta implicita di Fellini è che l’artista che prende sul serio le sue immaginazioni fa del realismo. Da qui nasce Roma come città interna, perché solo la città interna ci dà accesso al Reale di se stessa. A Roma, i personaggi di Fellini sono sempre in viaggio attraverso gli intestini di un grande corpo. All'inizio di La dolce vita, Maddalena e Marcello si fanno portare da una prostituta in un appartamento inondato d’acqua, in una strada che ha il nome fin troppo rivelatore di Via dei Cessati Spiriti. Come sacerdotesse di un culto antico, Maddalena e la prostituta guidano la discesa di Marcello nelle umide interiora del corpo materno della città. Nella notte che passa tra quelle acque primordiali, Marcello penetra nel godimento incestuoso che è Roma, e da quell’abbraccio non sarà più capace di liberarsi; nessuna donna che incontrerà sarà così forte da spezzare quell'incantesimo. 

 

 

Se l'appartamento della prostituta è una pozza immobile nel tempo, il Colosseo (un’ossessione per i non romani, e dunque per Fellini) al contrario è un vortice dove l’intera città potrebbe scomparire. Toby Dammit, protagonista dell’omonimo episodio del 1967, avrà la testa mozzata grazie a un trucco del diavolo, ma non è il diavolo a uccidere Toby, è il labirinto che Roma è diventata. La città che Fellini esplora in Lo sceicco bianco, Il bidone, Le notti di Cabiria, La dolce vita, Toby Dammit e Roma, si stava ampliando più rapidamente di come mai le era accaduto. Tra il 1961 e il 1971 Roma crebbe del 27%. Non c'era urbanista, architetto, giornalista o scrittore che non denunciasse ogni giorno il disordine caotico, gli ingorghi del traffico, la perdita d’identità di una città rimpiazzata da una metropoli per quei tempi mostruosa. Il piano regolatore approvato nel 1962 (il precedente, a firma di Mussolini, era del 1931) non fu mai completamente realizzato. Gli edifici più o meno abusivi che spuntavano intorno al vecchio perimetro delle Mura Aureliane raggiunsero infine il Grande Raccordo Anulare, realizzato fra il 1952 e il 1970, creando così una terza città, oltre al centro storico e all'immediata periferia. La Roma della Dolce vitaè una città amabilmente asincronica, perfino pastorale, in cui l'automobile americana che porta al suo albergo una diva di Hollywood può ancora essere fermata da un gregge di pecore. Sette anni dopo, in Toby Dammit, veniamo invece precipitati nel post-boom economico di una mutazione rapidissima, una città abitata da una popolazione che non sa di vivere in un labirinto senza uscita e comunque non ha desiderio di uscirne (ne ritroveremo una versione ancora più degradata in Ginger e Fred del 1986).

Il viaggio di Toby Dammit dall'aeroporto di Fiumicino al Colosseo è una cartella clinica sui mutamenti che la città ha attraversato. Anche se molti dettagli sono ricostruiti in studio, il montaggio non segue le curve sinuose che sono tipiche di Fellini. Abbiamo invece una frenetica serie di inquadrature, in una spirale che tende verso il buco aperto del Colosseo, vero blocco libidinale dell’intera città, come se i mezzi di trasporto stessero eternamente circolando intorno a una gigantesca cloaca senza avere la possibilità di caderci e scomparire. 

 

Fellini non tratta mai Roma come se fosse la capitale d’Italia; dai suoi film non abbiamo mai l’impressione che esista una connessione vitale tra Roma e il resto della nazione. I suoi personaggi partono per Roma come se andassero in un altro paese, è come se Roma potesse esistere senza l'Italia e l'Italia senza Roma, che poi, come la descrive Fellini, è una città plebea, di sottoproletari, prostitute, aristocratici decadenti e preti sempre frettolosi. La gente lavora nel mondo dello spettacolo, nei media, o non lavora affatto. Gli intellettuali della Dolce vita radunati nel salotto di Steiner sono caricature, il proprietario della casa di Fregene dove si tiene l’orgia finale della Dolce vita parla furtivamente di avvocati e incontri ministeriali con il tono di un losco palazzinaro. Intellettuali degni di questo nome, persone che gestiscono un vero potere, imprenditori spregiudicati ma anche coraggiosi, seri membri del clero, semplicemente non ci sono. La Roma di Pasolini è ancora più selettiva, ma per scelta dichiarata. Fellini invece ci vuole convincere che Roma è un gran circo abitato da giocolieri e pagliacci, anche quando i pagliacci fanno paura. La sfilata di moda ecclesiastica in Roma raggiunge il suo culmine quando i presenti vanno in estasi davanti a un simulacro di Pio XII, il vero Sceicco Bianco, il papa che fu l’ultimo vero rappresentante dell’“aristocrazia nera”.

 

 

La strana verità che Fellini ci mostra è che Roma è un’entità autonoma Altre città hanno avuto il ruolo di capitale morale o culturale del Paese, non l'hanno mai lasciato volentieri a Roma, e appena possono se lo riprendono. Roma è il “ventre” d'Italia (Napoli fa caso a sé, è il ventre di se stessa), e il giudizio che Fellini dà sulla città dopo il completamento di Romaè tanto partecipe quanto spietato:

 

Giacché Roma è una madre, ed è la madre ideale, perché indifferente… Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando vai, come il tribunale di Kafka… Con il suo pancione placentale e il suo aspetto materno evita la nevrosi ma impedisce anche uno sviluppo… Qui non ci sono nevrotici ma nemmeno adulti… Questa cancellazione della realtà… nasce forse dal fatto che [il romano] ha qualcosa da temere o dal papa o dalla gendarmeria o dai nobili… si rinchiude in un cerchio gastrosessuale… Roma è abitata da un ignorante che non vuole essere disturbato… un ignorante che vuol bene alla famiglia… Un grottesco bambinone che ha la soddisfazione di essere continuamente sculacciato dal papa.

 

Fellini descrive una popolazione che vive in uno stato d’inesplicabile, masochistica servitù. Se il suo giudizio pare eccessivo, dobbiamo almeno confrontarlo con quello di Giacomo Leopardi, altro illustre provinciale, per capire le radici di questa psicologia della sconfitta compiaciuta:

 

Roma, la prima e più potente città che sia stata al mondo, è stata anche l’unica destinata e quasi condannata a ubbidire a signori stranieri regolarmente, e non per conquista né per alcuno accidente straordinario. Ciò negli antichi tempi… e ciò di nuovo ne’ moderni sotto i Papi (moltissimi dei quali non furono italiani)… Così la prima città del mondo… pare per una strana contraddizione e capriccio della fortuna essere stata… condannata a differenza di tutte le altre ad una legittima e pacifica e non cruenta schiavitù, e quasi conquista. (Zibaldone, Bologna, 1 Dec. 1825)

 

Venuto a Roma per sfuggire l'atmosfera soffocante di Recanati, Leopardi rimase deluso dalla città come dai suoi abitanti. Ma Fellini, caustico con i romani, non lo è mai stato con la città. A volte una strada familiare gli appariva in un colore sconosciuto, altre volte una brezza delicata gli faceva alzare lo sguardo e vedere vecchie case come non le aveva mai viste prima, stagliate contro l'azzurro del cielo. Sentiva un’eco musicale, una vibrazione, una sorta di immobilità africana, una differente consapevolezza del tempo, priva di angoscia, e quando questo incanto lo afferrava tutti i giudizi negativi sulla città sparivano, restava solo la sensazione di avere la fortuna di poterci vivere.

 

 

Due momenti di Roma sono altrettanto cruciali della sfilata di moda ecclesiastica: la scoperta della casa sepolta durante lo scavo della metropolitana e la corsa finale dei motociclisti senza volto che conquistano la città per poi abbandonarla, scomparendo verso Ostia e il mare. Entrambe le scene richiederebbero una lunga analisi. Prima che gli operai della metropolitana raggiungano la casa sepolta, però, un ingegnere informa che i primi progetti della metropolitana di Roma risalgono addirittura al 1871, quando la città divenne capitale. Il montaggio che alterna il tunnel mentre viene scavato e i 110 km di documenti sepolti nell’Archivio di Stato dura solo poche inquadrature, ma raggiunge l'obiettivo. Nei suoi diari di sceneggiatura, Bernardino Zapponi osserva che l’Archivio di Stato è il cimitero dei segreti del paese. Vi si può trovare di tutto, dal pettegolezzo sussurrato alla tavola di Re Vittorio Emanuele II ai rapporti della polizia fascista, dalle annotazioni di paranoici funzionari di polizia che vedevano congiure dovunque alle lettere dei poveri e dei pazzi, indirizzate a ministri e Presidenti del Consiglio, e che non hanno mai ricevuto risposta. L’Archivio di Stato, così furtivamente inquadrato, è l'unico luogo felliniano in cui Roma è veramente la capitale d'Italia, una nazione che per sopravvivere nel presente deve mitizzare il suo passato e al tempo stesso umiliarlo.

 

Nota bibliografica

L'intervista al regista apparsa sul “New Yorker” si può leggere ora in Fellini on Fellini, (trad. I. Quigley; New York, Da Capo 1996); mentre quella di Charlotte Chandler è reperibile nel volume, a cura della stessa Chandler, I, Fellini, New York, Random House 1995. La dichiarazione di Fellini a proposito di La dolce vita, che risale a un’intervista del 1960, è riportata sulla quarta di copertina della sceneggiatura del film, pubblicata nel 1981 da Garzanti. L'intervento di Giorgio Agamben sul Chisciotte wellesiano si trova nel suo Profanazioni, Roma, Nottetempo 2005. L’ampia citazione di Fellini su Roma, infine, è tratta da Fare un film, Torino, Einaudi 1980.

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20 gennaio 1920 - 20 gennaio 2020
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La parte inventata, di Rodrigo Fresán

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“Meglio che ascoltiate soffiare il vento, anche se in realtà il vento non soffia. Il vento fa un’altra cosa, per la quale non è stato creato un verbo preciso, giusto, corretto. Il vento – più che soffiare – corre. Il vento corre su sé stesso. Il vento non è circolare, è un circolo.”

Ogni tanto compare un libro che ci ricorda che le possibilità della letteratura non sono ancora esaurite. Un libro, per intenderci, che ci spinge a togliere la bandierina dal confine che credevamo d’aver raggiunto, la mappa non era finita, il sud è più a sud, il nord è molto più in là. Un’opera, infine, che ci porta a rinegoziare i motivi per cui leggiamo. Quando esce un romanzo così ogni lettore deve essere contento, perfino chi non lo leggerà. L’ogni tanto è il 2019, il libro è La parte inventata di Rodrigo Fresán (Liberaria 2019, traduzione – superba – di Giulia Zavagna). Non è catalogabile: è postmoderno ma ha pure il sapore di un classico, è pop e non lo è. Fresán fa ridere e commuovere come Foster Wallace, ha il passo e la tenuta di scrittura di Bolaño e di Cortázar (ma non somiglia a nessuno dei due, ha solo la stessa rilevanza), la capacità di disorientarti di Borges. È argentino ma scrive come un europeo, come un americano, perciò scrive come un argentino. In questo romanzo il protagonista è uno scrittore che decide di sparire, fino a ricongiungersi alla particella di Dio, diventando di conseguenza lo scrittore ideale. La storia non esiste, la trama è un gioco, la lingua è invenzione, lo stile è tutto. 

 

L’incipit è l’incipit di tutta la narrativa “Come cominciare. O meglio: Come cominciare?”. La sorpresa di questo libro sta tutta nell’architettura, Fresán progetta una costruzione dove il linguaggio vive e si rinnova pagina dopo pagina, generando nel lettore una serie costante di stimoli, che viaggiano per tutte le settecento pagine senza mai fermarsi, che si realizzano attraverso lo stupore, la conoscenza, la memoria, il ricordo, il sorriso, la suggestione, il pensiero profondo e qualcosa che assomiglia all’amore per la parola scritta.

“Le parentesi sono il futuro.”

Rodrigo Fresán è nato a Buenos Aires nel 1963 ed è considerato oggi uno dei maggiori scrittori argentini. Vive a Barcellona da molti anni, città che ha condiviso per qualche anno con il suo carissimo amico Roberto Bolaño. Amicizia, come è stato più volte raccontato da entrambi, basata sulle conversazioni piene più di  risate che di letteratura. Il suo libro d’esordio, la potentissima raccolta di racconti Historia Argentina è del 1991 e sorprese e convinse tutti all’istante, il libro non è mai stato tradotto in italiano come molte delle cose scritte da Fresán, nel tempo sono usciti Esperanto (Einaudi 2000, traduzione di Paola Tomasinelli) e il bellissimo I giardini di Kensington (Mondadori 2003, traduzione di Pierpaolo Marchetti). Dobbiamo il suo ritorno nelle librerie italiane al fiuto e al coraggio di Alessandro Raveggi (curatore) e di Liberaria editrice.

 

Scegliere di far tradurre e pubblicare un’opera così complessa e vasta, nella palude che è il mercato editoriale italiano di questi anni, è una mossa quasi eroica, perché La parte inventata (primo volume di una trilogia che speriamo di veder pubblicata tutta) cambia la visione di chi legge, dopo aver affrontato questo romanzo ogni lettore diventerà più esigente e sarà più contento, quasi sollevato. Si può fare, si può continuare a fare. 

“Una biblioteca senza confini precisi nella quale non si trova mai il libro che si sta cercando ma dove si trova sempre il libro che si dovrebbe cercare.”

 

 

Fresán ho avuto la fortuna di incontrarlo e di moderare la prima presentazione italiana del suo libro, qualche mese fa a Pistoia. Ha un’aria distante, all’apparenza, e gli occhi che si muovono lentamente, ma con quella calma osservano e catturano tutto; è una persona cordiale e disposta alla conversazione. Poni una domanda sul libro, sulla scrittura, sullo stile, e le sue risposte apriranno mappe, passaggi segreti, saranno serie e brillanti, il piano della letteratura si inclinerà, scivolerà nell’abisso, salirà quanto più in alto si possa. Riesce a condensare in pochi minuti ampi stralci della storia letteraria sudamericana, a parlare di Faulkner e di Beatles, di suo figlio, dire di Borges, spiegare come ogni paragone col maestro argentino non stia piedi, e perché nessun paragone stia in piedi. La parte inventata possiamo immaginarlo (anche) come una lunga conversazione profonda e ricca di umorismo e di stile, l’interlocutore è il lettore, non ci sono domande, non sono previste risposte, il risultato è una sorta di miracolo letterario.

 

“La parte inventata che non è, mai, la parte disonesta, anzi è la parte che trasforma davvero qualcosa che è semplicemente accaduto in qualcosa così come doveva accadere.”

Eccola qua, la potentissima chiave di lettura fornita dall’autore stesso. Questo romanzo è un grande (avventuroso) campo di battaglia, anzi da gioco, dove il vero (la realtà) e il verosimile (l’invenzione letteraria) disputano una partita memorabile rispondendo più e meglio dei critici. Il vero non conta ai fini narrativi se l’autore non gli aggiunge una parte inventata, quella sintassi, quella lingua che sia capace di ricondurre un fatto reale alla pagina scritta, fino a farlo diventare verosimile, di volta in volta divertente, avvincente, poetico, misterioso. Dire solo che si tratti di fantasia non basta, l’immaginario – fino a un certo punto nascosto – si svela solo grazie allo stile e al ritmo, elementi che per Fresán sono tutto, la trama così come la intendiamo solitamente è solo un accessorio, è un passaggio obbligato dentro il quale far muovere i personaggi, gli scomparsi (lo scrittore) e chi lo insegue, lo studia (due ragazzi).

Il libro si divide in tre parti Il personaggio reale; Il posto dove finisce il mare perché possa ricominciare il bosco; La persona immaginaria; ed è arricchito da una nota di ringraziamento che vale come un capitolo a sé. L’edizione italiana è impreziosita da una bella introduzione di Vanni Santoni che mette in chiaro due aspetti fondamentali, quello della vicinanza di Fresán a scrittori come Gaddis, Glass o Wallace e quello della dimensione del gioco. Il romanzo moderno non può prescindere dall’intertestualità, dal meta-testo, del resto uno scrittore che sparisce è un meta-scrittore.

 

“Entrare in un aereo è come entrare in un pessimo romanzo. Uno di quei romanzi realisti (e così orgogliosi di esserlo e di proclamarlo) che, per quanto si sforzi, non riesce a convincerci di nulla di ciò che dice e del quale prevediamo ogni sviluppo perché l’abbiamo già vissuto, ci siamo già stati, ci è già successo: un dejà-visité più che un dejà-vu.”

In La parte inventata ci sarà posto per i sogni impossibili che si coltivano da giovani, famiglie irrisolte, realtà parallele, canoni letterari reinventati, immaginari, biblioteche ipotetiche con dentro ipotesi di libri, prima ancora che colme di libri. Questo romanzo è un’ipotesi di romanzo e di altri romanzi, uno dentro l’altro. È poi un viaggio nelle ossessioni dello scrittore argentino e nei suoi temi cari: l’infanzia, la perdita, la memoria. Si tratta di un libro che non risponde ai consueti comandi (impulsi) ma ne crea – pagina per pagina – di nuovi. Si attraversano secoli da un paragrafo all’altro, si corre negli elenchi (meravigliosi) di Rodrigo Fresán, ci si può commuovere, si ricorda, si immagina, si sorride, molto spesso si ride. Si ritorna bambini, pronti ogni volta a ricominciare. Da Elvis Costello a Nabokov, da Bob Dylan a Faulkner, dai Pink Floyd a Scott Fitzgerald, e così via, e siamo i Beatles e siamo Borges, scompariamo – come lo scrittore – e diventiamo una buona storia.

Questo romanzo, questo enigma letterario fatto di tessere che si aprono dentro ad altre tessere è illuminante e luminoso, sta già influenzando (e influenzerà a lungo) la mia vita di lettore e di scrittore. Cos’altro abbiamo da chiedere a un libro?

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Ricardo Piglia, L'utopia della forma

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La lettura dello scrittore

 

“Noi non vogliamo interpretare, ma raccontare quello che manca nella narrazione”, scrive Ricardo Piglia in Teoría de la prosa (p. 58). A questa affermazione fa eco un passo analogo in L’ultimo lettore: certi lettori russi, dice Piglia, i formalisti (Šklovskij, Ejchenbaum), “ci interessano particolarmente perché definiscono la relazione con un testo in funzione di come è stato costruito, e pongono problemi legati alla costruzione e non problemi riguardanti l’interpretazione” (p. 148).

 

Leggere da questa posizione, scrive Piglia, vuol dire “leggere come se il libro non fosse mai finito” (L’ultimo lettore, p. 149). Questa posizione riguarda la ricerca di una prossimità, da parte del lettore, con il punto di vista della composizione. Essa implica uno slittamento del transfert che definisce la fruizione letteraria: “il lettore ammirevole non si identifica con i personaggi del libro, ma con lo scrittore che ha composto il libro” (p. 149). Questa posizione definisce le condizioni della lettura dello scrittore: si tratta prima di tutto di un’intenzione e solo secondariamente di un punto preciso dello spazio in cui collocarsi – il lettore, in questo, come l’analista Dupin in E.A. Poe, è un inguaribile adepto dell’utopia della forma. 

 

È a partire dalla ricerca di questa prossimità con il punto di vista della composizione che Piglia prende la parola in Teoría de la prosa. Il volume, pubblicato in Argentina due anni dopo la morte dell’autore, raccoglie le trascrizioni di un corso tenuto da Piglia all’Università di Buenos Aires nel 1995. Durante le nove lezioni Piglia e gli studenti leggono, rileggono, commentano e analizzano i seguenti testi: Il pozzo, Il volto della disgrazia, Gli addii, Per una tomba senza nome, Triste come lei, La muerte y la niña e Cuando entonces. Si tratta di opere di Juan Carlos Onetti, tuttavia la natura delle lezioni non è meramente monografica; il discrimine, nella scelta dei testi dello scrittore uruguaiano, è formale: si tratta unicamente di testi a cavallo tra la forma breve e il romanzo – romanzi brevi o nouvelles. Il percorso che Piglia delinea in Teoría de la prosa si svolge intorno a un doppio asse, e le pagine di Onetti diventano occasione e strumento per rispondere a una domanda precisa: che cos’è la nouvelle, questa forma ambigua a metà strada tra racconto e romanzo?

 

Capire un testo è raccontarlo di nuovo

 

Le pagine di Piglia, narrative o saggistiche, sono attraversate da una tensione riconoscibile. In Respirazione artificiale come in Formas breves, in L’ultimo lettore e in Solo per Ida Brown, la voce che prende la parola si caratterizza per una peculiare ambiguità – il suo sguardo è duplice. Questa duplicità è legata a un movimento che ora stringe e si abbassa sui fatti – i dati e i documenti di cui è a disposizione o di cui è alla ricerca –, ora allarga e li osserva dall’alto, facendosi astratto; ora raccoglie, classifica ed enumera, ora specula e sconfina. Il modo in cui queste due istanze antitetiche dello sguardo convivono e si alimentano a vicenda è un tratto saliente dello stile di Piglia. D’altra parte, come in Borges, la distinzione tra narrazione e saggio, in Piglia, è un fattore secondario: se il lettore ammirevole è quello che non si identifica con i personaggi del libro ma con il suo autore, la posizione del Piglia lettore e analista è quanto più vicina possibile al punto di vista della composizione. Questo punto di vista è quello della finzione. La finzione è il regno dell’ambiguità: una dimensione in cui il vero e il falso obbediscono a una causalità a sé stante, autonoma e interna.

Ci troviamo davanti a un doppio strato di ambiguità: uno sguardo duplice; una dimensione, quella della finzione, che non ammette altre leggi dalle proprie, e che tende ad annullare le differenze tra narrazione e saggio. Questa è la condizione di partenza di Teoría de la prosa: un percorso il cui carattere speculativo si nutre di un ricorso sistematico e rigoroso al testo che è di volta in volta oggetto d’esame; un legame letterale col testo in esame, la cui stessa lettera spinge il discorso di lato, aprendo porte e sentieri inattesi; un abbandono radicale, nell’analisi, alle leggi della finzione, fino al limite per cui analizzare un testo significa raccontarlo di nuovo. 

 

Il segreto

 

Cos’è dunque la nouvelle, forma ambigua a cavallo tra racconto e romanzo? Per rispondere alla domanda Piglia legge e analizza una serie di testi di Onetti. Perché Onetti? Per il fatto che nello scrittore uruguaiano l’ambiguità formale della nouvelle trova una forte corrispondenza tematica e stilistica. 

 

Il primo criterio utilizzato per definire la forma nouvelle è esterno. Si tratta di una categoria editoriale: la nouvelleè un testo narrativo la cui estensione è relativamente breve eppure sufficiente a garantirne l’autonomia in forma di libro isolato e indipendente. Questo criterio è parziale e fallace: è stato infatti lo stesso Onetti a insistere, contro la vulgata editoriale dell’epoca, perché i testi che costituiscono l’oggetto di studio di Teoría de la prosa fossero pubblicati come libri autonomi e non come parte di antologie di testi brevi. La prima edizione di alcuni dei titoli citati, riferisce Piglia, è avvenuta a spese dell’autore. L’ostinazione di Onetti rispetto all’autonomia di opere come Triste come lei e Gli addii riguarda dunque un elemento più intimo e interno, legato alla struttura e alla forma di quei testi. Qual è questo elemento? Per rispondere, Piglia chiama in causa Deleuze, Šklovskij e Auerbach. 

 

 

“Partiamo dalla definizione di Deleuze, poiché egli pone la figura del segreto come una questione legata al genere [della nouvelle]. La nouvelle si trova a essere in relazione con un segreto che rimane impenetrabile e non prende in considerazione né la sua materia né il suo contenuto. Sarebbe a dire che la nouvelleè un tipo di narrazione in cui ciò che conta è l’esistenza del segreto in sé e il fatto che esista uno spazio vuoto, per così dire, una cosa di cui, dall’interno della narrazione, si è all’oscuro” (Teoría de la prosa, p. 16).

 

L’ingresso, nell’argomentazione, del segreto come forma vuota o spazio vuoto permette a Piglia di chiarirne la funzione attraverso il confronto con una figura, quella dell’enigma, che ha un ruolo fondamentale nelle riflessioni di Poe intorno alla forma racconto. Poe, scrive Piglia, è il primo teorico del racconto; egli stabilisce una serie: enigma-sorpresa-genere poliziesco. L’enigma è raccontato dal punto di vista di chi lo decifra, è un vuoto che il narratore o il detective, nel finale, riempie; il segreto, al contrario, nella nouvelle, è narrato dalla posizione di chi lo ordisce, o da quella di chi, pur tentando di venirne a capo, si trova in una posizione tale da restarne sempre all’oscuro. In questo senso, secondo Auerbach, il segreto non risiede nella trama ma nella posizione del narratore. Infine, lo spazio vuoto che il segreto descrive ha una funzione aggregativa. Secondo Šklovskij, dice Piglia, il segreto serve a unire una trama dispersa: “la nouvelle si costruisce a partire da un luogo vuoto. A cosa rimanda questo vuoto? A una cosa che non viene mai raccontata, sarebbe a dire a una causa o un motivo non espliciti e che, se fossero narrati, trasformerebbero la nouvelle in un romanzo. Nella nouvelle la causalità resta senza spiegazione. Voglio dire che l’idea di Šklovskij è che il segreto funziona come un luogo che permette di unire personaggi, serie e frammenti all’interno di una storia” (p. 21).

 

Gli ultimi due passi citati vengono dalla prima lezione, che pone le basi del discorso. Nelle otto lezioni che seguono si tratta di leggere, di volta in volta, i testi di Onetti alla luce di queste chiavi – e, all’inverso, di far deviare le traiettorie del discorso che le figure del segreto e dello spazio vuoto suggeriscono, in base alle indicazioni dei testi di Onetti. L’argomentazione è alimentata, nella sua progressione, da una doppia sorgente – perché una tale ambiguità risulti feconda, per evitare che essa affossi il discorso per vaghezza, Piglia si cura di disporvi intorno una membrana. Questa membrana riguarda la tradizione. Ricostruire l’origine e la storia della nouvelle è parte di una strategia argomentativa che, insieme al confronto con autori vicini a Onetti per affinità tematica (come Roberto Arlt), permette a Piglia di fornire ai suoi studenti, e ai lettori, gli strumenti per avvicinarsi al punto di vista della composizione. 

 

La posizione del narratore

 

Henry James sta alla nouvelle come Poe sta al racconto. L’autore di Giro di vite, scrive Piglia, utilizza lo spazio vuoto del segreto per costruire una serie analoga a quella stabilita da Poe per il racconto: segreto-ambiguità-racconto di fantasmi (“Parliamo di fantasma come spettro o apparizione, ma anche come una delle figure dell’immaginario che appartiene a quella che Borges chiama letteratura fantastica. Nella letteratura del Río de la Plata c’è una tradizione forte di racconti di fantasmi, per esempio i testi di José Blanco, Julio Cortázar, Silvina Ocampo e lo stesso Onetti”, Teoría de la prosa, p. 19). Questa serie, secondo Piglia, racchiude i tratti salienti della forma nouvelle. Tuttavia il peso e l’eredità di James non si limitano a questa formalizzazione. Ricordiamo la nota di Auerbach: il segreto non risiede nella trama ma nella posizione del narratore. James, di fatto, è stato tra i primi, nei suoi testi narrativi, ad attentare all’attendibilità del narratore; ha sistematizzato, scrive Piglia, quella figura che in narratologia si definisce come narratore inattendibile: “il testo mostra una cosa e il narratore in dice un’altra. Il segreto che si svela, per dirla con James, «si mostra e non si dice», sarebbe a dire che il segreto «fa vedere», ma ciò che mostra è diverso da quello che dichiara esplicitamente il narratore” (p. 67).

 

Il segreto è legato alla posizione del narratore; il narratore mente o non è in grado di dire la verità – perché ha dimenticato, perché contribuisce a ordire il segreto e vi è implicato, perché la storia non gli appartiene ed è solo un curioso, un intruso all’interno di essa. La questione slitta di nuovo: in che relazione si trova il narratore rispetto ai fatti che sta raccontando? Gli eventi sono già accaduti al momento in cui ha cominciato a raccontare? Questo elemento di temporalità interna è un importante vettore di ambiguità in Onetti (ad esempio in Il volto della disgrazia, in cui il narratore si fa carico, a un certo punto del testo, di riportare la storia per iscritto, al presente, mentre la narrazione tende al passato e a raccontare ciò che è già accaduto) e ha un precedente fondamentale in Faulkner: 

 

 

“Questa figura così schiva del narratore di Faulkner che genera tempi diversi nel testo è così fragile, così sottile, che tale gioco di tempi quasi non si percepisce. Però il testo è costituito da strati, e il narratore cerca di collocarsi, con la coscienza che gli è propria, in ogni luogo della narrazione” (pp. 68-69).

 

L’intero universo narrativo vacilla. Se nella forma nouvelle la funzione del segreto consiste nel restare sospeso creando uno spazio vuoto; se il narratore non è in grado o non ha interesse a rivelarlo; se la sua posizione attenta alla coerenza della temporalità interna della narrazione – cosa significa in questo quadro, si chiede Piglia, che un testo del genere si chiuda e finisca?

Nella serie costruita da Poe intorno al racconto, il finale del testo interessa la sorpresa e coincide con lo scioglimento dell’enigma. Nel caso della nouvelle, nella tradizione che va da James a Onetti, la chiusa, secondo Piglia, è innanzitutto legata alla cornice, ovvero alle condizioni di enunciazione della storia. In Per una tomba senza nome, ad esempio, questa cornice è rappresentata dal medico Díaz Grey, da Tito e da Jorge Malabia, il ragazzino per bene che, sognando di liberarsi dal modello paterno, si trasforma inspiegabilmente in un pappone:

 

“Questi tre, sarebbe a dire la cornice costituita da Díaz Grey, Jorge Malabia e Tito, che sono i narratori della storia, si domandano come continua [la storia] e inoltre, come i lettori, si interrogano e cercano di completare quello che manca nella narrazione, sarebbe a dire il segreto” (p. 124).

 

Il tentativo, tuttavia, è vano. In Per una tomba senza nome, come in Gli addii e in Il volto della disgrazia, la chiusa del testo, ovvero il momento in cui si smette di narrare, non coincide con il finale della storia. Nei tre romanzi brevi, la chiusa è costituita dall’ingresso nel testo di nuclei narrativi separati, che funzionano come code, appendici o anticlimax, ma che non chiariscono quello che manca nella narrazione: la lettera di Tito alla fine di Per una tomba senza nome; l’arrivo dell’auto della polizia e la notizia del crimine in cui sarebbe implicato il protagonistadiIl volto della disgrazia; l’informazione omessa e poi rivelata dal narratorediGli addii intorno alla parentela tra il protagonista e una delle due donne con cui intrattiene una relazione epistolare. In ognuno di questi casi, la chiusa del testo rivela una parte della trama ma non dice niente intorno allo spazio vuoto del segreto, alla porzione non raccontata della storia. 

Se una storia non si conclude, scrive Piglia, vuol dire che non ha un finale. Lo stesso Díaz Grey dice, in Per una tomba senza nome, che si tratta di “una narrazione senza finale possibile, dal significato dubbio” (p. 124). L’assenza del finale, secondo Piglia, è in relazione con ciò che non è raccontato – nel caso di Per una tomba senza nome, con la trasformazione inspiegabile di Jorge Malabia in pappone e usurpatore.

 

“La mia ipotesi è che questo finale che manca […] è il vero segreto della storia” (p. 126).

 

Questo vuoto

 

Piglia disegna un circolo. La figura del segreto genera uno spazio vuoto, il quale è legato alla posizione del narratore rispetto agli eventi piuttosto che alla trama della storia; le condizioni da cui il narratore prende la parola determinano la possibilità della chiusa: il finale non si dà, poiché è il vero segreto della storia. 

 

Soffermiamoci sulla figura dello spazio vuoto. Cosa spinge Jorge Malabia, in Per una tomba senza nome, ad abbracciare la mala vida e a diventare il ruffiano di Rita? Seguendo quale impulso segreto il protagonistadiGli addii torna in un appartamento legato al suo passato per suicidarsi? In che modo il protagonistadiIl volto della disgraziaè legato all’omicidio della sua giovanissima amante? Lo spazio vuoto del segreto non ingloba o ricopre gli eventi, ma i motivi che li scatenano. Questi motivi, in Onetti, sono omessi in quanto inesplicabili; sono inesplicabili poiché obbediscono a un ordine causale distinto, autonomo e irriducibile. In “L’arte narrativa e la magia”, saggio di  Borges citato da Piglia, l’autore di Finzioni identifica due diversi modelli di causalità nella narrazione: uno realista e l’altro magico. Nella forma nouvelle, scrive Piglia, e nei testi di Onetti in esame, questi due modelli o ordini di causalità non sono separati ma giustapposti. I loro punti di attrito descrivono il perimetro della forma vuota del segreto. Due dimensioni distinte si configurano nella narrazione: da un lato, il ragazzino per bene Jorge Malabia; dall’altro Jorge Malabia il pappone. Dall’altro lato: lo spazio vuoto del segreto è una figura di passaggio e attraversamento. 

Prima di chiederci cosa transiti, di preciso, attraverso lo spazio vuoto del segreto, indugiamo ancora sull’idea della scissione delle due dimensioni. Un uomo desidera di fuggire dall’inerzia delle leggi e dei limiti della vita quotidiana, si ferma e sogna un’altra vita. Quest’altra vita, di colpo, inspiegabilmente, diviene reale. Questo atto di scissione è il modo in cui Juan María Brausen, inLa vita breve, fonda l’universo narrativo di Santa Maria, universo in cui si svolgono numerose opere di Onetti, tra cui Raccattacadaveri e Per una tomba senza nome. Questa tensione tra le due dimensioni è tipica in Onetti e, secondo Piglia, trova nell’ambiguità formale della nouvelle il suo contesto ideale – uno in cui l’altro ordine causale, che Borges chiama magico, che Piglia chiama finzionale, non è tenuto a spiegare o giustificare i propri mezzi, ma unicamente a mostrare i suoi effetti. 

 

Cosa transita dunque per lo spazio vuoto del segreto? È un impulso: una spinta che rende possibile il passaggio da una dimensione all’altra, da un ordine di causalità all’altro. Ricordiamo Šklovskij: la forma vuota del segreto funziona come un luogo che unisce. Nella tradizione della letteratura fantastica del Río de la Plata, legata, secondo Piglia, alla serie inaugurata da Henry James (segreto-ambiguità-racconto di fantasmi), questo impulso ha trovato diversi strumenti per mostrare i suoi effetti: l’erudizione e la falsa attribuzione in Borges, l’ascetismo dell’immaginazione in Cortázar, la parodia delirante in Laiseca. In Onetti, dice Piglia, questo impulso assume la forma dell’utopia privata: un uomo, disteso sul letto di una pensione in malora, sogna un’altra vita – desidera l’accesso a una dimensione che risponde a un altro ordine causale. È un sogno di rivalsa e di autodistruzione, un desiderio impossibile: di colpo, il ragazzino per bene Jorge Malabia traffica con la prostituzione; il passaggio dall’altro lato lo avvicina e lo allontana dall’oggetto del desiderio: Rita, la donna col capro che ha messo in moto l’intero processo, la donna di cui è innamorato, è ora la sua prostituta. E il ragazzino Jorge Malabia, come i suoi compari nella cornice narrativa di Per una tomba senza nome, si sforza di trovare una chiusa alla storia, di svelare il segreto, ma la chiusa non esiste. Diversamente dai racconti di Borges, in cui il processo di attraversamento è sempre tematizzato e assume i tratti del paradosso logico, nelle nouvelles di Onetti il passaggio all’altra dimensione è semplicemente fuori dall’orizzonte della narrazione: è la forma di un’assenza, uno spazio vuoto –  un limite, un silenzio, un segreto.  

 

L’analisi formalista – la lettura dello scrittore, lo sguardo duplice, l’abbandono al punto di vista della composizione – di Piglia in Teoría de la prosa non si limita a descrivere la geometria di questo spazio vuoto; al contrario, ne identifica le condizioni di possibilità nella forma nouvelle, chiarisce la sua funzione di frontiera e passaggio da un ordine di causalità all’altro e misura, con una precisione altrimenti impensabile, i suoi effetti nella narrazione.

 

“Il segreto non è un problema di interpretazione di un significato, ma della ricostruzione di un dato assente. Capire è raccontare di nuovo” (p. 17).

 

Nota di lettura

 

Nel 2016, in occasione dell’invio dell’archivio di Ricardo Piglia all’Università di Princeton, sono state ritrovate le registrazioni delle nove lezioni tenute dallo scrittore argentino presso l’Università di Buenos Aires tra il 28 agosto e il 13 novembre 1995. Piglia ne ha richiesto la trascrizione e, negli ultimi mesi di vita, ha lavorato alla preparazione del volume. Piglia è deceduto il 6 gennaio 2017; Teoría de la prosaè uscito a febbraio 2019, per i tipi dell’editore argentino Eterna Cadencia, a cura di Luisa Fernández.

I testi citati da Piglia in Teoría de la prosa (rigorosamente senza bibliografia nell’edizione argentina) sono i seguenti: Gilles Deleuze, Mille piani (Castelvecchi, 2003, traduzione di Giorgio Passerone); Viktor Borisovič Šklovskij, “La struttura della novella e del romanzo” (in I formalisti russi, AA. VV., Einaudi, 2003, a cura di Gian Luigi Bravo); Erich Auerbach, La tecnica di composizione della novella (Theoria, 1987, traduzione di Raoul Precht). Il saggio di Borges “L’arte narrativa e la magia”, apparso per la prima volta sulla rivista «Sur» (estate 1932, pp. 172-179), si trova in Discussione (Adelphi, 2002, a cura di Antonio Melis, traduzione di Lucia Lorenzini). 

 

Tutte le nouvelles di Onetti analizzate durante le nove lezioni di Teoría de la prosa sono edite in Italia, a eccezione di La muerte y la niña e Cuando entonces. Ironicamente, o forse in ottemperanza a certa vulgata editoriale, nouvelles come Triste come lei e Il volto della disgrazia, che Onetti insisté per pubblicare come testi autonomi, sono stati inserite, in italiano, nella raccolta di racconti [sic] Triste come lei (Einaudi, 1981; Sur, 2017. In entrambi i casi, la traduzione è di Angelo Morino). 

La traduzione dei passi citati da Teoría de la prosa è mia. L’affermazione programmatica del medico Díaz Grey intorno all’assenza della chiusa in Per una tomba senza nome è citata da Piglia nella quinta lezione; in Italia il testo è stato pubblicato da Sur nel 2016, con la traduzione di Dario Puccini. L’altra affermazione programmatica, per cui “il lettore ammirevole non si identifica con i personaggi del libro, ma con lo scrittore che ha composto il libro” (da L’ultimo lettore, Feltrinelli, 2007, traduzione di Alessandro Gianetti) non è di Piglia ma di Nabokov.

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Richard Jewell: l’incubo americano di un innocente

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Clint Eastwood prosegue indefesso la sua attività e con Richard Jewell dà voce a un’altra storia di gente comune travolta dai meccanismi dell’ingiustizia. L’epopea americana di Eastwood si muove tra le ombre del lato oscuro del giustizialismo, storie sbagliate dove il lieto fine non è mai totale, appagante.

 

Dopo l’operazione malriuscita (maldestra?) di Ore 15:17 - Attacco al treno e Il corriere - The Mule, discreto ma non eccelso, Clint riprende quota con un film che convince appieno… O quasi. Sicuramente finirà nella sezione dei suoi “minori” (complice anche il flop al botteghino americano) e non troverà posto di fianco ai soliti Mystic River, Million Dollar Baby, Gli Spietati e Un Mondo Perfetto; ma Richard Jewell incarna alla perfezione i punti salienti della poetica del cineasta di San Francisco in una confezione solidamente classica, a tratti impeccabile, anche se problematica. 

 

Il “vero” Richard Jewell.


Atlanta, 27 luglio 1996: una bomba esplode al Centennial Olympic Park, in città si stanno svolgendo le Olimpiadi; 2 morti e più di 100 feriti. Il colpevole, un estremista cristiano antiabortista – Eric Rudolph, resta libero fino al 2003. Dopo la bomba al Centennial Park, Rudolph ha messo a segno altri tre attentati colpendo due consultori e un club gay, e prima di essere arrestato ha vissuto cinque anni come fuggitivo nei boschi degli Appalachi. Ma questa è un’altra storia. 

Quella che interessa Eastwood è invece la vicenda che vede protagonista Richard Jewell, un addetto alla sicurezza col sogno di lavorare nelle forze armate, spinto dalle migliori intenzioni, da un fortissimo senso di giustizia, una cieca fiducia nel sistema e una buona dose di ingenuità. 

Dopo essere stato accolto dai media come un eroe – per aver trovato lo zaino sospetto con l’ordigno e aver dato l’allarme evitando una strage – è lui a essere indagato, capro espiatorio per antonomasia pronto ad appagare la fame di giustizia di un sistema fallace (e malevolo) contro cui Clint ha già più volte impietosamente puntato il dito (J. Edgar, 2011).

 

Le scene che precedono il ritrovamento della bomba, durante il concerto dei Jack Mack, sono di pura maestria: ritmo, tempi, inquadrature, montaggio, commento sonoro, l’opera di un regista in stato di grazia che crea un meccanismo di suspense a dir poco magistrale. È una storia che prende le mosse da un attentato, con l’esplosione di una bomba: sappiamo benissimo cosa sta per accadere. Eppure, sullo schermo la tensione è alle stelle, il fiato sospeso. 

 

Clint Eastwood e Paul Walter Hauser sul set del film.

 

Richard Jewellè ovviamente un film politico, anche se l’immagine di Clinton fa una comparsata solo di sfuggita e la matrice cristiana e ultra-destrorsa dell’attentato non è nemmeno accennata. Il dito è puntato contro l’inattendibilità dei media, cavallo di battaglia della demagogia trumpiana. Nonostante questo, il regista sembra mettere in scena una parabola morale, trasversale rispetto alle amministrazioni: al centro c’è la fragilità del singolo contro le architetture del potere statale e dei media. «Il potere della burocrazia continua a crescere mentre il pianeta si restringe e i problemi della società diventano più complessi. Ho paura che l’indipendenza individuale stia diventando un sogno obsoleto»: così Clint Eastwood in un’intervista del 1984, recentemente raccolta nel volume Fedele a me stesso (Minimum Fax, 2019).

 

The wrong man, il topos dell’innocente accusato ingiustamente, uno dei preferiti di Hitchcock, trova in Jewell un protagonista perfetto: un uomo additato per un crimine compiuto da un altro a causa delle circostanze e, soprattutto, dall’ottusità procedurale in cerca di una soluzione semplice e immediata. Jewell è ossequioso, laborioso e ha slanci di generosità facilmente etichettabili come fuori luogo: rifornisce quello che poi diventerà il suo avvocato, Bryant Watson (un ottimo Sam Rockwell), di barrette Snickers perché sa che sono le sue preferite, al Centennial Olympic Park distribuisce acqua a donne incinte e anziani, bibite per i “colleghi” poliziotti. È obeso, le sue aspirazioni lavorative sono costantemente frustrate, vive con la madre. È uno strambo? Vuole solo sentirsi utile, accettato. Per l’FBI invece le caselle sono quelle dell’attentatore solitario, del falso eroe. Così è deciso.

 

Se la pellicola tecnicamente risulta solidissima, girata e montata con grande intuito e mestiere, cade però in un corto circuito ideologico che interferisce con la riuscita della sceneggiatura. Quello che il regista fa è, letteralmente, rendere pan per focaccia ai responsabili del calvario di un cittadino innocente. Da una parte difatti riabilita la figura di Jewell, restituendogli una dimensione umana sincera e commovente, dall’altra imbastisce i personaggi antagonisti (i cattivi insomma) arricchendo e drammatizzando i fatti con insinuazioni e stereotipi. La gogna che ha travolto Jewell è stata scatenata principalmente da due fattori: l’FBI – in particolar modo dall’agente Tom Shaw, un personaggio fittizio qui interpretato da Jon Hamm (il Don Draper di Mad Man) – e la stampa – le cui colpe vengono fatte tutte ricadere in toto su Kathy Scruggs, giornalista dell’“Atlanta Journal-Constitution”. 

 

Nel film di Eastwood, Kathy Scruggs (Olivia Wilde) ottiene la soffiata sull’indagine grazie una “sveltina” (uno snodo narrativo senza alcun riscontro con quanto realmente accaduto), venendo dipinta come una penna di quart’ordine, vera e propria reporter d’assalto senza scrupoli e senza etica (tornano alla mente la Megan Carter/Sally Field di Diritto di cronaca di Sydney Pollack e l’Alicia Clark/Glenn Close di Cronisti d’Assalto di Ron Howard), in un modo definito “extraordinarily reckless”, straordinariamente avventato, dal caporedattore dell’“Atlanta Journal”, che ha minacciato azioni legali contro la Warner.

In Kathy Scruggs si incarnano insomma tutte le colpe del sistema mass mediatico. Salvo poi, nel finale, farle versare una lacrima di pentimento, scena che – anche al netto delle considerazioni tra aderenza al reale e deviazioni letterarie – rappresenta uno dei talloni d’Achille della pellicola, che non necessitava di facili pietismi in corsa. 

 

Ma se su Kathy Scruggs sono stati concentrati tutti i difetti (sessisti) della donna in carriera di matrice post-reganiana, a rappresentare lo spirito femminile pratico, fiducioso e ironico è chiamata in causa la segretaria russa di Watson, Nadya (una stupenda Nina Arianda). È sua l’invettiva più tagliente di tutta la sceneggiatura: «In Russia when the government says someone’s guilty, it’s how you know he’s innocent. Is it different here?». Mischiando storia e mitologia, Eastwood perde così l’occasione di un film vitale e sincero in favore di un manifesto ideologico insidioso e ambiguo: nell’America (democratica) di Clinton i media e lo Stato vanno a letto assieme per tessere trame ai danni degli ignari cittadini. Nessuno è al sicuro, lo dice Bryant durante la conferenza stampa con Bobi, la madre di Richard (una Kathy Bates che grazie a questa performance è stata nominata all’Oscar come miglior attrice non protagonista): «Her son’s accusers are two of the most powerful forces in the world today: the United States government and the media». Insomma, una dittatura invisibile e pervasiva quasi peggio della Russia comunista.

 

La versione onesta di questa storia ha due protagonisti, Richard e Kathy, entrambi morti pochi anni dopo i fatti (lui a 44 anni a causa di un’insufficienza cardiaca, lei a 42 per un’overdose di antidolorifici). Le loro vite si sono incrociate per un breve ma fatale istante che ne ha segnato entrambi i destini: vittime di un sistema che li ha fagocitati, colpevoli di aver cercato di svolgere il proprio lavoro con abnegazione e cieca fiducia nella propria missione. Forse proprio quello che succede a Eastwood.  

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Roberto Roversi o la scena dell’utopia

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La rappresentazione a Bologna di La macchia d’inchiostro di Roberto Roversi a Teatri di Vita da parte della Compagnia Fregoli ci permette di riaprire il discorso sulla produzione drammatica di questo appartato incisivo poeta, che il 28 gennaio scorso avrebbe compiuto 97 anni (1923-2012).

Roversi scrisse, negli anni delle rivolte, tra il 1965 e il 1976, quattro testi per il teatro, paralleli più o meno alle sue Descrizioni in atto, poemi ciclostilati per rifiuto del sistema editoriale. I primi due testi per la scena, Unterdenlinden (1965) e Il crack (1968), furono commissionati dal Piccolo Teatro di Milano e rappresentati, rispettivamente con la regia di Raffaele Maiello nel 1967 e di Aldo Trionfo nel 1969, con esiti contrastati e riserve o vere e proprie stroncature da parte della critica. Il terzo, La macchina da guerra più formidabile (1970), fu allestito nel 1972 in una piccola sala di Bologna, il Teatro della Pantomima, con la regia di Arnaldo Picchi, che poi tra 2002 e 2004 curerà con accuratezza e ampiezza di note la pubblicazione dei testi per l’editore Pendragon di Bologna, Antonio Bagnoli, il nipote del poeta. Picchi, docente del Dams, amico e fedelissimo di Roversi, curò anche nel 2006 l’edizione del quarto testo del gruppo, La macchia d’inchiostro (1976), e mise in scena nel giugno del 1998 un grande spettacolo di piazza con le musiche di Lucio Dalla, Enzo re. Tempo viene chi sale e chi discende, scritto da Roversi tra il 1974 e il 1977 e pubblicato nel 2012 dai Quaderni del Battello Ebbro, frutto di una lunga elaborazione, influenzato da un clima e da una fase poetica diversa dell’autore.

 

Unterdenlinden, al centro Gianrico Tedeschi, ph. Luigi Ciminaghi, Archivio Piccolo Teatro Milano.


(Abbiate pazienza, parleremo più avanti dello spettacolo, mentre, necessariamente, non faremo che pochi accenni al ruolo di Roversi nella cultura italiana e all’importanza della sua figura a Bologna. Sodale di Pasolini, di Leonetti e di altri intellettuali negli anni cinquanta, partecipa all’impresa di “Officina”, nel 1961 fonda la rivista “Rendiconti” e gestisce per molti anni, fino al 2006, la libreria antiquaria Palmaverde. In quel luogo è sempre pronto ad accogliere giovani scrittori, poeti, spiriti inquieti, a rispondere a domande, a rilanciare energie, a effettuare un’opera unica di testimone e di pungolo della città, come avviene dopo l’uccisione di Francesco Lorusso (A che punto è la città, scrive, ripete ossessivamente a capoverso di ogni strofa di Bologna:marzo 1977). Tra i suoi libri, in un luogo apparentemente separato, osserva la realtà in trasformazione dell’Italia dal dopoguerra al duemila, pronto a inventare una lingua per raccontare il nostro paese, nella poesia, nelle canzoni che scrive per Lucio Dalla tra 1972 e 1976, in qualche romanzo, in scritti vari).

 

Il crack, ph. Luigi Ciminaghi, Archivio Piccolo Teatro Milano.


Il teatro, dunque. Il sentimento che segue la rappresentazione dei primi due testi è di delusione, perché è accusato di essere poco drammatico e molto retorico o melodrammatico, in critiche che sovrapponevano spesso gli esiti della regia ai testi (Il crack era stato accompagnato da musiche verdiane, in special modo di Aida, e in slittamenti in tempi storici antichi). Quei due lavori prendevano di petto i temi dell’epoca come il ritorno del nazismo, con una rinascita di Hitler pronto a stipulare patti col grande capitale in Unterdenlinden, pièce ispirata all’Arturo Ui di Brecht, un dramma che alla lettura oggi sembra datato, ma dopo un uso e abuso del tema nei più di cinquant’anni trascorsi. Ulteriore demistificazione è Il crack, che risente forse di suggestioni pasoliniane coeve (Porcile, Teorema). È la storia di un fallimento per concorrenza e per decisioni delle banche di un industriale che “rovina il mercato” con prezzi troppo bassi. Il testo appare radicato nella corsa al profitto e allo sfruttamento degli anni del boom e immediatamente seguenti, visti da una doppia prospettiva: la prima è quella dei padroni e delle occulte forze che dominano loro stessi, le banche, che in scena si moltiplicano in personaggi definiti Paladini e vacue Teste d’uovo del sistema; la seconda emerge come quella dei giovani contestatori che il padre (l’industriale ormai fallito) incontra, platonicamente, nella caverna-carcere dove finisce imprigionato per non essere stato alle regole. I giovani evocano i temi delle ribellioni del Sessantotto, la discussione sulle rivolte internazionali, quelle sull’uso della violenza, sulle merci e il consumo eccetera. Lo stesso Roversi lo definisce un testo “marcusiano”.

 

Il crack, parte terza, nella prigione, ph. Luigi Ciminaghi, Archivio Piccolo Teatro Milano.


Una risposta di Roversi alle critiche negative affidata all’“Unità” ci fornisce una chiave d’interpretazione del testo. Il poeta, accusando a sua volta i recensori di sordità e di “bellettrismo”, sostanzialmente di giudicare su un’idea superata di testo drammatico, non all’altezza di tempi nuovi, rivendica alla sua pièce il carattere di una critica metaforica, linguistica, applicata ai temi dell’azione e della violenza, del sistema verso sé stesso “attraverso il sistema del sant’uffizio della banca”, e contro gli oppositori. Rivendica al suo lavoro la funzione di smontare meccanismi occultati dal sistema (spesso celati proprio sotto le trame teatrali ben congegnate). Ancora più chiaro è un intervento sulla rivista “Rendiconti”, 26-27, gennaio 1974, sotto il titolo Un circo e quattro gladiatori:

 

Questo teatro fatto o da farsi racchiude e raccoglie anche una parte di gioco (inevitabile), cioè di fantasia e di abbandono. […] Questo teatro fatto si pone come un atto collettivo di conoscenza delle cose e come una spinta incidente sulla realtà. Questo teatro elabora una lingua, vale a dire che il linguaggio lo sperimenta lo verifica lo seleziona durante l’azione; inoltre si rincantuccia in ogni luogo, non soffre di limitazioni o di altri pesi che non siano la propria sofferenza e la voglia di soffrirla fino in fondo per conoscerla una volta per tutte, condannarla, superarla.

 

Teatro, quindi, come atto collettivo di conoscenza – fuori da vecchie regole di palcoscenico. Teatro come ricerca linguistica e politica, per una nuova polis. Come si legge anche in Lode della scrittura. Dieci tesi per un teatro organico, uno scritto di quegli anni di Giuliano Scabia, pubblicato in Teatro nello spazio degli scontri (Roma, 1973):

 

[…]

3. La scrittura di un testo è innanzitutto un atto di ricerca radicale e organica. Una ricerca spinta fino alle estreme capacità di tensione del linguaggio e delle visioni del mondo, dentro le strutture del proprio tempo.

[…]

 

Come lo stesso Scabia testimonierà attraverso gli “schemi vuoti”, ipotesi di azioni teatrali da riempire in relazione alla comunità in cui si svolge l’intervento, o con opere-test come Interventi alla prova de L’isola purpurea di Michail Bulgakov, opera che affonda lo stiletto nelle ideologie, nelle timidezze, nelle contraddizioni delle sinistre in un momento in cui sembrava che l’arte, il teatro, dovessero contribuire a smuovere la nascita di un mondo nuovo. Anche il testo dello scrittore padovano e lo spettacolo firmato da Raffaele Maiello furono attaccati dalla critica e rimossi dal cartellone dalla direzione del Piccolo Teatro, che pure lo aveva messo in programma nella stessa stagione 1968-1969 del Crack. Era una stagione pensata dal solo Paolo Grassi, dopo la fuoriuscita di Strehler dal teatro pubblico milanese, e l’occhio, anche con altri titoli, era rivolto a quello che stava avvenendo nella società.

 

La macchia d’inchiostro, la locandina.


Nella produzione teatrale di Roversi seguono i due testi del 1970 e del 1976, entrambi con protagonisti francesi, Denis Diderot in La macchina da guerra più formidabile, e l’erudito e militare Paul-Louis Courier, vissuto poco dopo, ai tempi di Napoleone, in La macchia d’inchiostro. In entrambe, temi, idee, motivi, atti, sfide molteplici vengono condensati nello spazio-tempo sintetico e emblematico del teatro. Nella prima pièce si tratta degli effetti rivoluzionari sui tempi coevi e su quelli futuri dell’opera dell’Encyclopédie, e le conseguenti repressioni. 

Nella seconda sono narrate le vicende di un picaro intellettuale, l’avventuriero della conoscenza Paul-Louis Courier, presentato solo come P.L., filologo classico e fuggitivo dal servizio presso l’esercito napoleonico a caccia di manoscritti antichi inediti, fino alla diserzione dalla vita, al rinchiudersi in una biblioteca e a trascurare la giovane focosa moglie, che per rabbia e vendetta lo denuncerà ai poteri militari, facendolo catturare e uccidere. Qui la vicenda del vero Courier – su cui Roversi scambiava lettere con un altro appassionato dei lumi intellettuali di Francia, Leonardo Sciascia – è condensata, sintetizzata, teatralizzata in un testo vorticoso, ellittico, con cavalli parlanti, guerre, viaggi, libri, tanti libri, le passioni di Roversi, che alla dominazione napoleonica in Italia e alle ribellioni dei briganti in Calabria aveva dedicato negli anni cinquanta il primo romanzo, Caccia all’uomo, ripubblicato da Pendragon nel 2011,.

 

Un prologo apparentemente bizzarro, che il testo vuole detto da due cavalli a passo da esemplari ammaestrati di circo, presenta un mondo ridotto a discarica dei consumi, gli stadi pieni di merce invenduta, esorbitante, con atmosfere che ricordano testi del Futuro dell’automobile, scritti per Dalla in quegli stessi anni, specialmente Il motore del Duemila, bello, trasparente, calibrato, pulito – quando delle macchine conosceremo tutto e del ragazzo del Duemila ancora niente – e la discarica apocalittica di Due ragazzi, le loro chiacchiere e parole d’amore mentre dall’alto “piove neve verde” in un campo di auto in demolizione.

Il testo teatrale, con le sue scene incalzanti e surreali, ha un andamento veloce, burlesco a tratti e vede al suo centro la macchia d’inchiostro che P.L. fa cadere, forse volontariamente, forse no, su una parte ancora sconosciuta alla comunità degli studiosi di un manoscritto arcadico di Longo Sofista, dopo averlo ricopiato. Tutto intorno si sente incombere la tragedia, con la guerra che infuria, sempre, lontana ma presente, con i contadini resi avidi dalla fame... E il protagonista continuamente fugge in cerca di vita o di quella esistenza sublimata (più vera?) che offrono le idee, i libri.

 

La macchia d’inchiostro, ph. Carolina Negroni.


Lo spettacolo, diretto dal giovane attore Luca Malini, che ha formato in circa sei mesi la compagnia, finanziata da Pendragon e da Officina Roversi, un progetto del Comune di Pieve di Cento (BO), ha come primattore nella parte di P.L. (non Courier, una sua ombra teatrale) Luca Mauli, con un cammeo di Caterina Roversi, nipote del poeta, nella parte della moglie sciroccata del nobile che accoglie P.L. e gli dà in sposa la figlia (gli altri interpreti sono lo stesso Malini, Piero Ferrari, Roberto Romagnoli, Alessandro Roda, Antonio Miliani, Biagio Caruso, Laura Girotti, Enrico Ferratini). L’allestimento è discontinuo e non va oltre risultati poco più che amatoriali. Le voci spesso non arrivano agli spettatori o sono solo un vocio o rombo confuso. Molte belle idee sono accennate e non sviluppate. Per esempio, quella di coprire una parte del palco con una scacchiera e fare dei due cavalli parlanti, quello guerresco e quello contadino, spesso indulgente a un grammelot dialettale, il pezzo bianco e quello nero del gioco degli scacchi. Il caos, la paura dei frati fiorentini davanti ai francesi miscredenti, quando il solo P.L. è creduto un intero drappello giacobino, diventano solo confusione. Nel finale la torre di libri in cui si chiude P.L., nelle interessanti scene dal tratto fumettistico, colorato, di Peter Filippetti, poteva essere più debordante, invasiva, dominate. Il protagonista, per lo più incisivo, non sempre è accompagnato dal resto della compagnia.

 

La macchia d’inchiostro, ph. Carolina Negroni.


Ma lo spettacolo ha il merito di rimettere in circolo un testo efficace più degli altri precedenti, sempre gravato, forse, da un eccesso di progettualità e condensazione, come lascia intendere anche l’imponenza dell’apparato di note di Picchi. In quegli stessi anni Roversi iniziò a lavorare a Enzo re, l’ultimo lavoro teatrale compiuto. Quel nuovo impegno, che sarebbe stato lungo, segnava un cambio di passo, di stile, di tempi, in attesa di lasciare le scene per territori forse a lui più consoni. Una citazione di Arnaldo Picchi, nel finale del commento alla Macchina da guerra più formidabile, bene segnalava il passaggio tra un fare in cui per il poeta il teatro è quasi regesto e sonda dei tempi, delle loro effettualità e delle loro possibilità, e un’altra in cui mette in atto il tentativo di ascolto delle cose, spogliate, cercate nelle loro risonanze più profonde (p. 172):

 

Nella Macchina da guerra entrano molte voci – di attori e di commentatori – è un molti; intrinsecamente analogo al molti chiamati dall’Enciclopedia. Intervengono molte voci: ma, soprattutto importante, è l’umiltà (la tranquilla sicurezza di sé) del collaboratore più remoto, rimasto solo nella più lontana provincia. Nell’Enzo re ho avuto modo di vedere Roversi ricorrere a un vocabolario spogliato e ridotto a pochissimi termini. C’è una gioia intima nel vederlo lavorare a semplificare il testo, a renderlo morbido, e poco. Tutto sta nella congiunzione di due o tre parole, di due o tre frammenti contrapposti. Se si ascolta, con attenzione, si sentono le risonanze propagarsi a grande distanza, e tornare piene di forza; come grandi onde, e piccole barchette di uomini. Poco. Due o tre tocchi.

 

La macchia d’inchiostro, ph. Carolina Negroni.


Ripubblico, in coda all’articolo, con pochissime modifiche editoriali, un’intervista a Roversi da me fatta per il “Corriere di Bologna” e pubblicata il 27 gennaio 2011, per la presentazione pubblica della ristampa di Caccia all’uomo.

 

Uomini e donne in ostaggio della violenza dei briganti e dell’esercito, tra monti e marine, in Calabria all’epoca della dominazione napoleonica. Con squarci lirici – di sogni, aspirazioni, abbandoni all’ora del giorno, al paesaggio – che fanno intuire il rovente desiderio di vite differenti. È un tesoro recuperato dall’oblio la prima prova narrativa di Roberto Roversi, pubblicata dalla sua Libreria Antiquaria Palmaverde nel 1952 come Ai tempi di re Gioacchino, ristampata nella Medusa Mondadori nel 1959 come Caccia all’uomo e riportata oggi in vita con quel titolo dall’editore Pendragon. […] Sentiamo dalla voce del suo schivo, amato autore ottantottenne come nacque questo «novellino di boschi e schioppi».

Roversi, è ancora attuale il suo romanzo?

«Credo di sì, perché protagonista principale è la violenza, un’opposizione scomposta, non sempre supportata da una presa di coscienza precisa, a un’occupazione straniera. E protagonista è anche l’Italia Meridionale, sempre dimenticata dalla storiografia ufficiale. Racconta vicende allucinanti, nuove, drammatiche».

Quando lo scrisse pensava alla Resistenza, alla quale aveva partecipato?

«Sì. Era un modo di trasferire in altre direzioni la vicenda da poco passata, la ribellione contro una forza militare nemica che aveva unito diversi strati della popolazione in una mescolanza di interessi. La Resistenza era stata la continuazione di una storia precedente mai conclusa, sempre dimenticata».

Si riconosce nella definizione di «poeta civile»? 

«Poeta poi! Posso accogliere l’etichetta civile perché mi sono interessato più delle cose accadute che di quelle che proliferavano nel mio petto».

Lei ha molto amato il teatro. Come mai le sue pièce non hanno avuto fortuna?

«Unterdenlinden e Il crack furono rappresentati al Piccolo Teatro di Milano negli anni ‘60. I tumulti seguiti a Il crack, un testo marcusiano, legato ideologicamente a vicende di repressione del tempo, mi fecero allontanare dalla rappresentazione. Il regista Aldo Trionfo l’aveva ambientato tra gli antichi romani! Continuai a scrivere, senza più cercare di far mettere in scena».

Colpa quindi dei registi?

«Forse colpa degli scrittori stessi. È come per le canzoni: non bastano le parole, ci vogliono la musica, i cantanti… Ero un giovane autore che pensava di rifare il mondo».

Con la canzone andò meglio…

«Lucio Dalla ha messo in musica cose che altri avrebbero gettato dalla finestra, tipo La borsa valori. Diceva che i miei testi di Anidride solforosa e di Automobili gli suggerivano possibilità suggestive. Avevamo pensato di raccontare la storia d’Itala attraverso l’automobile, Nuvolari, la Fiat, la bitumazione delle polverose strade napoleoniche, ma il disegno s’interruppe. Era un corrispettivo del “progresso” di quegli anni».

E oggi, come vede l’Italia?

«Come scrivo nel titolo di una recente raccolta poetica, sta “sepolta sotto la neve”. Può morire per mancanza d’aria. È un momento grigio. Manca la vitalità del contrasto, della nota anche acerba ma promuovente. L’opposizione è armata come colomba stanca del volo sulla spalla dell’antiberlusconismo. Intanto lui resta al governo. Non rimane che attendere che si aprano buchi neri, da riempire di luce, di vitalità».

Cosa pensa dei giovani?

«Noi vivevamo sotto le bombe. Mancava la previsione. La ricostruzione sembrò aver attenuato i problemi concreti. Ma tanti non si inserivano. I vecchi continuavano a ordinare le guerre e i giovani a partire. Oggi il potere ufficiale è scarsamente identificabile. Ha bisogno di essere codificato».

Ha nostalgia della sua libreria Palmaverde?

«Tanta. Con mia moglie diciamo spesso: il mese prossimo riapriamo. Abbiamo vissuto per decenni in mezzo a quell’odore. I libri parlano, cantano, profumano. Vederli in mucchi pronti a essere collocati è una visione idilliaca».

Come è Bologna, oggi?

«Negli anni ’50 e ’60 era inimitabile, vitale. Venivano dall’estero a esaminarla come corpo fresco, operativo. Ora è come passare in una camera mortuaria. Si è uniformata alle altre città. Si lascia vivere, polverosa, grigia. Non ha voglia di reinventarsi ogni giorno. Quando la sinistra ha perso il potere telefonavano da tutta Italia, piangendo, anche senza essere comunisti».

Ma lei, così impegnato, lo è stato comunista?

«Mai. Condivido le osservazioni di Marx sull’economia e sul futuro. Certi semplici lemmi marxiani fanno ancora riflettere. Per esempio quello che dice che la ricchezza degli uni è causa della povertà degli altri. La vera politica richiede anche semplificazioni ricevibili dal maggior numero di persone. In questo Berlusconi è maestro».

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Dalla Russia con rigore

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Pëtr Bogatyrëv, Osip Brik, Boris Eichenbaum, Roman Jakobson, Vladimir Propp, Viktor Sklovskij, Boris Tomaševskij, Yurij Tynjanov. E ancora: Michail Bachtin, Jurij Lotman, Jan Mukařovský, Boris Uspenskij, Viktor Vinogradov. Chi erano costoro? Nomi per lo più dimenticati, non tutti per fortuna allo stesso modo, di provenienza russa come si sarà capito, che circolavano parecchio nel nostro Paese (e in generale in Occidente) fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Si trattava di 

studiosi di poesia e romanzo, linguistica e folklore, teatro e cinema, ma anche poeti e romanzieri, sceneggiatori e registi, che erano portatori di un forte rinnovamento teorico e metodologico nel campo degli studi umanistici, etichettati alcuni come formalisti russi, altri come strutturalisti sovietici, altri ancora come semiotici slavi. L’innesto di questa tradizione di studi in una cultura come quella italiana, ancora fortemente intrisa di idealismo crociano e storicismo più o meno dialettico, era certamente salutare. Se pure vigilato con maniacale attenzione e non poche censure dai sovietici locali, sempre pronti a esercitare il loro filtro ideologico su tutto ciò che sapeva di rigore teorico nell’ambiente tanto polveroso quanto aggressivo delle umane lettere. Già il parlare di scienze dell’uomo era guardato con accigliato sospetto: si preferivano le impalpabili nuances dello Spirito, le indicibili manifestazioni del sentimento interiore, qualsiasi cosa esse volessero e potessero significare. Oppure si invocava la goffissima interpretazione materialistica della storia. Un modo feroce per custodire posizioni di potere academico ed editoriale.

 

Importare dai meandri culturali più nascosti dell’URSS e degli altri paesi del blocco sovietico le opere di quegli studiosi (contro le quali, va ricordato, s’erano levati sia Trockij sia Stalin in persona, con scritti che allora fecero scalpore) significava, da un parte, contrastare l’euforia travolgente dello strutturalismo francese e anglo-americano e, dall’altra, proporre una sorta di teoria ibrida fra il marxismo e il metodo formale, lo storicismo e la semiotica. Una specie di trasformismo culturale, di cui l’Italia è maestra indiscussa, e non solo nell’arena politica. Sdoganiamo la Struttura, signora mia, ma sempre con l’avallo della Storia, per carità. 

Meglio di niente? Macché. A dispetto dei loro cani da guardia, le opere di quegli studiosi erano linfa vitale per i nostri linguisti e antropologi, critici letterari e storici dell’arte, filmologi e mediologi. Del resto, Saussure e Barthes, Wellek e Forster, Hjelmslev e Lévi-Strauss, Greimas e Lacan, Benveniste e Foucault venivano tradotti con generosità. C’era di che leggere, di che imparare da entrambi i lati. Ecco dunque libri importanti come i Saggi di linguistica generale di Jakobson e la Morfologia della fiaba di Propp, l’antologia I formalisti russi curata da Todorov e la Tipologia della cultura di Lotman e Uspenskij, il Dostoevskij di Bachtin e La struttura del testo poetico dello stesso Lotman. Tutti volumi che, deo gratias, il nostro mercato editoriale continua a ristampare. Ma anche, e soprattutto, opere che sono finite nell’oblio, in quella che doppiozero ama chiamare Atlantide. Per esempio (e vado a memoria): la Teoria della prosa e i Materiali e leggi di trasformazione stilistica di Sklovskij, la Teoria della letteratura di Tomaševskij, Avanguardia e tradizione e Il problema del linguaggio poetico di Tynjanov, Il formalismo russo di Erlich, La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali di Mukařovský, Poetica e poesia di Jakobson, Semiotica e storia di Uspenskij, La fiaba russa di Propp.

 

 

Per non parlare dei tanti libri di Lotman non più editi come Testo e contesto, La semiosfera, La cultura e l’esplosione, Cercare la strada, Il girotondo delle muse e così via. O delle quattro ricchissime raccolte di scritti:  I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, curata da Eco e Faccani per Bompiani; La semiotica nei paesi slavi, a cura di Prevignano per Feltrinelli; le Ricerche semiotiche curate da Lotman e Uspenskij per Einaudi; La cultura nella tradizione russa del XIX e XX secolo a cura di Avalle sempre per Einaudi. Infine, la miriade di saggi e articoli che pubblicavano riviste meritorie come “Strumenti critici”, “Uomo & cultura”, “Rassegna sovietica”, “Versus” e tante altre.

Bello allora vedere tornare in libreria il vecchio libro sui Formalisti russi nel cinema, uscito in Italia da Garzanti nel 1971 per la cura di Giorgio Kraiski, in una versione arricchita curata da Pietro Montani per Mimesis (pp. 251, € 22). Vi si trovano i saggi di Eichenbaum, Tynjanov, Sklovskij e Brik che c’erano nella prima edizione, per lo più volti a ricostruire le specificità del linguaggio ibrido del film, nel crinale fra il muto e il sonoro, il bianco/nero e il colore, con l’aggiunta di tre saggi di Jakobson (sulla presunta decadenza del cinema), Mukařovský (sull’estetica filmica) e Lotman (sul particolare ruolo del cinema nel meccanismo della cultura contemporanea). 

 

I formalisti erano maestri nello studio del testo letterario: cercavano quella che chiamavano “letterarietà” nei meccanismi di composizione delle opere, non a prescindere dai loro contenuti (come sostenevano i loro detrattori) ma per meglio riconoscerli e comprenderli. Parlavano di “straniamento” della percezione quotidiana del mondo, da ottenere attraverso il complesso lavorio di arricchimento (formale e dunque semantico) operato dallo scrittore – termine e concetto, quello dello straniamento,  che tanta fortuna avrà nella drammaturgia brechtiana e nella semiologia di Barthes. Sostenevano che nella storia della letteratura non c’è mai progresso, piuttosto una serie di parricidi: l’evoluzione letteraria, a loro avviso, non va di genitore in figlio ma da zio a nipote. Trasversalmente, di sghimbescio. Ogni scrittore crea così i suoi predecessori, come poi sosterrà Borges.

 

Ma per quale ragione, si chiede Montani nell’introduzione, si interessarono così tanto, e così da vicino, al cinema, trascurando arti più blasonate come la pittura o la musica? Sicuramente per le forti analogie strutturali che il cinema presenta con la letteratura, e con il testo poetico in particolare. Il loro interesse, difatti, non stava tanto nel carattere palesemente narrativo del film, a dispetto, per esempio, della apparente staticità della fotografia. Né tantomeno la loro attenzione era attirata dalla – anche qui apparente – naturalità dell’immagine meccanica (fotografica come filmica), atta, secondo i più, a rappresentare il mondo per quel che è. Molto diversamente, essi pensavano che l’arte cinematografica si fondi in primo luogo sulla sua convenzionalità, sulla serie di regole sintattiche – a iniziare dal montaggio – che ne regolano il flusso, e specificamente sulla sua capacità di produrre effetti poetici dispiegando lungo la pellicola fotogrammi che sono in relazione fra loro, per parallelismi, inversioni, trasformazioni, rime. In altre parole, l’immagine cinematografica è interessante non perché è in movimento, che è una banalità, ma perché lungo questo movimento del film è come se essa lo bloccasse, rinviando per via retorica alle altre immagini presenti in quello stesso film. Esattamente come la poesia, lungo il proprio tempo il film crea effetti di spazio: quel che conta non è la narrazione lineare ma la sua continua frammentazione, la rete di collegamenti interni (visivi, ma anche cromatici e sonori), le cesure, i toni, i ritmi, gli accenti, le pause, i dispositivi prosodici. Insomma il montaggio (grande tema di Ejzenštejn, su cui Montani ha parecchio lavorato).

 

Così, per esempio, un’inquadratura soggettiva sarà tale se e solo se segue a un’altra

di tipo oggettivo, o pseudo tale, e ne precede un’altra anch’essa oggettiva. Se tutto quanto, nel film, fosse visto da un solo personaggio, questo coinciderebbe con l’occhio della camera e diventerebbe – oltre che noioso (si pensi a The lady in the lake di Montgomery) – del tutto normale, abituale, cioè a suo modo oggettivo. Analogamente per il tempo: oltre al ritmo dell’azione raccontata, c’è quello dello stesso film, la velocità con cui viene riprodotto, che può cambiare nel corso della proiezione in modo da creare, per esempio, effetti di comicità (quando c’è un’accelerazione) o di tristezza (quando c’è un rallentamento). Ma accelerazione e rallentamento sono tali soltanto rispetto al tempo ‘normale’ del film, ossia quello a cui siamo abituati. Ancora, se in Schindler’s list il cappottino rosso della bambina, durante la retata in un ghetto, fa tanta impressione è perché il resto del film è in bianco/nero. 

 

Ovvio, si dirà. Ovvio perché, continuano i formalisti, lo spettatore ha introiettato nel corso del tempo questi e altri meccanismi dell’arte cinematografica, acquisendo i codici di un linguaggio che essi chiamano “transmentale” – il quale, per nulla curiosamente (ne parla uno psicologo come Vygotskij), sta a metà strada tra la cognizione e la percezione, l’attività intellettuale e quella sensoriale. Al cinema è il corpo che pensa, e il pensiero che sente. Per questo motivo la diffusione progressiva dell’arte cinematografica è parallela a una certa “alfabetizzazione delle masse”.

Motivo in più per leggere questi scritti, commenta Montani, in un momento culturale come quello attuale, dove si pone fortemente il problema di un’analoga “alfabetizzazione mediale” “volta a implementare un grande circuito di condivisione e di pratiche interattive”. Così come negli anni dei formalisti, fra il ’20 e il ’30, il cinema veniva studiato nel suo stato nascente, allo stesso modo oggi il mondo del web deve essere inteso e compreso. Troppo facile, ancorché fuorviante, guardare a esso con gli occhi cisposi dell’umanesimo classico, finendo per assumere posizioni banalmente apocalittiche. Più utile semmai ragionare nei termini di una nuova “scrittura per immagini” tipica delle pratiche, per esempio, del riuso delle immagini archiviate in rete “le quali contemplano diverse modalità di accoppiamento con la scrittura in senso stretto, nell’ambito di una più vasta attività di montaggio audiovisivo e intermediale”. Leggere Sklovskij per credere.

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Il libro bello

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Corso Matteotti è una lunga strada che scende da Anghiari verso la Valtiberina. È qui che Marta Sironi ospita, in una grande stanza soppalcata, la collezione di Sandro Bortone, che fu studioso, bibliofilo, e direttore della biblioteca Civica di Como. Un paradiso per chi ama i libri, ma la Sironi, oltre che amarli, li studia, come ha dimostrato nelle monografie dedicate a John Alcorn e a Giovanni Pintori. Ad Anghiari i libri, seguendo la classificazione di Bortone, sono raggruppati secondo l’autore della copertina. È da qui che prende le mosse il nuovo studio di Marta Sironi, Il libro bello. Grafica editoriale in Italia tra le due guerre (Unicopli), un volume che si occupa non solo di ciò che è enunciato nel sottotitolo, ma che riflette la storia delle trasformazioni del gusto negli anni Venti e Trenta, ricostruendo le vicende di figure di artisti e di case editrici spesso poco praticate.

 

Va detto subito che è un libro pionieristico, da cui c’è molto da imparare perché, a parte alcuni studi di Paola Pallottino, si occupa di cose nuove, con un’attenzione primaria all’oggetto libro. Lo fa scegliendo alcune storie esemplari di illustratori o di case editrici, ma il volume finisce per diventare anche un importante contributo alla storia dell’editoria italiana tra le due guerre.

La Prima guerra mondiale segna una cesura nel campo della grafica editoriale. Sono anni in cui il consumo di immagini, attraverso il cinema e la fotografia, sta entrando nelle abitudini quotidiane. Questo si riflette in campo editoriale con un’attenzione nuova verso le copertine su cui si concentrano gli sforzi estetici e di comunicazione. La prima figura di artista che si incontra nel libro è Giulio Cisari che lavora per Mondadori, Alpes e Hoepli: le sue sono copertine architettoniche che hanno al tempo stesso una funzione strutturale e decorativa, evolvendo dal liberty all’art déco, ma sempre attingendo alla tradizione figurativa italiana (un punto di riferimento sono le copertine della rivista illustrata ‘Emporium’). Alpes è oggi noto soprattutto per essere stato il primo editore di Gli indifferenti di Moravia (1930), ma la casa editrice milanese, retta da Arnaldo Mussolini, fu un luogo dove si misurò, dopo Cisari, Ubaldo Cosimo Veneziani, oltre a ospitare occasionali apparizioni di Felice Casorati e Mario Sironi.

 

Giulio Cisari, Mondadori, 1932.

 

Dopo la morte di Arnaldo Mussolini (1931) per la Alpes cominciò un periodo di decadenza. Cisari emigrò allora in Mondadori, in quel momento la casa editrice più ambiziosa nel nostro panorama editoriale e che stava organizzando il suo catalogo attorno ad autori di bestseller come Virginio Brocchi, o altri di maggiore spessore letterario come Giuseppe Antonio Borgese. Intendimento di Arnoldo Mondadori era raggiungere un pubblico il più vasto possibile come editore al tempo stesso colto e popolare. Cisari tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta è l’illustratore principe per Mondadori a cui si affiancano, di tanto in tanto, il russo emigrato Vsevolode Nicouline, e, più spesso, Benvenuto Disertori. Mondadori è una casa editrice ammiraglia che può permettersi di far convivere nel suo catalogo illustratori diversi tra loro ma che sappiano soddisfare la necessità di eleganza che i volumi devono avere per far bella mostra non solo nelle vetrine delle librerie, ma nei nuovi salotti borghesi, che immaginiamo ‘Stile Novecento’.

Prima di diventare a sua volta editore Valentino Bompiani fu segretario di Arnoldo Mondadori da cui molto apprese (ad esempio che la casa editrice dev’essere davvero una casa ospitale per i propri autori), ma è probabilmente lui il nostro primo editore moderno. Capisce che per mettersi in luce non basta proporre autori nuovi ma bisogna immaginarsi iniziative nuove per allargare il campo dei possibili lettori. Affida a Bruno Munari la grafica dell’annuale Almanacco Letterario Bompiani, che progetta insieme a Cesare Zavattini per farne al tempo stesso uno strumento di informazione culturale e di diffusione del marchio. Munari mescola fotomontaggi, fotoromanzi che si associano a descrizioni del mondo letterario, nel quale gli scrittori divengono personaggi (è nota la passione dell’editore per il teatro). Bompiani affida al tratto di Mario Vellani Marchi molte delle sue copertine, in un catalogo dove la nuova narrativa italiana si affianca agli americani delle ultime generazioni come Steinbeck e Caldwell.

 

Copertina di Mario Vellani Marchi e sopraccoperta di Caro Bernard, Bompiani 1939.


Il giovane editore è consapevole che per aumentare la diffusione del libro è necessario ricorrere alla pubblicità come per qualsiasi altro prodotto. Lo aiuta vivere a Milano che negli anni Trenta è un avamposto di modernità, il laboratorio dove sta nascendo la nostra società dei consumi. Scopriamo che Carlo Bernari, prima di diventare scrittore (Tre operai) disegna alcune copertine per Bompiani, che si conferma editore che precede i gusti del pubblico: Zavattini illustra da sé alcuni suoi libri, le copertine di Alberto Savinio (Casa la vita, Ascolto il tuo cuore, città) sono affidate al gusto di Piero Fornasetti, allora quasi agli esordi. Il forte senso estetico dell’editore, la voglia di sparigliare, si conferma anche nell’utilizzo di pittori novecenteschi come Marc Chagall e Fernand Léger per le copertine di alcune novità.

Se Bompiani è una punta nel panorama editoriale italiano, nel volume, che ha il pregio di allargare il campo di osservazione al di fuori del conosciuto (la grafica modernista), non vengono trascurati editori popolari come il milanese Vitagliano, sorto nel tumultuoso dopoguerra, dove spicca l’estro inquieto di un artista come Renzo Ventura. Sempre milanese sono la casa editrice Modernissima e la rinnovata Sonzogno, editori popolari ma con una precisa proposta estetica. Comune è la scelta di mettere la donna in copertina. Come spesso accade dopo una guerra, la società non torna quella di prima, così donne sempre più svestite in copertina indicano il cambiamento del senso del pudore.

 

Gino Boccasile, ‘Le grandi firme’, 1938.


L’unica editoria che raggiunge trasversalmente in tutto il Paese ogni classe sociale è quella musicale. Al tramonto dell’età del melodramma corrisponde l’affermazione della canzone napoletana diffusa da un’editoria locale, poi spesso trasferitasi a Milano. L’editoria musicale veicola poi i nuovi ritmi e i nuovi balli (fox trot, charleston, tango), per giungere, nel corso degli anni Venti, alle canzonette e al jazz. Gli spartiti, poi i primi dischi, hanno, qualche volta, illustratori d’eccezione (Manlio Rho, Mario Radice).

Anche l’editoria popolare, “da bancarella”, come Barion di Sesto San Giovanni che ha tra i suoi autori Jack London, o la Casa Editrice Sociale, punta su copertine di immediata riconoscibilità. Deus ex machina di Barion è Ugo Fabietti, un toscano di idee socialiste, che per quarant’anni si batte per un’editoria davvero popolare in Italia. Una figura che meriterebbe di essere studiata meglio e le cui idee sono riprese da Luigi Rusca quando mette mano alla BUR (Biblioteca Universale Rizzoli) nel secondo dopoguerra. Fabietti cerca di spingere Mondadori a diventare l’editore italiano per il popolo: afferma che è l’unico che ha la forza per farlo, ma l’editore milanese preferisce cercare il suo pubblico di riferimento nella nascente borghesia. A essa sono indirizzati i “Gialli”, un genere di importazione anglosassone che sbarca da noi nel 1929. Mondadori cerca poi di differenziare le sue collane seconda una scelta cromatica: gli “azzurri”, i “verdi”, i “rossi”, i “neri”. Un’idea che funzionerà solo in parte, ma i suoi principali collaboratori, Lorenzo Montano e Luigi Rusca, riescono a indirizzare, nel corso degli anni Trenta, il pubblico verso un’offerta precisa.

 

Copertina di Mario Vellani Marchi e sopraccoperta di Caro Bernard, Bompiani 1939.


Gli anni Trenta sono il primo decennio “a colori” per la diffusione delle pellicole Kodachrome, subito utilizzate in campo editoriale e pubblicitario. ‘Le vie d’Italia’, il diffusissimo periodico del Touring Club, affida le proprie copertine in quadricromia a noti illustratori che fanno conoscere le bellezze del Belpaese, una scelta intermedia tra tradizione e innovazione. Nel corso del decennio emergono due illustratori di grande personalità come Giorgio Tabet e Walter Mollino che sono già figli del XX secolo e percorreranno una lunga carriera nei periodici italiani. Tema comune a tutti è la donna in copertina: si passa dalle donne provocanti degli anni Venti, alla madre di famiglia voluta dal fascismo, un’iconografia che però non aiuta a vendere copie, come dimostra a contrario ‘Grandi firme’, la rivista di racconti in concorrenza a ‘La Lettura’ del Corriere della Sera, ma che conosce una vera popolarità per le copertine ammiccanti di Gino Boccasile (come si celiava all’epoca: “Signorine grandi forme”).

 

Guido Gregorietti, Il tempio della Concordia, ‘Le Vie d’Italia’, maggio 1937.


In generale le copertine dell’ultimo scorcio del decennio sono influenzate dalla diffusione sempre più capillare del cinema, in particolare hollywoodiano. I distributori italiani delle case di produzione di Hollywood mettono a disposizione gratuitamente le fotografie dei film che vengono prontamente riutilizzate nel mondo delle riviste e diffondono la malìa di un mondo lontano, ora a portata di mano. La via italiana all’illustrazione sta cambiando: i rotocalchi che nascono nel corso della Seconda guerra mondiale e subito dopo, sull’esempio di modelli stranieri fanno cercare altre strade all’illustrazione, anche se il successo delle copertine illustrate della ‘Domenica del Corriere’ per tutti gli anni Cinquanta (un milione di copie!) e il lento declino successivo, quando arriva il tempo della TV, fanno capire che i gusti del pubblico sono lenti a cambiare. L’illustrazione è una porta spalancata verso l’immaginazione, cosa che strumenti e media nati più tardi faranno più fatica ad essere.

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Sun Yuan e Peng Yu: I Can’t Help Myself

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Talvolta l’arte pare più vera della vita. E l’efficacia di tale verità è data dal non presentarsi in tempo reale in un contesto, in cui ogni esistenza è tele-presente a se stessa.

Una scopa, collegata a un braccio meccanico che muove l’aria, dissipa un cerchio di fumo ogni volta che viene a formarsi dal meccanismo. Sun Yuan Peng Yu (2009) è l’installazione-autoritratto che descrive il sodalizio del duo artistico cinese composto da Sun Yuan (Beijing, 1972) e Peng Yu (Jiamusi, 1974), formatosi nell’ambiente culturale della Beijing degli anni Novanta e diventato stabile dal 2000: “Ogni persona pensa a una cosa sola quando si mette insieme a qualcun altro; una relazione espressiva sarà costruita tra di loro”.

 

Sun Yuan and Peng Yu, Old peoples home, 2007.


Sun Yuan e Peng Yu hanno espresso la loro singolarità, sfidando gli standard morali prevalenti nell’arte contemporanea globale attraverso un approccio concettuale, in spettacoli e installazioni che evocano un senso di minaccia. 

Il loro lavoro si caratterizza per l’uso di materiali inusuali (quali la tassidermia, il grasso umano e le macchine), con un’attenzione particolare per il conflitto e il paradosso, elementi che dall’opera si trasferiscono nel contesto che le accoglie. 

Nel 2017, al Museo Guggenheim di New York presentano Dogs That Cannot Touch Each Other (2003): quattro coppie di pitbull americani si affrontano a vicenda, mentre corrono su tapis roulant non motorizzati. Il lavoro suscita l’indignazione di sostenitori dei diritti degli animali, che a due settimane dall’opening della mostra fanno pressione sul museo affinché l’opera venga esclusa dalla mostra. Il compromesso del Guggenheim è di esporre il video della performance, e non l’azione stessa, seppur si trattasse di un’opera “sconvolgente”.

 

Sun Yuan and Peng Yu in Venice 2019.


I due artisti cinesi utilizzano tecnologie “abbastanza comuni, quelle presenti nella vita quotidiana”, e creano cortocircuiti, in una tensione tra realtà e ideali. Con l’avvento del motore nel XIX secolo, la distinzione cartesiana tra macchina animale e essere vivente è drammaticamente collassata. Il corpo del lavoratore (il “motore umano” di Anson Rabinbach), come le macchine industriali, converte l’energia in lavoro meccanico. Mentre “all’automa non può più essere negata un’anima”, l’espansione storica della metafora del motore umano ha portato a una simulazione dei gesti della macchina da parte dell’uomo e a una eliminazione della resistenza di quest’ultimo al lavoro continuato. Il progresso era pronto a eliminare la fatica e “la metafora del motore umano ha dato credibilità agli ideali del liberalismo socialmente reattivo”.

 

Sun Yuan and Peng Yu, Old peoples home, 2007.


Nel Padiglione Cinese della Biennale di Venezia del 2005, il duo invita l’agricoltore cinese Du Wenda, della provincia di Anhui, a presentare il disco volante da lui costruito insieme ad altri agricoltori locali. Questo UFO – fabbricato con rottami metallici e fogli di alluminio, e capace, secondo Du Wenda, di raggiungere la Luna – aveva attirato le attenzioni delle stampa nazionale cinese e successivamente di quella internazionale. Il salto di Du Wenda dalla cultura feudale allo spazio extraterrestre è stato considerato un simbolo (esasperato) del salto della Cina verso la modernità. L’immaginazione di Du Wenda precedeva l’atterraggio lunare nel 2013 del rover Coniglio di Giada, giunto sulla Luna a bordo del vettore cinese Chang’e, prima sonda a effettuare un atterraggio morbido sulla Luna, dopo quello di Luna 24, missione sovietica del 1976.

 

Sun Yuan and Peng Yu in Venice 2019.


Magistrale è l’opera Old people’s Home (2007) in cui tredici anziani – resi in modo iperrealistico, molto simili ai leader della scena politica mondiale in quegli anni, seduti su sedie a rotelle elettriche – si scontrano lentamente e in moto continuato come autoscontri alle giostre. Peng Yu afferma in un’intervista precedente che “l’idea di Old Persons Homeè giunta mentre erano in Europa: “Abbiamo visto molti vecchi per strada” e continua Sun Yuan “ci sono tredici protagonisti. Ci immaginavamo queste tredici persone che si recavano in luoghi diversi per fondare ognuno una propria nazione. E governarla gelosamente. Pensavamo: che ne sarà di loro nella vecchiaia, quando non potranno più esercitare i loro poteri? Abbiamo immaginato che si trovassero all’ospizio a giocare all’autoscontro, ognuno sulla propria sedia a rotelle. Forse non si rassegneranno mai a smettere di lottare. Persino quando non hanno più il fisico, il gesto della lotta rimane per loro l’unica cosa che li fa sentire vivi”.

La lotta tra la compulsione umana e la natura fisica dei materiali è oggetto anche dell’opera I Can’t Help Myself (2016), presentata all’ultima Biennale di Venezia da Sun Yuan e Peng Yu, su cui è incentrata l’intervista che segue.

 

Sun Yuan and Peng Yu, Can't help myself, 2016.


Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Per realizzare “I Can’t Help Myself” (2016) avete utilizzato un robot industriale, di quelli comunemente impiegati nelle catene di montaggio, un braccio meccanico chiuso in una grande teca in plexiglass che si muove cercando di contenere un liquido vischioso molto simile al sangue, sensori di riconoscimento visivo e sistemi software che gli permettono di eseguire ben trentadue movimenti diversi. I suoi movimenti paiono al contempo gesti calcolati e movimenti fuori controllo: trasmettono un senso di pericolosità, una minaccia, e lasciano intendere qualcosa che riguarda un'azione calcolata a priori dal potere e dalla classe dirigente. Quale è stata la prima idea o collegamento da cui siete partiti per realizzare questa opera polisemica? E in prospettiva cosa predice questa opera immaginando scenari e minacce future?

 

Sun Yuan and Peng Yu, Farmer du wendas ufo, 2005.


Sun Yuan e Peng Yu: L'idea nasce da una forma di disturbo ossessivo compulsivo: quando un bicchiere d'acqua viene rovesciato sul tavolo e l'acqua si diffonde, le persone usano inconsciamente le mani per bloccare il flusso d'acqua, per impedire che l'acqua goccioli a terra o più in là sul tavolo. Il senso di controllo è un istinto umano. Viviamo tutti in un sistema, controllati dal sistema, e cerchiamo di controllare più cose nel sistema. L'incarnazione del potere di una persona risiede in quanto controlla il mondo. Più si ha il controllo e più si ha il potere. Questa regola non cambierà mai, dai tempi antichi fino al futuro. Nel frattempo, il libero arbitrio di un uomo è come il flusso dell'acqua, sempre cercando di liberarsi del controllo. Questa è una contraddizione, che ci intriga. È inspiegabile che anche in futuro, quando l'uomo avrà più libertà, allo stesso tempo sarà governato ugualmente, e in forma forse diversa da come accade oggi, da un sistema più potente. In un certo senso, non saremmo in grado di ottenere più libertà senza una regola più potente. 

Per quanto riguarda le minacce che potrebbero venire dal futuro, pensiamo che giungeranno sempre dall'uomo, non dalle macchine. Le macchine non hanno il libero arbitrio. Semplicemente eseguono il libero arbitrio umano in modo accurato. Alla fine della giornata, non importa quanto potenti siano le macchine che vediamo, ciò che vediamo è ancora il potere dell'umano, e l'assurdità dell'umano.

 

Sun Yuan and Peng Yu, Can't help myself, 2016.


La macchina di “I Can’t Help Myself” (2016) esegue anche azioni che non le sono affatto consone. Il modo del tutto sgraziato con cui si muove fa schizzare il “sangue” sulle pareti della teca. Lo spettatore non può far altro che guardare, oltre la teca di vetro, osservare i gesti della macchina mentre si viene pervasi da un profondo senso di inquietudine: un automa umanizzato che spala sangue. Che ruolo ha lo spettatore in rapporto alle vostre opere, quando ci sono recinti che lo relegano solo a un ruolo passivo?

 

Non abbiamo alcun obbligo di considerare il pubblico. Questa opera non è un film commerciale, non abbiamo bisogno di guadagnare soldi dal pubblico. In effetti, anche quando un'opera non viene esposta c'è un pubblico, che è l'artista stesso. Gli artisti a volte hanno bisogno di osservare le loro opere come pubblico. Quando hai bisogno di considerare altri pubblici oltre a te stesso, significa che questo pubblico è diventato un materiale nel tuo lavoro, un lavoro sperimentale. A questo punto, questo pubblico fa già parte del tuo lavoro, sta dentro, e quindi non è più un pubblico. Il vero pubblico è ancora l'artista stesso, che osserva un materiale guardando un altro materiale.

 

Sun Yuan and Peng Yu, Can't help myself, 2016.


Anche “Dear” (2015), all’Arsenale, è contenuta dentro la teca, dove un sontuoso trono in silicio bianco, e quindi un oggetto dove si presume siedano persone che rivestono potere. A intervalli regolari, un tubo di gomma inizia a sbuffare aria altamente pressurizzata che lo trasforma in una frusta feroce. Questa, contorcendosi in modo convulso, danneggia sia la teca, sia lo stesso “trono”. Quando l’aria smette di pompare violentemente, la poltrona torna a essere inerte, e si trasforma in un oggetto quasi seducente e invitante nel suo candore austero. Ma solo fino all’attacco successivo.  Anche qui ogni fruitore è solo costretto a essere passivo testimone dell'azione del potere, delle trame ambigue della dittatura, della repressione, la coercizione?

 

Il pubblico è solo un passante. Può imbattersi in questa strana scena. Non ha bisogno di fare associazioni su realtà politiche o sociali. Basta guardare questa scena.

 

Sun Yuan and Peng Yu, Dear, 2015.


La seduta è liberamente ispirata a quella del Lincoln Memorial di Washington DC? Fino a che punto un sistema che si professa democratico, oggi, può essere immune da retroscena controversi?

 

Naturalmente. La forma di questa sedia si riferisce alla sedia di Lincoln. La democrazia è un argomento interessante, ma non siamo bravi a farlo. Non siamo sicuri che sia davvero un'esplorazione, o una trappola, o forse entrambe le cose. Ma ha il potenziale per esplodere con grande potenza.

 

I vostri lavori sembrano agenti che esprimono un’intenzione, un’azione, al posto vostro sulla scena. Talvolta si tratta di elementi meccanici ed elettrici dotati di una durata infinita, per cui sono in grado di mettere in scena perfomance senza fine. La macchina, prolungando l’estensione temporale di una intenzione, può modificare la stessa?

 

No, l'attore che interpreta l'Amleto può morire, ma il personaggio Amleto non muore. Vivrà sul palcoscenico per sempre; nuovi attori entreranno in scena e lo spettacolo continuerà.

 

Sun Yuan and Peng Yu, Dogs cannot touch each other, 2003.

 

Sun Yuan and Peng Yu, Farmer du wendas ufo, 2005.


La macchina è incapace di mettere in atto azioni che non siano programmate dall’uomo, ovvero azioni che vadano oltre l’esperienza umana. Ma la macchina non sente fatica, per cui è in grado di eseguire un lavoro in maniera continuativa, almeno fino a quando essa sarà alimentata. Nel vostro lavoro non c’è ibridazione tra natura umana e macchinica, piuttosto le due sono mantenute distinte. Perché?

 

Le macchine non hanno il libero arbitrio, che deve essere definito dall'uomo. Le macchine possiedono qualsiasi natura che l'uomo decide di dare loro. La meccanica è parte della natura umana. Le macchine non fanno altro che amplificare questo, molte volte più del corpo umano, ma è ancora la volontà umana che funziona. La durata delle macchine deriva dal disegno delle persone, non da sé stesse. 

Nella vostra domanda c’è qualcosa che ci sfugge: cosa si intende quando si dice che "la natura umana e quella meccanica sono tenute distinte"? Se una macchina risponde a questa domanda, questa domanda non avrà risposta. Penso che quello che voi state cercando di chiedere è: “perché c'è un confronto tra il moto meccanico e il flusso del liquido?” Perché c'è una persona che trova interessante questo confronto, essi sono progettati per essere ciò che è.

 

Ringraziamo Laura Scaringella, Fabio Benincasa e il MACRO di Roma.

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Emily Brontë: o ragione o frusta

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È a una certa idea di disobbedienza che la storia della letteratura deve tra le sue pagine più rivoluzionarie. Raccolti in bauli appunti e bigliettini trovati nella sua ultima stanza belga, fogli nei quali il poeta invocava la catastrofe del colera che spazzasse via lui, la sua opera e l’intero genere umano, i curatori di Baudelaire ne licenziarono le opere postume, dopo che la madre ne ebbe spurgate lettere e scritti ritenuti, per la di lei sensibilità, sconvenienti; Verlaine pubblicò in patria opere di Rimbaud, all’insaputa dell’autore ormai immerso nel mal d’Africa; Max Brod mancò alle volontà testamentarie di Franz Kafka e rese pubblici gli inediti che l’amico gli aveva lasciato in eredità perché li distruggesse (sic). 

Il 9 ottobre 1845, poche ore dopo il colpo di pistola che il padre sparava ogni mattina dalla canonica per dare inizio alla giornata, Charlotte Brontë, futura autrice di Jane Eyre, era immersa nella lettura del quaderno segreto di poesie che la sorella Emily aveva incautamente lasciato incustodito sullo scrittoio del salotto. “Non conosco – altra donna – che abbia mai scritto poesia simile – Concentrato di vigore, chiarezza, perfezione – uno strano pathos potente sono le loro caratteristiche” (lettera settembre 1848 (?) di Charlotte Brontë a W.S.Williams). Superata la bufera che Emily scagliò contro la curiosità dispettosa e ammirata della sorella, Charlotte la convinse alla pubblicazione sotto pseudonimo. Mesi dopo, augurandosi che anche in Emily finalmente brillasse “una scintilla di giusta ambizione,” Charlotte, con la determinazione che mancò ai fratelli, si lanciava alla ricerca di un editore per i romanzi scritti di notte “su carta brunita” dalle ragazze, raccolte nel soggiorno “come in un fortino”. Il seguito è noto.

Senza tema di affrontare gli strali di una scrittrice che tutta la vita rifuggì con fermezza mondanità ed esteriorità – arrivando a distruggere anche molti documenti personali tra i quali, probabilmente, il secondo romanzo che stava scrivendo al momento della morte, della cui esistenza controversa in questo libro vengono addotte le prove – con il suo Emily Brontë (Salerno editrice, Roma, 2019, pp. 400, 29€), Paola Tonussi riscatta con narrazione empatica una biografia che, fin dai suoi primordi, fu addomesticata per trasformarsi, come capita ai grandi miti, in un clamoroso falso.

 

 

Charlotte fu la prima artefice dello stereotipo che consegnò al mondo Emily come una scrittrice ingenua e che, con gli “homely tools” di un’inesperta giovinetta della brughiera che nulla sapeva della vita vera, aveva inopinatamente licenziato un romanzo feroce e “ardente” (cfr. Prefazione del 1850 a Cime tempestose, di cui segnaliamo la nuova edizione, presso Einaudi, a cura di Monica Pareschi, con una traduzione di attenta finezza, coraggiosa nella resa di una lingua che resta ostinatamente moderna). Un secondo colpo fatale all’esegesi biografica relativa all’intera famiglia Brontë venne dalla penna risentita della prima biografa ufficiale Elisabeth Gaskell, amica di Charlotte, la quale, in odio al pastore Patrick Brontë, padre delle ragazze, che aveva avuto l’ardire di declinare l’invito a riceverla per parlare di moglie, figli e sorelle morte, alimentò una serie di piste svianti che, fino a oggi, inquinavano la ricerca degli studiosi, dando vita anche a divertenti deliri complottistici, di grande moda soprattutto negli anni ’30 del secolo scorso, per i quali, come raccontato ad esempio nel romanzo di Stella Gibbons La fattoria delle magre consolazioni (1932, trad. di B. Mora, astoria, Milano, 2010), il vero autore dei romanzi delle sorelle Brontë sarebbe stato il fratello, Branwell – nella realtà estremamente versato per la pittura e l’autodistruzione.

 

 

Ripulendolo dalle diverse inesattezze biografiche, Paola Tonussi ricompone con perizia certosina il puzzle della formazione dei fratelli Brontë, per cominciare mettendo a fuoco Patrick Brontë che, ben lungi dall’essere un padre severo e arcigno come tramandato, fu un didatta attento e illuminato. D’origine irlandese, egli aveva studiato a Cambridge e, sostenuto dal sussidio per poveri, si addottorò in teologia e studi classici, prima di essere ordinato pastore. Rimasto presto vedovo con sei pargoli, ormai di stanza presso la parrocchia di Haworth, Patrick Brontë avrebbe adottato per i figli un’educazione sperimentale rispetto ai tempi e alla società. Assecondando le inclinazioni artistiche e intellettuali dei bambini, egli parlava di politica e filosofia anche con le figlie benché femmine, senza censurare nessuna sezione della biblioteca privata, accessibile a tutti, così come lo era la lettura dei giornali. Approfondì con loro lo studio della musica – Emily era una pianista provetta – e della pittura: il solo ritratto delle sorelle Brontë giunto a noi è per mano di Branwell che, in un momento di disperazione, decise di cancellare il proprio volto lasciando al centro della tela, in luogo dell’autoritratto, un’eloquente macchia. Il reverendo insegnò ai figli le lingue antiche e moderne e un giorno Emily avrebbe tradotto parti intere dell’Eneide. Anche la zia Branwell viene ricordata come una sorta di strega del focolare che con le sue riviste metodiste spaventava i bambini, per poi in realtà dedicar loro vita e risparmi. Un’altra vulgata nata dalla memoria di Charlotte dipingeva Emily come una scrittrice sprovveduta e priva di una reale formazione letteraria, incapace di imbrigliare i personaggi da lei inventati che, autonomamente, avevano finito per sfuggirle di mano, come ricordato nella Biographical Notice per la ripubblicazione di Cime tempestose due anni dopo la morte della sorella. 

 

Gli scritti autobiografici lasciati da Emily si limitano a qualche pagina di diario, poche lettere e i Devoirs del periodo di Bruxelles; così lo scavo biografico è costretto alle pieghe delle opere ed è nelle pagine dedicate alla esegesi dei testi, alle fonti e ai modelli ispiratori (Ossian, Blake, Wordsworth, Walter Scott, Mary Shelley, e il totemico Lord Byron sopra tutti), alla lingua di Emily (allergica alla aggettivazione, quanto definitiva nella scelta dei sostantivi, e il felice matrimonio di cime con tempestose ne è simbolo assoluto), alla scrittura moderna, alla costruzione dei personaggi, al paesaggio (l’erica piegata dal vento, l’aria gelida della brughiera, la terra arida e ghiacciata) che la scrittura di Paola Tonussi aggancia il pensiero di Emily facendosi una sola voce palpitante. 

 

 

Una sera d’inverno, finito di desinare, Patrick Brontë inventò un gioco intorno al tavolo: perché quei figli, così timidi e impacciati, si sentissero liberi di rispondere con la verità alle sue domande, fece indossare loro una maschera. “Ragiona con mio fratello e, se non vorrà ascoltar ragione, frustalo,” fu la risposta di Emily dopo un battibecco che aveva coinvolto il genitore e Branwell. Il mascheramento libera le parole nette di Emily che divide il mondo in due e, tra il chiaro e lo scuro, non ammetterà mai la sfumatura della via di mezzo. Le parole saranno la sua fortificazione, la fantasia la maschera che nella scrittura la salverà dalla prosaicità di quanto accade all’esterno e dai vili rapporti sociali. Come le sfide a soldatini con i fratelli, il mondo inventato nelle pagine di Emily è il regno della permanenza, mai raggiunto dalla morte che condanna l’uomo e la sua carne alla finitudine. Nel suo immaginario l’ordine della consuetudine è sovvertito, e se la madre biologica giacerà per sempre sotto le lastre della chiesa calpestate dai fedeli a ogni messa, la vera nutrice sarà la terra, la sola culla che non tradisce e che aspetta paziente di poter cullare di nuovo i figli che tornano a morire per rinascere nel suo grembo. La nostalgia di casa che divorò tutta la vita Emily era il richiamo alla casa madre, alla natura che, nella mise en abyme dei cani e di tutti gli animali che Emily salvava, le offriva l’autenticità dei sentimenti, la crudezza di rapporti estranei a qualsiasi compromesso. 

 

Oltre alle poesie e al romanzo, il saggio di Paola Tonussi dedica molta attenzione a Gondal, la saga infantile che per la studiosa italiana fu “l’apprendistato di Emily come autrice.” Il ciclo, che segnerà la narrazione della maturità artistica, fu scritto e inventato insieme alla sorella minore, Anne, e permette di seguire l’evoluzione di una immaginazione che, inizialmente fantasiosa e fatata, negli ultimi anni segnati da fatica, dolore, perdite, delusioni e malattia, si fa visionaria e spietata, raccontando di omicidi efferati, prigioni, guerre, violenze e sangue ovunque: in Emily la cognizione del male ha ucciso anche l’ultima speranza.

 Il saggio si chiude su Heathcliff, l’eroe di Cime tempestose che entra nel mondo senza cognome, come un dio. Il suo nome parla dei luoghi prediletti dalla scrittrice: heath, la brughiera, cliff, la vetta. Heathcliff si materializza nel gelo della bufera, figlio del vento, padre seduttore e paziente, che unisce e separa con la tempesta, che isola la casa nella brughiera dal resto del mondo e violenta i rapporti tra i protagonisti. Già mortalmente malata, allo stremo delle forze, quasi fino agli ultimi giorni di vita Emily non rinuncerà alle passeggiate, per sentire ancora una volta gli aghi del gelo attraversarle il corpo, ormai quasi liberato dalla vita terrena.

 

 

In vita sua Emily Brontë non si rassegnò mai alla perdita, rifiutò l’addio, negò il distacco da chi le moriva accanto. Nella sua opera i morti non sono mai del tutto morti, ma vivono più dei vivi, anche dopo che la carne non sente più le catene del corpo, “una prigione in rovina.” Heathcliff è l’innamorato maledetto per antonomasia, il quale, incarnando la disperazione del rifiuto d’amore, trasforma la ferocia di una passione bianca in sempiterno vessillo contro la morte e il gelo della vita.

Con lui si assiste alla cristallizzazione ordita da Emily Brontë dell’archetipo dell’orfano, un bambino innocente eppure crudele perché svezzato con la sofferenza. La passione tra lui e Catherine risponderà all’inganno che l’amore possa salvare dal vuoto atavico di un’infanzia tradita dalla felicità, il sentimento più fragile d’un regno ormai perduto. 

 

Durante il loro ultimo incontro, mentre Catherine sta varcando per prima la soglia che separa i vivi dai morti, Heathcliff la maledice, accusandola del peccato più grave che, secondo Emily, è l’infedeltà. Catherine ha tradito il loro sacro patto infantile, perché lei, e non Satana né Dio, li ha separati: “Tu mi amavi – che diritto avevi allora di lasciarmi?”. Sì, perché l’amore è un dovere inalienabile che esige responsabilità, e Catherine è rea di essersene dimenticata sposando l’uomo delle convenienze. 

La condanna che Heathcliff reclama per entrambi è che la morte non chiuda la loro partita, e che l’eterno affanno li tenga per sempre avvinti. La morte di Catherine sarà così la rinascita dei due amanti, insieme, dove passato e presente si scioglieranno nell’aria gelida della brughiera, in quello stesso vento che accarezza le tombe dell’ultimo paragrafo del romanzo che si chiude sull’immagine di una terra finalmente quietata sui due tormentati protagonisti.  

 

Segnaliamo l’edizione licenziata alla fine del 2019 dall’editore Einaudi di Cime tempestose a cura di Monica Pareschi, con una traduzione di attenta finezza, coraggiosa nella resa di una lingua che resta ostinatamente moderna.

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Lo strano Federico Tavan

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Federico Tavan nasce “strano” perché, quando è ancora in pancia, riceve la maledizione della strega del paese. Così la pensano ad Andreis, un borgo incantato, in cui vivono meno di 250 anime in Val Cellina, nel Friuli più segreto, al confine con l’“Italia”. L’Italia, a iniziare dal Veneto, è un posto dove non si parla la marilenghe, la lingua madre, il friulano. Mentre ad Andreis l’italiano è cosa che si usa solo sui banchi di scuola.

Andreis è fatto di case in pietra con i ballatoi in legno, dove si può lasciare il fieno ad asciugare. C’è il torrente Alba che a volte è azzurro e altre verde fosforescente: lo guardi e sai che esistono le fate. Poi alzi la testa, vedi le montagne vicine, e sai, che se il tempo si fa grigio, di un grigio-dolore, esistono anche le streghe. Come quando il mondo si è capovolto lì vicino, a Erto e Casso, dove un pezzo del monte Toc ha fatto strabordare la diga del Vajont.

 

Anche lì, colpa delle streghe come Giacomina, la vecchia laida, corrosa dalla solitudine e dalla disperazione, che vede Cosette Tavan, la futura madre di Federico, entrare in chiesa con il grembo leggermente dilatato, la camminata consapevole di chi porta un carico prezioso. Mentre Cosette chiede alla Madonna di crescere un bambino sano, Giacomina dietro di lei, urla e strepita. Le scaglia addosso la disgrazia e Federico il 5 novembre 1949 viene fuori “storto”: per gli altri, non per Federico.  Ringrazio/ la mia strega/ e quelle successive/ che m’hanno dato/ occhi/ color della terra e del grano/ simili a quelli di nessuno. Ringrazio/ quelli della mia età/ che m’hanno dato la solitudine per diventare poeta... Ringrazio/ la pazzia/ che m’ha permesso/ di restare me stesso...

Scrive raramente in italiano Federico: la sua espressione immediata è il dialetto, sensibile come un sismografo alle distanze. Bastano pochi chilometri per cambiare consonanti, vocali e accenti, come dimostra il casarsese Pasolini, il chiusano di Pier Luigi Cappello, il medunese di Ida Vallerugo. L’andreano di Federico è più dolce: ha un’accentuata rotondità del suono, le esse calcate e pastose, che sanno dire bene ugualmente il dolore e la solitudine del pazzo veggente.

 

 


Ha saputo raccontare la storia di questo poeta “matto e mostro” con una narrazione già di per sé lirica Alessandro Mezzena Lona in Il poeta delle pantegane (Acquario, Milano-Torino, pagg.126, € 9), titolo che prende spunto dall’incipit di alcuni versi di Tavan: E soi al poeta de li pantianes/ ch’i me impaltamèa lì mans/ La fogna a me plâs/ parceche éis in bas... (Sono il poeta delle pantegane/ che mi infangano le mani./ La fogna mi piace/ perché è in basso) .

Si sente molto simile a Giacomina Federico e da adulto le scrive una lettera d’amore. “Giacomina, ti amo. Da sempre solidarizzo con i perdenti Ti amo nonostante tu mi abbia maledetto, ucciso tutte le galline del pollaio, offerto caramelle avvelenate”.  

 

Federico cresce rincorrendo fantasie sui prati, giochi da cowboy, solo, solissimo, nessuno lo vuole toccare. Ma lui non si arrende, cerca, spinge, vive. Al era la neif. / ’E rideve alta vous./ ’E cordeve d’éisse/ in t’un altre paèis./ Jè strengêve la man./ ’E veve catordeˆs ans./ ’E cjaminave cuntravint./ Ài da jescî,/ bisugn che jêsce./ Vuoi matiâ/ vuoi vîve jò, vuoi vive./ A catordeˆs ans/ a se pôut./ O mai pì (C’era la neve./ ridevo a voce alta./ Credevo di essere/ in un altro paese./ Le stringevo la mano./ Avevo quattordici anni./ Camminavo controvento./ Devo uscire,/ bisogna che esca./ Voglio giocare/ voglio vivere io, voglio vivere./ A quattordici anni/ si può./ O mai più).

Niente amici: dagli altri, anzi, son calci, pugni, sputi. Figuriamoci l’amore, sui cui mette una pietra tombale e vi dedica dei versi, a cui mette titolo Amen

E ch’al sêe/ cussì per sempre./ Amen./ E li fémenes?/ cê sôni / li fémenes? (E sia/ così per sempre./ Amen./ E le donne?/ che cosa sono/ le donne?).

 

L’unico amore che gli è concesso è quello materno. Anche il padre gli vuole bene, ma non crede alla sua incapacità di stare al mondo “come dio comanda”. La dura legge dei friulani dice che se non sei capace di mantenere un lavoro sei un parassita e che se ti ricoverano al manicomio vuoi solo fare il furbo.

Il padre non gli crede perché quando lo mandano a scuola dai preti, al Don Bosco di Pordenone, Federico è bravo, è considerato intelligente. Ma per lui è una tortura vivere senza montagne, dove ci sono solo preti. “Un esercito. Un esercito scodinzolante in nero”. Non trova dio lì dentro: E cuan ch’al mierle/ al à perdût la vous/ pa’ la val/ ce freit (e quando il merlo / ha perduto la voce / nella valle / che freddo). “Venite a prendermi “, scrive ai suoi. “Sennò mi ammazzo”. 

 

Escogita un trucco per uscire dalla prigione del collegio; sviene in continuazione, ma quando lo portano in ospedale nessuno crede che lo faccia apposta: lo ricoverano, una, due, tre, enne volte: strada lunghissima e senza fine. Punture, sonno, punture, sonno, stordimento, psicofarmaci, alcol.

Federico per 64 anni – è morto nel 2013 – passa attraverso il fuoco, ma riceve anche qualche carezza. Il coraggioso circolo culturale friulano Menocchio intuisce il valore delle sue poesie e le pubblica. Lo aiutano gli amici friulani e in particolare il giornalista Paolo Medeossi. Viene segnalato da intellettuali come Claudio Magris, Franco Loi, Carlo Ginzburg, Marco Paolini, Danilo De Marco, che lo ha immortalato in fotografie che sono specchio della poetica di Tavan.

 

Mezzena Lona racconta la sua epopea in forma libera con l’umanità che è stata la cifra del suo percorso professionale da giornalista al Piccolo di Trieste, in cui è stato responsabile della sezione Cultura, catturando istanze culturali al di là del confine in un’ottica di dialogo (fu lui a segnalare a Fazi il capolavoro di Boris Pahor, Necropoli). Mezzena non è nuovo alla letteratura: ha scritto saggi e gialli assai apprezzati, in cui ha messo rispettosamente e ironicamente in pista anche Svevo. Oggi debutta con una casa editrice nuova, che con Il poeta delle pantegane ha già dimostrato di saper fare libri unici nello spirito di Bobi Bazlen, fondatore dell’Adelphi assieme a Luciano Foà. Non a caso una delle menti di questi libricini, con la grafica elegante di Paola Lenarduzzi, è Anna Foà, figlia di Luciano, assieme a Marco Sodano, digital editor della «Stampa». I libri sono infatti corredati da contenuti visibili sul web side attraverso un QR code (in questo caso Marco Paolini recita i versi de La nâf spaziâl, acquariolibri.it), sound e ghost track, sempre accompagnati da un disegno inedito di Bazlen. In verità, quello di Mezzena Lona non è il primo volume di Acquario: c’è un precedente libro unico, Banda Larga, con testi brillanti di vari autori. Di questo prezioso volume, che racconta di editori e di editoria è stata pubblicata una prima edizione non venale, ma ora sono disponibili alcune copie numerate della seconda edizione, ordinabili sul sito o in piccole realtà indipendenti, per le quali il libro è una cosa viva.

 

Alessandro Mezzena Lona sarà ospite all'ottava edizione del festival Writers, che anche quest’anno ha scelto di essere dedicato solo ad un tema, si propone di raccontare e rappresentare non l’orrido ma il normale che cela l’orrido. Dal 31 gennaio a domenica 2 febbraio ai Frigoriferi Milanesi.

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Cento giorni da glover

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Shkodra

 

Quasi mezzanotte, McDonald’s Stradivari, a due passi dalla Stazione di Trastevere. 

Appena il Conte vede entrare Gëz, gli va subito incontro, gli dà una pacca sulla spalla e gli chiede: “Frate’, ma hai visto che j’hanno fatto al bangla giù a Bari?”

A dire il vero, il bangla di cui parla il Conte è un pakistano, ha 32 anni e si chiama Ahmed. Anche Ahmed è un fattorino Glovo e la sera prima, mentre consegnava il suo ordine a via Candura, nel quartiere San Paolo di Bari, è stato accerchiato, pestato a sangue e derubato da un gruppo di 7 persone. 

Gëz e il Conte si conoscono da quasi due anni, da quando cioè hanno cominciato a incrociarsi nelle aree di attesa Glovo dei McDonald’s di Roma. Sono due veterani. Il Conte ha da poco superato il traguardo delle 7000 consegne; Gëz, invece, è a un passo dalle 10.000.

Anche io lo conosco da un po’, Gëz. Ci siamo presentati un paio di mesi fa mentre, entrambi con sulle spalle il cubo giallo di Glovo, attraversavamo il ponte che da via Alberto Lionello conduce all’ingresso superiore del Centro Commerciale Porta di Roma, alla Bufalotta.

I dialoghi tra glover sembrano quelli tra pescatori. È stato così anche la prima volta che ho parlato con Gëz: “Come va?” “Male: 4 consegne dalle sette, e tu?” “19. Ma sono in giro da stamattina” “Mance?” “Quasi 20, tu?” “6 e 50; ma solo perché un americano m’ha dato 5 euro”. 

Entriamo insieme da Burger King. Lui ha un ordine piccolo, io uno bello pesante: tre menù completi di bibite, patate fritte e gelato Mcflurry. Mentre aspettiamo che i pacchetti di entrambi vengano preparati, ci sediamo al tavolino più vicino alla cassa e parliamo ancora un po’.

Gëz dice di venire da Shkodra, una città di 130 mila abitanti nel nord dell’Albania, a 20 km scarsi dal confine col Montenegro. Gli rispondo che non l’ho mai sentita nominare. Gëz ci rimane male, mi dice che è strano e che Shkodra è pur sempre la Firenze dei Balcani. Mi racconta anche di essere sbarcato – usa proprio quel participio passato: sbarcato– in Italia 4 anni fa e che quando è arrivato non conosceva nemmeno una parola d’italiano e che allora è andato a stare da suo cugino Pavli, a Casal di Principe, e che lì ci ha vissuto quasi due anni, a fare il muratore. 

“Scutari”, dico io. Gëz non capisce. “La tua città – gli dico – qui la chiamiamo Scutari. La Firenze dei Balcani”. Gëz è un po’ spiazzato, ma annuisce. Quindi beve un sorso d’acqua dalla sua borraccia e mi chiede: “E tu?”

 

Sii il capo di te stesso!

 

Già: Io. Io ho 45 anni, sono un docente di ruolo, insegno Italiano e Storia in un Liceo di Ciampino e da quest’estate, da subito dopo la fine delle lezioni, faccio il glover, cioè il fattorino per Glovo. Ho iniziato per curiosità, certo; ma anche per sporcarmile mani con un’attività lavorativa che fosse meno distante dal Mondo Reale di quanto non lo sia diventata, oramai, quella dell’insegnante. Oltre a ciò – credo si possa ammettere – avevo bisogno di una piccola entrata aggiuntiva per pagarci le bollette e, magari, hai visto mai?, per permettermi una piccola vacanza. 

Sul sito, al posto della solita frase “Lavora con noi” c’è una scritta micidiale: “Sii il capo di te stesso!”. Mi colpisce e mi basta. Così, nel giro di mezz’ora, carico online la mia patente, il mio codice fiscale e firmo il contratto. Il giorno dopo, alle 16, sono nell’ufficio romano di Glovo, a Prati, in via Baldo degli Ubaldi, dove Roger, un ragazzo sudamericano, istruisce me e un’altra decina di neo-glover– tra cui almeno un padre di famiglia italiano, due ragazzi cinesi e tre africani maghrebini – riguardo il lavoro da svolgere, oltre a fornirci link e credenziali per scaricare sul nostro smartphone l’app dei glover. La breve conferenza formativa cui assistiamo dimostra, innanzitutto, quanto Roger sappia il fatto suo: è limpido, puntuale, professionale; risponde a ogni domanda senza alcun tentennamento, sgombra il campo da qualsiasi dubbio, tronca alla radice la benché minima perplessità. Il motivo principale della chiarezza illustrativa di Roger, del resto, è strettamente connesso a una caratteristica specifica di molte professioni nate nell’era della new-economy. E cioè che la compresenza fisica tra datori e lavoratori viene considerata non più necessaria. Nel caso specifico significa che, subito dopo questo meeting di formazione, ciascuno di noi potrebbe lavorare con Glovo per mesi, per anni, senza mai incontrare un solo rappresentate dell’azienda. Tutte le fasi del lavoro, infatti, dall’assegnazione gamificata dei turni di lavoro, fino alla supervisione dei pagamenti, verranno gestite tramite l’app dei glover

Questa cosa i due ragazzi cinesi sembrano non averla capita. Sono lì che armeggiano affannosamente con il loro cellulare. Evidentemente in difficoltà.

Prima di andar via, Roger ci consegna una power-bank per ricaricare il cellulare, una carta di credito aziendale e, ovviamente, il cubo giallo a tenuta termica per conservare tutto il cibo che trasporteremo da una parte all’altra della città.

I cinesi, però, sono davvero in crisi. Pare proprio che non ce la facciano. Roger gli si avvicina e gli  domanda quale sia il problema. Quelli alzano la testa, lo guardano, e dicono solo: “No italiano noi”. Roger prova a spiegargli che quello lì, effettivamente, può essere un bel guaio. Perché i testi dell’app sono completamente in lingua italiana, perché i clienti saranno quasi tutti italiani e, in terzo luogo, perché gli operatori della chat di assistenza, in caso di imprevisti, comunicheranno con noi scrivendo in italiano. “Ma soprattutto – chiosa Roger – il contratto che voi due avete firmato era scritto in italiano… Mi dite che cosa avete firmato?”

 

Chi siamo

 

Gran parte dei glover, del resto, sono cittadini stranieri. Le percentuali ufficiali non sono note. Ma nel corso di tre mesi di lavoro ho potuto definire almeno quattro macro-categorie di lavoratori:

1) Africani in bicicletta (20-25 anni) – Pullulano nelle grandi arterie periferiche, soprattutto nelle aree di Roma Est e di Roma Sud. Non hanno un filo di grasso. Riescono a mantenere la medesima velocità di crociera a prescindere da salite e discese. In genere non parlano molto, né con i ristoratori, né tantomeno con noi colleghi. Non ho ben capito se per limitazioni linguistiche (probabile) o se per una sorta di pudore (peraltro esaltato dal clima torrido della prima estate leghista nella storia d’Italia). 

2) Maghrebini in motorino (25-30 anni) – Distribuiti su tutta la città, in genere sono ridanciani e logorroici. Sembra che conoscano tutti e che non abbiano paura di niente. In genere, fanno i simpatici anche con i commercianti, perfino quando sembrano malsopportati. Ma se dico che “fanno i simpatici” è perché ogni tanto m’è sembrato che tendessero a infilare, negli atteggiamenti e nelle risposte, quella che il Conte una volta ha chiamato “malizia perculante”. Come se fosse un’arma. Come se fosse il maglio perforante o l’alabarda spaziale di Goldrake. Comunque questi ragazzi macinano chilometri. E lavorano anche 13 ore al giorno, che poi è il limite massimo consentito da Glovo.

3) Sudamericane in macchina (40-50 anni) – Boliviane, Cilene, Peruviane, Messicane. Donne di mezza età, spesso con la borsetta da passeggio e il trucco a posto. Sembrano pronte per andare in chiesa o a prendere il tè (o il mate) con le amiche. Generalmente tranquille, attendono il proprio turno senza troppe discussioni. Raramente raggiungono numeri significativi anche perché rischiano di essere un po’ lente. Ma sono costanti, coscienziose, tutto sommato affidabili. Per me resta un mistero l’origine di questa categoria. Voglio dire: com’è possibile che tante signore per bene, tutte ispanofone, abbiano intrapreso in Italia la carriera delle glover? Ho pensato a un passaparola straordinario. Un passaparola intercontinentale che, partito in sordina da Roma, sia riuscito ad attraversare l’Atlantico finendo per raggiungere Lima e La Paz, Bogotà e Quito.

4) Italiani in moto (40-50 anni) – Padri, per lo più. E quasi sempre ex-qualcosa: ex-carpentieri, ex-macellai, ex-impiegati, ex-tassisti. E ovviamente ex-mariti. Sono quelli che hanno perso il lavoro negli anni immediatamente successivi alla crisi del 2008. E che magari adesso, insieme agli alimenti, devono pagare anche un paio di affitti e le tasse universitarie dei figli. Sono uomini stanchi, certo. Ma sono pur sempre romani. Gente che la sa lunga, che ti dà consigli, che ha sempre la battuta pronta, che ha capito tutto e che nun c’ha capito un cazzo; gente che s’è dovuta abituare, poco a poco, a vivere alla giornata. Ma che, in linea di massima, l’ha fatto con dignità. Gli italiani in moto lavorano parecchio. E più lavorano e più sono stanchi. E più sono stanchi e più lavorano. 

Queste quattro categorie, a occhio, coprono l’80% dei lavoratori Glovo. Cui va aggiunto un discreto numero di studenti universitari, una percentuale non proprio insignificante di lavoratori trasversali – ad esempio: liberi professionisti in periodo di magra, operaie italiane entrate in esubero, badanti dell’est a cui è appena deceduta la fonte di reddito –, oltre a un numero più esiguo di gente come me. Gente, cioè, che un lavoro ce l’ha; che può dirsi fortunata; e che magari usa Glovo per arrotondare un po’.

 

 

La faccia di Morandini

 

Gëz non ci crede che faccio l’insegnante. “Cioè, tu sei un professore?”. 

Io me lo guardo con un po’ di sufficienza. Idealmente sto cominciando a rimboccarmi le maniche per cominciare la mia lezione. Deformazione professionale, direbbe qualcuno. In ogni caso intendo spiegare all’amico albanese che ogni lavoro onesto è sempre rispettabile, e che dunque non esistono mestieri di serie A e mestieri di serie B, e che se lui pensa che sia umiliante per un insegnante fare un lavoro come questo, beh, allora sta facendo il loro gioco, il gioco di quelli che vogliono il mondo diviso in due, nord e sud, ricchi e poveri, sommersi e salvati, padroni e operai. E invece no, Gëz. È il tuo sguardo a essere sbagliato. È il tuo stupore a essere offensivo, squalificante, umiliante. Perché tu che sei straniero, che hai attraversato il Mediterraneo per arrivare fin qui e che ti sei spaccato la schiena in cantiere, non te lo puoi proprio permettere di osservare le cose in questo modo. Perché questo non è il tuo sguardo, ma quello loro.

Il fatto è che non faccio in tempo a dirgliele queste cose. Perché Gëz, che adesso sembra davvero interessato alla questione, butta lì un’altra domanda. Che sembra innocua. Ma che, in realtà, fa traballare il mio impianto etico nella sua interezza: “E non t’è mai successo di fare una consegna a un tuo alunno?”.

Deglutisco. “No – gli dico – non m’è mai successo”. Ma poi non riesco più a dire niente. Resto lì a pensare alla faccia che farei se, tentando di uscire dall’ascensore con il mio cubo giallo in spalla, vedessi che ad aprire la porta non c’è un essere umano qualsiasi; ma Masetti della III B. O Falcetti. O, peggio ancora, Morandini. A cui, solo io, quest’anno, ho messo 5 note disciplinari. 

E loro? Che faccia farebbero, loro?   

 

Cento!

 

Due volte a settimana, alle 16 in punto, viene aperto il calendario di lavoro: il lunedì si accede alle prenotazioni per i turni compresi tra giovedì e domenica; il giovedì, a quelli da lunedì a mercoledì. Ogni giornata lavorativa Glovo è suddivisa in slot di un’ora ciascuno, dalle 10 del mattino alle 3 di notte. Questo significa che, per ogni data aperta, sul calendario dell’app compaiono 17 rettangolini orari: se sono bianchi, puoi cliccarci sopra, componendo così il tuo orario di lavoro quotidiano; se sono grigi, viceversa, vuol dire che sono già stati prenotati da altri colleghi e non sono quindi più disponibili. Il fatto è che, in questa corsa alla prenotazione dei turni, non tutti i glover partono simultaneamente, ma in base al cosiddetto “punteggio di eccellenza”. Il punteggio di eccellenza viene attribuito a ciascun rider che abbia effettuato almeno 50 consegne, è espresso in centesimi e costituisce il risultato combinato di 5 differenti variabili: valutazione del cliente, valutazione del partner, presenze effettive rispetto agli slot prenotati, disponibilità nei week-end ed esperienza. In altri termini, per puntare ad un punteggio che sia uguale o prossimo a 100, il neoassunto glover dovrebbe lavorare molto – il punteggio massimo nella variabile-esperienza corrisponde a 855 consegne effettuate –, essere gentile e sorridente con clienti e ristoratori, lavorare durante gli orari serali del sabato e della domenica e, soprattutto, non declinare mai ordini che giungano negli orari di reperibilità. Questa tipologia di competizione tra dipendenti, nata nell’ambito aziendale statunitense neocapitalista, viene oggi indicata come gamification e, pur attraverso l’utilizzo di grafiche infantili e di espedienti ludici, si risolve nella determinazione di una rigida classifica di merito. Nella quale nemmeno chi è arrivato in cima, se non vuole tornare nei bassifondi della graduatoria può sbagliare. Né distrarsi.

 

Da mezzogiorno a mezzanotte

 

Mentre scrivo queste righe, il mio punteggio di eccellenza è fermo a quota 85. Sono riuscito ad arrivare anche a 88, ma poi, un paio di settimane fa, mi sono concesso un week-end di riposo e ho così perso 3 punti. Normalmente – ma devo essere davvero rapido nell’accesso all’app– questo punteggio mi consente di prenotare 5-6 slot al giorno, solitamente collocati negli orari di pranzo e di cena. Anche se, di tanto in tanto, proprio mentre sei lì che smanetti col cellulare, capita che qualche turno si liberi improvvisamente, e allora, se cogli l’attimo, puoi perfino prenotare intere giornate lavorative. Come fanno quelli che raggiungono la vetta himalayana dei 100 punti, i super-sayan dei glover, gente come Gëz e come il Conte, punti di riferimento assoluti per la nostra comunità. 

In questo modo sono riuscito a prenotare 12 slot consecutivi per la giornata del 7 luglio. Da mezzogiorno a mezzanotte. Senza soluzione di continuità.

Prima di questa giornata campale, non mi era mai capitato di lavorare per 12 ore consecutive. Non conto, ovviamente, le giornate intere passate davanti al computer, con Albinoni nelle orecchie, l’aria condizionata a palla e una pausa pranzo a base di sushi. Perché qui si parla d’altro. Di cose da raccontare ai nipoti. Di cose degne delle porte di Tannhäuser. 12 ore sotto il sole, in piena estate, a macinare chilometri, sbattuto da una parte all’altra di Roma, a combattere con la sete e con il sudore, a respirare smog e afa.

 

Il primo ordine lo ritiro verso le 12.15 al McDonald’s di Piazza dei Mirti e lo consegno in zona Tor Tre Teste. Una comanda rapida, tanto per mettersi in moto. Il secondo ordine invece è lontano: devo arrivare a Piazza della Radio, all’inizio di viale Marconi. È cibo cinese. Lo consegno a un tipo che mi apre la porta in mutande. Il caldo torrido giustifica solo parzialmente questa scena. Dalla terza consegna in poi, comincio a muovermi tra Prati e Trastevere: lasagne al forno a Vicolo del Cinque, panini imbottiti a Piazzale degli Eroi, due pacchetti di Marlboro Light al Portico d’Ottavia, calamari fritti in una traversa di Via Crescenzio. Intorno alle 17 comincio davvero a soffrire il sole. Ogni volta che il semaforo è rosso cerco di fermarmi sotto l’ombra di un albero o di un cartellone pubblicitario. Sono assetato. Chiedo a Siri: “fontanella nasone vicina”. Ma Siri non capisce. E mi chiede se voglio andare al ristorante “La fontanella” di via Sistina o all’osteria “Dar nasone” al Nomentano.

Decima consegna: alette di pollo a via delle Fornaci. Suono il citofono. Mi risponde una voce di donna, con marcato accento spagnolo: “Terzo piano, Tessoro”. Prima d’ora nessuno mi aveva mai chiamato così in ambito lavorativo. Salgo le scale. Mi apre la porta una ragazza poco meno che trentenne, truccatissima, in guepiere, appena sovrappeso. L’interno dell’appartamento emana il profumo denso di un deodorante alla rosa. Mi paga, mi sorride, mi ringrazia e mi saluta chiamandomi Tessoro. Ancora una volta.

L’undicesima consegna è in zona Coppedè. Cibo thailandese. A metà pomeriggio. L’atrio dello stabile è tutto marmo rosa e colonne. Mi aspetto una mancia degna del contesto. Prendo l’ascensore e, arrivato al settimo piano, prima ancora di aprire le porte, sento un odore strano. L’uomo incorniciato nella porta aperta avrà più o meno la mia età. Sta fumando. Non una sigaretta di tabacco. Sfilo i sacchetti dal box e glieli consegno. Dietro di lui c’è un corridoio pieno di luce. Posa i sacchetti da qualche parte e inizia a tastarsi le tasche. “Aspetta un attimo”, mi dice. Ed entra in casa. Sento frugare tra barattoli e cassetti. Poi torna sconfitto. “Non ho spicci. Scusa”. “Non importa”, gli rispondo. Faccio per andarmene ma quello mi richiama: “Moro!”. Mi volto. Lui mi allunga la cannetta e mi fa: “Che per caso te voi fa’ ‘n tiro?” 

Dalle otto in avanti gli ordini si spostano man mano verso Roma Sud: prima Garbatella, poi la Cecchignola, poi l’Eur. Fino a una comanda che arriva intorno alle 23: tre milkshake da ritirare al McDonald’s di Viale Newton, in zona Trullo. Una volta lì, prendo il sacchetto, lo sistemo nel box e apro l’applicazione per conoscere l’indirizzo di consegna. Leggo. Rileggo. Penso: “E adesso?”. E sì, perché l’abitazione che devo raggiungere si trova in via Ettore Ferrari, ovvero nel Serpentone di Corviale. Sul gruppo whatsapp dei glover c’è un documento che viene aggiornato di continuo, grazie allo scambio di informazioni tra noi fattorini: è la black-list degli indirizzi da evitare perché pericolosi. È capitato, infatti, che nelle zone presenti in lista si siano verificati furti, aggressioni o altri episodi incresciosi. Come qualche mese fa, quando, al quartiere Bastogi, Massimo, un fattorino Glovo tra i più esperti, è stato circondato da quattro uomini armati di coltello. Stava per fare la fine del povero Ahmed, il fattorino di Bari. Invece, da dietro l’angolo della strada, è sbucata una volante della Polizia e quelli lì sono corsi via per i campi. Giusto in tempo. Comunque sia: via Ettore Ferrari è nella black-list e io ormai ho preso l’ordine in carico e non posso più rifiutarlo. Da via Casetta Mattei imbocco via Poggio Verde e comincio a salire la collinetta sulla cui cima già riesco a vedere il profilo del Serpentone, il simbolo più evidente della fallimentare edilizia creativa degli anni ’70. Terminata la salita, la strada si distende su un lunghissimo rettilineo che costeggia il palazzo-quartiere. Mi sfila sulla destra. Imponente, tetro, angosciante. Sembra l’astronave di Darth Vader. Sai che c’è?– penso risoluto – Io lì non ci vado. Vorrà dire che pagherò i milkshake e amen”. Così, prima dell’ultimo segmento di Serpentone, imbocco via Mazzacurati per tornare indietro. In quel momento però mi squilla il telefono. Non rispondo. Ma so che è il cliente. Deve aver seguito il mio percorso geolocalizzato dall’app ed essersi accorto che me ne sto andando. Quindi torno indietro. Non posso fare altrimenti.   

 

 

Mezzanotte e dieci. Ultimo ordine. Si tratta di una spesa alimentare da effettuare al supermercato Carrefour Express di via Cassia. Appena giunto in loco ho accesso alla nota. Leggo: farina, 6 uova, burro, latte, vaniglina. Prendo il carrello e comincio a vagare tra gli scaffali. Mi sorge un dubbio e così chiamo il cliente. Risponde un uomo. “Mi scusi, ma la farina di tipo zero o doppio zero?” “Doppio zero”. Continuo la spesa. Ma ho un altro dubbio. “Sempre io, mi scusi. Ma il latte intero o parzialmente scremato?” “Intero”. Procedo. Ma devo nuovamente chiamare. “Qui ci sono uova grandi, medie e piccole. Quali prendo?” “Quelle più simpatiche”. E mette giù. 

Infilo la busta della spesa nel box e riparto, direzione Tor di Quinto. L’uomo che mi apre la porta indossa un completo elegante, con tanto di gemelli e fermacravatta. È molto serio, al punto da sembrare turbato da qualcosa di oscuro,  come se fosse concentrato su un compito realmente decisivo. Prende la busta, mi dà 5 euro e richiude. Senza nemmeno salutare. Vabbè, penso: per 5 euro di mancia puoi anche fare il maleducato. 

Intanto è quasi l’una. Salgo sul motorino per l’ultima volta e, senza fretta, imbocco la Tangenziale Est per tornarmene a casa. 

L’aria è fresca, adesso. Sono stanco morto, ma anche contento di aver portato a termine l’impresa. All’altezza di via Salaria, però, mi torna in mente l’uomo della spesa. Cosa doveva farci con quella roba? Un tipo del genere, in piena notte, si mette a preparare una torta? Magari non gli serve per cucinare. Magari è una situazione tipo “Ultimo tango a Parigi”. Magari peggio.

 

Alla fine ci licenzieranno tutti

 

L’estate 2019 verrà ricordata per parecchie cose. Per l’esperienza da DJ dell’ex-vicepremier Salvini sulla spiaggia di Milano Marittima, per la morte di Camilleri e di De Crescenzo, per il rinnovo del contratto del centravanti della Roma, Edin Dzeko. Tra gli episodi meno memorabili, andrebbero forse menzionate le nuove esternazioni dell’allora Ministro del Lavoro Di Maio sulla questione rider

Si tratta di un affare spinoso. Non solo perché stiamo parlando di oltre 10.000 impiegati, ma anche perché, alla fine dei conti, queste 10.000 persone non possono davvero essere chiamate impiegati. Anche l’appellativo di freelance appare impreciso. Del resto la cosiddetta gig economy– che potremmo tradurre come “economia del lavoretto” – prevede, per definizione, prestazioni lavorative on demand. Ovvero: si lavora, se c’è necessità. 

È da un anno che Di Maio si sbraccia per sventolare promesse di maggiori tutele ai rider. Anche se non è affatto chiaro come l’eventuale stabilizzazione dei fattorini possa consentire loro di lavorare con la stessa flessibilità che ha caratterizzato finora questo tipo di impiego. La verità è che le reazioni dei rider alle dichiarazioni di Di Maio il 5 agosto (“Verranno riconosciute tutele assicurative, rimborsi spese per gli strumenti di lavoro, assistenza sanitaria e un salario minimo”) sono tutt’altro che positive. Sul gruppo whatsapp si apre un ampio dibattito. Ma il sentimento prevalente sembra essere quello di una profonda inquietudine. 

Angela: “Alla fine ci licenzieranno tutti”.

Loris: “Ma io che lavoro tre ore al giorno, come faccio ad avere un contratto dipendente?”

Enzo detto l’Alce: “Finirà che Glovo se ne dovrà andare dall’Italia. Come ha fatto Uber”.

Paolone: “Ma perché ‘sti politici non pensano agli affaracci loro e ci lasciano in pace?”

Consuelo: “Es un asco”.

 

Io proprio non lo so quale sia la soluzione. Certo, le tutele dei rider sono al minimo e qualcosa nel merito andrebbe senz’altro fatta. Ma se le proposte dei sindacati e del Ministro provocano nei lavoratori più terrore che speranza, c’è sicuramente più di un problema. 

 

La vita

 

Il giorno di Ferragosto incontro ancora una volta Gëz. Nell’atrio di un ristorante giapponese a via delle Cave. Di nuovo abbiamo entrambi sulle spalle il cubo giallo di Glovo. Non vedevo l’ora. Voglio proprio sapere cosa ne pensa lui delle proposte di Di Maio. Anche se nel frattempo, quel Governo lì, è già arrivato al capolinea e Di Maio è diventato Ministro degli Esteri.

È lui che mi saluta per primo: “Come va, Professore?” “Mah, 3 consegne” “Io finora 12” “Mance?” “Poca roba, e tu?” “Ancora niente”.

“Senti – gli chiedo – ma tu come la vedi questa cosa della legge nuova?”. 

Gëz mi fissa dritto negli occhi per dieci secondi buoni, poi si sfila il cubo dalle spalle, lo appoggia a terra e si siede sulla panchina davanti all’ingresso del ristorante. E comincia a parlare. Stavolta senza guardarmi. E con un tono di voce diverso dal solito. 

“Sai, professore, quanto prendevo, quando facevo il muratore giù a Caserta? Te lo dico io: 35 euro al giorno. Tutto in nero. E sai quanto ho guadagnato con Glovo il mese passato? 2200 euro. L’anno scorso mi sono anche aperto la partita IVA. Sto tutto il giorno in motorino, certo. La schiena, prima o poi, mi si spaccherà in due. E se cado o se mi rubano tutto, è un problema mio. Ma tu, professore, tu te l’immagini quanto m’è cambiata la vita?”

 

Valdrin Pjetri, neoeletto sindaco di Scutari, proprio oggi,  dopo che i suoi avversari politici l’avevano accusato di aver nascosto una condanna per traffico di stupefacenti subita in Italia, ha rinunciato all’incarico. 

Mi sfilo anch’io il cubo dalle spalle e mi siedo vicino a Gëz.

E restiamo così. Senza dire più nulla. In attesa della prossima comanda.

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Ágota Kristóf: identità in bilico

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Sono uscite due raccolte di testi teatrali di Ágota Kristóf negli scorsi mesi, John e Joe Un ratto che passa, per Einaudi, Il Mostro e altre storie, per Edizioni Casagrande. Sono testi che giungono ai lettori italiani a nove anni dalla morte dell’autrice diventata nota in tutto il mondo con il grande romanzo Trilogia della città di K. La produzione teatrale di Kristóf è nota da decenni ai lettori svizzeri e francesi in quanto sono stati tra i primi testi da lei scritti in lingua francese, per poi affrontare il romanzo, racconti e in contemporanea poesie. 

Queste due raccolte appena pubblicate, insieme a La chiave dell’ascensore e L’ora grigia uscite venti anni fa, vanno a comporre un quadro interessante sia nella storia della scrittura della loro autrice sia nella genealogia di luoghi e personaggi.

 

Kristóf giunge in Svizzera come rifugiata politica nel 1954 dall’Ungheria, dirà sempre che pensava che la Svizzera e la cittadina di Neuchâtel sarebbero state una fase di passaggio, invece vi trascorre tutta la vita fino alla morte. Lei, che nella sua vita precedente alla fuga scriveva poesia e teatro e amava la sua lingua, si è trovata a non avere più una lingua, a non avere più un paese e una identità. Come molti rifugiati viene impiegata in una fabbrica di orologi dove lavora per sette anni mentre accudisce i suoi piccoli bambini: Ágota inizia a imparare il francese dai suoi bambini, in fabbrica nessuno parla, non vi è lo spazio per una vita sociale, e dopo il lavoro l’accudimento dei figli prende tutto il tempo. Ágota racconterà in una intervista di avere iniziato a scrivere in francese guardando i quaderni di scuola dei suoi figli, solo così ha appreso la lingua che sarà poi quella della Trilogia della città di K.

 

Ma ciò che queste opere mettono in luce è il lavorio di scrittura e il lavoro sulla lingua che Kristóf ha iniziato a fare prima della stesura del grande romanzo: se la Trilogiaè stata composta in tre parti, dal 1986 di Il grande quaderno, al 1988 di La prova, al 1991 di La terza menzogna, la gran parte dei testi teatrali sono stati scritti tra gli anni Settanta e gli Ottanta. Perciò i primi “esercizi di scrittura”, il primo ritorno alla scrittura ma in una nuova lingua è stato con il teatro: dall’amato ungherese alla “lingua nemica”, come lei la definisce, il francese. In una intervista dal titolo “Exercices de nihilisme” di Aliette Amei su Le Magazine Littéraire, Ágota racconta di quando ha iniziato a riaccostarsi alla scrittura, di come la lingua francese sia arrivata alla sua penna scostando definitivamente l’ungherese nella composizione.

 

 

Un momento importante non solo per la scrittura ma anche per la possibilità di tornare a un tessuto sociale, un’inclusione in una società che la vedeva solo muta operaia. Ágota dice “[…] vivevo in un ambiente in cui tutti parlavano francese, parlavo francese con i miei figli. Quindi, quando ho iniziato a scrivere la sera, il francese è venuto da me naturalmente. Ho iniziato scrivendo opere teatrali. È stato più facile: i dialoghi sembravano quello che ho sentito intorno a me. Non c'erano descrizioni da scrivere: solo un nome da mettere prima degli interventi di ciascun personaggio. Ha funzionato bene. Le mie opere teatrali sono state eseguite in piccoli teatri intorno a Neuchâtel, e successivamente su Radio Suisse Romande. Da quel momento, non scrivo più che in francese. Parlo ancora ungherese, ma non lo scrivo più. E quando ho iniziato a scrivere Le Grand Cahier, era come le scene teatrali che stavo descrivendo”.

 

Il ritorno alla scrittura, il suo tipo di scrittura precisa ma semplice, inizia con il teatro, come dice Ágota in una intervista a Fabio Gambaro: “Mi sono ispirata ai temi scolastici di mio figlio che aveva allora dieci anni. È una scrittura antipsicologica fatta solo di azioni e fatti concreti”. Ed è così che scrive John e Joe, e Un ratto che passa nel 1972, due pièce teatrali in cui la lingua corrisponde e rispecchia il testo dove la scenografia è ridotta al minimo così come i cambi di scena, al massimo due, e i pochi personaggi si alternano sulla scena a due o tre alla volta. Le azioni sono pochissime, le parole ridotte all’osso in scambi di battute che abbordano spesso il nonsense che da lessicale diviene esistenziale. John e Joe sembrano parlare di tutti noi, di quel continuo e vacuo immedesimarsi nello scambio di maschere e panni, la richiesta di empatia quando l’empatia può portare un guadagno, il buon esempio che nasconde la furbizia e il cattivo esempio che cela la sincerità. Come in Un ratto che passa i personaggi improvvisano nel nuovo ambiente fino a entrare nella parte e a sfoderare il cinismo di Ágota – KEB lei è un condannato a morte? RATTO Come tutti –.

 

Tra il 1975 e il 1977 Ágota Kristóf scrive L’ora grigia e La chiave dell’ascensore– pubblicati da Einaudi nel 1999 – pièce in cui i dialoghi e i monologhi divengono più corposi, meno dinamici in quanto maggiormente descrittivi. Sono testi che sembrano anticipare la desolazione in cui precipitano alcuni personaggi della trilogia. Mettono anche in scena, senza nessun giro di parole, la mutilazione della donna, fisica e psicologica, per farla rientrare in confini a misura dell’altro, quasi in una scatola per bambole senza voce, senza vista, senza movimento. Anche qui l’asse si sposta sulla percezione di uno e dell’altro personaggio, con l’intenzione sempre presente in Ágota di mettere sul palco identità in bilico, sproporzionate rispetto al punto di vista, manipolabili nel loro passato.

 

Il Mostro e le altre storie raccoglie quattro pièce – Il Mostro, La strada, L’epidemia, L’espiazione – scritte nel 2007 e che forse raggiungono il più alto livello di perfezione nella rappresentazione della inutile e idiota ferocia umana. Ognuna ambientata in luogo che non è forse è stato un luogo ma ora non lo è più, con la costante impressione si svolgano in un incubo senza possibilità di risveglio. Solo strade asfaltate e macchine rotte in un grigio eterno, dove i sopravvissuti sono costretti a un incessante andare, non esistono più case e relazioni, solo il cammino fino al crollo e a divenire cibo per gli altri. In questo contesto, chi parla di bellezza, sole, alberi e libri viene preso per pazzo, un morente che delira, ma è troppo tardi. Il Mostroè la fotografia di un mondo che va sempre riducendosi negli spazi e nelle persone per via dell’imbonimento e dell’inebetimento collettivo, della facile felicità a prezzo della vita. E la morte è sempre presente, la morte cruenta per mano di altri umani che si trasformano in avvoltoi o per mano propria come in L’epidemia, la messa in scena di un’epidemia di suicidio che colpisce un villaggio, fino a che non moriranno tutti. Anche in Il Mostro non rimarrà più anima umana viva. Sembra dire Ágota Kristóf in L’espiazione, uno degli ultimi suoi scritti, che solo la pietà salva, ma una pietà non per il buono e il giusto, la pietà anche per il malvagio, perché questo sono i suoi personaggi, malvagi e giusti al contempo. 

 

Sono testi che parlano della persona che crede e di quella che inganna, di quella che è spietata ma per stupidità e pure della persona buona per stupidità, di come il bene e il male vivano nella stessa persona, della bontà a sfondo di interesse e della cattiveria per amore. Di come l’uomo possa diventare senza nulla attorno, senza un tessuto sociale o in una società che lo emargina: i luoghi, le ambientazioni, sono ridotte al minimo in tutti i suoi scritti, attorno all’individuo il vuoto che se non uccide lo fa diventare pazzo. Di come possiamo essere tutto e nulla, basta il confine si sposti un attimo e ci sveli da un altro punto di vista. In questo si avvicina molto a Mariella Mehr, al suo non salvare mai nessuno, e nemmeno se stessa, dal condannare e dal sanare. 

 

In una delle ultime interviste, a Philippe Savary, Ágota Kristóf sulla scrittura che è quasi un suicidio rivela di sé: “Sì, mi basta alzarmi la mattina. Vivo il più semplicemente possibile. Non devo più cercare altro. Odio viaggiare. Non amo altro che i miei figli. Non ho alcun desiderio di fare qualcosa di specifico. Il nichilismo. Questa è la parola che sembra più vicina al mio modo di essere. Non ho voglia di morire. Trovo la vita così breve. In seguito, saremo sempre morti. Possiamo ancora aspettare fino ad allora!”

Potrebbe essere la battuta di un suo personaggio teatrale, il personaggio Ágota.

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Angelo Ferracuti, La metà del cielo

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La presenza di Angelo Ferracuti nel panorama della letteratura attuale è legata soprattutto a opere di carattere documentario, fra l’inchiesta e il reportage, con un interesse distintivo per il mondo del lavoro. Il suo libro più citato è infatti Il costo della vita. Storia di una tragedia operaia (Einaudi, 2013) dedicato al disastro della motonave «Elisabetta Montanari» (13 marzo 1987), corredato da un inserto fotografico di Mario Dondero: testo esemplare di un settore importante della nonfiction italiana degli anni Duemila. La metà del cielo (Mondadori 2019, pp. 208, € 18) è invece un libro molto diverso, molto personale: e intensamente, dolorosamente personale. Oggetto della narrazione è la precoce perdita della prima moglie, Patrizia, avvenuta una dozzina di anni addietro. Il tema funebre si accampa fin dall’inizio, con accorata perentorietà; tiene il campo per molte pagine; si ripropone con forza nell’ultima parte, e suggella l’intero libro. In una zona mediana, si profilano possibili sviluppi narrativi diversi: che però, a conti fatti, rimangono allo stadio embrionale.

 

Procediamo con ordine. La metà del cieloè essenzialmente un sofferto, sconsolato epicedio, che ricostruisce in dettaglio le varie fasi della malattia di Patrizia. Senza seguire l’ordine cronologico, il narratore rende conto delle avvisaglie, delle prime indagini, della terribile diagnosi, delle inutili terapie, dei palliativi, fino all’esito infausto. La narrazione è animata da un’efficace serie di variazioni e di movimenti, a cominciare dall’andirivieni tra presente e passato, e si snoda attraverso brevi capitoli non numerati (una quarantina in tutto), giovandosi dei frequenti cambiamenti di atmosfera e di ritmo. Sinuoso e febbrile, l’itinerario della memoria comprende anche una postuma ripresa di contatti con alcuni degli specialisti e dei sanitari conosciuti allora, ginecologi, oncologi, infermieri. E lo strazio della perdita è ben reso dalla rapita rievocazione degli anni felici passati insieme con Patrizia: l’incontro, la passione, il matrimonio, le due figlie. 

 

Però La metà del cielo– libro, stando alle notizie poste in clausola, lungamente elaborato e rimuginato – comprende anche qualcos’altro. Ferracuti avrebbe potuto puntare sulla sintesi, concentrarsi sulla sequenza della malattia e della morte, come fa Tolstoj nel celeberrimo racconto lungo La morte di Ivan Il’ič, che non a caso il protagonista regala al ritrovato, devoto caposala Ennio. La sua scelta (del tutto legittima, sia chiaro) è invece di ampliare gli orizzonti, dilatando la prospettiva nella direzione dell’autobiografia: salvo poi porsi invisibili paletti, e ritornare al tema di partenza. Non è semplice valutare il risultato. La metà del cieloè senza dubbio un bel libro, commovente, coinvolgente. Ma è anche un libro che mostra, o almeno lascia trapelare, che avrebbe potuto diventare qualcosa di diverso; e se non lo è diventato è stato più per cautela che per convinzione. 

 

 

C’è una sequenza, in particolare, in cui questa esitazione si avverte. È la rievocazione dell’avventura che il protagonista-narratore Angelo ha con una studentessa, alcuni anni dopo il matrimonio. Il rapporto con Patrizia, infatti, aveva pure attraversato una fase di crisi, con scontri violenti: di una violenza che arriva inattesa, tant’è che ai lettori non intimi di Ferracuti (come chi scrive) può ispirare il dubbio che qui si stia sconfinando nell’autofiction (dopo tutto, il libro ha il sottotitolo «Romanzo»). In altre parole, La metà del cielo non è solo il resoconto di un lutto; è la storia del rapporto con una donna prima perdutamente amata, poi inopinatamente disamata, e poi amata di nuovo, poi drammaticamente perduta, e infine tormentosamente rimpianta. Ma in questa vicenda a me pare che qualche passaggio manchi. Non necessariamente qualche notizia concreta (ad esempio, non veniamo a sapere se la storia con la studentessa sia rimasta clandestina o no, né come sia finita; non è chiaro come la crisi matrimoniale venga superata, e quale ruolo abbia avuto nel superamento il manifestarsi della malattia). Piuttosto, a venir meno è un tipo di centralità dell’itinerario esistenziale del protagonista, che avrebbe rischiato di allontanare dal proscenio la figura della moglie. Di qui il ritorno al tema primo, che poi non viene più abbandonato.

 

C’è tuttavia anche un altro aspetto, relativamente distinto dalla ricostruzione della fine di Patrizia, che s’impone con notevole forza, e che, di nuovo, insinua nella mente del lettore il sospetto di uno sviluppo inferiore alle potenzialità. Mi riferisco all’idea che lo scorrere del tempo trasformi il soggetto in maniera abbastanza profonda da incrinare la compattezza della sua personalità. Dopo il lutto che ha lacerato la tela della sua vita, Angelo si è costruito un’altra vita. Ha una nuova moglie, della quale non dice (giustamente) quasi nulla; ha un’altra casa, altre abitudini, un altro cane; le figlie sono grandi, abitano in città diverse, volano con le loro ali. Ora, al di là dei dettagli, che in fondo non importa conoscere, la questione è di grande interesse, e anche di grande attualità in un’epoca come la nostra, in cui l’aumento della vita media ha dilatato le stagioni e le età in maniera tale che, anche quando non occorrano traumi, le occasioni di incoerenza, i fattori di discontinuità, le involontarie metamorfosi rischiano (come aveva ben capito l’autore della Recherche) di moltiplicarsi oltre una soglia critica. 

 

Io non sono vecchio, diceva l’ottocentista francese Henri Lacordaire, ho solo avuto diverse giovinezze successive. Detto così, suona bene: questa è la versione più euforica e ottimistica del fenomeno. Ma non sapersi riconoscere nel sé stesso di un tempo, sentirsi estraneo alle scelte, ai gusti, ai desideri, perfino alle parole di allora, può essere un’esperienza destabilizzante. Insomma, La metà del cielo contiene anche il nucleo di una riflessione sull’identità che poteva imprimere al discorso una curvatura differente, e – di nuovo – centrifuga rispetto alla figura di Patrizia. D’altro canto, è giusto segnalare che uno dei momenti più intensi riguarda proprio la rilettura, a distanza di molti anni, del taccuino di viaggio della luna di miele: un documento trasfigurato nella memoria in una sorta di giacimento di tesori emotivi, che a posteriori si scopre consistere in una deludente serie di noterelle anodine.   

 

Due considerazioni ancora. La prima riguarda uno degli aspetti più riusciti del libro, cioè la rappresentazione degli interni domestici. Una casa non è solo un luogo dove si risiede: è un ambiente che s’intride della presenza di chi lo abita, una porzione porosa dello spazio, che, una volta abbandonata, si dissecca come una spugna. Qui mi pare che Ferracuti dia il suo meglio. La seconda riguarda i riferimenti musicali. Due righe in esergo ci informano su quali sono «le canzoni di questo libro»; e molti titoli, familiari ai coetanei dell’autore (ma non solo) vengono richiamati in punti cruciali del racconto. Ora, a me pare che la narrativa contemporanea abbia un rapporto complesso e non di rado irrisolto con il mondo dei suoni. A parte i tanti titoli derivati da testi di canzoni – la stessa «metà del cielo», lungi dall’essere una frase generica, è presentata come una citazione da John Lennon – in più casi si avverte qualcosa di simile all’invidia degli autori verso le forme espressive miste (cinema in primo luogo), che della musica possono fare un uso diretto. Il rischio è di cercare scorciatoie che non esistono: in una narrazione verbale le parole devono bastare il più possibile a sé stesse.

 

Mi accorgo di non aver parlato di un tema che in realtà l’autore pone in primo piano, quello del fallimento, annunciato dalla frase di Orwell scelta come epigrafe: «Siamo impegnati in un gioco in cui non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri, ecco tutto». Alla Sfinge – un’oncologa che aveva assistito Patrizia – il protagonista confida che l’unica cosa in cui egli pensa di non aver fallito in tutta la sua vita è stata l’aver protetto e assistito la moglie durante la malattia, accompagnandola serenamente alla morte. E questo è forse, davvero, il centro del libro. Un centro paradossale, se è vero che «fallire» significa anche «mancare, venir meno». Non essere venuto meno, in senso figurato, nel momento in cui lei veniva meno in senso letterale: un nodo esistenziale sentito e autentico, che può ben sostenere un racconto, un mémoire. Sul quale però altre forme di discorso – la dissertazione morale, l’autobiografia, perfino il romanzo – poggiano oscillanti, rimangono in bilico. 

 

Angelo Ferracuti, La metà del cielo, Mondadori, pp. 208, € 18

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La politica nel tempo senza attesa e senza fine

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“Il collasso della politica si manifesta oggi su scala planetaria. Le rivolte non ne sono la causa, ma il sintomo”, ha affermato di recente l’antropologo francese Alain Bertho. Un’osservazione che trascina con sé inevitabilmente una domanda: a che cosa serve la politica, agli inizi del terzo millennio? È ancora importante? Irrinunciabile? Da punti di vista diversi, quelli del filosofo e del politologo, la questione è affrontata da due libri, a distanza di poco tempo: David Runciman, Politica, 2015, e Salvatore Natoli, Il fine della politica. Dalla “teologia del regno” al “governo della contingenza”, 2019, entrambi editi da Bollati Boringhieri di Torino. Nello scenario contemporaneo, in effetti, la politica ci appare schiacciata da potenze globali soverchianti, come l’economia e il commercio mondiale, col loro reticolo avvolgente di supply chains, e come la tecnoscienza, sempre più autopropulsiva al punto da dare l’impressione, con l’ascesa irresistibile delle grandi aziende Hi-tech, che i governi siano solo “un fastidio analogico in un mondo digitale”, come scrive Runciman. Oppure, ci si presenta sovente messa all’angolo dalla complessità sociale crescente e dalla dimensione mondiale dei problemi, che la costringono a risposte esitanti, difficili, avventate o intempestive.

 

Basti pensare al riscaldamento globale, che certamente nessuna barriera doganale può arrestare, per menzionare uno degli strumenti tradizionali ancora in dotazione della politica. Indagando gli schemi concettuali profondi che hanno sorretto le istituzioni, la prassi e le descrizioni della politica nell’Occidente giudaico-cristiano, dal Medioevo a oggi, la ricognizione di Natoli consente di cogliere lo Zeitgeist di questo scenario, segnato dal congedarsi definitivo della politica dal tempo escatologico, sia nella versione religiosa, che è appartenuta alla Chiesa e all’Impero medievali, sia nella versione secolarizzata e intramondana, che è appartenuta all’età moderna degli Stati nazionali fino alla tragedia delle due guerre mondiali, prolungandosi, ma deperendo progressivamente, fino al crollo dei socialismi reali dell’Europa orientale. La politica delle istituzioni medievali è vissuta nel tempo dell’attesa della salvezza finale, già preannunciata dalla morte e resurrezione di Cristo, che sarebbe culminata nella fine del mondo assorbito da Dio, con la redenzione degli uomini dal peccato, dal male e dalla morte. La seconda venuta del Messia e l’Apocalisse del cristianesimo presero il posto della “terra promessa” del giudaismo, che rimase aperto all’irruzione messianica: due volti di un medesimo éschaton. Il moderno nasce nel momento in cui l’uomo si fa garante della propria salvezza, tuttavia senza rinunciare all’orizzonte escatologico di uno “stadio finale”, che coinciderà con la liberazione dal dolore, dalla sofferenza, dal male e, se non proprio con la fine del mondo e dei tempi, con l’inizio di un tempo e di un’umanità nuovi. Dalla “teologia del regno” si passa alle “filosofie del progresso e della storia”, che conservano la concezione destinale e provvidenziale della “metanarrazione” giudaico-cristiana, mirabilmente e originalmente esposta dal De civitate Dei di Agostino.

 

Le versioni politiche più determinate e tragicamente confliggenti di questa escatologia moderna saranno il comunismo e il nazismo. Entrambi convinti della possibilità dello sradicamento del male dal mondo, inteso dall’uno come lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e dall’altro come la contaminazione delle razze inferiori. Una convinzione che, sostenuta dalla sua assolutezza e fermezza, finirà per autorizzare ogni delitto. Lasciato alla spalle ogni progetto finalizzato a “chiudere” la storia, la politica contemporanea si muove ora in un tempo senza attesa e senza fine, diventa “governo della contingenza”. Cionondimeno, anche se è una salvezza senza fede, nel duplice senso della fede nel regno di Dio o della fede nel progresso, nella perfettibilità e nel compimento della storia, e anche se non è più una salvezza assoluta, il fine della politica rimane la salvezza. È, cioè, per Natoli, ancora la funzione di moderare i conflitti, di proteggere gli uomini dalla violenza, innanzitutto di quella reciproca, di prendere le decisioni adeguate a generare e a preservare il benessere pubblico, a giustificare l’esistenza e la necessità della politica.

 

Anche per David Runciman, nello scenario contemporaneo, non è la politica a inventare il male o il bene, ma è solo la politica, nel suo ruolo chiave di defensor pacis, che può riuscire a ridurre gli spazi del primo, estendendo il più possibile gli spazi del secondo. Emblematicamente, il politologo inglese c’invita a pensare che, tra l’andare a vivere, oggi, in Danimarca o in Siria, nessuno si sognerebbe di andare in Siria. E a fare la differenza è la politica, tra il “Beemoth” siriano, sulla soglia di una guerra civile permanente, il “Leviatano” danese, ovviamente più evoluto del prototipo hobbesiano, perché combina costrizione e consenso, sicurezza e libertà, senza dover sacrificare i secondi in vista del vantaggio di ottenere i primi.

 

 

La salvezza che la politica contemporanea promette non è più quella dal peccato o dal male, ma dal pericolo e dai rischi che ogni decisione comporta nelle società ad alta complessità. E la natura dei pericoli possibili si determina in relazione a eventi o situazioni contingenti e a un futuro che non è più prevedibile e programmabile come nei progetti della modernità. Su questa linea teorica Natoli e Runciman convergono, mentre è lo scienziato politico a scandagliare in modo più dettagliato il presente e i dilemmi che in esso si profilano. La crisi economica e finanziaria, come quella del 2008, le perturbazioni globali, i problemi redistributivi della ricchezza su scala planetaria e nazionale, anche nei paesi sviluppati, la catastrofe ecologica, sono per Runciman i pericoli e le sfide che chiederanno nel medio termine alla politica di collaudare la sua mission, sempre nella consapevolezza che “è solo la politica che ci può salvare dalla cattiva politica”.

 

E sul piano dell’efficacia nella risposta, secondo Runciman, oggi si fronteggiano due modelli politici (Usa e Cina), i cui punti di forza e di debolezza s’invertono e si neutralizzano in un gioco a somma zero, anche se egli vede tendenzialmente avvantaggiate le democrazie occidentali mature e prospere (a un livello mai registrato nella storia passata) per la loro maggiore capacità di adattamento e autocorrezione, a fronte di una minore reattività nelle decisioni, vincolate e condizionate dal meccanismo della competizione elettorale, assente nella Cina monopartitica. Dove, peraltro, rimane però probabile, quanto imprevedibile nei tempi e nelle conseguenze, anche per il resto del mondo, la collisione tra la determinazione del partito comunista a mantenere il potere di controllo e la non controllabilità delle nuove tecnologie dell’informazione. Ma, è il filosofo Natoli che, nelle conclusioni del suo libro, indica una bussola per questa gestione e regolazione selettiva dei rischi sociali che è diventata la funzione principale della politica in un tempo che non è più destinale e che non s’illude più (anche tragicamente) di sradicare il male dal mondo: “Non viviamo mai altrove: l’altrove a cui miriamo matura nel presente in cui siamo, ed è ‘qui e ora’ che decidiamo dell’avvenire.

 

Non si tratta di un avvenire lontano e generico, in cui ci può stare tutto e il contrario di tutto, ma di un futuro prossimo che obbliga: è quello delle generazioni”. La capacità di aderire al presente, senza appiattirsi al presente, all’insegna della responsabilità per il “prossimo” venturo, è, dunque, la frontiera post-escatologica della politica. In questa strategia di immanentizzazione della speranza proposta da Natoli non si può, forse, non scorgere l’eco di quell’Italian Theory che trova in Benedetto Croce un antecedente illustre. Quando, nei giorni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale in Europa, nel maggio 1945, caduto il mostro nazista, il vede riproporsi con baldanza coloro che sostengono, su altri versanti (comunista e cattolico), il trapianto nella politica e nella storia dell’éschaton e dell’ultimità della “catarsi del male”, il filosofo abruzzese sente il bisogno di avvertire sull’impossibilità di raggiungere nel mondo e nella storia questa catarsi.

 

Però, non senza ribadire, nel contempo, la fiducia nella “forza del cooperare e operare dell’uomo”. E, in quelle che sono le pagine finali di Etica e politica, egli delinea con chiarezza la prospettiva che sta di fronte a una politica e a una umanità finalmente emancipate dal “trascendente”: “Questa forza del cooperare e operare l’uomo la possiede, sempre, e nessuno può strappargliela, perché egli possiede nel suo petto e nella sua mente la fucina nella quale si foggia l’opera e in cui quel che è male, che è falso, che è brutto, che è irrazionale si converte in nuova bontà, nuova verità, nuova bellezza, in migliore razionalità. In questa conversione e trasfigurazione incessante egli attinge gioia e pace, e supera il mondo nel mondo stesso, non già volgendogli le spalle e distaccandosene, ma di volta in volta assoggettandolo e unendolo a sé. A un sol patto: che egli conosca e senta di non potersi in quella gioia e pace giammai fermare, che quel godere è non più che un divino respiro di riposo, al quale seguiranno nuove forme di male, di falso, di brutto, d’irrazionale, che richiederanno nuovo lavoro; e cosìad infinitum per l’umanità e ad finitum per lui individuo”. 

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“1917” e il falso tempo del racconto

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Alcune scene furono girate mentre la guerra ancora non era finita, e a distanza di un secolo J’accuse (Per la patria, 1919), di Abel Gance, resta una delle opere più importanti del cinema della Grande Guerra. Ho ripensato a questo film, dopo aver visto 1917, perché mi è tornata in mente la famosa sequenza del “ritorno dei morti”, vale a dire il momento in cui uno dei protagonisti, che la guerra ha fatto impazzire, torna a casa, convoca gli abitanti del villaggio e, sotto forma del racconto delirante di un sogno, fa riapparire i soldati uccisi, che risorgono dalle loro tombe per chiedere ai vivi ragione della loro assurda morte: 

 

https://www.youtube.com/watch?v=pO_M8zfIe6I

 

Come la maggior parte dei capolavori dedicati alla Grande Guerra, J’accuse rende visibile e fa agire scenicamente un tragico irredimibile, aggredendo e smentendo temi e retorica della propaganda trionfalistica; possiamo ricordare, per limitarci a qualche esempio, a Charlot soldato (Shoulder Arms, 1918), di Charlie Chaplin, o L'uomo che ho ucciso (Broken Lullaby, 1932) di Ernst Lubitsch, o Orizzonti di gloria (Paths of Glory, 1957) di Stanley Kubrick, o La grande guerra (1959) di Mario Monicelli.

 

Timothy Carey, “Orizzonti di gloria” (Stanley Kubrick, 1957).

 

Vittorio Gassman, Alberto Sordi, “La grande guerra” (Mario Monicelli, 1959).


Rispetto a questo insieme, 1917, candidato a dieci Premi Oscar, non è certamente così grande; però credo che i difetti di cui si è molto parlato siano capi d’accusa di un’esecuzione sommaria che non fa giustizia al cinema come lavoro e costruzione di illusioni, anche in senso tecnico; soprattutto, poi, i difetti del film di Sam Mendes possono essere significativi per discutere di come, a distanza di un secolo dall’evento storico che ha generato il cinema della Grande Guerra, 1917 costruisca un immaginario abbastanza diverso, fino al punto che potrebbe diventare complicato definirlo un film di guerra, almeno nel senso classico di una grande epopea. 

 

Ripartiamo, allora, proprio dai principali limiti rimproverati a 1917, che in sintesi sono tre: assomiglia troppo a un videogioco per l’uso di un falso piano sequenza piegato essenzialmente nella resa di super effetti speciali spettacolari; la storia è piena di stereotipi, e di vicende sin troppo scontate; è noioso. Nessuno dei tre argomenti è del tutto falso, ma nessuno, guardando al film nell’insieme, può valere come discorso assoluto. Questi tre punti critici si possono allora riconsiderare, per esempio anche attraverso il confronto con J’accuse, di Abel Gance, ripensando anzitutto allo stesso identico motivo con cui inizia e finisce il film di Mendes, con il protagonista in mezzo a un assolato campo fiorito che evoca un non-tempo e che ha già qualcosa di ultraterreno (assomiglia ai Campi Elisi). C’è un giovane (George MacKay), appoggiato a un albero, a occhi chiusi, che riemerge da uno stato di semiveglia, corre per tutta la durata (drammatica e visuale) del film, e finalmente tornerà a fermarsi nel medesimo scenario, buttandosi al suolo come una foglia, un sasso, un ramo, in una posizione di riposo e di adesione fisica alla terra. Proprio questa specularità che unisce le due soglie di 1917, tracciando una sorta di cerchio magico, una «corolla di tenebre» come l’avrebbe chiamata il poeta soldato Ungaretti, mi fa fatto ripensare a J’accuse, per il tema del revenant, del ritorno di qualcuno che si risveglia da un sonno, anche simbolico, per rivivere e entrare in contatto con il mondo dei vivi. La morte che chiede alla vita di non dimenticarla.

 

Il cartello di apertura del film ci dice che è il 6 aprile 1917. Grazie alla trovata di un apparente piano sequenza, vale a dire di un'unica ripresa, che ad eccezione di un solo stacco visibile inseguirà ininterrottamente il corso dell’azione, le prime immagini del film ci risucchiano, letteralmente, nel flusso ininterrotto di eventi e situazioni visuali che, come un corpo gigantesco, ci inghiottiscono, ci trascinano e ci chiedono di aderire senza soluzioni a una missione impossibile contro il tempo e contro la morte che due soldati inglesi hanno avuto l’ordine di tentare. 

 

 

Mentre l’esercito tedesco si sta ritirando dal Fronte occidentale, e il colonnello inglese Mackenzie sta per lanciare all'attacco il 2º Battaglione del Devonshire Regiment, le ricognizioni aeree hanno scoperto che i tedeschi in realtà non si sono ritirati, ma spostati poco più indietro, pronti a distruggere il battaglione britannico composto da più di milleseicento uomini che sta per attaccare. Poiché le linee telefoniche sono interrotte, il Generale Erinmore incarica i due giovani Tom Blake (Dean-Charles Chapman) e William Schofield (George MacKay) di trasmettere al colonnello Mackenzie l'ordine di fermare l'attacco. Per Tom Blake riuscire a consegnare l’ordine significa anche salvare la vita al fratello Joseph, che combatte nel 2° Devonshire. Attraversando la terra di nessuno, sopravvivendo al crollo di un bunker, allo schianto a terra di un Albatros Flugzeugwerke e al furore omicida del suo pilota, continuando a correre e a scappare, Schofield dapprima si farà dare un passaggio da un camion, poi, nella parte più esagerata e meno risolta, continuerà a piedi perché i tedeschi hanno fatto saltare i ponti; e, ancora, mentre il piano sequenza butta anche noi in una confusione vertiginosa che ci rende vulnerabili – perché anche noi non sappiamo più dove guardare – il nostro eroe continua ad andare verso la meta, malgrado gli attacchi di un cecchino, le fiamme, le esplosioni e il rischio di annegamento, in un fiume che però lo trasporta vicino alla posizione del battaglione. 

 

John Everett Millais, “Ophelia” (1851-52).

 

 

Stremato, Will arriva quando l'attacco è già in corso, ma riesce a impedire che la seconda ondata possa aggiungere altre vittime riuscendo a consegnare il messaggio al colonnello Mackanzie (Benedict Cumberbatch). La sua missione non è ancora finita perché deve trovare Joseph (Richard Madden), per informarlo della morte del fratello minore, consegnargli gli oggetti dell’amico morto e chiedere di scrivere alla loro madre. 

 

La ricerca/riscoperta del “fratello”, che è un tema simbolico fortissimo nelle narrazioni di guerra, anche contro il patriottismo facile; la vita in trincea come non-vita a contatto continuo con la polvere, il fango, esattamente come un topo; il sentimento del corpo come luogo estremo in cui perdersi e nascondersi, quando il mondo circostante è un inferno; gli occhi aperti o chiusi che alzano e abbassano lo sguardo sull’orrore. Non sono soltanto stereotipi quelli che 1917 riattiva; perché ognuno di questi motivi vale anche come grande archetipo. Ma la vera questione, quella su cui si sono più divisi i giudizi su 1917, riguarda l’uso del piano-sequenza. E qui le generalizzazioni non funzionano: non serve a molto ricostruire i migliori piani-sequenza del cinema e confrontarli a sfavore di 1917, perché nel cinema, come in tutte le altre arti, le forme sono inseparabili dai temi e dai mondi di invenzione costruiti dall’opera. Il tempo “finto” – nel senso di fittizio – ricreato da 1917è un “falso tempo” non solo perché il tempo reale raccontato è più lungo (l’azione dura otto ore), malgrado l’apparenza di un flusso continuo. È un falso tempo in cui la nostra percezione come quella del soldato si dilata, anche perché, come dichiara la dedica di 1917 nei titoli di coda, quello che ci sta raccontando quel lungo e intenso piano-sequenza non è direttamente un’azione, come nella maggior parte dei film di guerra, ma un racconto: il racconto ascoltato dal nonno soldato del regista. 

 

L’effetto di stordimento incantato di cui ci parlano molti testi di guerra è come raddoppiato, o caricato da un effetto di sordina, perché la situazione che ci inghiotte, secondo l’artificiosa coincidenza di spazio e sceneggiatura a cui il piano-sequenza piega il film, non è la missione dei due soldati il 6 aprile 1917, ma la trasformazione di quell’azione in un racconto, in un mito, raccontato e ascoltato chissà quante volte. Andare avanti, sempre, ininterrottamente senza fermarsi, come in una fiaba dove la vicenda corre verso il suo destino finale. Da questo punto di vista il piano-sequenza, così come lo reinventa il direttore della fotografia Roger Deakins, non serve al senso epico della storia, perché l’empatia a cui rispondiamo non riguarda tanto l’esperienza quanto l’effetto di immediatezza (per questo si è parlato, anche troppo e troppo sbrigativamente di “videogame”). Il piano-sequenza nemmeno serve soltanto, alla suspense; ma compone, più che altro, l’effetto di un racconto mitico, che è anche fiction, perché quello in cui dobbiamo immedesimarci non è il fatto, ma – prima e dopo di esso – l’effetto che si prova a sentirsi raccontare qualcosa che ormai è leggenda. A differenza di tanto cinema precedente sulla Grande Guerra, è dunque interessante che 1917 lavori su forme nuove di sentimento della patria – e di un’Inghilterra che ha combattuto per l’Europa. Senza dimenticare che si tratta di cinema, di una fabbrica di illusioni, di sogni e di emozioni, non di manuali di storia.

 

 «Che giorno è oggi?» chiede il tenente Leslie (Andrew Scott) ai due protagonisti; la loro risposta risuona come un’eco fuori dal tempo storico: è il 6 aprile 1917, cento anni fa come per sempre. Tutto il resto non esiste, come se fossimo entrati in trasognato e favoloso contatto con la voce di un fantasma. Questa è la storia, la situazione che ci fa vivere 1917. Per questo vuol farci emozionare e ci emoziona così tanto. Perfino troppo, ma non c’è nulla di male. 

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113 persone dal Libano a Fiumicino

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Dal 3 al 7 febbraio alle 19,50 su Radio Rai Tre andrà in onda “Bayt – in viaggio verso casa”, un documentario radiofonico a puntate che racconta la storia del trasloco di 113 persone. Dal Libano a Fiumicino, “Bayt – in viaggio verso casa” è un diario sonoro di parole, testimonianze e musica che documenta l’unico sistema sicuro per arrivare in Italia per chi oggi scappa dalla guerra.

 

Immaginate di essere nati in un comune ospedale di provincia, di avere trascorso un’infanzia piuttosto serena in un quartiere di periferia, un’adolescenza vivace tra scuola, amici e gite in campagna. Immaginate poi di esservi iscritti all’università e avere sostenuto i primi esami con discreti risultati. Al netto dei dettagli, la descrizione non si allontanerà di molto dai trascorsi di ognuno di voi. Allora proseguiamo. Immaginate che per una banale coincidenza la vostra città di origine sia Aleppo. Ecco, siete al secondo anno di università, la famiglia ha investito molto nei vostri studi con un dispendio notevole di energie e risorse e voi non la state deludendo, studiate a sufficienza e vivete con la giusta spensieratezza i vostri venti anni, ma un brutto giorno un boato vi butta giù dal letto, e poi anche il giorno dopo e quello dopo ancora. Nel giro di poche settimane i bombardamenti si intensificano, accanto a voi crollano palazzi, muoiono amici e parenti, l’università funziona a singhiozzo e le vostre abitudini e relazioni iniziano a sgretolarsi velocemente. Come uscirne?

 

Probabilmente la prima cosa che fareste sarebbe confrontarvi con la famiglia. Vostra madre e vostro padre sono spaventati, sconsolati e nervosi, desidererebbero avervi accanto per sempre ma ragionano razionalmente e si rendono conto che c’è solo una soluzione: aiutarvi a lasciare la Siria e a proseguire il percorso interrotto in un luogo sicuro, che vi garantisca in primis di non morire e poi anche di continuare i vostri studi. Per voi è un duro colpo, all’inizio siete arrabbiati, poi tristi e infine arresi. È difficile accettare di abbandonare tutto e iniziare da capo per colpa di una guerra che non avete voluto e di cui non siete complici, ma non c’è altro da fare, ingoiate il rospo e accettate il destino. 

È proprio a questo punto, ironia della sorte, che si spalanca un altro dramma. Attualmente per i profughi non esiste un sistema legale per raggiungere l’Europa. Sembra assurdo, ma è la realtà. Le procedure necessarie sono blindate e l’ottenimento di un visto è previlegio di pochissimi: professionisti altamente specializzati o funzionari dai redditi elevati; per una persona normale, come voi, il visto è un miraggio. Se poi la meta desiderata è l’Italia scoprirete che con gli ultimi decreti sicurezza approvati è stato addirittura eliminata la protezione umanitaria. Proverete e riproverete senza nessun successo e alla fine l’ennesima bomba esplosa accanto alla vostra casa vi costringerà a un atto estremo: scappare via terra. Abitate ad Aleppo e il percorso più immediato vi condurrà in Libano, dove oggi, su quattro milioni di abitanti, più di un quarto è di origine siriana, un dato che posiziona il Paese al primo gradino del podio mondiale per tasso di rifugiati. 

 

Ben presto scoprirete che la vita in Libano è difficilissima, la disoccupazione è alle stelle, ottenere la residenza è sempre più improbabile, l’ostilità verso i siriani cresce con l’aumentare del disagio sociale. Provate a proseguire l’università ma non riuscite a far fronte alla retta. Come se non bastasse, a ottobre del 2019 vedrete con preoccupazione milioni di libanesi scendere in piazza; voi non lo fate perché avete assistito alle manifestazioni in Siria e temete il peggio, ma sapete anche che i manifestanti sono nel giusto, da troppo tempo sono oppressi e soffocati da un governo che foraggia la corruzione, alimenta il sistema per caste e non offre nessun tipo di welfare. In quei giorni cade il governo e il Libano precipita nel caos, i siriani diventano ancor di più il capro espiatorio di ogni male, razzismo e xenofobia aumentano con il peggiorare delle condizioni di vita e voi non riuscirete neanche più a trovare i lavoretti mal pagati che vi hanno sostenuto i primi mesi, mentre il proprietario della stamberga in cui vivete vi chiede un affitto sempre più salato. 

Il soggiorno in Libano è per voi un lungo periodo di non vita, un limbo in attesa che qualcosa possa cambiare, vi chiudete a riccio e sperate che un giorno tutto finisca, intenti nella costante fatica di sopravvivere. Non è né fantasia né immaginazione. È una amara verità che oggi solo in Libano riguarda più di un milione di persone, in fuga da una guerra che non avrebbero mai voluto.

 

Sto leggendo un libro di Anthony Shadid, giornalista americano di origini libanesi. Shadid era un reporter e per molti anni è stato corrispondente dalla Siria. Durante una guerra, leggo, la vita non viene vissuta, ma quanto tempo occorre affinché le interruzioni di un’esistenza vengono ripristinate? Quando la vita viene piegata, spezzata, bombardata, i pezzi si sparpagliano. E quanto ci vorrà per rimetterli insieme? Probabilmente, complice una miope politica europea, ce ne vorrà molto: anni, lustri, decenni, a volte non basterà tutta una vita. 

 

A novembre 2019 ho seguito il viaggio di 113 persone, 113 tra quel milione di profughi siriani che oggi vive in Libano. I 113 hanno una cosa in comune, una piccola coincidenza che ha cambiato il corso del loro destino: l’incontro con gli operatori dei corridoi umanitari, un programma che organizza traghettamenti sicuri dal Libano all’Italia per le persone in fuga dalla guerra. Gli operatori li hanno incontrati, conosciuti, intervistati, infine hanno considerato che i 113 in Italia avrebbero potuto rimettere insieme i loro pezzi. Lentamente, certo, un poco alla volta, tra difficoltà e ostacoli, ma con determinazione e costanza la vita avrebbe potuto riprendere a scorrere serenamente. I corridoi umanitari oggi, per la stragrande maggioranza delle persone in fuga da una guerra, rappresentano l’unico modo per arrivare in Italia in sicurezza, su un normale aereo di linea e con un regolare documento in tasca. Purtroppo sono appannaggio di pochissimi, il progetto è autofinanziato e i suoi costi sono coperti da un gruppo di chiese – la Federazione delle chiese evangeliche e la Comunità di Sant’Egidio – che dal 2016 ad oggi ha potuto attivare il programma per circa duemila persone. Le chiese ci mettono il denaro, l’organizzazione e l’accoglienza, le ambasciate e i ministri competenti assicurano per le persone beneficiarie il rilascio di un documento che li inserirà nel percorso per la richiesta di asilo.

 

 

Ho documentato il trasloco dal Libano all’Italia dei 113 beneficiari del programma in un documentario radiofonico in cinque puntate che ho voluto chiamare Bayt – In viaggio verso casa. Bayt in lingua araba si può tradurre con “casa”, ma il suo significato va oltre le pareti, evoca emozioni, desideri, aspettative, dinamiche intorno al luogo abitato. Il bar dove ordinare il solito caffè, il percorso da casa a scuola, la piscina per il corso di nuoto, il rumore della televisione dei vicini, il cortile in cui lasciare la bicicletta, la panchina assolata per leggere il giornale la domenica, il giradischi sul comò, le cene con gli amici sul tavolo della cucina, la fermata dell’autobus all’ombra del platano. Tutto questo è bayt e in Medio Oriente la bayt è sacra.

 

Ho accompagnato i 113 negli ultimi preparativi e ho potuto constatare che nessuno di loro in Libano è riuscito a ricostruire la sua bayt frantumata dai bombardamenti. Akanji aveva 21 anni e studiava Business Management quando è dovuta scappare dalla Siria, per mesi ha cercato di continuare a formarsi in Libano ma non è riuscita a far fronte alle spese universitarie, è diventata un’attivista per i diritti dei bambini e delle donne siriane ma non ha mai potuto riallacciare il filo interrotto della sua vita. Quando l’abbiamo incontrata, a Tripoli, la seconda città del Libano, ci ha dato appuntamento in casa di amici, il suo quartiere non era un luogo sicuro; Alkanji era alle prese con le valigie, voleva portarsi tutto dietro, non voleva lasciare niente, il 27 novembre 2019 è partita per Padova e oggi segue con profitto la scuola di italiano e l’università, accompagnata in un percorso di accoglienza che a breve la renderà autonoma. Souad, sua mamma e i due figli hanno vissuto cinque anni in un campo profughi di Tel Abbas, al confine con la Siria, li ho conosciuti nella loro tenda auto-costruita, di plastica e legno, non hanno potuto utilizzare pietre perché il governo libanese avrebbe demolito tutto. Quando sono scappati da Homs, Souad aveva venti anni e il pancione al quinto mese, che dopo i bombardamenti si irrigidiva e non permetteva a Souad di percepire i movimenti del feto.

 

Dopo una fuga rocambolesca è riuscita ad arrivare al confine libanese con la famiglia e a installarsi in un campo, da cui non è riuscita più a muoversi per cinque lunghi anni, un lustro infernale in cui a perso il marito per un colpo al cuore, ha visto la madre diventare cieca e i figli scorrazzare per il campo senza la possibilità di frequentare una scuola. Mi offre un bicchierino di tè caldo mentre scuote la testa, “eravamo solo delle ragazze quando è scoppiata la guerra, non pensavamo che avremmo dovuto assumerci tutte queste responsabilità. Eravamo solo ragazze”. Mi mostra una pietra nera, la metterà in valigia e la porterà in Italia, è una pietra vulcanica utilizzata ad Homs per costruire le case, è l’unico frammento che le rimane della sua bayt siriana. La sua famiglia andrà nelle Marche, in provincia di Pesaro Urbino, qui la madre sarà operata, i bambini per la prima volta frequenteranno la scuola e lei a 25 anni forse inizierà a pensare di riprendere in mano la sua giovinezza. Osama vive su un tetto, glielo affitta un proprietario libanese a cento dollari al giorno, più che un tetto è un pianerottolo tra l’ultima rampa di scale e il tetto condominiale di un palazzo alla periferia di Beirut, in questo angolo di un metro per due ha sistemato un materasso e la televisione. È scappato a diciotto anni dalla Siria, illegalmente, per sfuggire al servizio militare, se lo avessero preso lo avrebbero potuto giustiziare ma Osama ha voluto correre il rischio.

 

Quando l’ho conosciuto erano passati sette anni dal suo arrivo in Libano, non aveva la residenza perché quando ha provato ad ottenerla lo hanno chiuso in carcere per due settimane, campava di lavoretti stagionali e dormiva nel suo sottotetto su un tetto. Anche lui è partito con il volo che il 27 novembre ha fatto atterraggio a Fiumicino, da lì un pullman lo ha condotto sino a Pinerolo, in Piemonte, dove la fidanzata e i suoi due figli lo stavano aspettando. Dopo due mesi dal suo arrivo in Italia ho chiamato l’operatrice che si occupava della loro accoglienza, hanno lasciato il progetto, mi ha detto, probabilmente per trasferirsi in Germania. La ricerca della propria bayt non ha confini. Mohamed, Maha e i tre figli vivevano in un paese di provincia vicino ad Aleppo, quando Maha si è ferita per scappare a un bombardamento sono andati tutti e cinque di corsa all’ospedale, la gamba era in gravi condizioni ed è stata necessaria un’operazione; sono tornati dopo qualche giorno e poco prima di entrare in casa il figlio più grande, di dieci anni, ha guardato dalla finestra e ha visto che era stata occupata da qualcuno. Oggi della loro casa, la loro bayt, rimane solo una chiave che Mohamed conserva gelosamente in una scatola. Per i cinque non è rimasta che la fuga, direzione confine libanese.

 

In Libano all’inizio si sono sistemati nel campo profughi di Sabra e Shatila, ma il degrado era troppo e all’ennesima violenza di cui i figli sono stati testimoni i due hanno deciso di spostarsi di nuovo e di chiedere aiuto. Si sono rivolti a un medico di un’associazione che lavora con i profughi che ha fatto da ponte con gli operatori dei corridoi umanitari e nel giro di qualche mese è stato programmato il loro trasferimento in Italia. Quando li ho conosciuti avevano già chiuso le valigie, mi hanno offerto tè e biscotti nella loro stanza a Beirut, all’interno di un palazzo fatiscente che il proprietario affitta a caro prezzo. I bimbi erano un po’ spaventati di volare, mi ha detto Maha, perché per loro l’aereo è indice di bombe e distruzioni, ma erano anche molto felici di partire; a Scicli, in Sicilia, qualcuno aveva già preparato l’appartamento in cui sarebbero entrati dopo poche ore. Li ho ringraziati per avermi ospitata, “non lo devi fare” ha detto Maha “noi ti abbiamo aperto la casa solo per qualche ora, voi italiani lo farete per sempre”. Mi auguro che saremo all’altezza.

 

N.B. In queste settimane a Bruxelles si sta discutendo la possibilità di istituzionalizzare i corridoi umanitari. La macchina, attiva dal 2016, è ormai oliata e se a coprirne i costi fossero le istituzioni, i numeri dei beneficiari potrebbero drasticamente aumentare. I proponenti del progetto dei corridoi umanitari europei hanno ipotizzato di iniziare dalla Libia, dove attualmente cinquanta mila profughi sono in cerca di un posto sicuro in cui costruire la loro bayt.

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John Baldessari. Mai più arte noiosa

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L’illusione del cinema

 

Santa Monica, vicino Los Angeles, una mattina dei primi anni settanta. John Anthony Baldessari (nato nel 1931 e scomparso di recente, il 2 gennaio) si reca nel suo studio e trova l’ingresso ostruito da camioncini pieni di apparecchiature da film. Formano una sorta di barricata che gl’impedisce l’accesso. Nel parcheggio circostante, nel mezzo della troupe cinematografica, spuntano una sedia per il regista e una per l’attore – il regista è Roman Polanski, l’attore Jack Nicholson, come recita l’aneddoto. Baldessari è insomma finito nel bel mezzo del tournage di Chinatown

“Pardon me, can I get into my studio?” o, secondo le versioni, “I’d like to get in. That’s my studio”, chiede a Polanski e Nicholson un Baldessari allora quarantenne, con quel volto da sette nani innestato su un corpo da gigante. Dentro di sé rimugina: “Okay so, the line between reality is my door”.

La vicenda (riportata in un’intervista con Jeremy Blake, “Artforum”, marzo 2004) non sorprende Baldessari: capita spesso che nei dintorni della sua abitazione e del suo studio si allestiscano set cinematografici. L’industria di Hollywood dista poco lontano e rende la zona circostante un luogo sospeso tra realtà o finzione o, meglio, uno spazio-tempo in cui coesistono, uno accanto all’altro, uno dentro l’altro, diversi livelli di realtà costruiti attraverso finzioni sempre più sottili. Un gioco di specchi in cui non si sa più indicare l’originale. “Credo che gran parte del mio interesse [nel realizzare Intersections, 2001-2003] derivi dal fatto che non riusciamo più a capire cosa è reale perché siamo cresciuti vedendo film”; “È lo specchio del mondo, ma è in un altro luogo”. Tante sono le occasioni in cui Baldessari ha espresso il fascino esercitato su di lui dai film in quanto macchina dell’immaginario. Al punto da dichiarare che l’artista più importante degli anni sessanta non è stato Andy Warhol o Jasper Johns ma Jean-Luc Godard.

 

Space available, 1966-67.


Per questa ragione valicare la porta del suo studio, scavalcando la troupe che ne ostacola l’accesso, è un gesto ambiguo aperto a diverse letture. Secondo la più evidente, l’artista ripara in uno spazio domestico, quello del suo studio, estromettendo il mondo del cinema. Del resto uno dei migliori complimenti che abbia mai ricevuto è: “quello che mi piace della tua arte è quanto lasci fuori”. Tuttavia basta poco per sospettare che in realtà, scavalcando i fili delle luci e le apparecchiature del set cinematografico e varcando la soglia di casa, Baldessari penetri in una sala cinematografica. O forse entra all’interno del film, passando da una parte all’altra dello schermo. Come se il suo atelier diventi il set di un film di cui ignora il copione, allestito nei minimi dettagli in attesa del suo arrivo.

La porta non segna lo scarto tra pubblico e privato, tra spazio sociale e spazio domestico ma coincide col “ciak si gira”. Una volta chiusa dietro di sé, la macchina da presa comincia a girare. “How can this be a movie, I live there”, si chiede Baldessari, ma è troppo tardi per simili speculazioni.

 

 

Del resto la storia del cinema non coincide solo con la cultura d’immagine di Baldessari ma è anche uno dei suoi principali materiali di lavoro, come dimostra il suo immenso archivio di fotogrammi classificati per tipologie. Penso, ad esempio, all’installazione video Five ’68 Films (2001), in cui accosta i footages di quattro film realizzati negli Stati Uniti e programmati a Los Angeles il 20 agosto 1968, ovvero il giorno dell’invasione dei carrarmati dell’URSS a Praga, inizio di un processo di normalizzazione che inferse un colpo mortale alla più grande utopia del XX secolo. I film appartengono a quattro generi diversi: la guerra in Vietnam con I Berretti verdi di John Wayne; la fantascienza distopica con Il Pianeta delle scimmie di Franklin J. Schaffner; la storia sentimentale con Il caso Thomas Crown di Norman Jewison; l’orrore psicologico con Rosemary’s Baby di Polanski (ancora lui).

 

Il cinema allontana Baldessari dalla nozione d’immagine, filtrata dalla pittura modernista. Come riconosce in un’intervista del 1999, “All’improvviso ho iniziato a vedere la pittura in serie nei musei come singole immagini di una sequenza cinematografica. Immaginavo quale immagine dovesse venire prima di un dipinto di Van Gogh e quale dopo. Pensavo a come l’immagine sarebbe apparsa attraverso un grandangolo. All’improvviso ho visto la pittura attraverso categorie filmiche. E mi sono convinto che un’immagine individuale sia troppo emblematica per la verità. Un’immagine individuale vuol sempre dire: le cose stanno così”. Al contrario, varcando la porta del suo atelier quella mattina dei primi anni settanta, Baldessari capisce che le cose non stanno sempre così.

 

John Baldessari, 2015, courtesy Manfredi Gioacchini.


Le ceneri della pittura

 

“EVERYTHING IS PURGED FROM THIS PAINTING 

BUT ART, NO IDEAS HAVE ENTERED THIS WORK”

“Tutto è cancellato da questo dipinto / eccetto l’arte, nessuna idea è entrata in quest’opera”: così si legge in un dipinto acrilico e aniconico di Baldessari del 1966-68, sulla cui superficie grezza e bianca è riportato, con un fine tratto nero e in maiuscolo, il messaggio indirizzato allo spettatore. Le fa realizzare da un pittore d’insegne, “istruito a non tentare di fare un lettering attraente e artistico, ma a trascrivere le informazioni nel modo più semplice possibile”.

Come la porta del suo atelier, la superficie del dipinto – che sia considerata come una finestra, una griglia, una porta sbarrata, un tessuto tirato sul telaio – non è meno ambigua. Baldessari dichiara perentorio (così interpreto il maiuscolo) che quasi tutto il mondo esterno è rimasto fuori dai margini del quadro, un gesto di apparente ascendenza modernista, come testimonia il ricorso alla purificazione, alla depurazione. Fuori sono rimaste soprattutto le idee, che l’arte concettuale, giocando con la smaterializzazione della pratica artistica, trasformava all’epoca in un nuovo materiale plastico.

Ma impedire alle idee di entrare nel dipinto non è un mero gesto di negazione, al punto che al suo interno resta la cosa che più conta: l’arte. Un monocromo potremmo dire, se non fosse per quel messaggio che ne costituisce anche il contenuto esclusivo.

 

Con un’ironia sottile, declinazione West Coast dell’arte concettuale di cui Baldessari è stato l’esponente principale, si prende gioco dell’automatismo – vera e propria fisima degli anni 1950-60 – che identificava l’arte con la pittura, alla testa di un’ipotetica gerarchia di forme artistiche. Al punto che fare arte concettuale, ricorda Baldessari, voleva dire non fare pittura. Un assunto perseguito con tale abnegazione che nel 1970 porta tutti i suoi dipinti realizzati tra il 1953 e il 1966 in un crematorio (Cremation Project). Le ceneri finiscono dentro nove urne utilizzate per gli adulti, e una decima più esigua utilizzata per i bambini. La placca riporta la seguente iscrizione: 

 

I will not make any more boring art, 1971.


JOHN ANTHONY BALDESSARI 

MAY 1953           MARCH 1966

 

Custodite sotto forma di libro, ogni tanto le apre e con la cenere prepara dei cookies, che un amico di cui Baldessari non rivela l’identità assaggia, in un ideale prosieguo delle uova sode firmate da Manzoni.

L’autodafé è liberatorio ma non sufficiente: l’anno successivo Baldessari realizza quello che resta il suo statement più celebre: “I will not make any more boring art”, ricopiato su un quaderno da scuola elementari, come una punizione inflitta sui banchi di scuola da un severo maestro. La ripetizione – colmo del tedio, come ricorda chi è andato a scuola un’era pedagogica fa – ha tuttavia la stessa natura processuale di tanta conceptual art. Si ripete qualcosa in modo martellante finché la frase s’imprime nella propria coscienza e, allo stesso tempo, perde di senso compiuto, in quanto letta in orizzontale ma anche in verticale, con le sue colonne tutte uguali. Insignificanti sono anche i gesti dell’artista in un video del 1971 accompagnati dalla ripetizione della frase I am making art.

 

 

Quando la pittura rinasce dalle sue proprie ceneri, lo fa in modo inaspettato. In Six Colorful Inside Jobs (1977) dipinge una piccola stanza quadrata di un solo colore, uno al giorno: lunedì rosso, martedì arancione, mercoledì giallo, giovedì verde, venerdì blu, sabato viola. Si tratta di una delle più potenti riattivazioni della pittura monocroma che conosca, di uno dei suoi vecchi sogni. Penso alla Chambre rouge di Matisse, rossa da cima a fondo, immersa nel colore come un acquario, col mobilio e le suppellettili appesi nel vuoto bidimensionale. Baldessari non amava essere considerato come un “L.A. artist” e comunque non stava a lui deciderlo – “uno squalo, diceva, è l’ultimo a poter criticare l’acqua salata”. Nutriva però un amore viscerale per Mantegna e soprattutto per Giotto, di cui teneva le riproduzioni della cappella degli Scrovegni nel suo studio. E Giotto, per inciso, era il nome del suo cane.

 

Il corpo del linguaggio

 

Nato a quindici minuti dal confine messicano da genitori immigrati – dalla Danimarca lei, dal sud Tirolo lui – il papà di Baldessari rivendeva materiali e oggetti di scarto recuperati smantellando case nei paraggi. “Non sprecava nulla e riciclava tutto […] Non riusciva a buttar via nulla perché vedeva un valore in tutto. Io riconosco un valore visivo in tutto” (intervista con Barbara Isenberg, dicembre 1998). Il figlio si abitua presto a formulare frasi semplici e comprensibili al padre, che parlava a malapena l’inglese.

Anni dopo Baldessari elegge il linguaggio a unico elemento dei suoi dipinti, esplorandone gli aspetti visivi e plastici: “Mi ha sempre interessato il linguaggio. Mi sono detto: perché no? Se un dipinto, secondo la classica definizione del termine, è pittura su tela, perché non si possono dipingere parole su tela? E poi ho maturato un interesse parallelo per la fotografia... Non sono mai riuscito a capire perché la fotografia e l’arte hanno storie separate. Così ho deciso di esplorare entrambe” (intervista con David Salle in “Interview Magazine”, ottobre 2013). 

 

Everything is purged from this painting but art, 1968.


Pure Beauty riprende una delle più trite esclamazioni davanti a un capolavoro; unendo due nozioni quali la purezza e la bellezza che attraversano la storia della pittura e dell’estetica, Baldessari compie un’operazione sarcastica se non iconoclasta sui giudizi di valore attribuiti alle opere d’arte. In Tips for Artists Who Want to Sell sono elencati tre consigli, assai anacronistici considerata la crisi del modernismo o forse precorrenti la vague postmodernista: dipingere con colori chiari (quelli scuri si vendono male); dipingere soggetti consensuali quali Madonna e bambino, paesaggi, fiori, nature morte, nudi, marine, temi astratti e surrealisti; prediligere tori e galli a mucche e galline, che rischiano di prendere polvere nell’atelier. 

 

Cremation project.


Di questa serie il più suggestivo resta, a mio avviso, Space Available (1966-67), che gioca sul doppio senso dell’espressione: nel linguaggio pubblicitario indica uno spazio libero da affittare; in quanto meta-linguaggio commenta il dipinto sul quale è tracciata, quella superficie monocroma storicamente sottomessa alle più diverse attribuzioni di senso, disponibile ad libitum a qualsiasi intervento e progetto.

Interessato alla parola scritta, Baldessari non è meno interessato all’oralità. In un video dei primi anni settanta lo vediamo impegnato a canticchiare, con  un’intonazione un po’ stonata, uno dei testi più concettuosi e complessi mai prodotti dall’arte contemporanea: le Sentences on Conceptual Art di Sol LeWitt (Baldessari Sings LeWitt, 1972). Un omaggio sincero, convinto che cantarle aiuti a diffonderle presso un pubblico più ampio degli acquirenti dei cataloghi d’arte. 

La sua ricerca linguistica toccherà un vertice di saggezza e ironia – mai scindibili in Baldessari – quando prova a insegnare l’alfabeto a una pianta, ripetendo una lettera alla volta con tanto di abbecedario alla mano, accostato alla pianta come se avesse occhi per vedere e orecchie per ascoltare (Teaching A Plant The Alphabet, 1972).

 

Cremation project.


Baldessari amava una vignetta di Charles Addams pubblicata sul “New Yorker”, ambientata in una sala cinematografica, un tema sviluppato già dalla pittura americana: si girano le spalle al film sullo schermo per interessarsi agli effetti del film sugli spettatori – un approccio su cui è costruito, più recentemente, lo straordinario Shirin (2008) di Abbas Kiarostami.

Nella vignetta di Addams il pubblico ha un’espressione inorridita, tranne un bastian contrario che se la ride bellamente. Forse perché sa che le immagini che scorrono sullo schermo non corrispondono a uno stato della realtà, ma sono pura finzione recitata da attori-mentitori. O forse perché vuole mettere in scacco il dispositivo empatico della sala cinematografica, che induce precise reazioni sul pubblico. O forse perché ignora che quelle immagini in movimento non fanno altro che mettere in scena la nostra esistenza e la nostra realtà, quelle ambientazioni urbane che lo spettatore ritroverà rincasando a proiezione terminata. Sempre che non trovi una troupe davanti casa, pronta a girare la prossima scena.

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Fruttero&Lucentini, Opere di bottega

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Da molti anni i «Meridiani» hanno smesso di essere solo una collezione di opere più o meno complete e sono diventati libri in varia misura sperimentali, principalmente per due ragioni. In primo luogo, per la scelta degli autori contemporanei da inserire nella collana, che ricevono così una forma di canonizzazione non sempre scontata; in secondo luogo, per l’alto tasso di impegno critico-filologico dei curatori, chiamati ad allestire edizioni e apparati che corrispondano alle condizioni peculiari dei testi, esprimendo spesso però anche personali orientamenti, vocazioni, idiosincrasie. Per questo, ogni nuovo «Meridiano» è quasi sempre anche un avvenimento critico, risultato di un incontro fra autori e interpreti, che mettono in gioco un’indole oltre che un metodo, un’idea di studio e trasmissione della letteratura più che un protocollo. Non fanno eccezione, anzi confermano pienamente queste condizioni, i due tomi delle Opere di bottega di Fruttero&Lucentini (d’ora in poi F&L), curati da uno dei maggiori esperti del Novecento italiano, Domenico Scarpa. A lui si devono il progetto editoriale (la cui prima concezione risale al 2001), l’introduzione (In principio era il verbo), la cronologia e un ricchissimo apparato di notizie sui testi, allestito anche sulla base dei materiali conservati negli archivi privati di Lucentini (a Torino) e di Fruttero (a Roccamare). Nel primo tomo sono incluse le Notizie degli scavi del solo Lucentini, seguite da tre opere di coppia: L’idraulico non verrà, La donna della domenica, A che punto è la notte; nel secondo tomo si leggono le altre opere firmate dai due autori (Ti trovo un po’ pallida, La cosa in sé, Il Palio delle contrade morte, L’amante senza fissa dimora, Il colore del destino, Enigma in luogo di mare, La morte di Cicerone), seguite da quelle del solo Fruttero, cioè il breve testo Con Lucentini aspettando Godot, Donne informate sui fatti e i versi conclusivi della Linea di minor resistenza. «Tra i manufatti narrativi di F&L – chiarisce Scarpa nella Nota all’edizione – tre soltanto sono stati qui considerati rinunciabili: il romanzo di fantapolitica L’Italia sotto il tallone di F&L (1974), il feuilleton di spionaggio filosofico Il significato dell’esistenza (1975) e, scritta a sei mani con Charles Dickens, l’inchiesta sull’incompiuto Mistero di Edwin Drood, pubblicata nel 1989 con il titolo La verità sul caso D.». Ogni opera inclusa è preceduta e/o seguita da scritti, interviste e autocommenti, rubricati come backstage; proprio a quel termine aveva fatto ricorso Fruttero per raccontare la storia di Ti trovo un po’ pallida, pubblicata inizialmente con i nomi di entrambi gli scrittori, ma in realtà da attribuire al solo Fruttero.

 


Copertina Meridiani. 

 

Le Opere di bottega, dicevo, non fanno eccezione rispetto alle caratteristiche dei «Meridiani» perché Scarpa vi mette a frutto la propria grandissima competenza nella storia della cultura editoriale e letteraria italiana, applicandola agli scritti di due autori che di quella cultura furono partecipi e promotori. L’incontro quindi è particolarmente congeniale perché avviene tra un critico e due scrittori veramente suoi. Questo non solo perché Scarpa aveva già dedicato negli anni studi importanti a F&L, ma anche e forse soprattutto perché la loro stessa scrittura invita alla complicità, quasi la richiede per essere compresa e apprezzata. In tal senso, il titolo Opere di bottega (scelto dal curatore e approvato a suo tempo dai due autori) è particolarmente felice, perché se da un lato allude all’impronta artigianale del lavoro a quattro mani di F&L, dall’altro rivela la natura di testi-laboratorio dei loro libri. Leggere le storie di F&L, cioè, è come entrare nell’atelier o se si preferisce nello studio di due maestri che provano a farci capire come si usano i ferri del mestiere e dove va cercata la materia prima. Ecco perché la ‘forma-Meridiano’, così come si è fissata almeno negli ultimi vent’anni o poco più, è particolarmente adatta all’opera di F&L: perché quella ‘forma’, che congiunge i testi ad apparati spesso non meno ampi, ricostruisce le premesse dell’invenzione, dà corpo alla dimensione biografico-editoriale. È insomma a sua volta una specie di atelier.

 

Credo si possa dire perciò che quella di F&L è una scrittura di secondo grado, che non per questo si può definire o liquidare con l’etichetta di metaletteratura. Questo sia perché l’opera di F&L è così varia in quanto a generi e forme da sottrarsi a ogni stereotipo; sia anche e soprattutto perché l’obiettivo dei due scrittori non è mostrare che dalla letteratura nasce altra letteratura, ma condividere con il lettore il piacere arguto di trasformare in racconto la realtà, magari calcando volutamente la mano – fin dai meravigliosi titoli – su tipi, luoghi, espressioni, situazioni socialmente marcati. Lo si vede bene in questo brano – uno dei tanti esempi possibili, ma reso particolarmente saporito da una punta gaddiana – tratto dal primo capitolo del romanzo più famoso della coppia, La donna della domenica

 

«Intorno a lui, sulla terrazza solitamente tranquilla, il caos era indescrivibile; e quanto alle tre donne del gruppo, era una grazia della Consolata che non fossero in costume da bagno. Sebbene alte fumate già si levassero dai mucchi degli agnolotti, le bottiglie di Campari e di Punt e Mes erano ancora trattenute a viva forza sulla tavolata, frammiste a quelle già dimezzate del dolcetto e del barbera. Né il saccheggio degli antipasti, a quaranta minuti dall’inizio, accennava a diminuire di furore: incagliati tra le sedie come vascelli catturati e tirati in secco, i quattro carrelli a due piani non cessavano di riversare il loro carico di peperoni al forno, tinche in carpione, tomini, acciughe in salsa rossa e verde, zucchini e pomodori ripieni, frittatone campagnole, cotechini ormai freddi.»

 

E lo si vede, ancora, in questo passaggio dello stesso libro (cap. III), che dà anche un esemplare definizione e rappresentazione dell’idea di ‘ambiente’ nella narrativa di F&L (e soprattutto nella società ritratta nei loro romanzi):

 

«Effettivamente non si poteva mai dire, qui. Avevi il grande chirurgo, membro di tutti i comitati d’onore, con la villa di trenta stanze, la piscina, la Bentley, le fotografie sui settimanali; avevi l’altissimo magistrato o il senatore del partito di maggioranza, dei quali una telefonata a Roma poteva far tremare il ministero; e poi ti accorgevi che qui, nella loro città, dove pure nessuno metteva in dubbio il loro valore, la loro influenza o i loro soldi, contavano meno di un tranquillo impiegato delle Acque Potabili che girava in millecento blu e faceva le vacanze a Torre Pellice, in una vecchia casa con davanti due palme, ma che, le rarissime volte che li incontrava per strada, magari uscendo dall’Upim, poteva salutare col “ciao” e quell’inimitabile sorriso di estremo, improbabile piacere, i nomi più grossi e antichi di Torino. Ecco cos’era, l’“ambiente”».

 

Fruttero e Lucentini a Torino.


‘Tipicità’ è la parola-chiave e insieme la cifra che caratterizza la poetica di F&L; un concetto simile ma non identico a quello di ‘banalità’, se non altro perché il tipico è più funzionale e implicabile nel sistema umoristico dei due autori. Invece la parola ‘banalità’ fu usata sia da Pietro Citati sia da Italo Calvino nelle recensioni a Il Palio delle contrade morte (1983) scritte rispettivamente per il «Corriere della Sera» e per «la Repubblica» (se ne possono leggere degli estratti nell’apparato del secondo tomo). In verità quel romanzo è uno dei meno banali e anzi più curiosi, imprevedibili, un po’ strampalati ma arguti di F&L, che sembrano divertirsi come matti, e ci tengono a mostrarlo:

 

«Ascanio (e con lui Ginevra, Elisabetta, Guidobaldo e ogni altro contradaiolo senese) vede senza sforzo una lunghissima fila di antenati dritti come birilli, vede trenta, cinquanta individui – signori, popolani, villani, soldati, magari qualche prete o frate, che si passano per così dire la palla, come nelle generazioni bibliche: Baccio, che generò Bindo, che generò Corso, che generò Duccio...»

 

Il Palio delle contrade morte.


Il divertimento e l’allusività sono tratti che potrebbero accomunare le opere di F&L e la narrativa postmoderna. Forse possiamo anche ammettere che il clima è lo stesso, o è simile. Ma F&L non ci chiedono di leggere tutti i libri, ma di guardare bene i dettagli, di figurarci il comportamento di un personaggio in determinati ruoli e contesti. Su questo piano, F&L appaiono due scrittori più ottocenteschi che non postmoderni. Vale la pena, a questo proposito, citare un brano su cui giustamente Scarpa richiama l’attenzione nel suo saggio introduttivo; si tratta della prefazione scritta nel 1959 da Fruttero per l’edizione Einaudi di Grandi speranze:

 

«La prima cosa che colpisce leggendo i grandi romanzieri dell’Ottocento – e soprattutto Dickens e Balzac – è la naturalezza (l’incoscienza, si starebbe per dire) con cui essi intraprendono la descrizione totale del mondo che li circonda. Armati di un potere d’assorbimento che ha limiti vertiginosi, di una capacità d’osservazione che di capitolo in capitolo si affila anziché smussarsi, li vediamo affrontare le moltitudini con un ardore, una candida avidità che oggi abbiamo dimenticato, e alla quale ci si riaccosta quasi con sollievo. Perché, naturalmente, questo entusiasmo, questa spontaneità, questo amore meticoloso per i volti, i gesti, il carattere dei personaggi hanno la grande virtù di comunicarsi immediatamente anche a noi.»

 

«Questo primo capoverso di un testo di servizio – commenta Scarpa – è il programma, anzi l’innesco, di tutto quanto F&L faranno in coppia». Dickens, Balzac, forse anche un po’ di Flaubert: anche se per negarlo, il modello viene comunque evocato da Fruttero: «C’è stato un tempo, una quarantina d’anni fa, in cui qualche amico di passaggio ci paragonava scherzosamente a Bouvard e Pécuchet.» (Con Lucentini aspettando Godot).

L’attenzione per gli ambienti e i tipi, combinata con il gusto dell’allusività, fa sì che gesti e parole dei personaggi non rappresentino solo sé stessi per effetto di reale, ma siano spesso anche le chiavi per comprendere i moventi, per risalire alle cause. Si spiega anche così l’inclinazione verso il genere poliziesco, che attraversa l’opera di F&L da La donna della domenica in avanti. «Quello che viene chiamato per comodità “autore” – commentano F&L rispondendo a Diego Zandel in un’intervista per «Paese Sera», qui citata nella Cronologia– non è altro che un nevrotico detective che si aggira con la lente e la pipa in quei labirinti, frugando fra interminabili scaffali finché non ha riconosciuto il libro di sua spettanza». Più che il contenuto fattuale del racconto giallo, cui pure lo snobismo popolare dei due grandi ‘bottegai’ non sarà stato insensibile, conta la traccia, l’indizio che serve meno a individuare un colpevole che non a rivelare la natura di un carattere. Una volta trovata quella traccia, F&L ce la fanno vedere, senza trascurare la trama e i suoi esiti, ma senza imporci con ciò morali e didascalie, condividendo con noi piuttosto il piacere del riconoscimento. 

La capacità quasi insuperabile di rendere il colore locale (con grande spasso, come in A che punto è la notte: «Inverno, piemonte, vecchio centro, fumosa osteria, cesare pavese, vin brülé») ha – occorre dirlo – delle controindicazioni, che emergono alla distanza. Il rilievo dei tratti tipici, infatti, si sconta con il loro stingere nel tempo. Sugli oggetti e sui personaggi si deposita una polvere d’epoca, che rischia di far apparire datato il mondo rappresentato da F&L. Ciò non tanto a causa dell’allontanarsi di quel mondo nel tempo, quanto della modalità che i due scrittori hanno scelto per raccontarlo; una modalità – lo si è detto all’inizio – che ha bisogno di lettori complici, cioè in grado di cogliere il codice sociale e stilistico su cui si basa gran parte del realismo ironico di F&L. E l’ironia è spesso radicata nell’esperienza del contingente. Per questo, senza il giusto codice e senza la possibilità di condividere o almeno conoscere la medesima realtà contingente, il rischio è che una patina vernacolare trasformi lo stile in falsetto. La lettura continua dei due tomi (che non sempre è la giusta forma di fruizione di un’opera così estesa) alimenta forse tale effetto. Per fortuna, queste Opere di bottega, insieme agli eventuali problemi, ci consegnano anche la soluzione: cioè, l’intelligenza di F&L, che risalta in purezza dalle note e dai backstage d’autore che corredano ogni testo. Conviene perciò dare ancora la parola agli autori, in particolare a Carlo Fruttero, dal backstage di Donne informate sui fatti: «Tutti credono, diceva [Lucentini], che a piantare un chiodo non ci voglia niente. E mi porgeva un martello, un lungo chiodo. Ecco, prova. E io provavo e fallivo. Vedi? Una bella martellata, forte, secca, dritta, ti riesce solo dopo molta pratica, non si diventa Geppetto o Glenn Gould al primo colpo». Piantare bene un chiodo è una cosa che di certo s’impara in una bottega. Ma per raccontare come si pianta un chiodo ci vogliono scrittori nel vero senso della parola, come Carlo Fruttero e Franco Lucentini.

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Storie vere e verissime

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Perché i marziani, quando sbarcano sulla terra, hanno sempre tanta fretta di ripartire? Siamo soli nell’universo? Cosa succede alle nostre cose quando iniziamo il viaggio per l’aldilà? Esistono i miracoli? A questi e a molti altri interrogativi cruciali per le nostre vite risponde Ermanno Cavazzoni nelle sue Storie vere e verissime, raccolta di trentacinque novelle comiche uscite di recente per “La nave di Teseo”, con una deroga ai consueti sistemi di ordinamento a cui Cavazzoni ci ha abituato nei suoi precedenti libri, dove segue la traccia di un tema-guida, di un genere o di una specie (Il poema dei lunatici, Vite brevi di idioti, Storia naturale dei giganti, Gli scrittori inutili, Guida agli animali fantastici, Gli eremiti del deserto, La galassia dei dementi) di cui redigere un bestiario o tracciare una genealogia. Le Storie vere e verissime non rispondono a un vincolo stretto nel criterio di catalogazione delle figure e delle vicende, accomunate piuttosto dall’aria di famiglia che si respira nelle pagine di questo scrittore innamorato di tutte le infinite forme di manifestazione della bêtise, che scova e insegue con il fiuto di un segugio e poi cataloga con la passione e lo scrupolo dell’entomologo. 

  

Non bisogna neppure prendersi la briga di inventare, – leggiamo fra le righe della premessa d’autore – tutto ciò che è raccontato è vero: basta guardarsi intorno, sbirciare nei ricordi della propria vita, sfogliare le pagine dei quotidiani o un repertorio delle segnalazioni di incontri con gli extraterrestri per cavarne delle storie verissime, perché qualcuno (forse) le ha vissute e qualcuno (certamente) le ha raccontate. In Gran fretta nella Galassia, lasciando da parte gli avvistamenti di luci e di oggetti che passano in cielo, troppo numerosi e generici per poterne parlare, si prendono in considerazione solo gli atterraggi veri e propri di extraterrestri in Italia, “cosa hanno detto e cosa hanno fatto”, i luoghi e le date: il 14 agosto 1947 a Villa Santina (Friuli) gli extraterrestri hanno rubato una picozza al professor Rapuzzi, poi sono ripartiti immediatamente; il 24 aprile 1950 nel varesotto un operaio sorprende due extraterrestri che  stanno saldando un pezzo dell’astronave, poi subito ripartono; il 1° novembre 1954 a Bucine in provincia di Arezzo “due extraterrestri in calzamaglia e giubbotto, rasati di fresco, escono da una specie di razzo e prendono alla contadina signora Dainelli un mazzo di garofani che teneva in mano e una calza, e dopo pochi minuti ripartono”. E così di seguito, con gli avvistamenti vicino a Siena, in un cortile a Milano, a Isola di Ortonovo, ad Avellino. Sì, ma il problema qual è? Vogliamo sapere quanti sono gli alieni, come sono vestiti, cosa dicono e cosa fanno? Non proprio, ci dice Cavazzoni. La vera questione intorno a cui dibattere è: come mai tanta fretta? Perché non si fermano, non scambiano due parole almeno per gentilezza, non vogliono visitare niente, nemmeno Arezzo, che tra l’altro è una città bellissima, o Varese, la Basilica di San Vittore con facciata neoclassica, i Musei Civici con reperti archeologici, la tomba del guerriero. Non interessa? Mai nessuno che voglia nemmeno sgranchirsi, guardarsi attorno, bere un caffè, fare due chiacchiere? C’è superficialità, c’è maleducazione, oltre che fretta, nella galassia.

  

 

È in questa vertiginosa fioritura di ipotesi paradossali, nell’arte del paralogismo e della callida iunctura (“turismo postmoderno”, “paradiso tenuto male”, “natura ecologicamente irreprensibile” “patente ereditaria” sono alcuni degli accostamenti a sorpresa che costituiscono una peculiare cifra di stile), che Cavazzoni dispiega le sue straordinarie doti d’invenzione. Basta una banale gita di fine settimana sui laghi di Mantova o una rapida ricognizione delle fotografie di famiglia  per avviare la catena delle supposizioni, rovistando nello sciocchezzaio delle nostre vite quotidiane, nella pattumiera della nostra cosiddetta civiltà: ci sono tutti i luoghi comuni, i tic, i diktat del mondo d’oggi: il turismo obbligato, la fiducia nell’intercessione dei santi (Miracoli a Medjugorje), l’arte contemporanea con le sue follie (La moderna arte potrebbe fare miracoli), l’attesa di un premio in un’altra vita (Il paradiso dei terroristi, Come si vive nell’aldilà), il miraggio della ricchezza (Lo squattrinato e il milionario).

  

La forza del riso dissacrante non risparmia nessuno, nemmeno la figura del narratore, che non si erge mai a giudice fustigatore dei costumi, ritagliandosi un posto nel teatrino di questa galassia dei dementi, in cui tutti siamo chiamati a recitare una parte. E non è forse un caso che il primo posto della raccolta sia riservato da Cavazzoni proprio a un’avventura della sua giovinezza, al tempo in cui si era messo in testa di fare politica e aveva partecipato a un comizio organizzato dal partito comunista a Bologna, dove era arrivato da Reggio Emilia, sua città d’origine, per frequentare l’università. Doveva parlare per tre minuti a nome degli studenti in lotta (era il 1968) a un comizio di Pietro Ingrao in campagna elettorale, da un palco fitto di autorità, di fronte a ventimila persone. Era l’ultimo a dover intervenire per introdurre il discorso del candidato, dopo il sindaco, il segretario provinciale e dopo un’operaia in lotta. Aveva 19 anni. Ha cominciato a parlare. Ha visto tutto bianco. È svenuto. Comizio rovinato, tutto si smonta, l’atmosfera non è più la stessa. Ha fatto perdere voti? “Non lo so, – risponde Cavazzoni – ma è da qui che è partita la crepa che poi è arrivata fino al muro di Berlino e lo ha fatto cadere”.

  

Cavazzoni scherza ma non troppo quando getta ponti impensati fra le microstorie e i grandi avvenimenti celebrati nei libri di scuola. Nei suoi racconti troviamo la fine dei dittatori, di Mussolini, di Hitler, di Stalin, ricostruita con la precisione documentaria che gli viene dall’assidua frequentazione dei saggi di  storia contemporanea, di cui sono pieni gli scaffali della biblioteca di casa sua; i ritratti di grandi scrittori in punto di morte (Voltaire conteso, Gogol’ nell’ultimo istante); figure di cui s’ignora l’esistenza (Il fratello segreto di Pascoli, I raccoglitori di cose, I solitari pittori del Po); istantanee degli amici (Avventure con Celati, La civiltà degli scarafaggi, dedicato a Ugo Cornia). Da ogni figura, da ogni racconto, come in un moderno lunario, possiamo trarre un suggerimento, una piccola ricetta, una massima, per quanto possa apparirci paradossale, di cui fare tesoro: “Io personalmente, dovessero chiedermi un parere, sconsiglio il paradiso”, ci dice Cavazzoni affacciandosi dalla quarta di copertina. Sorridiamo, anche se sull’assunto da cui tutto prende le mosse c’è ben poco da ridere: “non si può dispensare falso ottimismo, l’uomo sarà sempre una bestia maledetta”, si legge in un pezzo folgorante uscito sul “Sole 24 ore”, Perché si sorride in foto, che filtra i costumi del mondo contemporaneo attraverso la lente di un singolare pessimismo comico. Perché l’abitudine di mostrarci allegri nelle fotografie è relativamente recente e coincide con le grandi tragedie del secondo dopoguerra, la guerra in Vietnam, la guerra in Corea, le bombe in Medio Oriente, il crollo delle Torri Gemelle, la diffusione dell’AIDS, la sovrappopolazione, l’aumento del debito pubblico, la stagnazione. Noi continuiamo a sorridere. Bene, ci suggerisce Cavazzoni, “sarebbe opportuna in foto una decisa disapprovazione” o almeno “una posa leggermente guardinga, un occhio al cielo, l’altro in camera. I posteri capiranno”. E apprezzeranno.

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Il pessimismo comico di Ermanno Cavazzoni
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Hanna Polak, il cinema di comunità

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C’è un ritmo silente e rapido che raccoglie – nel cinema – l’istante che ci abbandona, trasformandosi in calco indelebile e devastante che sovrasta le nostre relazioni umane.

 “La facoltà di giudicare bene e di distinguere il vero dal falso è per natura eguale in tutti gli uomini, e che perciò la diversità delle nostre opinioni non dipende dal fatto che gli uni siano più ragionevoli degli altri, ma semplicemente dal fatto che conduciamo i nostri pensieri per vie diverse e non consideriamo le stesse cose”. Questa riflessione di Cartesio, del 1637, può ben introdurre la particolare azione di Hanna Polak sul cinema documentario: non considerare le stesse cose, restituendo con l’obiettivo anche il fuoricampo delle vite ai margini.

Per la Polak il cinema non è solo un metodo che può disvelare conoscenze, condurre indagini o sintetizzare una particolare visione di mondo, ma è essenzialmente un linguaggio che deve crescere insieme all’oggetto che filma. E questa crescita non è solamente autoriale ma è innanzitutto biologica e affettiva: ovvero fa parte di un film che azzera l’occhio sull’estetica per – letteralmente – convivere con la storia. 

 

È quello che possiamo chiamare cinema di comunità, ovvero quel tipo di cinema che precipita nella vita.

Il modo che Hanna ha di filmare si rivela da subito, già nella corrispondenza epistolare per comunicare i suoi spostamenti da un luogo secretato in cui sta lavorando e prendere gli accordi organizzativi relativi al suo workshop tenuto poi all’Accademia di Belle Arti “Mario Sironi” di Sassari. Scrive: "Parto oggi dal luogo dove sto filmando. Grande amarezza. Per noi è solo un film, per loro è la vita". 

Senza saperlo Hanna si è già connessa col titolo che si era dato all'incontro con lei, "il cinema dentro la vita". Il suo modo di fare documentari entra in ogni molecola di vita delle persone che incontra e raccoglie – all’etimo – sotto la protezione della macchina da presa. 

Nessuna forzatura narrativa, nessuna reificazione dei fatti, nessuna manipolazione degli sguardi.

È testimone proattiva della vita dei suoi personaggi, lascia che la potenza, l'energia e il pericolo del reale si espandano davanti a lei, col solo scopo di essere possibile catalizzatore di mutazioni incipienti. Quindi nel suo cinema è bandita l’indifferenza, spezzata l’autoreferenzialità, assente ogni istinto gregario della rappresentazione. Niente a che fare, comunque, con la "mosca sul muro" tipica del cinema documentario “osservazionale” classico. Hanna interagisce con i suoi personaggi, ma soprattutto sono i suoi personaggi a interagire con lei. Li cattura nel lungo istante tragico: un istante elefantiaco in cui l’invisibile assurge, con lentezza estrema, all’autoritratto corale. Lo schermo, in tal senso, non è un’enunciazione che si focalizza in un punto luminoso, ma un dramma abitato da persone prossime; persone in carne e ossa di cui la Polak non raccoglie solo il pathos, ma l’essenza cristallina della sua relazione con loro.

 E tutto questo in un rapporto da pari a pari, dove non ci sono regista e personaggi, ma esseri umani che condividono un’esperienza, senza gerarchie e senza sceneggiature.

 

Hanna è in tutto e per tutto una documentarista "femminile", non soltanto perché è donna, ma anche perché persegue quella modalità di fare cinema documentario che è tipica di una cifra femminile, secondo una distinzione spesso richiamata da Lorenzo Hendel, organizzatore e animatore degli incontri internazionali del documentario nell’Accademia sarda: il femminile che tende a contenere, comprendere, accogliere, raccontare senza alterazione; il maschile che tende invece a dare una forma anticipata alla realtà che racconta, magari forzando la realtà stessa, forzando i personaggi e le situazioni. Una distinzione che non passa solo dalla appartenenza di genere del regista, perché una donna può attivare un paradigma maschile, e un uomo uno femminile.

In questo senso Hanna è due volte femminile. In più, nel suo cinema, il tempo non è un’arma ma una condizione da plasmare, un oggettivo e scomodo carattere della vita.

Polak è una regista non prolifica (per fare il suo film più conosciuto ci ha messo 14 anni) che usa il tempo nel solco di un patto antropologico con ciò che filma e, per questo, il suo lavoro è il rovescio di una serialità implosa in un unico e denso atto espressivo: atto che ritaglia del mondo un pezzo di realtà oltremodo cruda e senziente.

 

Hanna Polak ha iniziato il suo percorso artistico e professionale laureandosi all’Istituto Cinematografico della Federazione Russa, dove ha studiato sotto la direzione di Vadim Yusov, il Direttore della Fotografia di Tarkovski. Nel 2004 ha diretto il film documentario “The Children of Leningradsky” (I ragazzi di Leningrado), che ha ottenuto la nomination all’Oscar nella categoria del Miglior Cortometraggio. Dal 2000 al 2012 ha girato il film documentario “Something Better To Come” (In attesa di qualcosa di meglio), la storia di una bambina che vive nella discarica di Mosca seguita per dodici anni della sua vita. Questo film è stato premiato in oltre trenta festival internazionali.  Oggi Hanna Polak è una delle documentariste più importanti e affermate sul piano internazionale, i suoi lavori, caratterizzati da una grande empatia con i personaggi e da una immensa sensibilità, sono stati presenti da protagonisti in centinaia di festival in tutto il mondo e trasmessi dalle televisioni di tantissimi paesi.

 

Hanna, tu dici che il tuo incontro con il cinema è stato casuale, frutto di contingenze che non erano proprio il frutto di una tua scelta consapevole. Ci puoi spiegare come?

Certo, in realtà tutto è cominciato dalla solidarietà che sentivo verso i ragazzi homeless che frequentavano (e ancora frequentano) le stazioni della metro di Mosca. Sono bambini perduti, spesso abbandonati dalle famiglie, o trascurati da genitori distratti o spesso ubriachi. Bambini lasciati ai margini e guardati con diffidenza e spesso odio, eppure ognuno di loro porta con sé incredibili sofferenze e un grande bisogno di affetto. Allora ho pensato di aiutarli, portando generi di conforto, poi ho anche pensato di fotografarli, e a un certo punto perfino di fare un film su di loro. Il caso ha voluto che in quel tempo frequentassi degli amici che seguivano i corsi di Vadim Yusov (il direttore della fotografia di Tarkovski) all'Istituto Cinematografico della Federazione Russa, che mi hanno suggerito, se volevo fare un film sui ragazzi homeless di Mosca, di seguire quei corsi. Così ho fatto, e così sono diventata regista di documentari. E naturalmente la prima cosa che ho fatto è stata di fare un film su quei ragazzi (Children Of Leningradsky)

 

Per fare il tuo film più importante, Something Better To come  hai impiegato 14 anni.  14 anni in cui hai seguito una ragazza che viveva all'interno della più grande discarica europea (a Mosca) da quando aveva 10 anni a quando ne aveva 24. In un’epoca dove tutto corre e tutti corrono, cosa significa per te questa lentezza?

In effetti Something Better to Come ha rappresentato uno sforzo immenso, sia per girare le centinaia di ore che ho girato, sia soprattutto per montare quel materiale e dare ad esso una forma. Ma non è sempre così, ho fatto anche film in tempi molto più rapidi, ed il film che sto attualmente girando, iniziato lo scorso anno, dovrà essere terminato nel corso del 2020 per obblighi contrattuali con i produttori. Però è vero che il tempo per me è importante, perché il rispetto profondo che ho per i personaggi delle storie che voglio raccontare mi porta a tener conto dei tempi reali della loro vita, che non voglio modificare o alterare. Nel caso di Something Better to Come devo anche dire che l'interesse per un personaggio come Yula, la ragazza della storia, nasce molto prima di fare quel film. Come ho appena detto il mio interesse per il cinema era nato quando avevo desiderato fare un film sui ragazzi senza casa, e questo stesso interesse mi ha portato a seguire Yula, ragazza che non era senza casa e senza famiglia ma che abitava in una delle condizioni più misere e diseredate che si possono concepire, dentro una grande discarica. Così ho cominciato a frequentare quel posto fuori dal mondo.

 

 

Poi le riprese sono andate avanti per 14 anni. Ma questa durata della storia nel tuo film era stata decisa già dall'inizio o è venuta via via che il tempo passava?

No all'inizio non pensavo di seguirla così a lungo. Pensavo che la storia sarebbe terminata dopo che lei è stata costretta ad abbandonare il suo bambino, all'età di 16 anni. A quel punto ho cercato dei finanziamenti per chiudere le riprese e iniziare a montare, però le persone del mondo del documentario a cui ho mostrato le riprese fatte fino a quel punto mi hanno quasi imposto di continuare a girare, perché la storia era davvero importante e la continuazione della storia andava raccontata. Così ho deciso di continuare, e i soldi che intanto avevo ottenuto per fare il montaggio li ho invece usati per continuare le riprese.

 

A che punto hai capito che dovevi mettere un punto e che la storia era finita?

Quando Yula ha trovato un appartamento per sé e sua madre. A quel punto ho capito che nel suo personale destino si era arrivati a una svolta, e quello era il momento di mettere fine alla storia, e di cominciare a montare.

 

Come è stato il montaggio?

Inizialmente un inferno. Ho dovuto cambiare più volte il montatore, avevo bisogno di qualcuno che condividesse con me un'opera gigantesca, dare una forma a un materiale praticamente sterminato. Dare una forma vuol dire seguire un’idea di montaggio, trovare una storia che abbia un'anima, un senso. Alla fine ho trovato un grande montatore e l'avventura si è conclusa.

 

Cosa significa per te dare una forma alla storia?

È il momento più importante e delicato nella costruzione di un film documentario, il momento in cui vedi la storia che hai costruito cercando di prendere una distanza e di capire se quello che hai messo in fila nel montaggio è davvero il massimo che puoi estrarre da quella storia. Quasi sempre ti accorgi che non è così, che tu parti sempre da una visione semplificata della storia e dei personaggi, diciamo pure da dei clichè. Poi però capisci che nella storia c'è altro, ma per afferrare questo altro devi lavorare, scavare, scavare, andare oltre ciò che appare. Allora trovi altri livelli, nella storia e nei personaggi, e la tua storia si approfondisce, diventa speciale, inattesa. A quel punto sei davvero interconnesso con la storia che stai raccontando.

 

Riesci a fare questa cosa da sola?

No, hai bisogno di condividere. In questo senso il montatore è fondamentale, perché tu come regista sei troppo coinvolto, troppo immerso nella storia, hai bisogno di uno sguardo esterno. Con il montatore questo è possibile, ma lui deve essere davvero coinvolto, e allora a quel punto non ci sono più gerarchi, io non sono più il regista che ordina e lui il montatore che esegue. No, io divento montatrice, lui diventa regista, e insieme diamo vita a un processo di creazione.

 

Ma tu tieni sempre la telecamera accesa mentre giri i tuoi film o l'accendi solo quando accade qualcosa di importante? E come riesci a capire quando è il momento di accenderla?

Quando capisco la lingua e i miei personaggi posso capire abbastanza facilmente quando le discussioni tra loro riguardano argomenti importanti, quindi quando questo avviene accendo subito la camera. Magari perdo qualcosa all'inizio ma poi ho delle sequenze di dialogo lunghe e significative. Ma per esempio nel documentario che sto girando non capisco assolutamente la lingua, per cui devo cercare di basarmi sulla mia intuizione e capire dal tono della voce se quello che stanno dicendo è significativo. Però ci sono dei rischi, perché a volte hanno detto delle cose importanti ma col tono di banali osservazioni e quando ho scoperto di cosa stavano parlando ormai era troppo tardi. Ho parlato di questo problema con amici documentaristi e uno di loro mi ha dato una risposta significativa: per capire sempre quando è il momento di girare devi stare insieme a loro per più tempo. E questa è ancora una volta la chiave di tutto, stare con loro tanto tempo, entrare nella loro vita senza invaderla ma diventando parte della comunità.

 

Si torna ancora a parlare di tempo, che mi sembra un punto fondamentale

Sì, il tempo è davvero il punto focale di tutto. Tempo prima di girare, costruendo un rapporto umano profondo tra persone, senza la telecamera. Poi tempo nel girare, accompagnando lo scorrere della vita reale. E anche tempo dopo aver girato, per lasciare che il materiale che hai accumulato possa depositarsi nella tua testa, fermentare, dischiudere nuovi orizzonti dentro la storia e dentro i personaggi.

 

Il tuo modo di filmare è basato su una profonda empatia con i personaggi che racconti, ma i personaggi sono quasi sempre scelti all'interno di una umanità dolente e sofferente, e tu sei una persona estremamente sensibile, pare. Come fai a sopravvivere psicologicamente in questo mare di disperazione e di sofferenza?

Talvolta mi sento come un medico, che visita tanti pazienti, cerca di curarli per quanto può, ma cerca anche di non essere troppo coinvolto, perché certo non può salvare tutti, e soprattutto non può condividere la sofferenza di tutti. Però questo funziona quando sono in compagnia e devo comunque portare avanti il lavoro. Ma a volte non resisto, allora devo chiudermi in una stanza, e quando sono sola posso urlare e piangere... Poi esco e ricomincio a lavorare.

 

Il rapporto che instauri con i tuoi personaggi è così intenso che non può essere effimero, deve avere una durata nel tempo.

Certo. Il rapporto con Yula è inestinguibile, ci sentiamo ancora continuamente, ovunque mi trovo. Ci siamo sentite da poco, era preoccupata per me, mi ha detto di riposare di più e di non espormi.

 

Mi pare di capire che i tuoi rapporti con i personaggi è sempre paritario

Sì, i rapporti umani sono rapporti umani, quindi non ci possono essere gerarchie. Non c'è un regista e un personaggio della storia ma due persone che sono in relazione. Del resto anche nel film i ruoli sono reversibili. Avete visto che nel film verso la fine è Yula che si rivolge a me e che in qualche modo mi "intervista". Mi chiede cosa ho provato nel corso delle riprese e come mi sentivo verso di lei.

 

Già, capita spesso che durante le riprese i personaggi della storia si rivolgono a te e ti chiamano per nome. Quindi non ti va di essere una "mosca sul muro"

Certamente no. Io vivo con loro e interagisco con loro durante le riprese, e loro parlano con me come con una di loro. Che dovrei fare tagliare tutte le volte che pronunciano il mio nome? Non avrebbe senso. Anzi, il fatto di essere parte della loro comunità è un risultato per me, ne sono orgogliosa.

 

A quale progetto stai lavorando?

Sto portando avanti un progetto in una parte del mondo devastata dalla povertà e che darà voce a una comunità di persone che ha bisogno dell'attenzione del mondo per uscire dalla sua condizione. Per non compromettere questa difficile e pericolosa (per loro e per me) attività di documentazione, non è prudente – finché non avrò finito – nominare quella popolazione e quella regione. 

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