Quantcast
Channel: Tutti i contenuti con tag: Produzione
Viewing all 3499 articles
Browse latest View live

Ci saranno delle improvvise esplosioni, epidemie

$
0
0

“J. G. Ballard è uno dei pochi scrittori di fiction del ventesimo secolo dall’immaginazione così singolare da aver ricevuto un suffisso in inglese: in -esque o -ian, come nel caso di “Kafkesque” e “Dickensian””, scrive Simon Reynolds nel saggio che accompagna la traduzione inedita della video intervista All that mattered was a sensation che il grande scrittore inglese ha concesso a Sandro Moiso nel 1992, ora pubblicata in un’edizione bilingue corredata da un apparato iconografico e da una bella introduzione dello stesso Moiso, a cura di Francesco D’Abbraccio e Andrea Facchetti, per le edizioni Krisis. “Per alcuni lettori Ballard ha saputo imporre il suo modo di vedere tra i nostri occhi e il mondo”, tanto che è impossibile non pensare alla sua opera di fronte a eventi catastrofici, esplosioni di violenza, sesso traumatico, celebrità assassinate, comunità isolate che implodono, periferie degradate, grandi strutture stradali che sembrano ecosistemi autonomi ecc., che ritroviamo un po’ ovunque nella realtà degli ultimi decenni, dove le più cupe distopie del grande scrittore inglese, che apparivano solo estremizzazioni di aspetti appena accennati della società a lui (tra il 1960 e il 2000), sembrano essersi puntualmente realizzate, talvolta andando persino oltre la sua immaginazione. 

Reynolds, riprendendo e commentando alcuni spunti dell’intervista, districa e ricollega in una fitta maglia questi caratteri tra di loro e, in modo illuminante, ad aspetti della società e della cultura inglese fino ai nostri giorni, dalla politica alle nuove consuetudini, dall’urbanistica alla musica, con una scrittura tanto chiara quanto acuta. 

 

 

Il saggista definisce giustamente Ballard “un macchinario che produce paesaggi e scenari che aleggiano negli occhi della mente del lettore”, ed era abbastanza prevedibile che uno scrittore dotato di una tale forza visionaria, e anche predittiva, trovasse chi, reale o immaginario, nel proprio disorientamento nei confronti della realtà e di se stesso, ne facesse al contempo un’ossessione e il vademecum più attendibile per interpretare anche gli aspetti meno categorizzabili di un presente violento, caotico e incomprensibile. Tanto più che stiamo “vivendo in un istante perpetuo” come dice Ballard nell’intervista a Moiso citata: “la percezione del presente si è ampliata”, in esso “sono inclusi pezzi del passato e pezzi del futuro”, ma il futuro è sparito dall’orizzonte, chiusi in un mondo in cui “il cambiamento più grande è stato [proprio] la morte del futuro”.

È ciò che accade al narratore di Ballardismo applicato (Nero, 2019, p. 405), che ricalca in parte il suo autore, l’australiano Simon Sellars, e il suo curriculum esistenziale e artistico, sfociato soprattutto nel sito Ballardian, che è una miniera per chi si interessa dello scrittore inglese e costituisce anche un incunabolo di questo libro di difficile catalogazione. Anche se “romanzo”, denominazione così accogliente e malleabile a seconda dei tempi, va comunque benissimo per questo apparente coacervo (ma congegnato con grande accuratezza) che accoglie un bildungsroman non proprio esemplare e riuscito, avventure on the road, cronache di vario tipo, appunti di lettura, citazioni pure o con commenti alquanto spregiudicati (e interessanti), riassunti di saggi romanzi racconti e film, articoli di attualità, mitologie urbane, pubblicità, musica, programmi televisivi, descrizioni di luoghi e costumi esotici, periferie, gruppi umani, comportamenti in genere piuttosto aggressivi di gente di singolare ospitalità, come peraltro dimostrano le leggi sull’immigrazione di quella tanto, e tanto stranamente, appetita nazione, che non solo non hanno nulla da invidiare alle nostre ma da cui potremmo addirittura, ballardianamente, imparare. Il peggio è facilissimo da imitare. 

 

Simon Sellars.


Oggetto di letture giovanili compulsive del narratore, e poi di studi universitari e di un master mai portato a termine, Ballard è il filo conduttore, anche quando non appare, di tutto il volume, come un virus o una sostanza che genera visioni nel più ampio spettro del termine, incluse quelle di alieni e di spettri veri e propri, forse importati in Australia dagli inglesi e che poi lì hanno trovato un humus molto fertile, forse per incroci, ma solo immaginari, con il mondo del sogno degli autoctoni, che da questo libro sono peò assenti.

 

Il protagonista è un “adulto problematico e spiantato” … “totalmente incapace di ricevere amore. … un orologio spento, un pesce morto”, come gli dice prima di lasciarlo un’amica che resterà per tutto il libro il suo maggiore rimpianto (gli spiantati sensibili, sensibili quanto a sé intendo, ne hanno parecchi). Ha spiccate tendenze all’autodistruzione, a volte consapevoli ma non per questo seriamente contrastate. Non manca di talento e intelligenza, ma tutta la sua vita è costellata di fallimenti, pressoché sempre e in ogni settore. Ne deriva una paranoia a tutto campo, alimentata, e più ancora alimentatrice, dalle visioni che una personalità già disturbata di suo è incline a produrre, a maggior ragione se accompagnata da una pluralistica e assidua scelta di sostanze solide e liquide particolarmente efficaci, a cui a un certo punto vanno anche ad aggiungersi le pasticche prescritte dagli psichiatri, e largamente disponibili sul mercato (quelle con la colomba impressa che appare anche sulla copertina), che dovrebbero invece ridurre, o quantomeno contenere, la sua variegata psicopatologia.

 

 

Spinto dalla propria inquietudine e dagli studi ballardiani, il protagonista intraprende viaggi nella sua patria e fuori alla ricerca non sa nemmeno lui di che cosa, a dispetto di tutte le teorie che può costruirci sopra. 

Viaggi in cui ha modo di vivere molte esperienze di cui però non viene a capo, da avvistamenti UFO, incluso un presunto sequestro, alla persecuzione da parte di orde di ragazzini in ogni posto in cui si reca per convegni o per scrivere delle guide “Rough Planet”, di cui per un certo periodo vive e che sono un’occasione per dispiegare su tutto il pianeta la rete delle sue ossessioni. Ogni cosa trova il suo riscontro, e la sua illuminazione, in un passaggio, un’allusione, una citazione, un’implicazione delle opere di Ballard, si tratti di tendenze sociali, di mass-media, e persino di architettura, come quando usa Super-Cannes e Il condominio per leggere il quartiere creato da Piet Blom a Rotterdam, con analisi in più di un caso originali che molto contribuiscono alla bellezza e ricchezza del libro. Certo bisogna passare sopra, a volte, a qualche sovraccarico stilistico, a metafore e immagini forzate che a forza di tirarle si sfilacciano e magari si rompono, a qualche cliché dell’immaginario della science-fiction e dell’emarginazione ecc. (“muri disintegrati … che collassavano gli uni sugli altri provocando un’esplosione di antimateria che faceva franare le strutture dello spaziotempo”: cose così…). Eppure bisogna accettare queste forzature senza troppa puzza al naso, perché fanno parte da un lato dei momenti di schietto delirio, che come è noto gli stereotipi si nutrono, e sono riflessi degli automatismi che l’universo ballardiano sempre incombente scatena dall’altro, tra il critico, l’allucinatorio e il mimetico. Non tutto è delirio di interpretazione, in ogni caso. A parte che il delirio ha una sua bellezza e ricchezza (e potenza, per quanto non sia consigliabile su larga scala).

 

 

La realtà mostra il suo aspetto nascosto, l’inedito e l’incomprensibile trovano un senso, per quanto spesso perturbante. Niente di significativo del recente passato, del presente, come anche del futuro prossimo (reale o inverato a posteriori) resta inevaso. Niente tranne ciò che quelle stesse illuminazioni nascondono, reso invisibile dal loro grande bagliore o cancellato dall’ombra che producono. La realtà, più che essere spiegata dall’interpretazione, conferma la pre-visione. L’opera di Ballard, insomma, offre al narratore, come un oroscopo minuzioso e crudele, una visuale su ciò che gli e ci spetta a breve termine, poco consolante, anche nei suoi protagonisti non disgiunta da forza e coerenza.

“Ci saranno delle improvvise esplosioni di eventi politici, o culturali, epidemie, o forse serial killer, o qualsiasi cosa che squarcerà la superficie di tutta questa periferia. Ci sarà questa strana combinazione di noia e frenesia”, rivolte della classe media, nuove forme di fascismo, dice ancora Ballard nell’intervista citata. 

 

E la violenza è una delle cifre anche del libro di Sellars. Il protagonista infatti incontra sempre gente incazzata, ubriachi, drogati, bikers in cerca di rissa (ovviamente), automobilisti che investono ciclisti senza ragione, per disprezzo e divertimento, attori e uomini pubblici che invitano a farlo, a liberarsi di questi insetti su due ruote, e ragazzi che li prendono in parola, gente ostile senza ragioni, aggressiva a tutto tondo e propensa alla brutalità, anche se viene il sospetto che a volte sia lui stesso a estrarre il peggio dagli altri non curandosi di celare o attenuare il peggio di sé, provocandoli con il suo comportamento o le sue parole, ovvero con il suo semplice lì dov’è e essere quel che è, che a volte basta e avanza. Comunque sia L’Australia che viene descritta appare come un posto orrendo abitato da gente orrenda. Non è il solo luogo che sfoggia queste commendevoli qualità, ma supera gli altri di gran lunga. Spazi selvaggi, detriti, masserizie e rifiuti gettati ovunque, dove capita capita, edifici abbandonati, terreni vaghi che si espandono sempre di più tra capannoni fabbriche e grandi magazzini cadenti, dove l’unico spazio vivibile per la maggior parte della gente sono gli abitacoli di macchine, truck, pick-up, camion e autotreni corazzati, l’unica casa la rete stradale o le piste che si perdono nello spazio aperto, “territorio di suprema, mitologica violenza” dove l’eroe ideale è Mad Max. Sono gli spazi di confine che Ballard chiamava “Edgelands”: “scarti del centro”, dice Philip, un amico (si fa per dire), del protagonista, “che trasforma in deiezione tutto ciò che non riesce a comprendere, tutto ciò che vede come una minaccia”; “luoghi in cui il futuro è sempre sul punto di accadere”, minaccioso, deprimente e euforico di volta in volta, o allo stesso tempo, quasi sempre pericoloso, “una giungla di interfacce” che sono però ciò che interessa e attrae, e si direbbe calamita, il narratore.

 

I personaggi che questi incontra sono strani (come Philip), e ancor più strani, o orribili, se all’apparenza “normali” (come gli accademici e gli stessi specialisti di Ballard che a mummia accademica lo hanno ridotto, come a neutralizzarne la visionarietà provocatoria e più reale del reale, vera di una verità ancora a venire); o oppure solo strambi e curiosi, come il giapponese telepatico capace di convocare a sé gli Ufo, che sembra pure capirlo e dargli persino consigli ragionevoli (a meno che non sia uno dei suoi allucinati doppelgänger): tutti però che, in modo conforme alla personalità che il narratore traccia di se stesso, incidono solo per quanto sanno inserirsi nel suo mondo altrettanto balengo e confermarlo. È lui infatti il fulcro e l’orizzonte di tutta la narrazione, gli altri personaggi hanno pochissimo spazio, sono figurine più che figure. Persino quella della donna amata, Catherine, che lo scrittore non nega al suo protagonista (l’amore non si nega a nessuno, tanto meno al lettore, meglio se infelice, effetto dell’inconcludenza), e compare solo in pochi passaggi, il più lungo dei quali è un sogno. Cosa che fa pensare, al di là della sua prevedibilità. Si tratta di un procedimento meditato però, un mostrare la figura indispensabile a ogni storia per poi sottrarla al lettore e alla storia stessa e usarla solo per qualificare il narratore e porlo davanti alla propria scempiaggine e inanità a dispetto della sua innegabile intelligenza, o forse a causa di essa; per marcare con maggior forza le “esperienze di distacco” che costellano le sue relazioni con luoghi, cose e soprattutto persone, e ne costituiscono una delle ricorrenze principali assieme alla regola ballardiana del rovesciamento di ogni cosa nel suo contrario, del “bianco [che] diventa nero”. Che però raramente si rovescia a sua volta diventando di nuovo bianco. Il bianco è ciò che esiste, è sorgivo, in divenire; il nero definitivo.

 

 

Tutto viene visto, e in parte anche raccontato, con i sensi alterati, da punti di vista depressi o sovreccitati, siano droghe, psicofarmaci, alcol, o solo memorie e letture. Anche la sua vita sembra muoversi sempre in spazi marginali, mappati in modo incerto, dove ciò che accade magari non è lì, ma solo limitrofo, a venire; dove il sonno succede e lascia spazio all’allucinazione, la stanchezza alla paura, l’agitazione all’allarme e questo alla paranoia. E nondimeno l’effetto è spesso, per lui, solo la noia pura e semplice. I contorni [sono] labili e sfuggenti”, la “mente [è] stremata dal dolore”, preda di uno stato “apocalittico e spaventato, perennemente all’erta”, che se non è “euforico” è depresso, che è lo stesso. La normalità (se mai esiste da qualche parte), la calma, la lucidità, non si dice la serenità e il benessere, non hanno nessun ruolo, sembrano, loro sì, un racconto di fantascienza. 

 

In un’intervista Ballard ha detto che il suo eroe tipico “si ritrova a raccogliere una sorta di crisi esterna” e radicale, che passa per catastrofi e situazioni estreme in genere, che egli accetta e assume invece di fuggirle, ma “questa crisi gli consent[e] di scoprire la sua vera identità”, cosa che invece in Sellars non avviene: anzi, nel suo libro è tutto un precipitare del protagonista nella confusione di piani e di luoghi, letterario e psicologico, di finzione e di realtà, fino alla dissoluzione e alla perdita dell’identità, all’autoannientamento. Quando qualcuno cerca di fermarlo, per lui è un sollievo. La prova che ci si preoccupa, sia pure professionalmente (psichiatri) o con altre mire (tutor, amici), di lui; ma non serve a niente. La libido (auto)destruendi permane e, dopo una pausa, riprende e si aggrava. “Come se la [sua] mente avesse deviato verso una fascinazione che un tempo aveva l’aspetto dell’orrore”. Non c’è guarigione. E tanto meno redenzione. Peraltro nemmeno cercata. 

 

Che poi tutto ciò sia la premessa di una rinascita diversa, una palingenesi necessaria in questi tempi (pre)apocalittici, non è detto e nemmeno suggerito. A meno che questa premessa, o la sua preparazione, non sia, per l’autore, il suo stesso libro. La storia che egli racconta infatti, il fatto stesso di raccontarla, e che a farlo sia un narratore intento a ricostruisce la propria biografia, con tutte quelle scorie che nella raccolta differenziata sono destinate al secco apparentemente non riciclabile, pronte per l’inceneritore, non potrebbe essere proprio la prova che essa sia in qualche misura avvenuta? Senza ripescare il santino consunto della scrittura che salva e redime, un segno di cambiamento lo è di sicuro. L’organizzazione di un materiale caotico in uno spazio concluso e ben delimitato (un libro), costituisce già un’esperienza, per quanto non bell’e confezionata in tante piccole dosi pronte all’uso per ogni occasione, bensì in un insieme da risistemare e applicare alle circostanze dalla vita e della mente di ogni lettore, in modo inedito e magari spiazzante, come fa Sellars con Ballard, e come dovrebbe fare ogni lettore con ogni libro che valga qualcosa, come appunto quello di cui termino qui di parlare.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Ballardismo applicato
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Juan José Saer, per una letteratura fluviale

$
0
0

All’inizio del secondo quarto del XVI secolo, grossomodo mentre in Europa Lutero redige le sue tesi, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico una spedizione diretta alle Indie guidata da Juan Pedro Díaz de Solís per conto della corona spagnola, allora sul capo del “Cattolico” Fernando II d’Aragona, porta per la prima volta uomini del vecchio continente a solcare un nuovo mare, dulce, come ebbe subito a battezzarlo proprio Solís dopo averne assaggiato le acque. Lo stesso mare che poi, derubricato a fiume e temporaneamente celebrato come Río de Solís, prese infine la denominazione di Río de la Plata, fiume dell’argento, da cui il nome quanto mai ingannevole della nazione che ne segue la sponda sud, l’Argentina.

Più che un nome, «un flagrante abuso verbale, perché in tutto il territorio nazionale non c’è mai stato un solo grammo di quel metallo». Se, infatti, «la denominazione Mar Dulce corrispondeva a una certa verità empirica, e quella successiva di “río de Solís” aveva una ragione commemorativa, […] il nome definitivo di Río de la Plata non indica altro che una chimera» (Juan José Saer, Il fiume senza sponde, trad. it. di Gina Maneri con gli allievi della scuola di specializzazione in traduzione editoriale Tuttoeuropea di Torino, La nuova frontiera, Roma, 2019, p. 111). Una chimera: un miraggio esotico d’infinite ricchezze che portò alla morte lo stesso Solís, trafitto da una freccia avvelenata durante la prima esplorazione di quelle mutevoli sponde e subito dopo fatto carne sacrificale da banchetto, a segnare l’inizio d’un già cruento rapporto tra popoli e culture.

 

 

Perché, come noto, gli spagnoli non trovarono da quelle parti quanto vagheggiato. Trovarono invece soltanto distese d’acqua indocile e fango, fame, un clima piuttosto indecifrabile, spesso avverso, e numerose tribù variamente antropofaghe e nude: umani talmente “indietro” rispetto al tempo lasciato in Europa da far loro evocare alternativamente la creazione, la selvatichezza o la barbarie.

È così che comincia la storia documentata dell’immenso Río de la Plata, corso d’acqua anomalo per la sua specie in cui «manca […] ciò che, nella configurazione di tutti i fiumi, riposa lo sguardo e tranquillizza, completando l’idea, l’archetipo del concetto stesso di fiume: la sponda opposta» (ivi, p. 27). Un fiume che, nascendo dalla confluenza dell’Uruguay e del Paraná (a loro volta generati da innumerevoli confluenze e separazioni), trascina detriti di terra amazzonica e andina fin dentro l’Atlantico e segna con la sua distesa d’acqua «immobile, immemore e vuota» (ivi, p. 13), inscritta nella sconfinata pianura d’attorno, suo sterminato bacino, una «geografia astratta» in cui «certi atti umani, individuali o collettivi, certe presenze fuggevoli, hanno acquisito la massiccia perennità delle piramidi o delle cattedrali» (ivi, p. 22). Un luogo cioè essenzialmente immaginario, ancorché del tutto reale, e incapace di adattarsi al concetto di confine. Perché «per Río de la Plata si intende sia il fiume propriamente detto, sia l’insieme formato dalla regione della pampa e dell’Uruguay, ma a volte diventa addirittura sineddoche per indicare l’Argentina tutta e persino il Paraguay» (ivi, p. 37).

 

Ed è su questa stessa linea astratta, ingannevole, aleatoria, talvolta iperbolica, sicuramente contraddittoria come le cronache registrate dai primi viaggiatori bianchi, e di certo profondamente letteraria, che se ne può leggere la storia successiva. Una storia fatta di commistioni, abbandoni e appropriazioni, come quelle che in principio hanno visto avvicendarsi colonizzatori umani e non umani nella genesi dell’attuale civiltà fluviale: dagli indios e dai guanachi nativi fino ai primi spagnoli, ai negrieri e ai loro schiavi africani, dalle mucche e dai cavalli – «Si può dire che nella pampa sia stato il bestiame, bovino ed equino, a creare la civiltà, e non viceversa» (ivi, p. 71) – fino agli immigrati europei dei secoli XIX e XX, passando per varie combinazioni tra i mentovati viventi: esempio ne sia il gaucho, essere squisitamente letterario, impensabile senza bovini ed equini, che ha frequentato più le pagine di Hernández e Borges che la realtà storica.

 

Così, seguendo il corso esteso del Río de la Plata nella storia e nell’immaginario, da quel primo sbarco spagnolo fino alla dittatura argentina del passato recente e oltre, Juan José Saer, incitato dal suo editore, scrive El río sin orillas: tratado imaginario, volume del 1991 oggi edito in Italia come Il fiume senza sponde. Trattato immaginario da La nuova frontiera, editrice romana che da qualche anno sta pubblicando l’opera narrativa di colui che Beatriz Sarlo, e con lei molti, definisce il più grande scrittore argentino della seconda parte del Novecento, collocandolo nello spazio apicale che fino agli anni Sessanta era occupato da Borges (giudizio che Ricardo Piglia considera addirittura riduttivo).

Per questa sua natura di “libro su commissione”, e per il suo posizionarsi al confine tra la prosa romanzesca e il saggio storico – «In questo libro non c’è un solo fatto volutamente fittizio» (ivi, p. 16) –, Il fiume senza sponde occupa senza dubbio un posto peculiare nell’opera di Saer. Anche perché, come potrà avvedersene un lettore già avvezzo al nostro, oltre a tracciare una mappa storico-culturale e letteraria del fiume, del suo esteso bacino e delle innumere acque che lo popolano (ríos, riachos, riachuelos, arroyos, cañadas e così a seguire), racchiude pure una densa serie di riferimenti utili a dare un ordine alla produzione narrativa dell’autore. Ed è di questo che si proverà brevemente a dar conto, restringendo il campo soltanto ai romanzi finora comparsi in traduzione qui in Italia.

 

Nato nel 1937 a Serodino, nella provincia interamente inscritta nella Cuenca del Plata di Santa Fe, e trasferitosi nel 1968 in Francia, dove insegnerà fino alla morte sopraggiunta nel 2005, a partire da En la zona (prima raccolta di racconti datata 1960) Saer ha infatti costruito, in maniera del tutto atipica, un coerente mondo letterario calato per intero nella pianura rioplatense, tracciandolo sopra vari segmenti storici cruciali nelle vicende argentine. Segmenti che libro dopo libro, in maniera disordinata, cioè non rispettando un ordine cronologico nella sequenza delle pubblicazioni, hanno dato vita a una linea lunga e articolata quanto quella della storia con cui abbiamo qui iniziato (in proposito si legga Florencia Abbate, El espesor del presente: tiempo e historia en las novelas de Juan José Saer, Editorial Universitaria Villa María, Córdoba, 2014).

 

Così come la storia documentata del Río de la Plata comincia con una nave spagnola che ne solca le acque venendo da Est, allo stesso modo avviene in Saer con El entenado (pubblicato nel 1983 e tradotto in Italia come L’arcano da Laura Pranzetti per Giunti, Firenze, 1993 e poi ristampato da La nuova frontiera, Roma, 2015). Qui un giovane mozzo del XVI secolo racconta, quale unico superstite, l’esito nefasto del primo viaggio spagnolo dentro e oltre la foce del Río de la Plata, quando la sua ciurma percepì «un odore di origine, di formazione umida e travagliata» spandersi in una «pianura di un verde terroso che si estendeva ininterrotta fino all’orizzonte, senza altro contrasto oltre al cielo» (ivi, pp. 22, 30), a preannunciare così il primo incontro con gli indios, veicolato da una e più frecce scoccate dall’ombra per trafiggere il capitano della nave e tutti gli uomini dell’equipaggio, che poco dopo offriranno, debitamente smembrati, materia per un asado orgiastico, cannibalesco eppure innocente.

 

Il medesimo Río de la Plata che nel tempo aveva ospitato questo e altri simili pasti, con il suo orizzonte circolare, le sue straordinarie distanze e il suo clima altrettanto straordinario e indocile, si fa poi scenario anche del romanzo del 1997 Las nubes (Le nuvole, trad. it. di Gina Maneri, La nuova frontiera, Roma, 2017), in cui Saer ci offre una rivisitazione rivierasca del tema della nave dei pazzi: il viaggio di una composita e splendidamente affrescata carovana di guide indigene, medici, infermieri, pazienti, soldati, commercianti e prostitute diretta a una casa di cura immersa nella selva, a ripercorrere il periodo di stentata e parcellizzata urbanizzazione, il primo tentativo di colmare e antropizzare quegli spazi immensi, in cui all’inizio del XIX secolo si andavano faticosamente formando i nuovi e prodromici aggregati umani lungo le sponde del fiume, dei fiumi, con case e ranchos modellati di «fango, paglia, letame, legno e cuoio» (Il fiume senza sponde, cit., p. 128) per sopperire all’assenza di pietra, e con caratteristici empori, anche mobili, che «dovevano soddisfare una domanda variegata, amplissima, se non addirittura divergente [… e] avere prodotti necessari alla vita in città e alla vita rurale» (ivi, p. 165).

 

 

Se con L’arcano e Le nuvole Saer narra due momenti distanti, tra loro e da noi, nella storia rioplatense, due passaggi per essa egualmente fondanti, con gli altri suoi romanzi a nostra disposizione in Italia ha invece portato su carta storie del secondo Novecento, seguendo in un esteso arco temporale lungo alcuni decenni le vicende di un gruppo di personaggi diversamente marginalizzati e ormai posti sul frastagliato contorno della “società civile”, perché segnati dall’esperienza del peronismo e delle dittature. Tale esperienza, tuttavia, resta in Saer sempre profondamente in ellissi, non entrando nella narrazione neppure in accenno. È il caso de La pesquisa (L’indagine, trad. it. di Paola Tomasinelli, Einaudi, Torino, 2006; poi trad. it. di Gina Maneri, La nuova frontiera, Roma, 2014), pubblicato originariamente nel 1994, ma soprattutto di Cicatrices (Cicatrici, trad. it. di Gina Maneri, La nuova frontiera, Roma, 2019) e Glosa (Glossa, trad. it. di Gina Maneri, La nuova frontiera, Roma, 2019), romanzi rispettivamente del 1969 e del 1986.

 

Nel primo dei tre titoli appena citati, L’indagine, Saer costruisce un poliziesco perfettamente inquadrato nella tradizione argentina, ambientandolo a Parigi ma facendolo riportare, tramite una gustosa sovrapposizione di piani narrativi, da uno dei suoi usuali personaggi di cui sopra abbiamo accennato, di ritorno nell’acquitrinosa provincia di Santa Fe dopo vari anni di residenza in Francia. In Cicatrici, poi, dove resiste una vaga eco poliziesca, quattro differenti storie di marginalità e disagio si costruiscono indipendentemente e vanno infine a convergere attorno a un singolo fatto di sangue, dipanandosi in una struttura narrativa che, sia concesso l’azzardo, ricorda il gioco di quattro affluenti che convogliano le proprie acque in quelle di un unico bacino. In Glossa, infine, una passeggiata lunga ventisette isolati (le cuadras) di Santa Fe vede due amici intenti a ricostruire e a raccontarsi a vicenda, tramite versioni e racconti ascoltati da terzi, riflessioni e congetture personali, una festa a cui nessuno dei due ha partecipato, simulando nella narrazione (almeno a nostro uso) il tragitto irregolare di canali che fuoriescono e rientrano, tra anse, isole mobili, secche improvvise e deviazioni, in un grande corso d’acqua principale.

 

Ed è proprio in questi romanzi, soprattutto in Glossa e Cicatrici, che è rintracciabile quello che abbiamo imparato a conoscere come il mondo tipicamente saeriano: la «zona Saer», per seguire la già citata Beatriz Sarlo (Zona Saer, Ediciones Universidad Diego Portales, Santiago de Chile, 2016). Una zona decisamente letteraria eppure calata nel reale, popolata da soggetti umani comuni e per nulla ammirevoli che, per varie ragioni, sembra si distanzino profondamente dai modelli generati da due dei grandi e dissimili padri della letteratura argentina della prima metà del Novecento. Essi s’allontanano infatti tanto dai personaggi di Borges, tipi memorabili ed esemplari, nel bene o nel male, quanto da quelli di Roberto Arlt, che, pur marginali anch’essi, raccontano tuttavia un decadimento prettamente urbano, in una ritrattistica spesso caricaturale e portata all’eccesso delle storture e delle ossessioni umane.

Se poi la costruzione di questa zona, di questo mondo in sé coerente e identificabile in cui ambientare le vicende narrate, ci porta, seppure con la dovuta cautela, ad associare Saer ai suoi colleghi Juan Carlos Onetti e Alberto Laiseca, entrambi “costruttori” di un peculiare e distinguibile mondo letterario, e se il profondo ricorso alla dimensione ellittica (generalmente favorita da contesti golpisti, dittatoriali o comunque politicamente “delicati”) ci porta ad accostarlo ad autori argentini suoi contemporanei quali per esempio Rodolfo Walsh e Ricardo Piglia, facendolo rientrare dunque in solchi collettivamente tracciati sul piano letterario rioplatense, è invece soprattutto nella prosa e nello stile che troviamo il vero elemento distintivo del nostro, la vera cifra che lo distanzia dalla gran parte dei suoi corregionali, rendendolo autore unico e indipendente, autonomo e, di fatto, svincolato da qualsiasi gruppo o scuola.

 

Saer, infatti, fluviale non solo per discendenza geografica e contesto narrato ma anche per ispirazione prosastica (come abbiamo sopra suggerito con i brevi e azzardati riferimenti a Cicatrici e Glossa), si caratterizza con inusuale vigore per un precipuo utilizzo della lingua e della sintassi, programmaticamente convergenti in uno stile in cui si riconosce l’eco dell’oralità e in cui prevale l’adozione di strategie narrative che prediligono la ridondanza, il ricorso descrittivo a varie versioni di un singolo fatto e versioni di versioni, la proliferazione dei punti di vista, la ripetizione. Tutto questo tramite un incedere in cui domina il susseguirsi dubitativo di ipotesi, supposizioni e congetture, riportate nel flusso continuo di un periodare complesso e marcatamente articolato, che tra i testi citati trova in Glossa la sua espressione forse più compiuta.

Elementi, tutti questi appena elencati, che in fin dei conti ci portano a riconoscere un’inclinazione, un’esigenza, che in Saer pare dominante. Parliamo dell’ossessione per i particolari, nel dispiegamento di un mondo letterario ipertroficamente dettagliato e spesso contraddittorio che sembra trarre la sua ragion d’essere dal tentativo di cogliere quanto non può essere colto, ossia la verità nella sua interezza; e qui si ripresenta l’ellissi intesa non solo come strategia narrativa, ma anche come vero e proprio monito procedurale nell’approccio dell’uomo alla conoscenza del mondo.

Ed è così che torniamo al principio del nostro ragionamento, per chiudere tautologicamente con queste note. Perché se soltanto l’atto di nominare il Río del al Plata e l’Argentina rinnova ogni volta il «flagrante abuso verbale» cui abbiamo fatto riferimento sopra, e se la pratica e l’uso hanno ormai fatto carne le chimere ed eternato l’immaginazione facendole acquisire «la massiccia perennità delle piramidi o delle cattedrali», alla letteratura spetta il compito di decostruire questa menzogna, tracciandone la genesi o rimpiazzandola con altre più verosimili e dettagliate. E quale veicolo migliore per supportare una simile impresa se non quel fiume immenso e dissimile, generativo e staminale, che odora «di origine, di formazione umida e travagliata»?

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Il fiume senza sponde
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Taiuti/Musella, per un teatro dell’abbandono

$
0
0
Sottotitolo: 

Gennaio 2020. Nella Sala Assoli di Napoli ha da poco debuttato Play Duett 2, nuova creatura firmata Taiuti/Musella con i musicisti Vidino e Canciello, una sorta di veglia allucinata in forma di concerto in cui i talentuosi autori-attori napoletani – diversi per età e formazione ma accomunati da un simbiotico comune sentire – fanno incontrare tradizione e avanguardia, lirica e suono, canone e sperimentazione totale. Questo secondo lavoro si presenta in una forma più articolata e “rock” del precedente Play Duett 1 e richiama molto le atmosfere sfocate e underground delle cantine, con una quantità notevole di altissima poesia e libertà da ogni tipo di convenzione. Li incontro prima di una delle ultime repliche, terminate le quali il piccolo gruppo partirà alla volta di Pontedera. Mentre i due musici settano suoni e rumori, con Taiuti e Musella ci sediamo nei camerini per una chiacchierata a tre voci con sottofondo noise che ci accompagna fino alla fine. 

 

Tonino Taiuti e Lino Musella.


Prima domanda, andiamo un po’ indietro. Come vi siete conosciuti e da dove nasce questa collaborazione? Magari parla prima Tonino e poi Lino. 

Musella – Cerchiamo sempre di dare due versioni differenti (ridiamo tutti)

Taiuti – Ci siamo incontrati per la prima volta in occasione di Circo Equestre Sgueglia di Viviani fatto da Arias. Abbiamo lavorato assieme, ci siamo trovati bene, ci siamo innamorati. A prima vista. E abbiamo deciso di fidanzarci (sorride)

Musella – La versione è questa. Ci siamo effettivamente conosciuti in occasione di quel lavoro. C’era una cosa che abbiamo iniziato a fare fin da subito. Essendo in tournée, succedeva che magari facevamo una passeggiata e Tonino mi diceva: “Sient’ stu piezz’!”. Un frammento di una poesia, un frammento di un testo. Io rispondevo con altre cose, ognuno aveva un suo repertorio. Forse è stato questo l’inizio del ‘gioco’. L’attore possiede una memoria fatta di frammenti, magari anche di spettacoli che non ha fatto. Io sono pieno di frammenti di spettacoli che non ho recitato. È stata questa la prima connessione. Una volta finito lo spettacolo e la tournée, circa un anno dopo, Tonino mi ha proposto di fare una cosa insieme. Lui conosceva questo teatro Arcas (l’Arcas un piccolo teatrino off dietro via Foria, a Napoli, dove la primissima versione di Play Duett ha debuttato, con pubblico di una ventina di persone, inclusa la sottoscritta) e così siamo finiti qui. 

 

Come si compongono questi Play?

Musella – Il primo è nato proprio da quel meccanismo di cui parlavo prima. Metti insieme dei pezzi, un repertorio umano, prima ancora che attoriale. Tonino per esempio mi ha presentato tutto il repertorio Moscato che io un po’ conoscevo. Mentre io portavo Iacobelli (un poeta che ha tradotto i sonetti di Shakespeare in napoletano, alcuni dei quali sono finiti in Play Duett 1) non solo i sonetti ma anche altri testi. Questo secondo Play invece è completamente tematico. 

 

Voi giocate sempre, improvvisate. A livello di composizione come vi siete bilanciati per arrivare a una forma, quand’è che avete detto ok, siamo arrivati?

Taiuti – È la scena che lo decide, provando e provando. Siamo partiti con dei testi che poi abbiamo eliminato, poi ovviamente c’è la verifica con il pubblico. È abbastanza difficile da spiegare. 

 

Quanto tempo è durato questo processo creativo/ compositivo? 

Musella – Per me le prove giuste in teatro sono dieci giorni. Quindici sono ricchi. Però sotto quei dieci giorni ci deve essere una sostanza. Parlo di lavori esili, per due attori: questo con Tonino, la mia collaborazione con Paolo Mazzarelli. In questo secondo Play abbiamo lavorato molto perché c’è la presenza importante della musica. 

Taiuti – L’approccio è quello. Si è verificata un’intesa. Nel primo Play Duett siamo stati più veloci perché c’era già un bagaglio condiviso a disposizione, mentre in questo secondo Play eravamo quasi nudi, siamo andati a cercare i testi, studiare, sgrossare, togliere. 

 

Tonino Taiuti.


Mentre il primo Play è uno scambio, un fraseggio, questo secondo sembrerebbe un concerto…

Musella – È teatro. Noi siamo teatro. 

Taiuti – L’idea di base è creare un’opera musicale, può essere un’opera contemporanea questa, quasi da teatro lirico, con giochi di teatro sperimentale, d’avanguardia. La cosa interessante è come questi materiali s’innestano con la tradizione in maniera lineare, fino a sembrare un’unica lingua. A un certo punto sembra che stai facendo un testo unico. Un’opera come quella che può essere Laborintus di Sanguineti. Nel nostro caso la difficoltà è stata maggiore perché le lingue e gli autori sono diversi e tu devi farli diventare un’unica lingua, legata dai nostri corpi dal nostro modo di farlo diventare un solo percorso. 

 

Parlando di testo, questa volta sembra esserci più suono che parole

Musella – Abbiamo molti più testi ma abbiamo proprio scelto, stavolta, di andare a togliere, a ridurre. 

Taiuti – La parola diventa anche un suono, va di pari passo con la musica. Ci piaceva lavorare ad asciugare la parola per farla diventare un unico suono. 

Musella – Il concerto è la forma scenica, ma noi non facciamo un concerto. Noi facciamo sempre la stessa cosa: abbandono. Per noi l’obiettivo è sempre che l’attore deve trovare un momento di abbandono, deve respirare, vivere. Anzi, in relazione al tema dello spettacolo, che in questo secondo Playè quello della morte, ci sono proprio dei feticci di vita. Per provare a respirare in scena, senza la responsabilità di un plot, né di virtuosismi che ci obblighiamo a fare in Play Duett 1. Qui invece è proprio uno stare, un abbandonarsi, un vivere. Non è un concerto ma un pezzo di vissuto. 

 

Nel primo Play i testi andavano da Moscato a Viviani a Shakespeare tradotto in napoletano. Parliamo dei testi che compongono questo secondo lavoro. 

Musella – Rabal, Rosso di San Secondo, Conversazione con la morte di Testori, Congedo del viaggiatore cerimonioso di Caproni. Molta poesia. Quello che viene fuori rispetto a questo lavoro è il rapporto con l’argomento che qualche volta ci ha suggerito di prendere delle distanze, di andare ancora di più in zone fisiche, di usare parole in meno, lavorare tanto con la musica e il suono che più di tutto possono raccontare la morte. 

Taiuti – C’è molta libertà, è come se noi non avessimo niente. È una pagina che devi riempire teatralmente, non hai riferimenti ma frammenti. C’è questo nero che ti dà energia, mistero, non sono i testi. Ti guida altro. La tua anima, la tua storia, il rapporto che hai con l’altro. 

 

C’è un po’ l’atmosfera dell’avanguardia, delle cantine. Questa cosa ve la siete andata a cercare?

Taiuti – Quello è il nostro, il mio modo di fare teatro, è la forma di teatro che conosco di più e in cui so più esprimermi. Non lo cerco, lo faccio sempre nei miei spettacoli, anche quando lavoro da solo. Con Lino è stato un miracolo: dall’altra parte ho trovato una persona che ha le stesse esigenze, le stesse passioni, lo stesso modo di approcciarsi al teatro. L’abbandono di cui lui parla non sempre puoi condividerlo con gli altri, questo mistero che c’è dietro e che si sviluppa sera per sera. È come se il teatro mi tirasse dentro. Io metto la vita, metto me, Tonino, però poi ogni tanto è come se qualcuno mi dicesse: tu non sei solo Tonino, sei anche qualcos’altro. Questo gioco a me piace molto. Lo riesco a fare solo quando sto da solo o con Lino. Con altri non mi è mai riuscito, tranne quando lo facevo con Antonio Neiwiller o con Silvio Orlando. 

Musella – Io non vengo da quel tipo di mondo lì. Io ho iniziato molto presto a occuparmi di teatro ma non ho avuto una formazione avanguardistica. Io non sapevo niente di sperimentazione. Se per sperimentazione s’intende Bob Wilson, allora sì. Mi è capitato di fare allestimenti al teatro Politeama per lui. Ma de Berardinis, Carmelo Bene, li ho scoperti molto dopo. È strano perché è come se avessi trovato in questo modo di lavorare qualcosa che appartiene più a me come persona, che a me teatrante. Io sono così nella vita. In questo modo di stare, d’inventare, di giocare ho trovato qualcosa che mi corrisponde umanamente. In questo gioco mi si è liberato qualcosa e ho detto: io sono questo. Io in stanza da solo sono qualcosa di molto simile a questo. 

Taiuti – Il teatro è anche fatto di scazzi, odio, amore, qua non succede. C’è una grande energia condivisa.

Musella – Siamo in una zona un po’ spirituale del nostro lavoro. A volte ti succede di attingere a delle zone in cui più che recitare preghi, più che stare, ascendi. E questo è il risultato di un artigianato. Noi sappiamo come combiniamo i nostri frammenti. Ragioniamo come musicisti. Credo che alla fine formalizziamo secondo una dinamica musicale. “Senti sto pezzo, senti quest’altro. Che dici se dopo ci mettiamo questo?” Non è come lo fai o non lo fai o cosa dice la parola. È qualcosa che ha a che fare con il suono. 

 

Lino Musella.


Secondo voi cosa vi accomuna? Oltre dal punto di vista personale, sembra che ci sia qualche radice teatrale profonda 

Musella – Io sento sicuramente una somiglianza, con le dovute differenze. Io ce l’ho già un compagno con cui mi sento all’opposto (parla di Paolo Mazzarelli). La differenza con Tonino è lo scarto di età, di corpi.

Taiuti – Ci rispettiamo, questa è una cosa strana. Se lui mi propone una cosa, so che mi piacerà. E viceversa. Meccanismo difficile da creare a teatro. Sono quei miracoli che ogni tanto succedono. Io la sera ho il piacere di venire qui e stare con Lino, Marco e Luca. 

 

In questo nuovo lavoro sul finale ci sono dei guests in scena. Come mai?

Musella – Una delle ultime sere di Play Duett 1, vennero a vederci Monica Nappo e Cristina Donadio. Sul finale entrarono in scena, fu un intervento estemporaneo, non preparato, memorabile. Da qui decidemmo che nel prossimo Play avremmo voluto degli ospiti con una precisa funzione drammaturgica, ovvero salutare il “morto” in scena: il teatro è un rito in cui c’è anche la commemorazione funebre. Gli ospiti vengono a portare un contributo, delle parole. 

 

Verso il finale, Lino Musella monta una bara. Per chi la monti? Chi è quel morto? 

Musella – Lo monto per me. Anche se poi non ci salgo. Ne sono attratto ma poi ci va Marco (uno dei musicisti). Tutti abbiamo un rapporto con questa ritualità. È una cosa che mia madre ha culturalmente, ha fatto per tanto tempo la vestizione dei morti. Io l’ho ereditato da lei. Mi è successo di vestire più di un morto. All’inizio nello spettacolo lo facevamo, poi l’abbiamo tolto. Quel gesto non era pretestuoso ma era un feticcio della mia vita. 

Taiuti – Io penso spesso alla morte. Credo che sia anche qualcosa rispetto all’età, alla vita. Ogni volta penso: chissà se riesco a fare un altro spettacolo. Mi sono sempre sentito molto vicino a questo tema e l’ho approfondito molto in letteratura e in poesia. Poi si mischia al nostro teatro, alla nostra tradizione, alla nostra città. È qualcosa che ritorna quotidianamente in noi napoletani. (Fa una pausa, parla piano.) Soprattutto in questi ultimi anni. In questa città che io non riconosco più perché non ci s’incontra più. Non hai più possibilità di incontrarti con le persone, c’è questo consumismo, queste folle terribili, che ti fanno sentire veramente un fantasma. 

 

Si tratta di uno spettacolo completamente non convenzionale rispetto alla maggioranza della proposta scenica. Tonino, tu hai iniziato in un periodo in cui c’era molto più spazio e apertura per questo tipo di lavori. Perché uno dovrebbe fare questo oggi, ne vale (ancora) la pena? 

Taiuti – Io prima di fare uno spettacolo penso sempre che non valga la pena di farlo. Poi quando lo faccio, mi ricredo. Questo vale soprattutto per me. Non so se dall’altra parte si acchiappa tutto. Discutevamo proprio di questo: per me questo spettacolo è importante, è molto più forte del primo Play Duett ma, dall’altra parte, questo arriva? Questa condizione mi fa pensare: ne vale la pena? Poi quando la sera viene la gente a salutarmi, anche se c’è una sola persona, mi riempie di gioia. Alla fine il pubblico reale, non gli addetti ai lavori, è più intelligente di quello che uno pensa. 

 

 

(A proposito di addetti ai lavori, ho delle domande per Lino. Tonino allora si congeda e va sul palco a provare i suoni che diventano molto forti. A questo punto ci spostiamo nell’attrezzeria, ovvero uno dei camerini adibiti a deposito per tutti gli oggetti di scena dello spettacolo.) 

Tu sei un artista spurio, lavori e hai lavorato con registi diversi. Al contempo ti ricavi lo spazio per i tuoi progetti personali, come con Mazzarelli o Taiuti. Come ti collochi nel contesto teatrale italiano? 

Ogni tanto devo fare lo scritturato: così facendo ho fatto delle cose che mi sono piaciute, penso a Latella, De Rosa, Baracco, Martone. Anche quando faccio lo scritturato, per me è importante l’incontro con altri artisti, io mi diverto quando viene fuori qualcosa da questo incontro. Io non sono per il teatro di regia. Sono per l’attore- autore che costruisce anche in scena, per l’autonomia dell’attore. Spero che il rapporto attore- regista non sia mai un rapporto di potere. Un patto, non una costrizione. Non è un banale rapporto di lavoro. È qualcosa molto delicato. Un regista, come un allenatore, può dire: sei uno stronzo! E questo ti fa nascere delle cose. Sei tu che stabilisci che lui lo può fare. Bisogna insegnare agli attori che sono loro che possono tagliare questa cosa o possono tenerla in piedi. Se a te piace fare sesso sadomasochista che c’è di male? Però, se dici basta, basta. 

 

Qualche settimana fa, alla cerimonia degli Ubu, dove sei stato premiato come migliore attore per Night Writer di Jan Fabre. Antonio Latella, ex aequo per miglior regia (Aminta) con Massimo Popolizio (Nemico del popolo), al momento della premiazione, oltre a dedicare il premio alle donne che si ribellano agli uomini, ha detto che più di chiedersi dove va il teatro, sarebbe interessante sapere dove sta andando la critica che sembra un po’ confusa alla luce di tutti questi “ex aequo”. Cosa ne pensi?

Io ho un punto di vista molto preciso sulla critica italiana. Non si è ancora storicizzata la questione. Nel Novecento abbiamo avuto diverse figure teatrali importanti. Diversi capisaldi. Pirandello, Eduardo, Strehler, Carmelo Bene, Leo de Berardinis. E poi abbiamo avuto Franco Quadri. Quadri è dentro la storia del teatro italiano. È l’unico critico esistito che è stato importante nel teatro quanto i teatranti, ha mosso il teatro italiano. Franco Quadri è morto e i critici non hanno ancora elaborato questo lutto. Non hanno ancora capito che cos’è la critica. Perché è ancora troppo presto. Al premio di Franco Quadri non si parla, bisognerebbe elaborare la figura di Franco Quadri. I critici dovrebbero fare auto analisi, capire cos’è la loro posizione, la loro attività. Me lo ricordo io che ho trentanove anni: se stasera c’era Quadri si fermava il mondo. Franco Quadri non solo spostava le cose, ma t‘interessava proprio quello che poteva dire. Adesso questa cosa non c’è più, viene a cadere. Con la morte di Quadri è morto il critico e sono nati i critici, il sistema critico che da una parte è interessante, dall’altro funziona sempre più come rete. Con la sua domanda su dove stia andando la critica, credo che Antonio intendesse dire: che succede? E anche: non associatevi troppo tra di voi, mantenete un punto di vista personale, vostro, che ognuno si relazioni a quello che vede, non telefonatevi, non mettetevi d’accordo. Io sono per dare importanza alla critica, il critico è un innamorato del teatro, quindi li difendo sempre. Se non ci fossero i critici, bisognerebbe inventarli. Però credo che la critica si debba fare delle domande su di sé, capire cosa è successo nella sua storia, com’erano i critici e come sono adesso, non a cosa serve la critica. Siamo in Italia, Quadri è morto nel 2011 e non si è detto abbastanza. Perché? 

 

Non credo sia questa la sede ma hai voglia di dire qualcosa sulla “questione” Fabre, le accuse rivoltegli di abusi da alcune esponenti del movimento #metoo ripresa anche da un appello su Facebook? 

Io sono molto sensibile all’argomento, in generale: credo che sia la questione dell’oggi. Come detto più volte, sono aperto a qualsiasi tipo di confronto. Allo stesso tempo però credo che sia mancato e manchi un reale spazio di approfondimento sulla questione. Per tutto quello che ci siamo detti fino a ora rispetto al mio modo di fare teatro, credo che questo spazio di approfondimento vada cercato in un luogo fisico, reale e non virtuale. 

 

Ultime domande: cosa stai leggendo in questo periodo? 

Amelia Rosselli. Sono innamorato di questa poetessa e de La libellula. Se fossi una donna, lo farei subito. Infatti vorrei prima provarlo su di me e poi magari cercare un’attrice. 

 

I tuoi prossimi progetti? 

Sicuramente un nuovo lavoro con Paolo Mazzarelli, un progetto legato alla formazione: ci piacerebbe lavorare su dieci giovani, non stare in scena, creare dei gruppi di lavoro. Dopo alcuni laboratori è nata l’esigenza di farlo e di farlo adesso. Ora è il momento di dare. Poi con Tonino stiamo lavorando già alla terza tappa di Play Duett e chissà che non ci si possa incontrare tutti insieme... 

 

Fotografie di Sabrina Cirillo.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Scene napoletane
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Acido per i bambini

$
0
0

Molti anni fa un giornalista chiese a Thelonious Monk quale musica gli piacesse ascoltare. Monk rispose: amo tutta la musica. Il giornalista, insoddisfatto della risposta o soltanto a caccia di uscite sensazionali, insistette: anche la musica country? E Monk, come sempre serafico e imperscrutabile: quale parte di ciò che ho appena detto non hai capito?

 

Michael Balzary, in arte Flea, la pulce, co-fondatore e bassista del gruppo rock californiano dei Red Hot Chili Peppers, attore, produttore discografico e cinematografico, proprio come Monk è convinto che la musica abiti un regno superiore non riducibile alle crasse categorie dentro cui noi umani siamo soliti costringerla. Tutta la musica è veicolo di magia: even shitty pop music, dice Flea, anche la merdosa musica pop. Fa un solo distinguo: musica che ha un’anima, e musica che non ce l’ha. Crede che la funzione dell’arte sia quella di trasformare la rabbia e il dolore in amore.

 

 

Tutta la mia vita, racconta l’oggi cinquantasettenne Flea, è stata una ricerca verso il Sé superiore e un viaggio nella profondità dello spirito. Da ragazzino era convinto che la sola musica degna di essere ascoltata fosse il jazz. Grazie al patrigno contrabbassista aveva scoperto Dizzy Gillespie e s’era messo a studiare la tromba. La prima volta che sentì della musica suonata dal vivo fu nel salotto di casa, un’infuocata jam session sul tema di Cherokee, uno dei cavalli di battaglia di Charlie Parker. Fattosi adolescente scoprì che con il rock era più facile che le ragazze ti notassero, e allora cambiò strumento ed entrò nei Fear, uno dei gruppi di punta della scena punk californiana. Oggi, facendo sua una massima di Bob Marley, sostiene che non conta ciò che suoni e nemmeno la qualità di ciò che fai: conta la dedizione con cui ti sforzi di indirizzare il processo creativo.

 

Il memoir pubblicato da poco negli Stati Uniti, Acid for the children (Grand Central Publishing, pag. 400, con una prefazione di Patti Smith), racconta l’infanzia burrascosa di Flea dai giorni trascorsi nella natia Australia fino all’approdo con la famiglia negli Stati Uniti, dapprima a New York e poi a Los Angeles. Dei Red Hot Chili Peppers nel libro non si parla se non per brevi accenni: la morte del chitarrista Hillel Slovak, il primo pezzo scritto a quattro mani con il cantante Anthony Kiedis, il primo concerto tenuto con in repertorio un solo brano della durata di tre minuti. Il memoir si ferma lì, nel momento in cui il gruppo decolla. Chi fosse interessato alle vicende della band (abbandoni e rimpatriate del chitarrista John Frusciante compresi), dovrà verosimilmente attendere il sequel che lo stesso Flea annuncia in coda al volume con degli apribocca da giornaletto pulp:

 

 

Riuscirà Flea a fidarsi dell’amore?

Che cosa può realmente fare il circo del rock a un essere umano/porcellino d’India vulnerabile?

È questo mondo troppo crudele per Flea da sopportare?

Riuscirà a navigarlo senza trasformarsi in un emerito coglione?

C’è un prezzo da pagare per essersi sparato ogni sorta di droga per anni?

Dio esiste?

È possibile crescere quando inizi a fumare erba all’età di undici anni?

 

Ecco, cominciamo pure da qui: le droghe. Sulla copertina di Acid for the children Flea è ritratto in spiaggia, dodicenne o giù di lì, intento a prosciugare uno spinello. A pagina 194 del libro dettaglia invece le sostanze di cui ha smodatamente fatto uso nel corso degli anni: marijuana, LSD e allucinogeni, cocaina, metanfetamine, freebase iniettata in vena, ectsasy, funghi, eroina e oppiacei in genere. Flea si sente anche in dovere di aggiungere: oltre a qualunque altra cosa ci capitasse a tiro.

 

Leggendo il libro a più riprese ho pensato a Streetwise, un documentario uscito nelle sale americane nel 1984. L’anno prima la rivista americana Life aveva pubblicato un reportage di Cheryl McCall e Mary Ellen Mark intitolato Streets of the Lost, le strade dei perduti, che rivelava come anche a Seattle, ritenuta allora la città più vivibile degli Stati Uniti, vi fosse una nutrita comunità di ragazzini che vivevano per strada alla stregua di vagabondi, adolescenti fuggiti di casa che si arrabattavano alla bell’e meglio praticando lo spaccio, la prostituzione, chiedendo l’elemosina o perfezionandosi nell’arte del furto. Il reportage su Life suscitò grande scalpore e ispirò il documentario Streetwise, diretto dal marito di Mary Ellen Mark, Martin Bell, pellicola che ottenne una candidatura agli Oscar nel 1985 (il tema portante del film era una splendida canzone di Tom Waits: Take care of all my children– prenditi cura di tutti i miei bambini – poi antologizzata nel triplo Orphans: Brawlers, Bawlers, and Bastards). L’infanzia di Flea e dei suoi amici a Los Angeles richiama da vicino quella dei ragazzini randagi di Streetwise. Non è un caso se il 1984 è anche l’anno in cui uscì il film Suburbia, il primo che vide Flea nelle vesti di attore. Il film, diretto da Penelope Spheeris e prodotto da Roger Corman, narrava la storia di un gruppo di giovani punk senza fissa dimora a Los Angeles, e dipingeva un ritratto altrettanto crudo e impietoso della gioventù sbandata d’America.

 

 

Proprio come i ragazzi di Streetwise e di Suburbia, Flea e i suoi amici – il futuro chitarrista dei Red Hot Chili Peppers Hillel Slovak, ma soprattutto l’amico fraterno e futuro cantante del gruppo Anthony Kiedis – nel memoir attraversano infanzia e adolescenza in preda a un vortice di incertezza e di allarme che soltanto l’eccesso pare in grado di indirizzare: le droghe, l’alcool, ma soprattutto il perenne vivere sul filo del rasoio, la ricerca del rischio per il rischio, la folle e insieme coerente sfida nei confronti di un mondo che ai loro occhi risultava dannatamente quadrato. Se la droga è onnipresente, non lo stesso si può dire delle figure parentali. Sia Flea che Kiedis provengono da famiglie divise, con genitori disinteressati a esercitare il benché minimo controllo sui figli. Flea racconta che da ragazzino (dodici, tredici anni) trascorreva intere notti a zonzo per Hollywood, all’ora in cui su quei marciapiedi non s’incontravano altro che satiri, ubriaconi e relitti umani. Ricorda anche come una sera dei ragazzini l’avessero messo in guardia perché nel quartiere s’aggirava un lunatico armato di pistola. Per strada si potevano sentire le sue urla e i colpi d’arma da fuoco. Flea corse verso casa per sincerarsi che i genitori fossero al sicuro. Giunto a destinazione scoprì che tutti i vetri di casa erano andati in frantumi e che la porta d’entrata era stata sfondata. Facendosi coraggio entrò nell’appartamento. Distrutto. Tutto era sotto sopra. In un angolo, in mutande, sedeva Walter, il patrigno, il volto e il torace coperti di sangue. Accanto a lui, una pistola. Sfibrato e agonizzante guardò il ragazzino e disse: vai a cercare tua madre. Flea se la diede a gambe colmo di vergogna: il lunatico che aveva messo a ferro e fuoco il quartiere non era uno svitato qualunque, ma Walter, il patrigno contrabbassista. Quella notte, al pari di tante altre, Flea la trascorse ramingo per strada. I equated creativity with insanity, riassume oggi: equiparai la creatività alla follia. Più avanti, in uno dei passi più sentiti del libro, allorquando parla dell’amicizia con Anthony Kiedis (the convex to my concave; il convesso al mio concavo), scrive: ero sempre in cerca di amore, in cerca di una famiglia, qualcuno che mi guidasse attraverso il labirinto di essere un giovane uomo, qualcuno che mi fosse padre, fratello, maestro.

 

 

L’illuminazione, scrive altrove Flea, può manifestarsi nei luoghi più impensati. Fra i lavori che svolse prima di diventare musicista, vi fu quello di ricezionista nello studio veterinario del dottor Miller, un uomo buono e saggio che pur riconoscendo in Flea un ragazzo problematico (pazzo e fuori controlloè l’autodefinizione di Flea) decise di assumerlo: aveva visto qualcosa in me, dice oggi un quasi incredulo Flea. In segno di riconoscenza lui lo ripagava rubandogli le confezioni di cibo per cani che andava poi a rivendere per comprarsi la metanfetamina. Quando il dottor Miller scoprì che Flea si presentava al lavoro sotto l’effetto di stupefacenti non lo licenziò, ma lo spostò dal banco della ricezione al laboratorio sul retro, dove trovò la compagnia di due inservienti non meno strambi e problematici di lui: Kai, un vecchio ubriacone che si rivelò essere il padre del Gene Vincent di Be-Bop-A-Lula, e Tim, un ragazzo gay senza fissa dimora, cresciuto tra riformatori e prigioni e con cui Flea fumava uno spinello dietro l’altro. Lì, nel retrobottega, Flea si occupava di tenere pulito il locale raccogliendo gli escrementi degli animali. C’era molto amore in quel posto, ricorda oggi Flea. Quindici anni dopo, pentito e grato per una bontà e un’accoglienza di cui non aveva saputo essere all’altezza, Flea telefonò al dottor Miller scusandosi per avergli rubato tutte quelle confezioni di cibo per cani.

 

Molti anni fa, imbattendomi per la prima volta nei Red Hot Chili Peppers, mi dissi: e questi, da quale galassia sono sbarcati? Stavano suonando una cover di Higher Ground, un vecchio brano di Stevie Wonder, ed erano in preda a un esubero di vitalità che doveva per forza presupporre un’errata configurazione del voltaggio alla nascita, o altrimenti l’assunzione di troppo caffè dopo cena. Poteva capitare, scoprii, che si esibissero nudi in scena, o altrimenti con un calzino come unico indumento a dissimulare le parti intime. Sui dischi mettevano in mostra un campionario di mutande che rese necessaria una nuova messa a fuoco del rock. Sul retro di copertina di Mother’s Milk e sulla copertina del singolo Knock me down ad esempio, tre dei quattro componenti del gruppo si presentavano proprio in mutande (Chad Smith è ritratto solo dalla cintola in su, quindi chi lo sa). Anthony Kiedis indossava un paio di comunissimi short, mentre John Frusciante e Flea esibivano delle ampie mutande buffamente demodé, di quelle con l’apertura laterale atta ad agevolare la minzione. Quella fotografia rappresentò, per chi scrive, la prima avvisaglia che s’approssimava un nuovo modo di intendere la culotte: da capo d’abbigliamento negletto e pudicamente celato alla vista, a fiera espressione d’un modo d’essere, comico stendardo di una generazione che improvvisamente sembrava dotarsi di altre cerimonie di svestizione. Il rock che avevo conosciuto io era stato sovente nudo e ammiccante, petti villosi e pantaloni attillati, capello lungo e velleità zingaresche, ma non si era mai presentato in mutande. Forse anche il rock andava svestito e messo in fila come alla visita medica militare. O forse bisognava soltanto che qualcuno ci liberasse dagli orpelli – borchie, fumogeni e bandane – per restituirci energia allo stato puro: chitarre, tatuaggi e, appunto, mutande.

 

 

A pagina 98 del memoir Flea scrive cartesianamente: I freak out squares, therefore I am; mando fuori di testa i conformisti, quindi sono. Oggi mi appare chiaro che le mutande dei Red Hot Chili Peppers non rappresentavano solo una nuova possibile frontiera dell’anticonformismo, ma rinverdivano anche i fasti dei freak californiani del bel tempo che fu. Dietro i Red Hot Chili Peppers era possibile intravedere il baffo di Frank Zappa o le smorfie stralunate di Captain Beefheart, ma in qualche strano modo s’intuiva anche che quei quattro ragazzacci traevano la loro forza dall’aver saputo miscelare il funk di George Clinton con l’hip-hop più efferato, l’erotismo spiccio di James Brown con la propulsione blues di Jimi Hendrix, la solennità tellurica dei Led Zeppelin con l’ardore iconoclasta del punk. Dei sovversivi, in sostanza, dei ribelli che avevano scoperto nella musica lo strumento entro cui incanalare tutta l’energia che non riuscivano a far stare nella cornice quadrata del mondo.

 

Nel recente e brillante saggio Music: A Subversive History (Basic Books, p. 528, 2019), lo storico della musica Ted Gioia sposa la causa dei provocatori e dei sovversivi sostenendo che siano loro il vero motore del cambiamento e del progresso in ambito musicale. Riscrivendo quattromila anni di storia (da Saffo passando per la polifonia, Mozart, Stravinsky, Lennon, i Sex Pistols e approdando infine alla giungla di Spotify), Gioia quella storia prova a restituirla ai perturbatori e agli outsider che hanno fatto da rompighiaccio, sottraendola invece a chi – gli assimilatori, gli epigoni, i diluitori, i prestanome o semplicemente i più furbi – di quella storia sono sovente considerati gli artefici. Flea e i Red Hot Chili Peppers appartengono senza dubbio alla falange dei perturbatori e degli istintivi di cui scrive Gioia, quelli che stanno un passo avanti e indicano un punto all’orizzonte di cui nessuno s’è ancora avveduto. Dietro di loro non cogliamo soltanto le ombre degli assimilatori, degli epigoni e dei diluitori, ma anche quelle dei caduti e degli emarginati. People living outside society need a sound to believe in– chi vive ai margini della società ha bisogno di un suono in cui credere – scrive Flea a pagina 120 del memoir. Un suono che non possa essere requisito dai guardiani della cultura o controllato da chi detiene il potere. Quel suono ispira i ribelli e gli emarginati, li sostiene lungo il cammino e dà loro una voce che altrimenti non avrebbero o non saprebbero di avere. È qui che Michael Balzary in arte Flea svela non solo il segreto dello speziatissimo gumbo dei Red Hot Chili Peppers, ma fissa anche il suo credo musicale raccordando il lamento del blues alla libertà espressiva del jazz, le urla del rock agli strali dell’hip-hop, lo squilibrio della psichedelia alle sfrenate allusioni del funk. Musiche diverse che hanno questo in comune: farsi voce di chi ha meno voce o non ne ha affatto. Per trovare un posto nel mondo Flea ha dovuto prima capire che la musica non era soltanto un sollievo o un passatempo, qualcosa con cui allietare il sabato sera o una festa fra amici, ma una voce ch’era in grado di parlare la lingua del cuore e dell’anima, e nel farlo raccontare magari anche la storia di chi una storia non ce l’ha, o fatica a trovarla.

 

Red Hot Chili Peppers, Higher Ground, dal vivo al David Letterman Show, 30.3.1990

https://www.youtube.com/watch?v=DQVKfnkrmzw

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Il memoir di Flea dei Red Hot Chili Peppers
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Vittorio Spinazzola: maestro

$
0
0

Spinazzola si chiamava Vittorio, sia all’anagrafe, sia sulle copertine dei tanti libri che ha scritto; ma tutti coloro che avevano confidenza con lui lo chiamavano Mario. Noi, suoi allievi, lo chiamavamo «maestro». Sulle ragioni per cui è stato davvero un maestro ci si potrebbe soffermare a lungo; mi limiterò a dire qualcosa più avanti. Prima conviene fare alcune considerazioni di carattere generale. Spinazzola avrebbe compiuto 90 anni fra poche settimane. Una vita lunga, operosa, che lascia alla cultura italiana un’eredità importante. Innanzi tutto, un orizzonte di riflessione: il ruolo del pubblico nella letteratura. 

 

Spinazzola apparteneva a una generazione che per ovvie ragioni storiche si è impegnata a interrogarsi sul rapporto fra letteratura e società. Molto si è scritto, non solo in Italia, sulla capacità delle opere letterarie di rappresentare il reale e sui procedimenti attivati per restituire immagini significative del mondo. Lo stesso Spinazzola ha contribuito a questa riflessione. Ma il suo tratto distintivo è consistito nello spostamento dell’attenzione sulla dimensione pragmatica, anziché su quella simbolica o semiotica, in un’ottica funzionalistica che raccoglieva e sviluppava le lezioni di Jan Mukařovský, di Antonio Gramsci, del Sartre di Che cos’è la letteratura?. Di qui il rilievo attribuito – o meglio, riconosciuto – alla presenza dei lettori: il rapporto fra letteratura e società si esplica in primo luogo nell’attività della lettura. Sulle motivazioni, le dinamiche, il ‘lavoro’ della lettura, su quella che il Manzoni aveva chiamato, con geniale intuizione, la «fatica» di leggere, Spinazzola ha scritto pagine che costituiscono una pietra angolare della riflessione teorica contemporanea, non meno dei contributi sulla ricezione del già citato Mukařovský, di Hans-Robert Jauss, di Wolfgang Iser (ciascuno, va da sé, declinato in maniera peculiare, secondo parabole intellettuali diverse caso per caso).

 

E non credo di fare della psicologia d’accatto dicendo che alla base di questo interesse per la figura dei destinatari ci fosse un temperamento schivo, introverso, poco comunicativo, e quindi nell’intimo assai sensibile all’esigenza di comunicare e alla difficoltà di farlo.

Oltre a pubblicare volumi dai titoli auto-evidenti, come Critica della lettura (Editori Riuniti, 1992), La democrazia letteraria (Il Saggiatore-Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2001), L’esperienza della lettura (Unicopli, 2010), Spinazzola ha operato in questo campo dando vita a due serie di annuari (intorno ai quali è cresciuta la sua scuola): dapprima i dieci numeri di Pubblico, editi prima dal Saggiatore poi da Milano Libri, fra il 1977 e il 1987, quindi Tirature, avviato nel ’91 con Einaudi, proseguito per qualche anno con Baldini & Castoldi, e dal ’98 in poi incardinato presso il Saggiatore-Fondazione Mondadori. L’interesse per la funzione dei destinatari si è con il tempo infatti allargato, investendo il campo della mediazione editoriale: un aspetto ovviamente decisivo nel mondo moderno, ma a lungo ignorato dagli studi letterari. Spesso gli uomini di lettere, specie gli accademici, sono un po’ lenti a prendere atto di quello che accade ‘là fuori’; tanto per fare un esempio, chi si prendesse la briga di verificare quando è stato davvero abbandonato il vecchio uso di registrare nelle bibliografie la sola indicazione del luogo di edizione, ignorando signorilmente il nome della casa editrice, avrebbe – credo – delle sorprese.    

 

 

Quanto ho detto fin qui è abbastanza noto. E tuttavia c’è un equivoco che bisognerebbe una volta per tutte dissipare. Capita ancora di sentire dalle labbra di studiosi di letteratura – anche valenti, e stimabili – l’idea che Spinazzola sia soprattutto un sociologo della letteratura, cioè qualcuno che si occupa della letteratura come fenomeno sociale più che estetico, senza entrare nel merito della configurazione formale dei testi, dei connotati stilistici, dei giudizi di valore. Niente di più falso. Primo perché, in linea di principio – teste il già citato Mukařovský – tutto quanto ha che vedere con l’estetica (funzioni, norme e valori, per parafrasare il titolo di un celebre saggio) pertiene alla dimensione sociale. Secondo, perché se c’è un punto su cui Spinazzola dissente dal «suo» Gramsci, è l’idea che i lettori popolari siano inclini a badare ai contenuti più che alla forma, quando in realtà è vero quasi l’esatto contrario. Terzo, perché nella sua prassi critica Spinazzola riserva sempre un’attenzione assai vigile ai fatti stilistici. Provate ad esempio a leggere il capitolo sul Meneghello di Libera nos a malo incluso in Itaca, addio (Il Saggiatore, 2001), magari confrontandolo con altre voci della bibliografia critica meneghelliana al di sopra di ogni sospetto; e poi ne ragioniamo.

 

Vero è che Spinazzola si è dedicato a lungo a quella che un tempo si usava chiamare, con termine sintomaticamente improprio, «paraletteratura», cioè alla produzione letteraria destinata a un pubblico largo e culturalmente poco attrezzato, così come alla letteratura (narrativa, essenzialmente) di successo. Sull’utilità di applicare gli strumenti dell’analisi letteraria anche a testi che non incontrano i favori dei lettori più colti non credo sia necessario spendere molte parole. Vorrei però soffermarmi su un aspetto dell’insegnamento di Spinazzola che ritengo decisivo. Quando un romanzo incontra un grande favore di pubblico, ebbene, lì c’è qualcosa da capire, c’è una questione critica da affrontare, a volte un enigma da risolvere. Dare risposte spicce, sommarie e stereotipe, come troppo spesso i letterati tendono tuttora a fare, significa peccare di superficialità e presunzione. Di libri di valore mediocre o modesto se ne pubblicano tanti, ma solo alcuni hanno successo; perché questo accada, è compito della critica chiarirlo (di chi, se no?). Del resto, se fosse facile prevedere i gusti del grande pubblico, fare l’editore sarebbe il mestiere più comodo e remunerativo del mondo: cosa che, con ogni evidenza, non corrisponde a verità.

Se una parte cospicua dell’attività critica di Spinazzola è rivolta alle zone (per dir così) di frontiera del campo letterario, dalla narrativa di genere (come il romanzo rosa) ai classici della letteratura per ragazzi (Pinocchio & C., Il Saggiatore, 1997), dalla letteratura umoristica (L’immaginazione divertente, Rizzoli, 1995) alle forme miste come il fumetto (non a caso all’inizio della sua carriera, negli anni Sessanta, si era occupato a lungo di cinema), fondamentali sono i suoi contributi su autori canonici, a cominciare da Manzoni (Il libro per tutti. Saggio sui Promessi sposi, Editori Riuniti, 1993), Federico De Roberto, Emilio De Marchi, per comprendere quasi tutti i maggiori narratori del Novecento, da Calvino a Bassani, da Carlo Levi a Elsa Morante. Esemplari vanno poi considerati i volumi che contemperano approfondimento monografico e apertura a prospettive storico-culturali più vaste, come il già citato Itaca, addio sui «romanzi del ritorno» (Meneghello, il Vittorini di Conversazione in Sicilia, il Pavese della Luna e i falò) o Il romanzo antistorico, Editori Riuniti, 1990 (su De Roberto, Lampedusa, il Pirandello dei Vecchi e i giovani, Il giorno del giudizio di Salvatore Satta); o come la più recente raccolta  L’egemonia del romanzo (Il Saggiatore-Fondazione Mondadori, 2007), che fornisce un quadro complesso e articolato del sistema letterario del secondo Novecento. 

 

Questo discorso sta sfumando, mi rendo conto, nel regesto bibliografico, anche se numerosi sono i titoli che si potrebbero aggiungere, e le considerazioni d’ordine prospettico che se ne potrebbero ricavare. Ad esempio, certe apparenti predilezioni geografiche: oltre a Milano e alla Lombardia, la Sicilia e la Sardegna. A questo proposito va ricordato che Spinazzola è stato anche un attento studioso di Grazia Deledda, oltre che del già citato Satta (autore molto apprezzato anche da un altro grande studioso mancato in questi giorni, di tempra che più diversa sarebbe arduo immaginare, George Steiner). Più in generale, Spinazzola ha incarnato una figura di studioso insieme rigoroso e spregiudicato, del tutto alieno dalle tendenze elitarie, aristocratiche, antimoderne e difensive così diffuse nella tradizione letteraria italiana, e non di rado rinverdite dalla stessa cultura di sinistra. La posizione che prese all’epoca della polemica sulla Storia della Morante, da questo punto di vista, è oltremodo istruttiva. 

 

Ma oltre a questo Spinazzola è stato anche, nel senso più pieno della parola, quello che si usa definire un maestro. E qui non posso non fare riferimento alla mia personale esperienza, che peraltro so essere condivisa da tanti, amici prima che colleghi (amici tuttora: cosa non scontata, che pure va in massima parte a suo merito), contemporaneisti in attività, incluso uno storico del cinema che ora è Rettore di un ateneo e l’attuale direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi. Spinazzola era, in primo luogo, un ascoltatore attento e un lettore solerte e partecipe. Le sue osservazioni sulle pagine che gli facevo leggere – e per molto tempo gli ho fatto leggere pressoché tutto quello che scrivevo – erano sempre acute, spesso rivelatrici. Perché questo è il punto: il suo atteggiamento nei confronti degli allievi era innanzi tutto di rispetto per gli orientamenti e i gusti di ciascuno. Se sul rigore del metodo non transigeva, sulle scelte dei temi di ricerca era quanto mai aperto: il suo modo di interpretare il ruolo che gli competeva mirava a far sì che i giovani esprimessero al meglio le proprie personali potenzialità. Al tempo stesso, li coinvolgeva nelle riflessioni che veniva svolgendo, sul piano teorico e critico, trasmettendo senza alcun artificio didattico il senso di un impegno intellettuale profondamente vissuto, che univa alla serietà e sincerità degli intenti una sorridente, impareggiabile ironia. Così è avvenuto, nell’ultimo quarto del secolo XX, che un seminario per laureandi diventasse un seminario di laureati, poi un gruppo di lavoro, e infine una scuola. E così è avvenuto che spontaneamente cominciassimo a chiamarlo «maestro». Non so di preciso chi e quando abbia cominciato. So che continueremo a chiamarlo così, perché questo è stato: con la serena semplicità di chi non se l’era proposto, ma non ha mancato di rimanere tale, fino alla fine.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
1930-2020
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Il libro bello

$
0
0

Corso Matteotti è una lunga strada che scende da Anghiari verso la Valtiberina. È qui che Marta Sironi ospita, in una grande stanza soppalcata, la collezione di Sandro Bortone, che fu studioso, bibliofilo, e direttore della biblioteca Civica di Como. Un paradiso per chi ama i libri, ma la Sironi, oltre che amarli, li studia, come ha dimostrato nelle monografie dedicate a John Alcorn e a Giovanni Pintori. Ad Anghiari i libri, seguendo la classificazione di Bortone, sono raggruppati secondo l’autore della copertina. È da qui che prende le mosse il nuovo studio di Marta Sironi, Il libro bello. Grafica editoriale in Italia tra le due guerre (Unicopli), un volume che si occupa non solo di ciò che è enunciato nel sottotitolo, ma che riflette la storia delle trasformazioni del gusto negli anni Venti e Trenta, ricostruendo le vicende di figure di artisti e di case editrici spesso poco praticate.

 

Va detto subito che è un libro pionieristico, da cui c’è molto da imparare perché, a parte alcuni studi di Paola Pallottino, si occupa di cose nuove, con un’attenzione primaria all’oggetto libro. Lo fa scegliendo alcune storie esemplari di illustratori o di case editrici, ma il volume finisce per diventare anche un importante contributo alla storia dell’editoria italiana tra le due guerre.

La Prima guerra mondiale segna una cesura nel campo della grafica editoriale. Sono anni in cui il consumo di immagini, attraverso il cinema e la fotografia, sta entrando nelle abitudini quotidiane. Questo si riflette in campo editoriale con un’attenzione nuova verso le copertine su cui si concentrano gli sforzi estetici e di comunicazione. La prima figura di artista che si incontra nel libro è Giulio Cisari che lavora per Mondadori, Alpes e Hoepli: le sue sono copertine architettoniche che hanno al tempo stesso una funzione strutturale e decorativa, evolvendo dal liberty all’art déco, ma sempre attingendo alla tradizione figurativa italiana (un punto di riferimento sono le copertine della rivista illustrata ‘Emporium’). Alpes è oggi noto soprattutto per essere stato il primo editore di Gli indifferenti di Moravia (1930), ma la casa editrice milanese, retta da Arnaldo Mussolini, fu un luogo dove si misurò, dopo Cisari, Ubaldo Cosimo Veneziani, oltre a ospitare occasionali apparizioni di Felice Casorati e Mario Sironi.

 

Giulio Cisari, Mondadori, 1932.

 

Dopo la morte di Arnaldo Mussolini (1931) per la Alpes cominciò un periodo di decadenza. Cisari emigrò allora in Mondadori, in quel momento la casa editrice più ambiziosa nel nostro panorama editoriale e che stava organizzando il suo catalogo attorno ad autori di bestseller come Virginio Brocchi, o altri di maggiore spessore letterario come Giuseppe Antonio Borgese. Intendimento di Arnoldo Mondadori era raggiungere un pubblico il più vasto possibile come editore al tempo stesso colto e popolare. Cisari tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta è l’illustratore principe per Mondadori a cui si affiancano, di tanto in tanto, il russo emigrato Vsevolode Nicouline, e, più spesso, Benvenuto Disertori. Mondadori è una casa editrice ammiraglia che può permettersi di far convivere nel suo catalogo illustratori diversi tra loro ma che sappiano soddisfare la necessità di eleganza che i volumi devono avere per far bella mostra non solo nelle vetrine delle librerie, ma nei nuovi salotti borghesi, che immaginiamo ‘Stile Novecento’.

Prima di diventare a sua volta editore Valentino Bompiani fu segretario di Arnoldo Mondadori da cui molto apprese (ad esempio che la casa editrice dev’essere davvero una casa ospitale per i propri autori), ma è probabilmente lui il nostro primo editore moderno. Capisce che per mettersi in luce non basta proporre autori nuovi ma bisogna immaginarsi iniziative nuove per allargare il campo dei possibili lettori. Affida a Bruno Munari la grafica dell’annuale Almanacco Letterario Bompiani, che progetta insieme a Cesare Zavattini per farne al tempo stesso uno strumento di informazione culturale e di diffusione del marchio. Munari mescola fotomontaggi, fotoromanzi che si associano a descrizioni del mondo letterario, nel quale gli scrittori divengono personaggi (è nota la passione dell’editore per il teatro). Bompiani affida al tratto di Mario Vellani Marchi molte delle sue copertine, in un catalogo dove la nuova narrativa italiana si affianca agli americani delle ultime generazioni come Steinbeck e Caldwell.

 

Copertina di Mario Vellani Marchi e sopraccoperta di Caro Bernard, Bompiani 1939.


Il giovane editore è consapevole che per aumentare la diffusione del libro è necessario ricorrere alla pubblicità come per qualsiasi altro prodotto. Lo aiuta vivere a Milano che negli anni Trenta è un avamposto di modernità, il laboratorio dove sta nascendo la nostra società dei consumi. Scopriamo che Carlo Bernari, prima di diventare scrittore (Tre operai) disegna alcune copertine per Bompiani, che si conferma editore che precede i gusti del pubblico: Zavattini illustra da sé alcuni suoi libri, le copertine di Alberto Savinio (Casa la vita, Ascolto il tuo cuore, città) sono affidate al gusto di Piero Fornasetti, allora quasi agli esordi. Il forte senso estetico dell’editore, la voglia di sparigliare, si conferma anche nell’utilizzo di pittori novecenteschi come Marc Chagall e Fernand Léger per le copertine di alcune novità.

Se Bompiani è una punta nel panorama editoriale italiano, nel volume, che ha il pregio di allargare il campo di osservazione al di fuori del conosciuto (la grafica modernista), non vengono trascurati editori popolari come il milanese Vitagliano, sorto nel tumultuoso dopoguerra, dove spicca l’estro inquieto di un artista come Renzo Ventura. Sempre milanese sono la casa editrice Modernissima e la rinnovata Sonzogno, editori popolari ma con una precisa proposta estetica. Comune è la scelta di mettere la donna in copertina. Come spesso accade dopo una guerra, la società non torna quella di prima, così donne sempre più svestite in copertina indicano il cambiamento del senso del pudore.

 

Gino Boccasile, ‘Le grandi firme’, 1938.


L’unica editoria che raggiunge trasversalmente in tutto il Paese ogni classe sociale è quella musicale. Al tramonto dell’età del melodramma corrisponde l’affermazione della canzone napoletana diffusa da un’editoria locale, poi spesso trasferitasi a Milano. L’editoria musicale veicola poi i nuovi ritmi e i nuovi balli (fox trot, charleston, tango), per giungere, nel corso degli anni Venti, alle canzonette e al jazz. Gli spartiti, poi i primi dischi, hanno, qualche volta, illustratori d’eccezione (Manlio Rho, Mario Radice).

Anche l’editoria popolare, “da bancarella”, come Barion di Sesto San Giovanni che ha tra i suoi autori Jack London, o la Casa Editrice Sociale, punta su copertine di immediata riconoscibilità. Deus ex machina di Barion è Ugo Fabietti, un toscano di idee socialiste, che per quarant’anni si batte per un’editoria davvero popolare in Italia. Una figura che meriterebbe di essere studiata meglio e le cui idee sono riprese da Luigi Rusca quando mette mano alla BUR (Biblioteca Universale Rizzoli) nel secondo dopoguerra. Fabietti cerca di spingere Mondadori a diventare l’editore italiano per il popolo: afferma che è l’unico che ha la forza per farlo, ma l’editore milanese preferisce cercare il suo pubblico di riferimento nella nascente borghesia. A essa sono indirizzati i “Gialli”, un genere di importazione anglosassone che sbarca da noi nel 1929. Mondadori cerca poi di differenziare le sue collane seconda una scelta cromatica: gli “azzurri”, i “verdi”, i “rossi”, i “neri”. Un’idea che funzionerà solo in parte, ma i suoi principali collaboratori, Lorenzo Montano e Luigi Rusca, riescono a indirizzare, nel corso degli anni Trenta, il pubblico verso un’offerta precisa.

 

Copertina di Mario Vellani Marchi e sopraccoperta di Caro Bernard, Bompiani 1939.


Gli anni Trenta sono il primo decennio “a colori” per la diffusione delle pellicole Kodachrome, subito utilizzate in campo editoriale e pubblicitario. ‘Le vie d’Italia’, il diffusissimo periodico del Touring Club, affida le proprie copertine in quadricromia a noti illustratori che fanno conoscere le bellezze del Belpaese, una scelta intermedia tra tradizione e innovazione. Nel corso del decennio emergono due illustratori di grande personalità come Giorgio Tabet e Walter Mollino che sono già figli del XX secolo e percorreranno una lunga carriera nei periodici italiani. Tema comune a tutti è la donna in copertina: si passa dalle donne provocanti degli anni Venti, alla madre di famiglia voluta dal fascismo, un’iconografia che però non aiuta a vendere copie, come dimostra a contrario ‘Grandi firme’, la rivista di racconti in concorrenza a ‘La Lettura’ del Corriere della Sera, ma che conosce una vera popolarità per le copertine ammiccanti di Gino Boccasile (come si celiava all’epoca: “Signorine grandi forme”).

 

Guido Gregorietti, Il tempio della Concordia, ‘Le Vie d’Italia’, maggio 1937.


In generale le copertine dell’ultimo scorcio del decennio sono influenzate dalla diffusione sempre più capillare del cinema, in particolare hollywoodiano. I distributori italiani delle case di produzione di Hollywood mettono a disposizione gratuitamente le fotografie dei film che vengono prontamente riutilizzate nel mondo delle riviste e diffondono la malìa di un mondo lontano, ora a portata di mano. La via italiana all’illustrazione sta cambiando: i rotocalchi che nascono nel corso della Seconda guerra mondiale e subito dopo, sull’esempio di modelli stranieri fanno cercare altre strade all’illustrazione, anche se il successo delle copertine illustrate della ‘Domenica del Corriere’ per tutti gli anni Cinquanta (un milione di copie!) e il lento declino successivo, quando arriva il tempo della TV, fanno capire che i gusti del pubblico sono lenti a cambiare. L’illustrazione è una porta spalancata verso l’immaginazione, cosa che strumenti e media nati più tardi faranno più fatica ad essere.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Grafica Editoriale
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Per una storia della mano

$
0
0

Il catalogo What a wonderful world. La lunga storia dell’ornamento a cura di Claudio Franzoni e Pierluca Nardoni (Skira) che accompagna la mostra di Reggio Emilia, recensita qui da Laura Gasparini, si presenta come un lungo percorso attraverso alcuni importanti termini dell’estetica contemporanea. Sono parole che non presentano un campo semantico stabile, che hanno assunto nel corso della storia significati e valori diversi, come appunto la parola latina ornamentum, passata e diffusasi nelle varie lingue europee, designando talora una semplice decorazione, qualche altra volta un oggetto sacro, oppure ancora una suppellettile e, insieme, un oggetto di culto, come scrive Gerhard Wolf in una delle postfazioni (Ornamento, immagine, oggetto, p. 287). La discussione si dipana a più voci: se la mostra fa dialogare le istituzioni culturali di Reggio Emilia con altre strutture museali e artistiche nazionali e internazionali, il catalogo è una vera e propria conversazione, introdotta dalla presentazione teorica e storico-artistica della mostra da parte dei due curatori, seguita da un Vocabolario con le voci stilate da autori diversi, e chiusa da due brevi saggi a mo’ di postfazione. Il tema è la storia dell’ornamento, il suo significato, la sua possibile sopravvivenza dopo la definitiva condanna da parte di Adolf Loos che lo assegnava al passato, all’infanzia dell’umanità.

 

Copertina del catalogo Skira (particolare).


Invero Loos, nel saggio Ornamento e delitto del 1908, aveva riconosciuto l’importanza dell’ornamento, il suo valore nella dimensione del religioso e del sacro, ma ne aveva escluso l’utilizzo nella modernità, in polemica con l’arte decorativa del suo tempo, nella quale – a suo dire – diventava semplice spreco di materiale, di lavoro, di tempo, vero e proprio delitto contro l’estetica e la morale. Nelle sue opere e nei suoi progetti poteva tuttalpiù essere citato o alluso con ironia, come nota Marco Biraghi nella voce dedicata all’architetto viennese, riferendosi al progetto del grattacielo per il Chicago Tribune (datato 1922, ma non realizzato), che riproduce la colonna dorica. Si tratta di una posizione che certo ci affascina, che sarà ripresa nel razionalismo del Bauhaus, ma che persiste ancora oggi nelle linee eleganti di certe soluzioni architettoniche prive di orpelli.

 

Claudio Franzoni introduce però il suo saggio di apertura con un’osservazione su cui riflettere: ci dice che in genere la maggior parte di noi associa la parola ‘ornamento’ «al fronzolo e all’orpello, al sovrappiù e al superfluo», insomma a qualcosa «sfiorato dall’inutilità» (p. 13), e delinea una breve storia delle opinioni sull’ornamento. Condanna e celebrazione si susseguono, a partire dal mondo antico, attraversano il Medioevo culminando nell’opposizione tra la censura rigorista di San Bernardo e l’impiego della decorazione come strumento di esaltazione del divino da parte dell’abate Suger a Saint-Denis. Segue il dibattito cinquecentesco sulle grottesche, diviso tra riprovazione controriformista e libero gioco fantastico da parte di artisti e letterati. Ma è l’Ottocento – scrive ancora Franzoni – il secolo dell’ornamento: inizia con l’individuazione romantica dell’arabesco come forma essenziale e modo stesso di espressione della poesia in Friedrich Schlegel, e culmina nel 1856 con il volume di Owen Jones The Grammar of Ornament, che non è solo un manuale di repertorio, ma una vera e propria storia mondiale della decorazione planare. Verso la fine del secolo, decorazione e arabeschi invadono tutte le forme artistiche dell’Art Nouveau, compresi l’estetica musicale di Hanslick e le composizioni di Debussy (su questo si veda la voce ‘musica’, curata da Alessandra Anceschi). Verso fine secolo e inizio Novecento, ornamento e decorazione assumono poi una funzione particolare nella riflessione teorica sulla storia dell’arte, diventano lo strumento di una revisione radicale nella considerazione di alcuni periodi storico-artistici, divengono oggetto della filosofia dello stile in Gottfried Semper, Alois Riegl e Wilhelm Worringer; ed è a questi autori che i saggi e le voci del catalogo fanno più volte riferimento.

 

Owen Jones, The Grammar of Ornament, Day and son, London 1856.


Nonostante emergano differenze e visioni contrastanti tra questi teorici dell’arte – ai quali possiamo aggiungere lo stesso Loos – possiamo individuare alcuni aspetti fondamentali, legati proprio al tema dell’ornamento, che derivano da una nuova attenzione ai materiali e alla tecnica. Nel monumentale testo Lo stile nelle arti tecniche e tettoniche o estetica pratica (1860-1863) di Gottfried Semper, questa nuova sensibilità diventa ricerca sulle origini delle forme artistiche nelle attività primarie che l’uomo ha svolto per difendersi dalle intemperie: nella costruzione del tetto, del recinto e del terrapieno per isolare il focolare domestico, opere idrauliche e di muratura, lavori con il legno, che saranno alla base delle scelte più complesse dell’architettura, mentre l’intreccio del recinto diede origine alla tessitura. Ne accenna Andrea Pinotti alla voce ‘polarità’, in cui riprende alcune analisi svolte nel suo libro del 2001, Il corpo dello stile, nel quale veniva citata la definizione dello stile data dall’architetto tedesco: stile come risultato della storia, come stilo, strumento della scrittura e del disegno, come mano che guida lo stilo, come volontà, immanente al materiale, come tema e oggetto della realizzazione artistica. La spiegazione di Pinotti sottolinea la funzione della mano «come possibilità di gesto che inaugura lo stile». «Lo Stil di Semper – conclude Pinotti – è anche una storia della mano» (Mimesis, Milano 2001, pp. 26-27).

 

Sembra evidente che non si tratta di riduttivismo materialistico; è anzi proprio questo taglio della ricerca che accomuna i teorici della Kunstwissenschaft al di là della polarità tra il saper fare di Semper e il concetto di Kunstwollen, coniato successivamente da Alois Riegl per salvaguardare l’autonomia dell’evoluzione dell’arte. Proprio in questo contesto teorico si dà la possibilità della rivalutazione delle cosiddette arti minori, della ricerca sull’origine naturalistica o astratta di alcuni motivi della decorazione, della scoperta di analogie con altri ambiti del sapere come la ricerca biologica e la filosofia del linguaggio. Naturalmente questi temi verranno approfonditi nella successiva ricerca filosofica del Novecento, ma un filo li collega all’orizzonte tematico di questo catalogo. Con curiosità possiamo leggere voci che trattano di calligrafia (Paola Gandolfi), di scarabocchi e ghirigori (Simonetta Nicolini), di bordi, frange, orli e cornici (Roberta Sironi), di righe e di nodi (Marco Belpoliti). Nella voce ‘nodi’ torna il tema della mano: a partire da un passo di Massa e potere di Elias Canetti, Belpoliti suggerisce un percorso storico-antropologico sul divenire paziente della mano, esercitata dagli uomini, ai primordi della storia, nella ricerca delle pulci tra i capelli dei propri simili, per poi divenire più raffinata nella tessitura e nella molteplice realizzazione dei nodi, come si può ben vedere nel libro di Clifford W. Ashley, The Ashley Book of Knots del 1944, che comprende 3854 nodi e settemila disegni. 

 

A questo è connesso un altro tema del catalogo che riguarda il rapporto tra decorazione e natura, e la questione se l’ornamento nasca astratto, privo di riferimento al mondo naturale, oppure organico e naturalistico, argomento discusso già in Riegl e Worringer (voci ‘polarità’ di Andrea Pinotti e ‘stile’ di Gian Luca Tusini), e approfondito da una sezione della mostra sull’ornamento nel mondo animale, con le sorprendenti immagini e notizie sugli uccelli giardinieri, sugli uccelli del paradiso e sul fagiano Argo (voce ‘animali’ di Antonio Bonfitto). 

 

Friedrich Wilhelm Kleukens, Vogel ABC, Stalling Verlag, Oldenburg 1925.

 

Parallela a questo filone di indagine, troviamo nel libro una ricerca etimologica: Maurizio Bettini ci spiega il significato della parola latina ornamentum, che non corrisponde esattamente alla semantica dell’italiano, poiché indica anche l’equipaggiamento di un’unità militare o di una nave e persino i finimenti del cavallo, ma anche la bulla del ragazzo e il paludamentum del console che, oltre all’aspetto estetico, definivano il rango del personaggio in questione. L’etimo di ornare si collega poi al verbo ordinare: «l’ornamento non è un semplice abbellimento, ma una forma di “ordinamento”» ed è parente dell’ordito. Non si tratta quindi di un capriccio: l’ornamentum manifesta un ordine, come il greco kosmos, che indica l’adornare, ma anche l’ordine delle parole in un discorso, i modi del comportamento, la struttura della comunità e dello Stato e, infine, l’ordine dell’universo (pp. 95-96, vedi anche la voce ‘kosmos’ di Paolo Cesaretti).

 

Altri contributi confermano l’importanza di un’analisi teorica dell’ornamento, del suo fondamento ontologico nel mito e nella sapienza antica (‘sapienza’ di Marco Lazzarato), della sua vicinanza alla metafora nella capacità di animare l’inanimato, di sviluppare da un semplice modulo percorsi concatenati e infiniti, in una sorta di «ruminazione visiva» che mescola e traspone le forme, come scrive Franzoni nel suo saggio introduttivo, oppure di far irraggiare una luce dalla persona, come nota Georg Simmel a proposito dei gioielli, citato da Thomas Golsenne che ne prosegue l’analisi a proposito dell’aureola dei santi nella voce ‘animazione’. Si tratta però di un’animazione, per così dire, silenziosa che accompagna spesso la narrazione più importante, senza pretendere un autore specifico o un significato preciso, legata al pre-categoriale della mano e del gesto (‘autore’ di Massimo Carboni).

 

Non è possibile rendere qui conto di tutte le suggestioni e di tutti gli autori; voglio solo concludere con due immagini che mi hanno particolarmente colpita: la prima è un disegno di Saul Steinberg, presente nella mostra, la seconda è un fregio di Andrea Mantegna riportato nel catalogo.

 

Saul Steinberg, “The New Yorker”, 16 maggio 1964.


Il gatto di Steinberg innaffia con aria indifferente e un po’ sorniona un grafo astratto e ornamentale, gli dà vita, come fanno gli uccellini che giocano con gli arabeschi. La penna di Steinberg – scrive Italo Calvino nel breve scritto La penna in prima persona– diventata il soggetto dell’azione grafica, come gli strumenti dello scrivere in un sonetto di Guido Cavalcanti, presuppone una mano, ma cosa ci sia dietro la mano è questione controversa: l’io che disegna si identifica con l’io disegnato e in questo l’ornamento trova in sé la sua fondazione: «la penna la mano l’artista il tavolo il gatto, tutto è risucchiato dal disegno come da un vortice» (cfr. Una pietra sopra, Einaudi, Torino 295, p. 295). E il gatto sa della necessità di innaffiarlo.

 

Anche Mantegna si è identificato con il suo autoritratto entrando nella grottesca, apponendovi in un certo senso la firma: «sceglie – scrive Marzia Faietti – i racemi d’acanto per manifestarsi e nascondersi allo stesso tempo, dimostrando di convivere con la propria opera pittorica e di osservare dal suo interno gli spettatori», a conferma dell’intreccio tra vita e morte, tra esseri animati e inanimati che si palesano e si mascherano nell’ornamento (p. 300). Non è quindi un caso se gli artisti contemporanei tornano a riflettere e a riproporre temi decorativi, a partire da Van Gogh per giungere a Keith Haring, come suggerisce il saggio di Nardoni e come ci ha indotto a riflettere il catalogo della mostra.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Ornamento e orpello
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Visa Transit di Nicolas de Crécy

$
0
0

È l’estate del 1986, l’estate seguente all’incidente nucleare di Chernobyl, quando due ragazzi francesi decidono di partire in auto verso l’Asia, attraversando l’Italia, varcando la Cortina di ferro, per poi scendere verso i Balcani e la Turchia. L’auto su cui viaggiano è una vecchia Citroën Visa, rimessa in sesto per l’occasione e dotata di un Radar 2000 piazzato sul cruscotto. Completano l’equipaggiamento una biblioteca ambulante, fissata sul lunotto posteriore, e un preziosissimo zainetto rosso che contiene “tutte le cose più importanti: la macchina fotografica, le chiavi, i documenti, i passaporti”. Nicolas de Crécy, affermato autore di bande dessinée, ci riporta indietro di più di 30 anni in questo memoir autobiografico, al viaggio intrapreso all’epoca insieme al cugino Guy. Il primo volume è uscito da poco per Eris Edizioni, il secondo è in arrivo nell’autunno 2020.

 

 

C’è una buona dose di nostalgia nelle pagine di Visa Transit, anche se è rivolta verso un passato a cui non si vorrebbe per davvero tornare. Un’Europa ancora divisa in due, piena di frontiere, e un modo di viaggiare oggi impensabile: senza navigatori gps, senza telefoni e senza nemmeno prendere l’autostrada. Lo si capisce dal modo in cui de Crécy racconta il passaggio in Italia: ritroviamo un Paese ancora industriale, dove alla bellezza del paesaggio si mescolano fabbriche grigie, mentre nelle città le facciate dei palazzi sono “annerite, ricoperte da una patina di ossido di azoto, di monossido di carbonio e metalli pesanti”. Più che per come erano le cose allora, la nostalgia di de Crécy è per la sensazione di avventura, di libertà e autonomia data dal viaggio, ad esempio l’autore non può non ricordare con affetto “il leggero nervosismo” nel passare da un Paese all’altro.

 

 

Visa Transit potrebbe proseguire così, in modo lineare, seguendo l’itinerario dei due ragazzi nell’Europa di allora, accompagnandolo con gli aneddoti che ogni viaggio di quel tipo porta con sé. Ma le cose non sono così semplici in questo fumetto. Lo si capisce quando, nel mezzo della pianura padana, compare Henry Michaux, il poeta belga vicino al surrealismo e noto per i suoi esperimenti letterari a base di mescalina e Lsd. Viaggio in Gran Garabagna (Quodlibet, 2010) di Michaux, cioè il resoconto di un viaggio in una terra che non esiste, è del resto “il solo libro al quale tenevo veramente”, ci racconta de Crécy, “non lo avevo portato, essenzialmente lo sapevo a memoria”. Michaux compare per ricordare all’autore che “il tempo non è lineare”, in una scena in cui de Crécy ha contemporaneamente 20 e 50 anni: è qui che cominciamo a capire che Visa Transit non è un semplice libro di viaggio.

 

 

Si potrebbe dire che Visa Transit non è un fumetto su un solo viaggio, ma un fumetto sul viaggio, o meglio sul misto di spaesamento e di libertà che ci prende quando siamo lontani da casa. I salti temporali dell’autore ci riportano infatti ai viaggi in auto, fatti da bambino con la famiglia, nelle campagne della Borgogna, dove ci si poteva addormentare sul sedile posteriore cullati dalle curve oppure scrutare la notte alla ricerca delle luci delle case isolate. E un intero capitolo di Visa Transitè dedicato a una vacanza in colonia, negli anni ’70 in un antico monastero in un paese dell’alta Loira. È la prima volta in cui un Nicolas de Crécy, ancora ragazzino, si ritrova lontano dalla famiglia, ma già allora era accompagnato dal cugino Guy.

 

 

“Ci restano solo una quindicina di foto del nostro viaggio”, scrive a un certo punto de Crécy, “i soli elementi che testimoniano che una realtà è avvenuta davvero. Tutto il resto è riposto da decenni in un cassetto mentale vicino all’ippocampo”. Ma dato che l’autore ha scelto un poeta surrealista come nume tutelare del suo viaggio e del suo racconto, ogni tanto, come lettori, siamo autorizzati a dubitare. Di fronte a stazioni di servizio che scompaiono nel nulla, a una Citroën Visa che si ripara da sola, o all’incontro, alla frontiera tra Bulgaria e Turchia, con una lunghissima fila di carri armati sovietici, ci viene da pensare: quanto di quello che de Crécy ci mostra è successo davvero? Quanto è stato deformato in quei cassetti della memoria? Quanto è stato limato, aggiustato, affinato in anni di racconti, per funzionare meglio come storia? Anche questo è forse un modo per celebrare la libertà di quel viaggio. “Era un altro secolo”, dice ancora de Crecy, “nessuno sapeva dove eravamo o dove andavamo. Una cartolina inviata allora sarebbe arrivata dopo il nostro ritorno: eravamo liberi”.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Invito al viaggio
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

L’automa e la macchina

$
0
0

I libri di filosofia non soltanto servono a produrre pensieri, spesso suggeriscono anche un panorama percettivo: alcuni assomigliano a costruzioni cristalliformi, dispongono i concetti in serie, ordinano il paesaggio in modo rigoroso, funzionano come una mappa perché vengono incontro alla capacità di orientamento del lettore. Altri sono meno rigorosi, più impressionistici, si rifiutano di mettere una volta per tutte a fuoco il paesaggio che continua a fluttuare sotto lo sguardo del lettore, come se la prospettiva cambiasse a ogni passo e fare il punto diventasse impossibile. Altri libri ancora sono inclassificabili, non appartengono alle tipologie appena ricordate, perché raggiungono la precisione del concetto per mezzo di folgorazioni e inducono nel lettore una percezione contraddittoria, quella di un paesaggio estremamente mobile che improvvisamente s’incanta, poi ricomincia a fluire e rompe la nettezza dei contorni, poi nuovamente congela… Quest’ultimo è il caso del libro di Federico Leoni – L’automa. Leibniz, Bergson, Mimesis, Milano 2019 – in cui salti e smottamenti concettuali se ne stanno in agguato sotto il velo di una scrittura più che elegante e una coerenza sistematica è ottenuta anche per mezzo di brusche svolte nell’argomentazione. 

 

La parola automa ci fa venire in mente pupazzi settecenteschi che giocano a scacchi o suonano il clavicembalo e di solito diventa il pretesto per considerazioni scientifiche o tutt’al più teologiche, ma per Leoni l’automa è anzitutto un personaggio filosofico, il rappresentante di una vita piena di sfumature, di volta in volta fluente e rigida, naturale e impacciata, pratica e speculativa. Il personaggio filosofico dell’automa viene preso in considerazione nel momento della nascita (Aristotele), accompagnato nelle peripezie principali (Leibniz, Bergson, Deleuze) e indagato nelle forme eterogenee, spesso irriconoscibili, che è capace di assumere (calcolo differenziale, massa protoplasmatica, nodo di immagini-movimento). Il personaggio filosofico – diceva Deleuze – è una specie di mimo capace di controeffettuare l’evento, di riprendere cioè quel tanto di virtualità o pura possibilità che ancora si dà a riconoscere dentro gli stati di cose, di evocare gli spettri che infestano gli edifici dell’abitudine.

 

 

Ma l’automa di Leoni non si limita a percorrere la via in alto, dai corpi agli eventi, si muove anche verso il basso, dagli eventi ai corpi. La nozione di automa è flessibile, contamina i termini delle dicotomie metafisiche alle quali siamo più affezionati. Uno/molteplice, soggetto/predicato, continuità/discontinuità, inorganico/organico, sogno/realtà, intensione/estensione, istinto/intelligenza: l’automa è il passeur segreto di queste polarità, è – avrebbe detto Baudrillard – la s-terminazione di ogni opposizione tra termini, è il concatenamento, il luogo di passaggio dove i prodotti di una dialettica isterilita riprendono vita, tornano a incontrarsi, si intrecciano. Per esempio: che cosa accade quando una vespa punge un bruco e lo divora? C’è un pezzo di realtà che ne incontra un altro, c’è il tessersi di una relazione a partire da una preliminare estraneità reciproca? Questa descrizione apparentemente sensata si scontra con alcuni dati di fatto: ciò che ci sorprende è la sicurezza con cui l’addome della vespa prende di mira i centri nervosi del bruco pungendolo e paralizzandolo perché diventi una riserva di cibo che non va in decomposizione, come se la vespa disponesse di una conoscenza anatomica dettagliata della vittima e dei processi fisiologici. In realtà non è in gioco nessun “sapere” o “conoscenza” ma l’intimità che un insetto, la vespa, ha con un aspetto del suo ambiente, in questo caso un altro insetto, il bruco.

 

L’aggressione è una piega di questa intimità preliminare, è una tappa del farsi-bruco della vespa e del farsi-vespa del bruco, un reciproco prodursi e rimodellarsi, un risucchio dell’uno nell’altro che pone l’uno e l’altro, un divenire, un processo che viene vissuto attivamente dalla vespa e passivamente dal bruco, un evento che «non è mai né vespa né bruco, […] un tratto grigio tra i due che non ci sono». Questo grigio è la prima figura dell’automa, il grigio su grigio che Cézanne diceva essere la matrice di ogni pittura, una specie di intensità cromatica zero dalla quale è come se gli altri colori saltassero fuori per differenziarsi. Non ci sono da una parte la vespa e dall’altra il bruco: la violenza della vespa sta “inventando” il bruco, non meno di quanto la remissione del bruco sta “inventando” la vespa. Allo stesso modo in cui lo sguardo della monade, che secondo Leibniz prende di mira la città, e la città non sono due cose distinte, perché la città è l’appendice di quello sguardo, «la sua periferia via via più lontana. Città è il nome che diamo allo sguardo che s’inoltra in se stesso» e sguardo è il nome che diamo alla città che si esibisce davanti a sé. C’è un automatismo della divorazione in virtù del quale la vespa è il bruco e il bruco è la vespa. C’è un automatismo dello sguardo in cui la prospettiva è la città e la città è la prospettiva. 

 

Movimento senza potenza e senza atto, così Leoni definisce l’automa: non il movimento che sarebbe la proprietà di un soggetto (il mobile), ma l’intersecarsi di quelle immagini-movimento prive di qualsiasi supporto che Bergson mette all’inizio del mondo. Come il flusso delle immagini-movimento si ramifica in innumerevoli serie di percezioni, azioni e affetti – il centro di indeterminazione che è il nostro corpo seleziona e preleva dai movimenti che lo investono soltanto ciò che gli serve, producendo la prima forma di discontinuità dentro la continuità del mondo –, così l’automa grigio e impersonale è anche la radice delle segmentazioni e delle distanze di cui è fatta la realtà. L’automa diventa macchina, la motilità assoluta dell’origine si scompone in mobile + movimento (infatti, «se l’automa si muove da sé, la macchina si limita a essere mossa»). La complessità della relazione che l’automa è, viene dispiegata, analizzata, scandita. L’automa non designa soltanto la complicità intensiva dei disparati ma anche la «soglia virtuale […] dell’estensione», l’articolazione dei segmenti separati, il «ritmo virtuale, cioè inorganico, dell’organismo». L’automa è la massa inorganica e la sua organizzazione. L’organizzazione rimane un effetto interno al funzionamento dell’automa, non è qualche cosa che gli capita per avventura o da fuori: l’automa è capace di duplicare se stesso, allargare, tradurre e dispiegare davanti allo sguardo la sua inafferrabile complicazione. La forma immediata in cui si dà a riconoscere lo svolgimento estensivo dell’intensità automatica è l’azione resa cosciente e per ciò stesso esitante.

 

Il personaggio filosofico dell’automa oscilla tra la tenebrosa spontaneità della propria natura e la «sospensione […] in una macchina perfettamente inerziale», fatta di luce e zoppicante consapevolezza. L’incoscienza dell’automa, la coscienza della macchina: queste forme dell’essere non smettono di intersecarsi, scambiarsi di posto, rispecchiarsi l’una nell’altra, «l’irrompere dell’inconscio non è altro che l’irrompere, nell’insieme trasparente di quelle partes extra partes che sono le immagini della vita cosciente, dell’insieme non insiemistico di quelle partes intra partes che sono gli infiniti eventi cosmologici che in essa brulicano oscuramente». L’automa è la trasparenza che si opacizza, l’opacità che si fa trasparente. È una incarnazione del pensatore apollineo che si mette in riva al mare per lasciarsi invadere dalle piccole percezioni che sono le Idee di Dioniso.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Possibilità
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Jitka Hanzlová, Silences

$
0
0

Il paese si chiama Rokytník. Un bambino sta fermo in mezzo alla strada. Guarda direttamente nell’obiettivo. Tiene in mano uno scudo e una spada. Sembra che voglia giocare e contemporaneamente ostacolare il passaggio. Lo sguardo è sicuro di sé, quasi impenetrabile. Familiare e perturbante. Una presenza ostinata da cui non si può prescindere, e al contempo un brandello di passato che torna a vivere nel fotogramma. Non c’è dubbio: l’obiettivo è il doppio dello scudo. Poiché Rokytník è anche il paese in cui è vissuta Jitka Hanzlová, l’autrice dello scatto. La sua storia ne è l’emblema. Nata nel 1958 a Náchod, nella ex Cecoslovacchia, fugge ad Essen nel 1982, dove studia Design della Comunicazione. In seguito alla dissoluzione del regime comunista cecoslovacco ritorna al suo paese. “Tutto il mio lavoro ruota attorno all’idea di ciò che è casa. Vivere in esilio significa parcheggiare la memoria, il nostro stesso linguaggio, perdere l’equilibrio, mettendo tutta la speranza nel futuro”, racconta la fotografa. La Galleria Nazionale di Praga le dedica una mostra intitolata Silences, a cura di Adam Budak, che ripercorre trent’anni di attività.

 

Dal 1990 non cessa più di scattare, come se dovesse colmare un vuoto irrecuperabile. Nelle immagini della Hanzlová, sin dai suoi primi libri, si percepisce la presenza di una tonalità che rappresenta la perdita, lo smarrimento, la caducità ma anche l’idea di un “c’è, è qui”, “c’era, e c’è ancora”, indipendente dalla durata temporale. Le immagini sono le sue parole, una lingua perduta e poi ritrovata. “Sono giunta alla fotografia (…) in un momento in cui, come straniera, non potevo conversare o capire. Durante questo periodo, guardare è diventata la mia prima lingua”, racconta la Hanzlová. Rokytník (1990-1994) è il suo primo lavoro. Attorno allo sguardo di quel bambino, magnetico come quello fotografato nel 1962 a Central Park da Diane Arbus, una delle sue fotografe predilette, si polarizza la tensione sprigionata dalle immagini della Hanzlová. 

 

Jitka Hanzlová, Rokytník (1990-1994).


Osservarle significa scontrarsi con una forma di apparente banalità. Non vi sono picchi di orrore o di bellezza. Ci si chiede: perché il prato estivo di Rokytník, che apre il lavoro omonimo, è sinonimo di serenità e al contempo sembra celare un mistero? Charlotte Cotton definisce questo stile “estetica dell’impassibilità”: un genere di fotografia fredda, distaccata, perfettamente a fuoco. E ne fa risalire l’origine agli insegnamenti di Bernd e Hilla Becher, e ancor prima ai movimenti tedeschi della Nuova Oggettività, sviluppatisi negli anni Venti e Trenta del Novecento. Eppure, nelle immagini della Hanzlová, sembra esserci qualcosa che si spinge oltre questa solida impassibilità. 

 

Ne è un esempio il lavoro intitolato Forest (2000-2005). Secondo John Berger, che scrive l’introduzione a questo lavoro, “l'interno profondo di una foresta, è percepito come una mano percepisce l'interno di un guanto”. Cos’è la foresta-guanto? Il sogno, l’inconscio, la paura, il buio? E cosa significa spingersi al suo interno? 

Degli alberi si vedono solo i tronchi, così vicini da sembrare le sbarre di una porta immaginaria; il suolo è ricoperto di erba verde, in piena luce, e sembra condurre verso lo sfondo nero della fotografia e della foresta, rami e foglie ricoprono la superficie delle foto e invogliano lo sguardo a varcare la loro soglia. Gli animali sono gli unici esseri viventi: piccoli ragni tessono una tela invisibile sospesi nel vuoto ed un uccello, poggiato sopra un ramo, pare che guardi direttamente l’obiettivo. Secondo Urs Stahel, che ha scritto un lungo saggio introduttivo al catalogo della mostra, guardare le immagini della foresta genera una precisa sensazione: è come trovarsi nel cuore di un uragano, pacifico, silenzioso, in decelerazione, apparentemente vuoto. Eppure vi è altro. 

La foresta-guanto è l’entrata nel mondo delle ombre. La Hanzlová non si accontenta di fotografare ciò che vede. Vuole mostrarne il segreto. Per questo le sue immagini sono inafferrabili. La loro è una verità di cui non possiamo tracciare dei contorni netti, ma di cui non possiamo fare a meno. 

 

Jitka Hanzlová, Forest (2000-2005).


Cosa significa abitare in un posto in cui non si è nati? Le immagini di Bewohner (1994-1996), scattate nella maggior parte a Essen, sono l’esatta antitesi di Rokytník. Le immagini sono perfettamente speculari: la città dell’esilio vista dopo il ritorno a casa. Ciò che abita l’immagine è qualcosa di estraneo. Vi si contrappongono il paese e la città. Il libro si apre con un’immagine di Berlino innevata e nebbiosa vista da Alexanderplatz, e si chiude con la foto di un vaso che contiene un girasole rinsecchito. Della natura restano poche tracce: un bellissimo pavone, chiuso in gabbia, con la coda aperta; i rami di un albero che sembrano sfiorare la parete di un edificio in cemento; una scia luminosa, lasciata forse da una traccia di carburante sull’asfalto, che ricorda un arcobaleno.  

 

Jitka Hanzlová, Bewohner (1994-1996).


La medesima luce trapela dallo spazio della foresta e illumina le protagoniste di Female (1997-2000). Ma chi sono queste donne? Quali sono le loro storie? In questa serie di ritratti, la fotografa chiede alle donne che incontra per le strade di Los Angeles, Madrid, Londra, Essen, Berlino, se può scattare loro una foto. Le biografie di chi fotografa e di chi viene fotografata tendono a confondersi. La luce, il suo dispiegarsi sui volti, suggerisce l’esistenza di una storia, lo “sviluppo” si potrebbe dire in termini fotografici, l’idea che in ogni immagine sviluppata sopravviva un’immagine latente. Eppure tutto resta misterioso. 

 

Jitka Hanzlová, Female (1997-2000).


Cosa raccontano le immagini di Horses (2007-2014) I cavalli vengono spesso ritratti attraverso singoli dettagli del loro corpo: la coda, un orecchio, il collo, tanto da sembrare quasi umani. In una di queste, si vede una parte del corpo quasi irriconoscibile, una spirale che ricorda la forma di un orecchio umano. Un altro invito a penetrare la superficie, per giungere in una cavità. Il silenzio che avvolge le immagini è una ulteriore soglia da varcare. La luce di queste immagini, che sono quasi sempre a fuoco, non fa altro che invitarci ad entrare nel buio della foresta, nel suo spazio profondo. L’apparenza manifesta delle cose, la loro superficie, non è altro che la porta per raggiungere una visibilità segreta, nascosta. Un modo per entrare nello spessore delle immagini, per dare loro un corpo. 

 

Tutto è dinnanzi ai nostri occhi e tutto sembra che stia per scomparire. Le fotografie della Hanzlová sono frammenti che si attirano, si cercano, ma il motore interno che le unisce non si lascia mai completamente definire. Non dice sino in fondo il groviglio di emozioni che accompagna i soggetti, eppure l’emozione non è sottratta, è solo spostata. Questo trasferimento passa attraverso il suo sguardo, attraverso il suo modo di incontrare la gente, i posti, gli animali. I soggetti sono colti in un gesto, in un dettaglio. Passano. E poi restano.

 

Forse non è un caso che la fotografa abbia imparato a fotografare e nel contempo a rilegare i suoi libri. Rilegare equivale a generare uno spessore dietro una superficie, significa dare un volume. Ogni pagina conduce nel corpo del testo, ogni immagine è un frammento di volume. “Ho iniziato a studiare fotografia e ho anche imparato a rilegare libri. (…) Alcuni anni dopo, stavo scattando fotografie a Rokytník e recuperando il mio passato, pezzo per pezzo, cercavo il mio linguaggio fotografico e, alla fine, la verità. Ma cos'è la verità?”, si chiede la fotografa.

 

Tutto è avvolto dal silenzio. Non solo nelle immagini di Horses, ma anche in quelle di Rokytník, di Brixton (2002), il quartiere a sud di Londra abitato da immigrati dei Caraibi, del Giappone di Cotton Rose (2004-2006) e così per tutti i luoghi in cui la Hanzlová ha fotografato. Il silenzio, “è uno spazio dove mi sento a casa, dove il mio orologio interiore segna la via che ha senso”, afferma la fotografa. Il suo ultimo lavoro, intitolato Water (2013-2019), torna a confermarlo. L’acqua segna il ritorno al vuoto, all’origine, alla profondità. Un vuoto antecedente al linguaggio. Forse sta qui il senso. Ogni immagine è la forma di un silenzio che reca in sé la consapevolezza della propria fugacità. Eppure ogni silenzio, pare suggerire la Hanzlová, al di là del provvisorio universo in cui viviamo, è anche uno spazio in cui si può abitare. Profondo e misterioso. Forse è questo il vero segreto.

 

Silences, di Jitka Hanzlová a cura di Adam Budak, Galleria Nazionale di Praga, fino al 16/2/2020.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Galleria Nazionale di Praga
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

La sposa meccanica di Marshall McLuhan

$
0
0

Marshall McLuhan viene solitamente considerato il più importante studioso dei media. Nato nel 1911 a Edmonton, in Canada, ha studiato lingua e letteratura inglese a Cambridge e ha insegnato in diverse università, tra cui principalmente quella di Toronto, dove ha operato tra il 1946 e il 1979. Le sue vastissime conoscenze, relative soprattutto alla letteratura e alla cultura classica, gli hanno consentito di interpretare in maniera innovativa e originale il ruolo sociale svolto dagli strumenti di comunicazione. La sposa meccanica. Il folclore dell’uomo industrialeè stata la sua prima opera ed è uscita negli Stati Uniti nel 1951. Si tratta di un lavoro che solitamente non viene molto considerato, ma che è invece estremamente importante, in quanto in esso McLuhan ha tentato per la prima volta di smontare i miti presenti nella cultura della società di massa.

 

Non è stato infatti Roland Barthes, come spesso si ritiene, a mettere per primo sotto accusa i miti della cultura di massa, in quanto il celebre volume Miti d’oggiè stato pubblicato dal semiologo francese sei anni dopo il testo di McLuhan. Questo testo, però, non ha goduto di una grande fortuna, perlomeno in Italia. Si pensi, infatti, che perché uscisse una traduzione in lingua italiana, presso l’editore SugarCo di Milano, è stato necessario che passassero ben trentatré anni. Il regista e studioso dei media Roberto Faenza ha cercato di spiegare nella sua prefazione al volume quelle che a suo avviso sono le ragioni del lungo rifiuto in Italia delle interpretazioni di McLuhan: l’egemonia esercitata da una cultura di matrice idealista e crociana, ma anche la forte presenza di una tradizione culturale di orientamento marxista. L’originalità e l’eclettismo espressi da McLuhan con le sue idee rientrano infatti con notevole fatica all’interno dei semplificati schemi interpretativi elaborati da questi due sistemi culturali. Così persino un intellettuale aperto al nuovo come Umberto Eco si è adeguato all’interpretazione dominante del pensiero di McLuhan collocando nel 1977 tale autore, all’interno del volume Dalla periferia dell’impero, tra quelli che ha chiamato gli «Iper-Integrati». D’altronde, anche negli altri paesi McLuhan ha spesso incontrato delle difficoltà ad essere pienamente compreso e accettato. 

 

La sposa meccanica però, come si diceva, è un volume importante, perché costituisce la prima approfondita analisi di una vasta serie di fenomeni culturali che sono attivi all’interno della cultura di massa. McLuhan ha affrontato però tali fenomeni evitando quegli eccessi fortemente critici che sono di solito rintracciabili nelle riflessioni sviluppate dalla maggior parte degli studiosi arrivati in seguito. Aveva infatti ben chiaro che la cultura di massa va necessariamente affrontata con un pensiero che non cerca di entrare al suo interno integrandosi con essa, ma nemmeno tenta di prendere posizione rimanendo passivamente al suo esterno. Non è un caso che lo stesso McLuhan abbia esplicitamente dichiarato nell’introduzione a La sposa meccanica di essersi ispirato nella messa a punto del suo metodo d’analisi al celebre racconto di Edgar Allan Poe Una discesa nel Maelström, nel quale un marinaio riesce miracolosamente a salvarsi «studiando l’azione del gorgo e cooperando con essa» (p. 11). Secondo McLuhan, infatti, «Fu proprio questo divertimento che nasceva dal suo distacco razionale di spettatore della propria situazione che gli fornì il filo per uscire dal labirinto [...] Molti di coloro che sono abituati a un tono di indignazione morale scambieranno questo divertimento per semplice indifferenza. Ma l’ora della rabbia e della protesta è tipica dei primi stadi di ogni nuovo processo. Lo stadio attuale è invece estremamente avanzato» (p. 12). Secondo McLuhan, soltanto agendo in questa maniera è possibile collocare il fruitore di fronte ai flussi dei messaggi e delle immagini che sono stati creati dai mezzi di comunicazione e far sì che egli possa porsi in maniera consapevole rispetto a tali flussi.

 

 

I temi che sono stati affrontati da McLuhan all’interno del volume La sposa meccanica sono numerosi e gli sono stati suggeriti dalla natura estremamente variegata della comunicazione mediatica: dall’informazione giornalistica ai fumetti, dalla radio ai libri, dallo sport alla cronaca nera. E solitamente McLuhan per analizzare tali temi ha fatto ricorso a degli annunci pubblicitari rintracciati sui giornali. Uno dei temi più significativi tra quelli affrontati dal mediologo canadese è senz’altro quello che è presente nel capitolo che non casualmente reca lo stesso titolo del volume. In questo capitolo, infatti, McLuhan si è occupato della relazione che esiste nella cultura di massa tra la dimensione della sessualità e quella della tecnologia. E lo fa attraverso l’annuncio pubblicitario delle calze di nylon della società statunitense Gotham Hosiery. A suo avviso, in questo annuncio appare evidente che le gambe femminili vengano poste su un piedestallo perché rivestono un ruolo significativo nella nostra dinamica culturale «delle parti sostituibili». Infatti, a suo parere, questo messaggio mostra che «Le gambe oggi sono state indottrinate. Sono autocoscienti. Parlano. Hanno un vasto pubblico. Vengono invitate ad appuntamenti. E in gradi diversi le agenzie pubblicitarie hanno esteso questo trattamento ad ogni altro segmento dell’anatomia femminile» (p. 197). Vale a dire che per McLuhan questo annuncio rende evidente che la comunicazione pubblicitaria tende solitamente a frammentare il corpo femminile e a dare vita a una netta dissociazione tra la dimensione sessuale e l’identità personale. Dunque, la persona reale che si vede rappresentata, in questo caso una ragazza, è portata a osservare se stessa come un oggetto e non come un individuo. È portata cioè ad avere una visione incoerente della sua identità. 

 

Anche in un altro capitolo del libro – La curva del successo del corsetto– il mediologo canadese ha affermato che «La tipica ragazza seducente costituisce un caso molto interessante di meccanizzazione. Ella accetta dal mondo tecnologico l’ordine di trasformare la sua struttura organica in una macchina» (p. 293). Ma il paradossale legame tra macchina e corpo è stato evidenziato diverse altre volte da McLuhan all’interno del volume La sposa meccanica. Ciò è accaduto soprattutto nel capitolo dal titolo La scelta fatta dal marito, dove tale legame viene esplorato stabilendo un preciso parallelismo tra le automobili e il corpo femminile, ovvero tra la tecnologia e la sessualità.

Come si è detto, l’approccio di McLuhan agli oggetti della cultura di massa si differenzia notevolmente da quel filone di ricerca fortemente critico che numerosi studiosi hanno sviluppato in seguito. Può essere in qualche misura avvicinato alla prospettiva che era già stata adottata in precedenza da un autore come Walter Benjamin. Cioè a una prospettiva che, anziché porsi frontalmente rispetto alla cultura di massa, tenta di metterla in discussione portandola all’estremo attraverso un metodo “dialettico”. Perché, secondo Benjamin, la critica più radicale può essere esercitata attraverso un attento lavoro di selezione e accumulo di materiali espressivi che sia in grado di far emergere, in maniera quasi automatica, un punto di discontinuità. Un punto che può consentire al soggetto di diventare pienamente consapevole di sé e dunque anche di assumersi una responsabilità etica di fronte alla cultura mediatica e di massa.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
La biblioteca di Atlantide
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Figli: 1+1=11!

$
0
0
Cosa porterà la sorte A coloro che verranno, si chiede a una tavolata che discute di Figli un trentenne che il film non l’ha ancora visto, però alla sua generazione riprodursi appare tanto inverosimile quanto a quella dei baby boomer lo sbarco di un uomo sulla luna. Per chi aveva poco più di dieci anni nel duemila la scarsità di lavoro, la miseria dei guadagni, le condizioni del clima atmosferico e spirituale, la linea dell’orizzonte che pare curvarsi all’ingiù non lasciano dubbi: domani non sarà migliore di oggi. 

Nell’Italia a crescita zero l’andamento demografico ha avuto una forma a piramide fino agli anni '60. Adesso, che per età media siamo terzi al mondo dopo il Principato di Monaco e il Giappone, la priamide si è quasi rovesciata. E i giovani adulti dell’epoca attuale sono tra i primi, dall’inizio del Novecento, a non essere in grado di migliorare le proprie prospettive rispetto a quelli da cui discendono. Se, come ci dicono i sociologi, il “progresso” è una credenza, avanzare nel futuro può dare l’impressione di arretrare.

E il successo nelle sale di un film come Figli rivela il bisogno delle generazioni X Y Z di rispecchiarsi in tonalità melanconiche e tragicomiche capaci di raccontare la solitudine di chi sopravvive nell’emergenza, mentre le ragioni dell’odio paiono un collante più efficace di quelle della comunità.

 

 

I quarantenni Sara (Paola Cortellesi) e Nicola (Valerio Mastandrea) sono colti al bivio del bis, che in molti desiderano, in pochi però osano varcare. Quello di raddoppiare, avere un secondo figlio, provare a farcela nonostante il mondo circostante lo sconsigli. Chi lo ha già fatto, come un amico giornalista, non riesce a nascondere la sua disapprovazione, i suoi non sono auguri ma condoglianze. Sara e Nicola lavorano entrambi nel campo della ristorazione, lui in un locale che prepara cibi pronti, lei è un’addetta al controllo delle condizioni igieniche delle cucine. A ogni nuova ispezione ripete, “questo mestiere ti fa capire il disamore di cui è capace questo paese”. Hanno una figlia di sei anni, Anna, bambina saggia già ben adattata ai ritmi dei grandi; faticano ma, negli interstizi, riescono a divertirsi e fare l’amore. A partecipare ai rumorosi apericena dei coetanei, da cui loro devono spesso sgusciare prima che i festeggiamenti tocchino il climax. Quando chi brinda annuncia, euforico, di aver raggiunto l’obiettivo della sua lotta: non ha abbattuto il capitalismo, ma ha saldato il debito con l’agenzia delle entrate.

 

I primi mesi il trantran regge, il neonato dorme e Sara non è ancora ritornata al lavoro, anche se la primogenita insinua, “C’era proprio bisogno del fratellino?”. Al terzo mese il patatrac, il pianto ininterrotto e le urla di Pietro, coperte dalle note della “Patetica” di Beethoven, scuotono le notti e gli equilibri della famiglia, spezzano i nervi della quotidianità. Perché la madre non può lavorare, il padre deve lavorare, a fine mese come si arriva, Anna è triste e gelosa. E ripara con disegni coloratissimi il suo senso di catastrofe. Zacchete: il rivale non è mai nato, il Titanic non è mai affondato, le Torri Gemelle non sono mai cadute.  

La pediatra guru, olistica e carissima, suggerisce ai genitori di assecondare il pianto del bambino, di non avere fretta di farlo addormentare, cambiare ritmo, insomma cambiare vita. Loro due ogni tanto lo fanno, fantasticando di buttarsi giù dalla finestra da soli o insieme.

 

 


La famiglia non riesce a diventare né un 4 numerico, né un 5 simbolico. A proposito, la numerologia psicoanalitica è diversa da quella matematica. In Il mondo dell’oggetto evocativo Christopher Bollas scrive: “possiamo dire che 1+1=3. Nella vita psichica c’è un evento che la psicoanalisi deve contare in questo modo: madre più padre producono un bambino, il che crea una triade”. Ma le cose sono molto più complicate di così, continua Bollas, perché bisogna tenere conto dei rispettivi genitori di entrambi i partner, dunque eccoci già a 7, soprattutto bisogna pensare che, per funzionare, bisogna avere sempre in mente che 1+1+1 fanno 4, perché formare una famiglia significa questo. Ma non tutte le famiglie, conclude, sanno contare fino a 4. Bollas si ferma qui, in Figli gli amici avevano messo in guardia Sara e Nicola: 1+1=11! Una profezia che si autoavvera. 

 

Il confronto con i diversi modelli di famiglia non serve, ognuno crede nel proprio single-issue. Ci sono i naturisti, nessun tablet e per regalo una scarpa a Natale e una a Pasqua, così forse si ritorna al sapore del desiderio; i para-inglesi, che considerano l’italiano una seconda lingua; i miliardari, i cui figli vivono con la nanny e hanno in testa solo la mappa delle Isole filippine; i separati, che si sentono in colpa di default. Sara e Nicola sognano la tata ideale, mentre sfilano baby-sitter eccentriche di ogni età e paese. Quando, esausti, approdano al ristorante, non vedono l’ora di ritornare al soffoco della casa.

 

Sono dei revenant che corrono sempre, in Italia madri e padri giovani non li abbiamo – I figliinvecchianoè il monologo di Mattia Torre (1972-2019) a cui si ispira il film –, quindici anni fa si era dei privilegiati, nevrotici ma non così smarriti e sgomenti, con la sensazione di essere abbandonati dai coetanei e dai genitori. Perché la lotta di classe si è trasformata in lotta tra le generazioni, le stagioni non si ricompongono in uno stato di quiete come nel quadro Le età dell’uomo di Caspar David Friedrich, dove cinque figure umane, due bambini e tre grandi, padre, madre e nonno, rappresentano il ciclo biologico.

 

Caspar David Friedrich, “Le tre età dell’uomo”, 1835.


La madre di Sara spende le sue energie in piscina e non vuole impegnarsi con il nipote, lo scambio di accuse tra le due donne è uno dei momenti più drammatici del film. “Perché la vostra generazione si è mangiata tutto. Siete nati nell’immediato dopoguerra, avete vissuto l’infanzia in una rete famigliare ampia e generosa, vi siete goduti il boom economico, (…). Non avete pensato alle generazioni successive. E continuate a non farlo. Oggi, con i soldi della pensione, di cui sarete gli ultimi a beneficiare, vi godete la vita, (…), e soprattutto credete nel futuro, il futuro che sarete gli ultimi ad avere. Perché non morite neanche più”. La risposta della nonna è un comizio: “Ma noi siamo tantissimi. Ogni 100 giovani ci sono 165 anziani. E questo significa maggioranza assoluta, e cioè, virtualmente, Camera, Senato e Governo della Repubblica. Abbiamo le tv, perché condizioniamo palinsesti e linee editoriali: Sanremo è fatto per noi, e così anche la grande fiction nazional-popolare. (…) Le case di proprietà e i libretti di risparmio su cui si regge l’intera economia di questo paese – e senza i quali chiudevamo come la Grecia – sono in mano nostra. (…) Ci manca solo un po’ più di consapevolezza e coesione, e saremo pronti, finalmente, a fare il culo a tutti”. Anche il padre di Stefano non può dare una mano, è lui a mettere su famiglia e chiede sostegno: vuole un nuovo erede. 

 

Le ragioni dei singoli si riflettono nello scontro tra città e campagna, tra giovani e vecchi, Figliè un lungometraggio dal taglio più sociologico che psicologico. Certo, fanno ridere alcune battute dei litigi uomo-donna, lei che arriva sempre prima, lui sempre dopo, e per giustificarsi dice: “Mi hanno visto tutti che ho caricato la lavastoviglie”. La loro organizzazione è comunque ferrea, la giornata è una negoziazione di tempo e denaro continua: la coppia è il catalizzatore delle follie del sistema.

C’è chi si separa, chi si prende una boccata d’aria con un amante, Sara e Nicola lo sanno e ci pensano. Eppure, quando possono, loro stanno bene insieme. E così continuano a dirsi: ce la faremo. Resistono e restano, si ripetono il loro mantra, accettazione, comunicazione, comunità. Ogni tanto funziona: in un fast food a norma le polpette sono squisite.

 

In Troppi paradisi, uscito nel 2006, Walter Siti affermava: “Sono l’Occidente perché 

detesto i bambini e il futuro non mi interessa”. Anche questa una profezia che si autoavvera?

 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
L’ultimo figlio
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Kenro Izu, Requiem for Pompei

$
0
0

Kenro Izu Pompei, Casa di Arianna, 2016 Stampa inkjet 61x76 cm © Kenro Izu Courtesy Fondazione di Modena - Fondazione Modena Arti Visive.


«Quando vidi quell’albero, che si ergeva sul tempio con una tale autorevolezza, fui travolto da pensieri che si spingevano ben oltre le semplici nozioni di vita o di morte. Mi resi conto in quel momento che quell’albero poteva avere una risposta. E iniziai a interrogarmi sulla mia stessa esistenza.» (Kenro Izu)

L’albero in questione appare in un’immagine che l’autore scatta in Cambogia, ad Angkor, nel 1993 dove si vede un gigantesco tronco senza più le fronde le cui radici scivolano lungo le pareti del tempio rimanendo ad esso avvinghiate. Tutto è qui rappresentato: la vita da quelle radici superbe e la morte che si può identificare nel morbido buio che fuoriesce dalle aperture del tempio. Altro non esiste. 

Andare oltre la nozione di vita o di morte vuol dire dunque spingersi in un ambiente misterioso, dal quale il fotografo giapponese è da sempre attratto, nella spiritualità di luoghi imponenti dove le antiche architetture, modellate dal passare del tempo, restituiscono un’aura alla Storia e alla sua grandezza rispetto al presente, ma in cui si trova anche la ricerca di un profondo dove l’atto di avventurarsi mette inevitabilmente in contatto l’individuo con l’enigma dell’esistenza.

 

Nato a Osaka nel 1949, Kenru Izu si forma alla Art at Nippon University di Tokyo. All’inizio degli anni Settanta si trasferisce a New York dove la fotografia è nei musei ed è considerata una forma d’arte, cosa che non avviene in Giappone. Ben presto apre un proprio studio specializzandosi in still life e utilizzando macchine fotografiche e tecniche di stampa considerate, in un’epoca di avanguardie artistiche, antiche. Ma Kenru Izo non se ne cura, la sua ricerca ha radici profonde. Il suo primo approccio con la fotografia avviene quando, lavorando nel campo medico, fotografa al microscopio i microorganismi. Si può facilmente immaginare che già all’epoca il giovane fotografo giapponese potesse essere affascinato da forme invisibili a occhio nudo eppure esistenti.

 

Kenro Izu Pompei, Tempio di Apollo, 2016 Stampa al platino 42,5x55 cm © Kenro Izu Courtesy Fondazione di Modena - Fondazione Modena Arti Visive.


Fin da bambino Izu sogna di vedere le antiche pietre del mondo come quelle di Stonehenge, Bogotà, Angkor, luoghi in cui la stratificazione delle culture ha prodotto un fascino ancestrale incommensurabile. In questi suoi viaggi Izu intuisce che queste architetture vanno ben oltre la storia che rappresentano, possiedono un lato magico che mette in comunicazione l’essere umano con altri mondi paralleli, nonostante essi si siano in un certo qual modo estinti. 

Nel 1979 intraprende il primo di quattro viaggi in Egitto, dove si reca per fotografare le Piramidi, ne resta folgorato. La sua passione per queste vestigia storiche assume un senso che travalica l’essere umano, qualcosa cui l’individuo appartiene ma al tempo stesso non governa, come se la costruzione di questi monumenti fosse stata resa possibile solo grazie a una sorta di intervento divino. 

A questo primo viaggio molti ne seguiranno, con inalterato stupore l’uomo Izu, “rappresentante” del genere umano, non ci mostra mai una semplice documentazione ma, volendo ascoltare, ci offre un silenzioso “contatto” con quegli altri mondi.

 

Sacred Places, di cui fanno parte, oltre alle fotografie delle Piramidi d’Egitto, anche quelle delle Piramidi dei Maya, di Stonehenge e di molti altri siti archeologici situati in svariate parti del mondo, dal Messico al sud est asiatico, diventa il progetto più importante e tutt’ora in corso, della sua vita. L’intenzione dell’autore è quella di entrare nel luogo attraverso l’immagine e per far questo utilizza il banco ottico che riproduce accuratamente ogni particolare così come la stampa al palladio che restituisce la materia di ogni cosa. 

 

Kenro Izu Pompei, Anfiteatro, 2016 Stampa inkjet 61x76 cm © Kenro Izu Courtesy Fondazione di Modena - Fondazione Modena Arti Visive.


In questi suoi pellegrinaggi, la fotografia diventa un atto di riflessione, di osservazione paziente e lenta, dove a poco a poco gli uomini diventano parte integrante del paesaggio, corpi della natura. Kenro Izu pur appartenendo al tempo contemporaneo, passa attraverso questi luoghi sacri ricavandone una visione che rimane fedele ai luoghi stessi. Nelle immagini, appare un ritratto in cui l’anima rimane inalterata, qualsiasi sia la forma che il fotografo disegna attraverso la luce. 

Molti autori, nel momento in cui scattano, sono spesso alla ricerca inconscia della bella fotografia. Una costruzione mentale che li induce a osservare il soggetto da un punto di vista principalmente estetico, (nel senso di estetizzante). L’intento di Kenro Izu è invece quello di catturare lo spirito del soggetto. Secondo la sensibilità dell’artista giapponese spirito equivale a vita. Per questo tanto i fiori o la frutta dei suoi still life quanto i paesaggi, le architetture e il corpo umano sono per lui tutti soggetti che racchiudono un alito di spiritualità riconducibile ad una sacralità arcaica. 

 

Kenro Izu Pompei, Terme Stabiane, 2016 Stampa al platino 42,5x55 cm © Kenro Izu Courtesy Fondazione di Modena - Fondazione Modena Arti Visive.

 

Al contempo la sua è una fotografia che rivela come la complessa bellezza della vita possa tramutarsi in decadimento e di come questo non smetta comunque di essere “bello”. Un approccio che emerge anche nell’atto del guardare affidato al fruitore, il quale soltanto attraverso una altrettanto lunga e paziente osservazione delle immagini può comprendere la totalità empatica che ha guidato la mano dell’autore, molto lontana dalla rapidità con cui tanta fotografia digitale contemporanea, fatta per essere consumata, si è affermata in tempi recenti.

Questo è infatti ciò che traspare dalle immagini di Izu: una identità che perdura nel tempo senza alterarsi poiché non è invenzione dell’uomo, del suo pensiero, ma un’opera divina e pertanto che lo trascende.

 

Kenro Izu Pompei, Terme del Foro, 2016 Stampa al platino 55x42,5 cm © Kenro Izu Courtesy Fondazione di Modena - Fondazione Modena Arti Visive.


Requiem for Pompei, lavoro iniziato nel 2015 in collaborazione con Fondazione Fotografia Modena e con il Parco Archeologico di Pompei, ruota attorno alla vicenda apocalittica accaduta alla città, su cui il vulcano ha eruttato la sua lava incandescente pietrificando ogni cosa e dove la vita si è fermata lasciando il campo alla morte. 

I calchi, riproduzioni in vetroresina realizzati nel secolo scorso, che l’autore posiziona in armonia con le linee e i reperti del luogo, compaiono negli ambienti come fossero anime alla ricerca del proprio corpo. Senza più un senso di vita divengono tutt’uno con ciò che sta loro intorno. Non più individui che lì hanno vissuto, ma parte integrante del paesaggio. Ravvisiamo in questo la volontà dell’autore di sublimare il luogo attraverso la rappresentazione scenica della morte, che fa dialogare – in modo diverso dalla pura e semplice cronaca – gli ambienti e le figure. 

 

L’uomo disteso a terra, con il braccio destro piegato sotto la testa e le gambe un po’ ritratte, una postura molto frequente quando si dorme, il bambino supino o la donna seduta rannicchiata, vengono “sistemati” da Izu lungo le stradine, nelle case, al cospetto di colonne, mosaici e affreschi conservati nelle abitazioni nobili come la Casa del Poeta Tragico o la Villa dei Misteri o ancora la Casa del Fauno dove il corpo dell’uomo addormentato affronta arreso, nella sua nudità, quello di una improvvisa amata che lo osserva dal muro, sensuale nel biancore puro del suo corpo. 

È una vista conturbante, che scuote i sensi di chi guarda, li eccita, come accade nel film di Rossellini “Viaggio in Italia” in cui la coppia protagonista in visita agli scavi di Pompei (siamo agli inizi degli anni Cinquanta) assiste eccezionalmente al procedimento che permette agli archeologi di rinvenire, attraverso l’iniezione di gesso in una cavità posta nel terreno, il corpo di due persone. Forse moglie e marito – spiega l’accompagnatore –, producendo così in Katherine Joyce (interpretata da Ingrid Bergman), che vive assieme al marito un profondo malessere legato alla loro relazione, uno sconvolgimento tale da farla allontanare piangendo. 

Tale partecipazione emotiva riguarda la vicinanza tra l’uomo antico e l’uomo contemporaneo che può vedere l’emergere di corpi che si sono consumati nel tempo ma la cui forma esiste ancora in quel vuoto protetto dal terreno, intenti in azioni totalmente replicabili ancora oggi. 

Nel film come nelle immagini di Izu, l’incontro con l’improvvisa concretezza della morte altera il percorso della ragione, confuso dall’instabilità del sentimento. Ciò apre la percezione dell’uomo ad una dimensione diversa, in cui il sacro torna a far parte della materia riconducendo il corpo privo di vita all’unione indissolubile con il proprio spirito.

 

Kenro Izu Pompei, Casa del Menandro, 2016 Stampa inkjet 61x76 cm © Kenro Izu Courtesy Fondazione di Modena - Fondazione Modena Arti Visive. 


La fotografia può avere il potere di evocare, “non è una mera forma di arte– puntualizza l’autore – bensì un percorso di ricerca costante nella vita, per trovare il significato più recondito dell’esistenza stessa. Per questo considero ogni fotografia come la mia orma lasciata su un sentiero, talvolta sono orme nette e profonde, altre volte indefinite e superficiali.

 

Il percorso fotografico di Izu dunque è come un sentiero che si allarga e si restringe ma rimane sempre se stesso. Ogni volta offre un punto di vista diverso focalizzandosi ora sul paesaggio ora sull’uomo, come nei due capitoli sull’India Where Prayer Echoes e Eternal Light of India in cui il luogo della preghiera e il volto dell’uomo si sovrappongono. Sono tutte serie di immagini che rappresentano lo sviluppo naturale di Secret Places. “È un progetto sulla vita– dice ancora Izu – sul fatto che tutto è all’interno di un unico grande ciclo”.

 

In occasione dell’esposizione “Requiem for Pompei” in corso a Modena fino al 13 aprile 2020, la già ampia bibliografia di Kenro Izu si arricchisce di una nuova monografia (catalogo della mostra) dall’omonimo titolo, dedicata proprio a questo segmento di lavoro e pubblicata per i tipi di Skira.

 

Kenro Izu Pompei, Casa degli Amorini Dorati, 2016 Stampa al platino 42,5x55 cm © Kenro Izu Courtesy Fondazione di Modena - Fondazione Modena Arti Visive.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
La “rappresentazione” del sacro
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Mariangela Gualtieri, Quando non morivo

$
0
0

La poesia di Mariangela Gualtieri, a partire dalle sue prime raccolte degli anni Novanta, è sempre bella, potente e coinvolgente, ma il suo recente libro, Quando non morivo, Einaudi 2019, riserva ai lettori qualche ulteriore sorpresa.

I temi di questa raccolta sono, per gran parte, quelli che appartengono alla sperimentata tavolozza della Gualtieri. 

In primo luogo l’apertura al mondo nei suoi molteplici aspetti, umani e naturali, spesso stupìta, talvolta perplessa, più spesso fiduciosa:

 

C’è nel mattino – sarà / per quella luce – una sottile ebbrezza / sarà per la bellezza / degli inizi – quella promessa / che sempre si nasconde / quando s’avvia un nuovo / qualche cosa. / Sarà il bello / di cominciare (p. 55)

 

Una situazione tipica è costituita da un io che ascolta, osserva, registra specifiche e singolari “occasioni” vitali (forse la proposizione principale sottesa alla subordinata del titolo sarebbe “sono viva”) non di rado contrassegnate da indicazioni spaziali, temporali e da deittici che riportanto ad un immediato momento presente: “subito”, “questo giorno”, “stanotte”, “oggi”, “eccolo”, “è aprile”, “adesso”, ecc.. 

Il punto di partenza è dunque un concreto “esserci”: “siamo un essere qui”: p. 18; “la rivelazione / d’esserci d’ogni cosa”, p. 105. 

Quasi immancabilmente, però, lo sguardo si allarga in modo prospettico – e spesso vertiginoso – verso una dimensione che trascende l’individuo e abbraccia il passato (il passato della specie, il passato biologico) o il futuro o l’intero mondo naturale e in qualche modo “giustifica” l’esperienza piccola, il momento, come se “un ascolto d’oltremondo invadesse il mondo” (p. 56). 

Questo “ascolto di oltremondo” conduce l’io a porsi le domande ultime che ciascuno si pone sulle ragioni dell’esserci e quasi inevitabilmente spinge al dialogo con chi (o Chi), nella sua inafferrabile assenza e presenza trascende questo mondo, al punto che la poesia si fa talvolta invocazione bestemmia o preghiera. Oltre al bellissimo dittico di Domande a Maria, numerose sono le poesie che assumono una forte connotazione religiosa, in particolare la sezione finale, Requiem. E verosimilmente si riverbera qui la consuetudine con la poesia di Mario Luzi, i cui testi sono stati recitati al Teatro Valdoca, di cui Mariangela Gualtieri è stata fondatrice insieme a Cesare Ronconi. 

 

Se dunque l’esperienza diventa, da individuale, universale, il pronome più adatto a dire questa esperienza non è più “io” ma “noi” e la persona verbale è la prima plurale: 

Subito si cuce questo niente da dire / ad una voce che batte. Vuole / palpitare ancora (…) e sentire che c’è / fra stella e ramo e piuma e pelo e mano / un unico danzare approfondito, e dialogo / di particelle mai assopite, mai morte mai finite. / Siamo questo traslare / cambiare posto e nome. / Siamo un essere qui, perenne navigare / di sostanze da nome a nome. Siamo.”

 

È allora interessante vedere come questa prossimità dell’essere umano ad altri elementi della natura e in particolare agli animali – protagonisti di molte poesie di questa raccolta – porti a una frequente metaforizzazione zoologica dell’elemento psicologico e corporeo:

 

i miei pensieri (…) Corvi insolenti (p. 7)

il piccolo animale [il cuore?] / restando nell’erta del petto (p.11)

l’amore mio (…) mi guarda sul sentiero con occhi / spaventati di capriolo (p. 17)

quel respiro mio di falcone (p. 37)

Il bell’animale selvatico resta non-nato nel petto (p. 44)

La gazzella nel mio petto / salta di meraviglia (p. 65)

Dormi ossicino mio / dormi rondinella (p. 72)

Cani con guaiti di solitudine e morsi di gelo e alcuni / di noi rannicchiati (p. 84)

 

 

Certe composizioni “creaturali” di Quando non morivo ne ricordano alcune di Jude Stefan (come la splendida Animaux, che i lettori italiani conoscono attraverso Sergio Solmi). Altre che ripercorrono il passato biologico della specie riportano forse ad altre di Gottfried Benn, che, però, se può essere accostabile alla poesia della Gualtieri sul piano del cosiddetto “espressionismo”, ne dista poi anni luce ideologicamente, perché in questa autrice non vi è né disperazione né nichilismo. Al contrario l’amore – intimo, privato, o esteso agli esseri umani e alle creature in genere – è uno dei temi costanti della sua poesia, che dalle precedenti raccolte arriva a questa. 

 

L’ultimo elemento di continuità della poesia della Gualtieri che vale la pena di osservare è la funzione centrale che in essa hanno il corpo e la voce, anche in relazione all’esperienza teatrale di questa scrittrice. Corpo e voce sono il crocevia e il mezzo, la cruna stretta e il supporto materiale di ogni pensiero ed espressione. 

Come ha osservato un’interprete attenta di questa poesia (Giorgia Bongiorno, Italies, 13, 2009) la vicinanza all’oralità dà ragione anche di alcune sue caratteristiche formali: «Nella poesia di Mariangela l’importanza del corpo è innegabile, di un corpo quasi sempre al di là della norma, spinto ai suoi limiti inimmaginabili, martoriato, la cui manipolazione si ripercuote sul teatro e che dalla scena prende riverbero. (…) Un corpo artaldiano, glorioso e crudele». 

La sollecitazione estrema del corpo e della voce diventano anche sollecitazione estrema della lingua, necessità di piegare la scrittura poetica alla pronuncia, cioè alla voce, con tutte le sue incertezze, esitazioni, deformazioni e ridondanze semantiche e sintattiche. 

 

Eppure una certa oltranza, che si potrebbe definire espressionista, molto pronunciata in precedenti raccolte, e specialmente in quelle più direttamente legate alla performance teatrale, qui si attenua; resta non a caso molto presente nel dittico mariano prima ricordato e nella sezione finale Requiem, previsto “per coro, orchestra e voce recitante” e messo in scena a Spoleto. 

Lungo le altre sezioni di questo libro, invece, diventano più rari molti dei fenomeni altrove caratteristici della poesia della Gualtieri: la transitivizzazione dei verbi intransitivi, le ripetizioni insistite di sintagmi, la spezzatura dei sintagmi al fondo del verso – per esempio tra articolo e nome –, il procedere verso il significato per approssimazioni verbali che diventavano talvolta balbettamento o afasia. 

Si direbbe, invece, che da un irrompere torrenziale, e teatrale, si passi spesso a una riflessione distillata, quieta, risolta in parole luminose, a volta lapidarie, e oggettivata in immagini.

Talvolta la composizione prende così la strada della forma breve, quasi haiku:

 

È aprile. Piove. E noi qui / a sentire il mistero farsi gocce / sul tetto. Acqua per tutti da bere. (p. 51)

 

Varcherò la fessura del nero / l’involucro deposto / sarò leggera e sola / muta e guizzante / tutta vestita solo / di un altro cielo. (p. 29) 

 

Al tempo stesso, l’allontanarsi dall’espressività parlata conduce a una riscoperta delle misure più tradizionali e classiche del verso, il settenario (tre ne riconosciamo, per esempio, nella seconda delle composizioni appena riportate) e l’endecasillabo; dal primo verso della raccolta: 

Procedi piano. Lascia che la mano (La celeste pazzia, p. 5)

a numerosi altri, magari dissimulati da qualche spezzatura di verso, ma ben riconoscibili anche a una prima lettura; alcuni bellissimi e “luziani”, come quello che chiude una delle poesie più felici del libro (p.6):

 

Questo giorno che ho perso

ed ero nell’esilio

dentro panni che non erano miei

e scarpe che mi disagiavano

e tasche che non riconoscevo

e correvo correvo puntuale

senza neanche un dono

per nessuno. Solo un vuoto, corto

respirare. A conferma che nel disamore

il fare anche se fai resta non fatto. 

 

Mariangela Gualtieri, Quando non morivo, Einaudi, 2019.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Creature
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Andrea Mantegna. Rivivere l'antico, costruire il moderno

$
0
0

“Lasciò costui alla pittura la difficultà degli scorti delle figure al di sotto in su: invenzione difficile e capricciosa” scrive Giorgio Vasari in Vite de' più celebri pittori, scultori e architettori, riferendosi alle figure rappresentate in scorcio nei dipinti di Andrea Mantegna. Lo scorcio del Cristo morto nel sepolcro e tre dolenti conservato alla Pinacoteca di Brera è un capolavoro assoluto, ispirato al motivo iconografico del Compianto sul Cristo morto. Una sua videoriproduzione giganteggia con movimenti di camera sui dettagli nell’allestimento multimediale che correda la mostra Andrea Mantegna. Rivivere l'antico, costruire il moderno (Torino, Palazzo Madama, fino al 4 maggio 2020), promossa dalla Fondazione Torino Musei e da Intesa Sanpaolo. Il Cristo in scurto, presentato come uno sviluppo illusionistico della prospettiva rinascimentale, deve l’effetto del rendere più breve in pittura anche alle linee di contorno, dette da Vasari “linee girate”.

 

Andrea Mantegna, Cristo morto nel sepolcro e tre dolenti, 1483 circa. Milano, Pinacoteca di Brera.


La linea di contorno infatti “deve come girare su se stessa e finire in modo da lasciare immaginare altri piani dietro di sé e da mostrare anche quelle parti che nasconde” spiega Gaio Plinio Secondo in Storia Naturale, (XXXV,67-68), riferendo che Antigono e Senocrate attribuirono a Parrasio la conquista del primato nel disegno delle linee di contorno. Queste linee furono da Bernard Berenson intese con valore plastico e a questa loro interpretazione “funzionale” si deve in parte la lettura plastica e monumentale delle figure dipinte da Mantegna. 

 

Antonio del Pollaiolo, Battaglia dei dieci uomini nudi, 1465 circa. Chiari, Fondazione Biblioteca Morcelli, Pinacoteca Repossi.


Il racchiudere entro il limite del contorno la modalità di scorcio dell’immagine, come nella Battaglia dei dieci uomini nudi incisa da Antonio del Pollaiolo, nota al Mantegna dal tempo del suo apprendistato presso la bottega di Francesco Squarcione, risponde a una logica visiva diversa da quella prospettica. 

 

Lucca, Biblioteca Governativa, ms. 1448, (cc.1r-8r: Elementa picture nella redazione latina con lettera a Teodoro, cc.8v-53v: De pictura nella redazione latina con lettera al Gonzaga, cc.53v-54r: De punctis et lineis apud pictores). Nel manoscritto albertiano del Cinquecento, l’immagine di un occhio materializza il punto geometrico della costruzione prospettica .

 

Andrea Mantegna, scomparto centrale, sinistro e destro della Pala di San Zeno, 1456-1459. Verona, basilica di San Zeno / Sant’Antonio di Padova e San Bernardino da Siena presentano il monogramma di Cristo, 1452. Padova, Museo Antoniniano. L’affresco, che accoglie il visitatore della mostra al Piano Nobile di Palazzo Madama, rappresenta in scorcio dal basso i due santi e alcuni oggetti appoggiati sulla cornice inferiore della lunetta resi con una prospettiva d’effetto.


Nel De pictura e negli Elementa picturae, entrambi composti a Firenze tra il 1435 e il 1436, Leon Battista Alberti espone i principi della geometria euclidea con il linguaggio dei pittori, gettando i fondamenti concettuali e pratici dell’innovazione figurativa trovata da Brunelleschi. Mantegna, che entra in contatto con Alberti alla corte dei Gonzaga, adotta la ratio della prospettiva puntocentrica o lineare che mette in fuga verso un punto infinito (nella Pala di San Zeno il punto è posto al centro del piccolo rosone alla base del trono), ma per scorciare il corpo del Cristo morto usa anche la linea di contorno, che abbrevia segnando il limite di ciò che è finito. Il rendere più breve in pittura con un termine nel quale si racchiude l’intera estensione della figura, nel caso del Compianto di Brera esprime la tragedia della morte di Cristo che completa ed esemplifica il significato della sua esistenza umana.

 

Andrea Mantegna, Madonna con il Bambino e santi Gerolamo e Ludovico di Tolosa, 1453-1454 circa. Parigi, Institut de France, Musée Jacquemart-André.


Nelle opere di Mantegna il disegno della linea di contorno che monumentalizza le figure si combina alla symmetria, intesa nell’accezione antica, greca e poi latina, come proporzione fra le parti e fra le parti e il tutto. Parrasio, che conquistò il primato nella linea di contorno, fu anche il primo che dette symmetria alla pittura (Plinio, Storia Naturale, XXXV, 67). La compostezza delle figure “scolpite” dal disegno fermissimo dei contorni nelle opere di Mantegna è data anche dalla symmetria della composizione. Si presume che il pittore fosse a conoscenza dell’opera di Plinio attraverso una delle ultime copie manoscritte in lingua latina della Naturalis Historia (Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, MS I.I.22-23, c. 469r.) consultata dagli intellettuali e dagli artisti alla corte dei Gonzaga. 

 

Andrea Mantegna, Madonna delle cave, 1490 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi.


Nella sezione I Trionfi e l’anticoè esposta la Madonna delle cave dipinta nel 1490 circa. Alle spalle della Madonna si erge una montagna di pietra vulcanica che degli scalpellini stanno estraendo e lavorando. La precisione con la quale Mantegna rappresenta il mondo minerale e geologico probabilmente risente della lettura dei Libri XXXIII-XXXVII dedicati alla mineralogia e alla storia dell’arte, nel corso della quale possiamo ragionevolmente supporre che il pittore non abbia trascurato di esaminare il passo riferito a Parrasio, nel contesto di una classificazione della pittura, ripartita per categorie cronologiche, alfabetiche e qualitative: opere dei grandi maestri (catalogate a seconda della tecnica usata e dei contenuti illustrati), dei primis proximi, dei non ignobiles e infine delle pittrici. Questa complessa classificazione della pittura comprende anche un suo giudizio sul piano morale. 

L’antico non rinasce nel Quattrocento solo sul piano estetico. 

 

Ritratto di Decio, 249 circa. Roma, Musei Capitolini / Andrea Mantegna, Ritratto del cardinale Ludovico Trevisan, 1459-1460 circa. Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie.


Il contegno delle figure monumentalizzate da Mantegna richiama tipologie della scultura antica, come il Ritratto del cardinale Ludovico Trevisan. La compostezza delle sue figure “scolpite” dalle linee di contorno trasporta nella pittura un ideale di compostezza e misura tratto dai suoi studi sulla scultura antica. La permeabilità fra pittura e scultura nell’opera di Mantegna è ben documentata nella mostra a Palazzo Madama anche dalla relazione fra il Martirio di San Sebastiano gettato in bronzo da Donatello e i monocromi con i quali Mantegna tenta di restituire la consistenza della materia bronzea, ora con effetti di doratura, come nella tempera a colla e oro su tela Donna vestita all’antica e vecchio in panni orientali (Sibilla e profeta?), ora con effetti di patinatura, come nella Madonna con il Bambino, realizzata a punta metallica, rialzata a biacca, su carta blu scuro preparata. Fonte d’ispirazione per il Mantegna è la scultura antica rivisitata da Donatello, dalla quale trae l’idea di una “classicità rinata”.

 

Donatello, Martirio di San Sebastiano, 1450-1452 circa. Parigi, Institut de France, Musée Jacquemart-André / Andrea Mantegna, Donna vestita all’antica e vecchio in panni orientali (Sibilla e profeta?), 1495. Cincinnati, Cincinnati Art Museum, Bequest of Mary M. Emery.


La monumentale compostezza delle figure dipinte da Mantegna, come quella dei ritratti descritti da Plinio “che si potevano vedere negli atrii degli antenati” (Storia Naturale, XXXV, 6), ha un valore morale oltre che estetico. La bellezza che si esprime attraverso la symmetria degli antichi e che rinasce nel Quattrocento è anche un ideale di controllo, equilibrio e misura nella condotta sociale. Leon Battista Alberti, che Mantegna incontra alla corte dei Gonzaga, è uno dei primi moralisti a teorizzare un nuovo modello di comportamento etico ed estetico (Amedeo Quondam, Forma del vivere. L'etica del gentiluomo e i moralisti classici (Il Mulino, Bologna 2010). Attraverso la sua opera Mantegna educa alla misura, alla symmetria coniugata allo scorcio che riassume l’estensione dell’intera figura, mostrando con un termine grafico la misura della finitezza umana, entro la quale acquista senso e scopo un’intera esistenza. In questo, lo scorcio del Cristo morto raggiunge un vertice. 

 

Anonimo, fotografia del cadavere di Ernesto Guevara scattata il 10 ottobre 1967 a Vallegrande, Bolivia.


Nel testo Image of imperialism pubblicato il 26 Ottobre 1967 nella rivista New Society, John Berger analizza una fotografia del corpo di Ernesto Guevara ucciso dall’esercito boliviano 17 giorni prima. Il corpo è fotografato dalla stessa altezza di quello del Cristo morto. In comune il dettaglio delle mani rattrappite, la pieghettatura del velo e della stoffa, la posizione leggermente rialzata della testa. La relazione tra le due immagini porta alla luce la tragedia della morte che completa ed esemplifica il significato di un’intera esistenza, nel caso di Guevara esemplifica il tentativo di agire in prima persona per eliminare ciò che nella società è intollerabile, con la consapevolezza di esporsi a un destino tragico. 

Mentre collego, attraverso la prosa di Berger, l’immagine del corpo dipinto da Mantegna a quella del corpo fotografato da un anonimo a Vallegrande in Bolivia, risuonano nella mia mente i versi della poesia Veglia, scritta da Giuseppe Ungaretti in trincea il 23 dicembre 1915. Il poeta dell’Ermetismo fa con la poesia quello che Mantegna fa con la pittura: scorcia la sintassi affidandosi a valori fonetici, così come ai mezzi grafici e tipografici (gli “spazi” e i “bianchi”), perché “la parola è impotente, non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi, mai… lo avvicina”, spiega il poeta nell’ intervista televisiva trasmessa dalla RAI nel 1961 (Incontro con… Giuseppe Ungaretti, a cura di Ettore Della Giovanna). Entrambi, sia Mantegna che Ungaretti, lasciano immaginare ciò che sta più in là, lo avvicinano, lo suggeriscono. Il primo con una linea di contorno che sintetizza l’intera estensione della figura ponendovi un termine; il secondo con la parola scritta in trincea, nel pericolo della morte che pone un termine alla vita umana. 

Mostrando con un termine grafico la misura della finitezza umana, entro la quale acquista senso e scopo un’intera esistenza, Mantegna scorcia e dà symmetria, senza tralasciare d’inserire con la prospettiva lineare l’infinito di cui l’antichità aveva orrore: fa “rivivere l’antico” costruendo il moderno. 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Lezioni di etica a Palazzo Madama
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Giorgio Agamben. Studiolo

$
0
0

Il sotteso o il sottofondo delle immagini.

È del tutto evidente che un’immagine consiste in ciò che essa stessa espone visibile e che, pertanto, la sua natura – il suo essere – coincida con il suo apparire, ovvero che è la sua fenomenologia a costituirne l’ontologia. Nella storia della conoscenza umana l’immagine ha sempre costituito il principio, il mezzo e il fine della visione. Sotto un’altra prospettiva può anche essere concepita come un’offerta di operosità all’incessante ramingare dello sguardo. Tuttavia anche l’immagine, in particolare quella dipinta, poggia su di un supporto che, per quanto minimo, presenta una profondità e oppone al lato offerto allo sguardo un altro lato oscuro, corrispondente a una sorta di sottofondo generalmente trascurato. 

 

Ognuno di noi è legato a delle immagini particolari che, per una ragione o per un’altra, sedimentano sul fondo di quanto abbiamo ritenuto essere memorabile. Nei palazzi rinascimentali alcune immagini venivano custodite con cura in una piccola stanza, lo studiolo, nella quale il principe si ritirava quando, isolandosi dalla vita mondana, desiderava entrare in una sorta di personale paradiso dei sensi e della mente. Anche il filosofo Giorgio Agamben ha idealmente raccolto nel suo ultimo libro che ha per titolo, appunto, Studiolo (Einaudi, 2019) una ventina di dipinti, dai quali vorrebbe essere sempre accompagnato, in quanto essi mettono in questione “qualcosa che altrimenti non sarebbe dato di comprendere.” L’analisi che il filosofo conduce di queste immagini è dichiaratamente non afferente alla tradizione della storia dell’arte, né a quella della critica d’arte, ma vuole essere ascritta alla categoria del commento, sebbene talvolta, per far sì che lo sguardo possa pervenire alla pienezza della loro visione, ricorra anche ad essenziali, quanto perspicui, strumenti critici.

 

Achille rinuncia a Briseide.


L’arte del commentum consente possibilità interpretative più libere e di largo respiro, rispetto alle limitazioni che, non di rado, impone l’ortodossia delle metodologie della critica e della storia dell’arte. Dalla lettura dei testi che accompagnano le immagini si evince chiaramente il perché della necessità di questa scelta. Avvalendosi, quindi, di queste possibilità il filosofo punta a far emergere “quel qualcosa delle immagini” che non si dà immediatamente alla loro comprensione, forse anche perché non può apparire con una forma immediatamente visibile. Questo qualcosa, in quanto fondativo della natura stessa dell’immagine, non può che situarsi al di sotto della superficie, nel suo sottofondo non visibile e oscuro dove affondano le sue radici in cerca di alimento: là dove sorge il pensiero, nell’immaginario mitologico, poetico, simbolico e spirituale della nostra civiltà. Ogni immagine affiora su un mondo sotteso le cui vastità e profondità non si lasciano illuminare dallo sguardo solare, ma impongono a quest’ultimo di munirsi di una differente modalità più adatta a intravedere in tralice ciò che sta sotto le parvenze ottiche. Ogni capitolo del libro costituisce una magistrale esemplificazione di come accedere al sotteso dell’immagine mediante l’esercizio di questo sguardo. Ne riferiamo alcuni stralci. 

 

Che cos’è l’ispirazione? È questa la domanda che Agamben si pone nel quinto capitolo. Con il gomito appoggiato sul ginocchio e la mano impegnata a sostenere il mento, assumendo la canonica postura del pensatore malinconico, Tiziano si ritrae tra i personaggi raffigurati in una delle sue ultime opere: Lo scorticamento di Marsia, un noto episodio della mitologia greca dipinto su tela e conservato nella pinacoteca del castello di Kroměříž. Il grande pittore veneto non sembra essere particolarmente scosso o turbato dalla cruenta scena che osserva con sguardo pensoso. Sembra meditare non tanto sulla efferatezza dello scempio sanguinoso in sé, ancorché inflitto al corpo del sileno ancora vivo, quanto su qualcosa di molto intimo e personale che lo riguarda in prima persona: il suo pensiero, infatti, è attratto da un senso che trascende l’aneddotica dell’evento. Tiziano, infatti, ritraendosi sotto le vesti del personaggio di Mida, trasfigura la scena in una meditazione, assegnandole il compito di figurare, seppure a un secondo livello, la metafora o l’allegoria dell’ispirazione. Nelle interpretazioni canoniche Marsia subisce il disumano supplizio a causa della sua hybris, che l’ha spinto a sfidare Apollo in una contesa musicale, nella quale non avrebbe mai potuto primeggiare. Per Agamben, Tiziano che ha letto la Divina Commedia di Dante si avvale di un esplicito riferimento all’inizio del Paradiso, nel quale il poeta toscano invoca Apollo affinché gli dia l’ispirazione per completare il suo lavoro: “o buono Apollo (…) Entra nel petto mio, e spira tue sì come quando Marsia traesti de la vagina de le membra sue.”

 

Tiziano, Lo scorticamento di Marsia.


Lo scorticamento di Marsia richiamato nell’invocazione dantesca viene assunto dal filosofo come una metafora dell’ispirazione: “possiamo presumere con ragionevole verisimiglianza che Tiziano sia stato colpito da questo passo e ne abbia tratto l’idea di fare dello scorticamento del satiro l’allegoria dell’abissale difficoltà dell’ispirazione del pittore.” Il quale sente in qualche modo che quel corpo scorticato è il suo, perché l’ispirazione che insegue è da esso dolorosamente incarnata e situata “tra l’inumano e l’umano e tra l’animale e il divino.”  


Oltre al dipinto di Tiziano Agamben cimenta il suo raffinato commentum in altre venti opere, molto differenti tra loro, per i soggetti rappresentati, per lo stile e per le rispettive epoche di appartenenza. Quel che, fin dalla prima lettura, emerge con crescente evidenza e che sembra costituire la liaison, o meglio il filo con cui è ordito il loro invisibile legame, è sintetizzabile nella necessità di rendere “eterno l’istante” della leggibilità di quanto è sotteso e taciuto in ogni immagine. Agamben invita lo sguardo del lettore a vedere che le cogitationes divinae di Santa Barbara dipinta da Jan Van Eyck non sono rappresentate nel libro aperto, dove peraltro lo sguardo obliquo della santa non sembra diretto, ma dall’intreccio delle pieghe della immensa veste, metafora del dispiegamento infinito del mondo in cui Dio è presente. Allo sguardo del filosofo la Lepre morta con sacca per polvere da sparo e carniere, dipinta da Jean-Baptiste-Siméon Chardin non è riducibile alla rappresentazione di un quadro di genere, ma appare come una pittura sacra, come la più commovente crocifissione della pittura francese del XVIII secolo. Nella divaricazione delle zampe posteriori dell’animale è inscritta una struttura a X, coincidente “secondo ogni evidenza alla croce invisibile di sant’Andrea, l’espressione visibile dell’intimo legame fra Dio e il mondo.” Agamben ci porta a pensare Chardin come uno spinozista che vede nelle ciotole, nelle brocche di maiolica, nei paioli di rame, in tutte le cose la pietà e l’amore di Dio. Ragion per cui le sue opere devono essere lette come la testimonianza del più grande pittore sacro non soltanto del XVIII secolo, ma di tutta la modernità.

 

Chardin, Lepre morta con sacca per polvere da sparo e carniere.


La scultura Senza titolo di Cy Twombly, che porta l’inscrizione di quattro versi della X Elegia del poeta boemo Rainer Maria Rilke, è interpretata come la forma di un fiore che cade, come la visualizzazione di una bellezza spezzata e in caduta, dove “nell’infrangersi del movimento ascensionale è l’arte stessa che appare sulla soglia tra un fare e un non-fare, nel punto della decreazione, quando l’artista nella sua maniera suprema non crea più e l’arte sta miracolosamente ferma, quasi attonita: ad ogni istante caduta e risorta.” Particolarmente avvincente è la descrizione dello sguardo raffigurato nell’affresco pompeiano Achille rinuncia a Briseide: l’uomo antico fissa con uno sguardo attonito, silenzioso e sgomento e, sebbene non esprima alcuno stato d’animo, esplicita, comunque, un gesto intenso, che rappresenta l’unico principio di movimento nella generale fissità della scena. In quest’ultima nessuno sguardo incrocia l’altro, non si vedono l’un l’altro e ciascuno di essi guarda lontano, verso non si sa dove: “la lontananza che i loro occhi invocano ed evocano è così vicina, che ne restiamo noi stessi accecati.” 

 

Giorgio Agamben. Studiolo. Einaudi, Torino 2019.

negli speciali in home: 
Non in Box
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

America al bivio/1

$
0
0

Per cogliere la rabbia e le speranze di questo tempo americano, basta mettersi in ascolto. Silenziato il rumore di fondo delle presidenziali, i tweet e gli uffici stampa, risuona nitido un cambio di passo e umore che deborda dalla cronaca politica e si rifrange in un fermento che con coraggio rilancia nel discorso pubblico i temi del vivere civile. È una stagione appassionata e complessa, in cui una parte del Paese prova con fatica a riannodare le promesse infrante dell’American dream – democrazia, diritti, libertà, eguglianza, opportunità.

Il tradimento più subdolo si è consumato in silenzio nelle tasche dei cittadini, come racconta uno dei libri più letti e recensiti di questi mesi, The Great Reversal How America Gave Up on Free Markets (Harvard University Press, 368 pages) di Thomas Philippon. La rivoluzione che negli ultimi vent’anni ha mutato la condizione degli americani ha infatti preso di mira i loro portafogli. A partire dal fronte spicciolo dei consumi. 

 

Internet, telefoni, biglietti aerei. Il college. Le cure mediche, soprattutto, capaci di aprire voragini anche nel bilancio più florido. Gli Stati Uniti non sono più il paradiso dei consumatori. Anzi, vivere qui costa più che in Europa – spesso molto di più. È un mito che va in pezzi, un colpo all’orgoglio nazionale. 

È la fatica di un quotidiano che tramortisce milioni di persone nell’acrobazia di doppi e tripli turni, stipendi insufficienti, debiti schiaccianti. Ed è il segnale più clamoroso del fatto che gli scenari dell’economia americana sono radicalmente mutati e con loro la tradizione di un orizzonte culturale.

Thomas Philippon entra nel vivo di questa trasformazione e la traduce nel linguaggio asciutto dei numeri. Annoverato nel 2014 dal Fondo monetario internazionale fra i migliori venticinque economisti sotto i 45 anni e oggi docente di finanza alla Stern School of Business della New York University, Philippon è un paladino del libero mercato e a credenziali di prestigio (è stato advisor della New York Federal Bank e del ministro della Finanza francese) unisce il dono di una scrittura limpida e incalzante.

Soprattutto, ha sperimentato in prima persona la vita su entrambe le sponde dell’oceano. 

Quando nel 1999 arriva negli Stati Uniti per un Phd al Massachussetts Institute of Technology, si ritrova nel paese dei balocchi. Tutto costa meno che in Francia dov’è nato e cresciuto: i telefoni, internet, i computer, gli aerei. A uno studente non occorre molto per vivere bene.

 

Vent’anni dopo, con sua sorpresa, il quadro però si rovescia. E la ricerca finisce per confermare quella che è la percezione di ogni expat. “Nel 2018 – scrive – secondo i dati raccolti dal sito di comparazione Cable, il costo medio mensile di una connessione a banda larga era di 29$ in Italia, 31$ in Francia, 32$ in Sud Corea e 37$ in Germania e Giappone. La stessa connessione costa 68$ negli Stati Uniti, mettendo il paese alla pari con Madagascar, Honduras e Swaziland”.

Quanto ai telefoni, “le famiglie americane spendono circa 100$ al mese per servizi di telefonia mobile, indica il Consumer Expenditure Survey del Bureau of Labor Statistics federale. Le famiglie in Francia e Germania pagano meno della metà, secondo gli economisti Mara Faccio e Luigi Zingales”. Per quel che riguarda infine i biglietti aerei, i profitti per miglio a passeggero delle compagnie americane sono oggi il doppio di quelli realizzati dalle colleghe europee.

A fare la differenza, spiega Philippon, è stata la concorrenza. Vivace in Europa, un tempo terra di saldi oligopoli. Ormai al lumicino negli Stati Uniti dove, settore dopo settore, dal 2000 si assiste al consolidarsi di concentrazioni monopolistiche vecchie e nuove – i Google, Amazon, Facebook, la potentissima industria farmaceutica o le compagnie telefoniche.

 

 

Nella pratica, questo significa che un francese può scegliere fra almeno cinque provider internet. In America la scelta è invece in media ristretta a due. E se in Europa la competizione innescata dalle compagnie low cost ha prodotto un  deciso calo delle tariffe aeree, negli Stati Uniti il panorama è ristretto a poche compagnie che si fanno pagare care e non si sprecano in cortesie.

È una realtà che mostra, con plateale evidenza, che lasciar fare al mercato non è sufficiente. La classica teoria della scuola di Chicago secondo cui il profitto è sufficiente ad attirare la concorrenza, dice Philippon, a certe condizioni non funziona. Non quando, come accade negli Stati Uniti, il gioco è truccato in partenza.

“Credo che i mercati siano liberi – scrive – quando non sono soggetti a un’arbitraria interferenza politica e chi vi opera non è artificialmente protetto da nuovi competitivi concorrenti. Mantenere liberi i mercati a volte richiede interventi del governo, ma di certo i mercati non sono liberi quando i governi espropriano la proprietà privata, a chi vi opera è consentito sopprimere la competizione o riuscire a fare lobby per proteggere le proprie rendite”.

 

Se in America la scena è oggi dominata da pochi giganti, le ragioni vanno rintracciate nell’abbraccio mortale che ha stretto economia e politica. Sotto la pressione micidiale di lobby troppo potenti e sontuose donazioni elettorali, anziché presidiare il terreno di gioco e applicare le regole quest’ultima ha finito per abdicare al suo ruolo modellandosi sulle ragioni delle corporation.

La deregulation – che in passato era stato un tema bipartisan (alle compagnie aeree era toccata durante la presidenza Carter e a quelle telefoniche con Reagan) – è così precipitata nell’inferno delle buone intenzioni. Quello che un tempo era il mercato più competitivo del mondo si è riorganizzato attorno ai più forti e ha sbarrato le porte alla concorrenza. Questo mentre, grazie all’azione congiunta e spesso discussa di leggi e autorità antitrust, l’Europa batteva l’America al suo stesso gioco.

 

Il grande quadro dell’economia ha riflessi infiniti e penosi sulla vita degli americani. Mentre i prezzi crescono, la rigidità del mercato tiene fermi i salari, la produttività rallenta e l’innovazione segue di pari passo. Ogni mese, scrive Philippon, i monopoli costano alla famiglia media americana circa 300$. Non solo. “Considerando tutte le altre inefficienze che i monopoli comportano – continua – stimo che la mancanza di competizione privi ogni anno i lavoratori americani di circa 1.25 bilioni di introiti lavorativi. Non c’è da stupirsi, dunque, che i lavoratori americani siano arrabbiati”.

Si sia o meno d’accordo con la cura prescritta da Philippon – autentiche libertà di mercato e un New Deal di investimenti pubblici – il quadro da lui tracciato ha il merito di ancorare all’immediatezza del quotidiano la dinamica che alimenta le drammatiche disuguaglianze nel Paese, la fatica della classe media e un diffuso fastidio nei confronti delle élite e delle big corporation.

 

Alla luce di questi numeri non stupisce che, negli opposti appelli di democratici e repubblicani, l’economia sia una delle chiavi di volta di questa campagna elettorale. In base a un recente sondaggio del Pew Research Center, la maggioranza degli americani ritiene ormai che l’economia “non sia giusta” e favorisca i giganti del settore, più che la classe media e i piccoli business. 

Il numero di chi invoca correttivi e ritiene necessarie alcune misure di stampo socialista è sempre più elevato e perfino il caposaldo puritano che nel successo vede il premio di Dio vacilla, se anche i commentatori più conservatori non esitano a condannare i guasti del capitalismo.

È una sensibilità diversa, sorretta dalla fatica di far quadrare i bilanci e dall’indignazione suscitata da una catena di scandali che confermano la portata accecante di certi privilegi – dalla crisi degli oppiacei alle ammissioni al college, per non parlare di Jeffrey Epstein.

 

È uno scontento che, come mostrano le scorse elezioni, può imboccare la via del populismo trumpiano nella folle speranza che l’Oligarca in capo, fautore del taglio alle tasse dei ricchi, si decida a mettere mano ai problemi della gente comune. La scommessa dei democratici è di riuscire a incanalarlo in direzione opposta – verso un arco di riforma più o meno radicale a seconda delle posizioni.

Intanto, i media traboccano di analisi sui rispettivi meriti di capitalismo, socialismo, socialdemocrazie, comparazioni spesso irrealistiche fra Stati Uniti e Europa e l’industria editoriale tiene dietro – The Great Reversal, per dire, è fra i libri più venduti su Amazon. È il segno di un’energia vitale che rialza la testa. L’America in dirittura elettorale si guarda allo specchio e sembra pronta a scommettere sul suo futuro. 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
The Great Reversal
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Cina. Reazioni e società

$
0
0

Chi si interessa di Asia e di Cina non può, in queste settimane, dimenticare il coronavirus. Io però ho timore di scriverne. Non sono un giornalista, non ho fonti certe, non ho la capacità né l’abitudine a controllare la veridicità delle notizie, dei tanti falsi e semplificazioni che impazzano in rete, ma anche su mezzi di informazione importanti. Preferisco che questo lavoro lo facciano i professionisti del giornalismo, o almeno coloro che tra questi tengono la schiena dritta e non vanno a cercare comodi allarmismi per conquistarsi segmenti di mercato. Nella incertezza informativa di queste settimane – infodemia, è stata definita – non mi sento neppure di mettere giù un pezzo che renda conto delle parole che a me giungono dagli amici di Pechino, riguardo alla loro personalissima esperienza, alle restrizioni alla vita comune, ai tanti che sono stati invitati a lavorare da casa, al traffico rarefatto, ai sistemi in atto per ridurre al minimo i contatti tra le persone.

 

Una rapida carrellata di realtà private e individuali non può indurre una sintesi, e noi in questo momento è di una sintesi che necessitiamo, a meno di non fare come quei brutti telegiornali che ‘raccolgono le voci della gente comune’, e lo fanno naturalmente selezionando le voci raccolte in modo da costruire un racconto da loro precostituito, spacciandolo per una esplorazione della realtà. Ha rilevanza che una mia amica scrittrice stia cercando di ottenere un permesso per volare a Londra, dove ha la cittadinanza suo marito? O che un mio amico scrittore, già malato d’altro, racconti la pericolosità delle sue regolari visite di controllo negli ospedali? No, in tempi di coronavirus bisogna restare ai fatti, e cioè alla sintesi intelligente di milioni e milioni di fatti singoli, individuali, privati. C’è però qualcosa che mi sento di fare: commentare le reazioni a tutto ciò che concerne il coronavirus da parte dei media, e degli utenti dei social cinesi. Queste stanno lì, sulla pagina o nel web, inconfutabili. E vale la pena di raccontarle, perché si va oltre il coronavirus in sé: queste reazioni ci raccontano la società cinese, e anche la nostra. Tre questioni mi sembrano fondamentali. 

 

La prima concerne la reazione di rabbia alla scoperta che la notizia sull’emergenza coronavirus è stata censurata per quasi un mese, tra la fine di dicembre e quella di gennaio. Il dibattito è aperto tra i commentatori internazionali, ed è letteralmente esploso sui social cinesi dove abitualmente gli utenti invece vanno con i piedi di piombo. La scintilla è stata la morte del medico di Wuhan Li Wenliang: fu tra coloro che a fine dicembre denunciarono l’apparizione di un nuovo virus di forte pericolosità, notizia che anziché costituire l’innesco di una reazione governativa, fu oscurata come un attentato alla quiete pubblica. Li Wenliang insieme ad altri fu sospeso dal suo posto di lavoro e gli fu chiesta una autocritica, che fu obbligato a postare proprio sul social più utilizzato, Wechat. Il risultato è che invece che il 30 dicembre l’allarme delle autorità è partito a ridosso del capodanno cinese, quando già qualche milione di persone aveva lasciato Wuhan, e dopo che l’infezione aveva avuto tempo di diffondersi. È probabilmente la prima volta che una tale rabbia erompe sui social, la prima volta che la critica al governo appare ampia e condivisa, e non è poco considerando quanto i social siano monitorati dalla censura e spesso i post rimossi. L’hashtag utilizzato fa riferimento proprio all’autocritica di Li Wenliang, che scriveva: capisco che posso aver creato disagio. Da qui #nonpossononcapisco.

 

 

In parallelo, si apre sui media internazionali il dibattito sulla dittatura del Partito Comunista Cinese sulla società, causa appunto del gravissimo ritardo operativo: in nessun paese democratico sarebbe stato possibile ignorare l’allarme dei medici di Wuhan, e la reazione sarebbe stata più tempestiva. Non credo di esagerare se dico che il nome di Li Wenliang, oggi vastamente celebrato in Cina come un eroe (è morto per la prolungata esposizione al virus trasmesso dai suoi pazienti), sarà ricordato come l’innesco a un movimento d’opinione per la democratizzazione e l’apertura del sistema: quantomeno sarà difficile, in occidente, accantonare strumentalmente la doverosa critica alla repressione della libertà di espressione in Cina. 

 

La seconda questione è il fatto paradossale che proprio in questa contingenza si sono aperte in Cina le maglie della censura. A testate importanti (ad esempio Caixin, in inglese) è stato concesso di pubblicare reportage aperti e approfonditi sul virus e sulla reazione delle autorità sanitarie nel paese, come raramente in passato. Il potere in Cina sceglie spesso di evitare il muro contro muro davanti a una ondata di proteste (è successo nel passato anche riguardo a proteste su tematiche ambientali o legate ai diritti dei lavoratori, o ad altre emergenze sanitarie), insomma tende a mollare a fare concessioni. La scelta analoga qui è di tenere le maglie della censura più aperte che in passato, magari dopo avere indicato all’opinione pubblica la responsabilità dei funzionari locali (già sospesi), e contando sul fatto che il pur ottimo giornalismo di inchiesta di queste testate eviterà una critica diretta al Partito e al governo. Ma la scuola di verità dopo questa emergenza straordinaria potrebbe davvero attecchire, costituire l’embrione di una opinione pubblica simile a quella delle democrazie, capace anche di influenzare scelte e equilibri di potere. 

 

C’è poi una terza questione, che non riguarda direttamente la Cina, ma piuttosto quel che può accadere dalle nostre parti, e di cui già intravedo qualche avvisaglia: che tra qualche mese una dimostrata efficienza del sistema nel rispondere alla crisi (vedi ad esempio la costruzione di un ospedale a Wuhan in soli dieci giorni) non divenga lo spunto, in occidente, per un piagnisteo sull’inefficienza che invece scontano le democrazie. Sarebbe pensabile da noi una operazione come quella messa in atto dal Partito Comunista Cinese, l’allungamento a dismisura delle ferie annuali e la mancata riapertura delle fabbriche e delle scuole, milioni di impiegati invitati a lavorare da casa, la chiusura di ogni luogo di aggregazione pubblica, il divieto di entrare in casa d’altri?

 

Possiamo immaginare una cosa del genere in Italia? Cadremmo nell’anarchia più totale, nel caos senza regole? Sono sicuro che se e quando la Cina sconfiggerà il coronavirus molti pierini di casa nostra, liberali per gioco, ci racconteranno i meriti di un sistema ‘autoritario’, e si discuterà se la democrazia sia, o meno, l’ambiente più favorevole alla crescita del PIL. Ecco, queste tre questioni aperte mi fanno pensare che il coronavirus sta entrando nelle pagine della grande storia non solo come il ricordo di una grande pandemia, ma per aver dato il via a un dibattito tenuto per troppo tempo sotto traccia sulla società cinese, sul suo turbocapitalismo a iconografia comunista, e sulle nostre società occidentali, oggi così fragili, domani chissà.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Fatti e paure
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Eroi della democrazia

$
0
0

«Sventurata la terra che non ha eroi», fa esclamare Bertolt Brecht in Vita di Galileo, del 1938, al giovane discepolo Andrea Sarti, deluso dall'abiura del maestro. No, lo contraddice poco dopo Galileo stesso, appena rientrato, stremato, dal processo. «No. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi». 

 

Verità scientifica e democrazia

Fino all'ultimo il giovane aveva sperato che il maestro si opponesse all'inquisizione sostenendo la verità anche a rischio della vita, e ora Galileo ribatte che la parte dell'eroe è lungi da lui, non lo interessa. Soltanto anni dopo l'allievo verrà a sapere che il maestro si era ritirato per completare il manoscritto dei Discorsi in cui esponeva i fondamenti della nuova fisica, pronta ad affermarsi – Galileo ne era certo – sia che si fosse comportato da eroe sia che si fosse inchinato davanti al Tribunale ecclesiastico. Come dire che la verità scientifica per affermarsi non ha bisogno di eroi, né ne ha bisogno la democrazia. Così pensava Brecht stesso e lo penserà Hannah Arendt, confermando da una parte la validità galileiana della legge fisica «oltre i limiti dell'esistenza sensibile umana... oltre la nascita della vita organica e della terra stessa» (Vita activa, VI, 36) e dall'altra l'idea che l'eroe della storia umana sia semplicemente l'homo faber, l'uomo che agisce. Lo sosterranno poi Habermas e con lui molti altri, se si può dire – parafrasando Rawls – che la democrazia è la prima virtù delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero.

Rispetto al commento al passo brechtiano non è d'accordo invece Dieter Thomä, l'autore di uno studio sul bisogno di eroi della democrazia (Dieter Thomä, Warum Demokratien Helden brauchen [Perché le democrazie hanno bisogno di eroi], Berlin, Ullstein 2019, pp. 275) Dieter Thomä è acuto pensatore e autore di uno dei più raffinati e originali saggi di filosofia politica degli ultimi tempi: Puer robustus. Il puer robustusè una figura della soglia portata sulla scena da Hobbes e adottata da altri autori, che si presenta con tratti oscillanti tra l'eroe che innova e salva e il disturbatore che cancella e distrugge, il terrorista alla fine. Poco di quella problematica ritorna però nel presente saggio e ciò dispiace.

 

 

Eroi venuti da lontano

Concordava da parte sua con l'idea che la democrazia non abbia bisogno di eroi, tanto meno di eroi venuti dall'esterno a salvare qualche situazione, lo scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt in un dramma radiofonico del 1962, Eracle e le stalle di Augia. La conclusione dell'apologo in cui l'eroe per antonomasia, Eracle, viene chiamato dal sovrano dell'Elide, Augia, a ripulire le stalle del palazzo invaso dai liquami, è infatti che la pulizia del proprio paese non spetta agli eroi ma ai normali cittadini; la democrazia è una forma di governo senza eroi, è il compito delle donne e degli uomini ragionevoli che fanno cose ordinarie, e qualche volta straordinarie, su base costante e ripetitiva, regolare e continua come fare le pulizie di casa. La conclusione di Dürrenmatt è analoga a quella di Brecht: l'eroe è la scienza, è il demos, non sono né Galileo né Eracle.

 

Vittime ed eroi

Riesce Thomä a convincere del contrario e con quali argomenti? L'impressione è che lo sforzo tassonomico del lavoro superi in ampiezza l'approfondimento teorico: viene sviluppata una accurata tipologia dell'eroe e degli eroismi, il loro rapporto con il gender (le quasi inesistenti eroine) ma soprattutto con l'eguaglianza democratica, che cancellando i dislivelli delle società di Ancien Régime pare entrare in contraddizione con la posizione elevata dell'eroe. Quest'ultimo è comunque spogliato dei tratti virili e marziali di una certa propaganda e rivestito di nuove virtù del genere altruismo, ampiezza di vedute, resilienza, sì, ma non abbastanza affinché si delinei con chiarezza una tipologia di eroe democratico sostenuta da esempi. Più convincente è a mio avviso la parte di critica dedicata al fenomeno, spesso promosso dai media, in virtù del quale il posto dell'eroe viene usurpato da quello della vittima. Questo perché la vittima è l'esatto contrario dell'eroe: la vittima è passiva, l'eroe attivo; l'eroe fa, la vittima soffre. La doverosa commiserazione della vittima e l'impegno impiegato per aiutarla non dovrebbe trasformarsi nell'inversione dei rapporti, nell'autoincensamento e nella messa in scena in cui l'essere vittima è rappresentato come virtù o gesto di eroismo. Eroici non sono i patimenti ma le azioni intraprese per scongiurarli, afferma Thomä, e porta il caso di una eroina dei nostri giorni Malala Yousafzai, che subisce un feroce attentato da parte dei Talebani per l'impegno profuso da lei, poco più che bambina, nell'educazione delle bambine in Pakistan. Neanche questo però è un caso di eroismo democratico.

 

Eroi reali e eroi letterari

L'eroe sembra insomma davvero caratteristico di situazioni carenti di libertà e diritti; lo sono almeno gli eroi nazionali, quelli provenienti dalla storia ma assorbiti dalla leggenda, o gli eroi di origine direttamente letteraria di cui si è occupato Stefano Jossa nel suo volume Un paese senza eroi. L'Italia da Jacopo Ortis a Montalbano, Roma-Bari, Laterza, 2013. Dopo un'analisi a tutto tondo dei personaggi della letteratura italiana tra Ottocento e Novecento che avrebbero potuto diventare eroi ma non lo diventarono, Jossa si domanda quali siano i motivi di questo mancato ingresso nell'Olimpo. E la risposta, alquanto convincente, è che tali personaggi non funzionarono da eroi perché troppo complessi, ambigui, contraddittori, umorali. Non ce n'è uno che presenti i tratti dell'eroe puro, imbalsamato e lobotomizzato nella sua perfezione quale Robin Hood, Guglielmo Tell o d'Artagnan, magari nella versione fumetto o cartone animato, se non figuretta di Lego o Playmobil. I postulanti alla carica di eroe della letteratura italiana degli ultimi due secoli insomma, Jacopo Ortis, Ferruccio Maramaldo o Carlino Altoviti, come pure Pinocchio o Gian Burrasca, per non parlare del Principe di Salina, di Metello o di Salvo Montalbano, sono – nel bene e nel male – troppo umani e troppo poco eroici, troppo individualisti e troppo reali: manca loro idealismo, astrazione e neutralità.

 

Eroi democratici

Gli eroi democratici di cui Thomä sottolinea l'esigenza sono tutti storici, reali e incarnati e devono vivere in contesti democratici più o meno funzionanti. La sua richiesta è più esigente e circostanziata nei tempi di quella di Jossa, che pure si chiede, nell'epilogo, se di eroi abbiamo bisogno. Thomä si chiede, specificamente, se la democrazia abbia bisogno di eroi, e risponde in maniera affermativa. Più scettico, Jossa afferma, nelle sue tesi iniziali, che gli eroi non fanno bene alla politica. Insomma eroe (eroina, ma suona così male, così sdolcinato!) della democrazia potrebbe essere definita Greta Thunberg, che alla testa di un movimento ambientalista interviene contro i potenti della terra, indifferenti, sarcastici, arroganti, in paesi democratici di diritto ma dove la democrazia traballante potrebbe ricavare nuova linfa da un cambiamento nei confronti dell'ambiente. O si potrebbe concedere l'appellativo di eroe a persone abbastanza coraggiose per parlare e rivelare informazioni essenziali, se eroe è Edward Snowden. 

Forse, al di là dell'eroismo che temo non ci competa più, basterebbe un po' di coraggio civile per esempio per ostacolare l'ascesa di populisti e autocrati emergenti. Ma se compito degli eroi è (sostiene Thomä) rinsaldare o sviluppare l'ordine democratico pericolante, smuovere l'immobilismo e determinare la trasformazione storica con fantasia sociale e immaginazione politica (e qui l'eroe viene a coincidere con il disturbatore della pace); o se gli eroi (sostiene Jossa) rappresentano modelli etici «capaci di confronto e dialogo anziché di adorazione acritica e passiva» ben vengano anch'essi. 

 

Questo testo è la versione più estesa di un articolo pubblicato su “Il sole 24ore”, che ringraziamo.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Contagio
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Albrecht Altdorfer, San Giorgio nella selva

$
0
0

Non conoscevo il San Giogio nella selva, di Albrecht Altdorfer (1480- 1538), cioè avevo visto delle riproduzioni senza prestarvi particolare attenzione, ed è stato solo alla Alte Pinakothek di Monaco di Baviera che l’ho scoperto davvero, restandone colpito in modo indelebile. C’era quel quadretto, tutto verde quasi in un angolo di una saletta di passaggio, e sulle prime non avevo capito che si trattasse proprio del San Giorgio, che immaginavo molto più grande. Quasi una delusione, al primo impatto, poi mi sono accostato e è cambiato tutto: proprio le esigue misure che mi hanno obbligato a una visione avvicinata (tanto nessuno si fermava), mi hanno proiettato nella foresta, dilatando le sue dimensioni, rendendola infinita, total(izzant)e, come lo spazio che occupa nel dipinto.

 


Questo verde cupo, incombente, la piccola radura (Heidegger vicino e lontano), e il cavaliere in mezzo. Solo allora ho visto il drago. In un primo momento, come guardando le riproduzioni, mi era parso che il cavaliere fosse solo, perso nella selva scura, come quelle dei romanzi cavallereschi, tra fughe e inseguimenti, paure e incanti e già andavo ai miei libri preferiti, all’Innamorato, alla Gerusalemme, e soprattutto al Furioso, che è il libro che amo più di ogni altro. Poi ho visto il drago, e anche lo squarcio nel verde che lasciava intravedere un paesaggio lontano, che peraltro avrei preferito non ci fosse, o fosse ancora più esiguo. (Altdorfer è uno dei primi grandi autori di paesaggi autonomi o con un ruolo non da sfondo o ambientazione, ma da protagonista).

Penso ai tanti San Giorgio, ai miei preferiti, a quello di Altichiero a Padova (dove un cespuglio, che potremmo intendere come sineddoche per la selva, c’è, anche se il combattimento avviene in uno spiazzo deserto alle porte della città), i tre di Paolo Uccello, Pisanello (dove peraltro il drago è separato, solo, sopra l’arcata di sinistra), il meraviglioso Donatello del Bargello (perfetto, anche se il drago è persino più piccolo del cavallo, come capita in vari altri autori, che allora si fatica a capire, sovraintepretazione allegorica a parte, perché mai fosse così temibile), Cosmè Tura, Raffaello (meno), lo spettacolare gruppo scultoreo di Bernt Notke che però non ho mai visto di persona come altri di questa lista.

 

 

 


 

Rubens nel suo rende omaggio a Altdorfer, ma non resiste alla tentazione di trasformarlo in uno spettacolo grandioso, con tanto di spettatori umani e celesti distribuiti tra cielo e terra e alberi. La solitudine del guerriero è sparita in un trionfo scenico, mentre in Altdorfer questa solitudine è estrema. C’è l’uomo a cavallo, la foresta, il drago ancora vivo, non ancora colpito, che con la foresta quasi si confonde; la principessa è lontana, forse è solo sognata, e non importa. Presente ovunque come comprimaria o in un ruolo defilato ma imprescindibile, in vari atteggiamenti che vanno dal terrore alla trepidazione (Zeri su quella di Carpaccio), dalla fuga scomposta (Cosmè Tura) all’algida eleganza di un ricevimento mondano ufficiale (in Pisanello, dove sembra in partenza per un viaggio di piacere: ma Zeri dice che l’atteggiamento è meditativo), qui è invece assente. Il cavaliere è solo con il drago, immerso nel folto cupo, e spaventoso forse più del mostro, della foresta. In questo quadro lei non c’è. Di sicuro non importa, qui. La sua assenza vale solo per chi conosce la leggenda, ma qui, nel quadro, c’è solo il guerriero davanti a questo essere informe che forse è solo un’emanazione del luogo, o della sua mente, delle sue paure; e del suo coraggio, perché sta per affrontarlo, non arretra davanti ad esso, e io immagino che sarà anche doloroso non solo combatterlo ma anche ucciderlo, liberarsi di esso, staccarsi da una parte di sé che lo aveva fatto tremare, gli aveva dato angoscia, ma anche un senso forte di esistenza, come sempre la paura dà, un groviglio di emozioni, l’intensità.

 

 

 

 

 

Il quadro più famoso di Altdorfer, sempre all’Alte Pinakothek è La battaglia di Isso, del 1529, tutto il contrario di questo: eserciti infiniti, ressa, movimento, violenza (che qui non c’è, non ancora), colori squillanti, insegne al vento, assalto e fuga, un paesaggio favoloso sullo sfondo sormontato, e si direbbe quasi squassato da un cielo maestoso anch’esso in tumulto: tutto il contrario di questo.

 

 

Qui l’orizzonte è chiuso, finito, eppure è proprio questo mondo completamente verde e nero (ombroso) che riempie tutti i margini del quadro ciò che me lo fa amare di più, questo verde circoscritto che poiché satura lo spazio dipinto diventa immenso, avvolgente, come qualcosa che non ha limiti perché il cavaliere (e lo spettatore) è al suo interno come se un esterno non ci fosse, e quindi diventa senza fine. La vita della foresta, ma anche il chiuso, la morte.

 

Spesso lo scontro con il drago viene ambientato in un paesaggio desertico, a volte idealizzato ma sempre allegorico, in genere disseminato dei resti delle sue vittime. 

In Carpaccio, in modo più compiuto che in altri, tutta la scena, le figure e il paesaggio fin nei loro dettagli, hanno precise connotazioni allegoriche (lotta tra bene e male, ovviamene, ma anche ascesi, le due città, guerra tra cristiani e pagani (allusione al contemporaneo conflitto con i turchi), vittoria e conversione…

 

L’interesse per il paesaggio e i suoi valori e aspetti atmosferici è un aspetto della cosiddetta “Scuola danubiana”, di cui Altdorfer stesso è uno dei massimi rappresentanti (1500-1540, Michael Pacher, Jörg Kölderer…) influenzata da Dürer, specie con le xilografie, e dalle prime opere di Cranach il vecchio, che lavorava a Vienna attorno al 1500 e va considerato uno dei suoi fondatori. Il nuovo sentimento della natura e del paesaggio è ispirato anche dagli umanisti viennesi.

La natura, gli alberi dal fogliame frondoso dipinto in modo accurato, con gli effetti luminosi e i riflessi evidenziati dall’uso del bianco distribuito senza parsimonia, erano già presenti nelle prime opere pittoriche di Altdorfer, dal 1505 circa, precedute da numerose piccole incisioni che hanno fatto pensare a un apprendistato da miniaturista, ma per quanto importante e dotata di grande risalto e autonomia, era ancora la figura umana (san Francesco, san Gerolamo) a essere preminente. Passano pochi anni e nel 1510, in questo piccolo quadro della grandezza di un foglio A4 (cm. 22,5 X 28,2 per l’esattezza), tutto cambia e viene ribaltato; come in una Natività di poco successiva, dove la Sacra Famiglia quasi sparisce, protetta e forse anche nascosta, tra le rovine del casolare e in un disegno successivo. Ma il San Giorgio è un unicum. Questo san Giorgio. Perché in una xilografia (Hl. Georg tötet den Drachen, Holzschnitt,19,6 × 15,1 cm, Dresden, Kupferstichkabinett) dell’anno successivo che riprende quasi alla lettera il cavaliere e il cavallo, l’azione è ambientata in uno spazio molto più aperto, dove ha larga parte il cielo, che in questo è sostituito dalla volta verde scuro.

 

 

La selva è fitta e gli alberi altissimi. La luce non dovrebbe filtrare, né a illuminare il suolo e gli  avversari che si fronteggiano basterebbe quella che si intravede nello spazio esterno, che sembra quella rossastra di un crepuscolo (forse più un tramonto che un’aurora), perché il sole, che non si vede, dovrebbe essere dietro le creste lontane; eppure le fronde e i tronchi sono ricamati di barbagli, ogni foglia ha i suoi riflessi che sembrano provenire da una fonte ignota che cade dall’altro, a sinistra, come si evince soprattutto dalla groppa del cavallo e dall’armatura del santo, oltre che dal fogliame tutto e dal terreno che invece è scuro. Il muso del cavallo però sembra illuminato da un’altra fonte ancora, e così il ventre, quasi a dire che la luce è diffusa e non va intesa in senso naturalistico o prospettico ma appartiene piuttosto alle cose, vorrei azzardare, alla loro forma, alla pittura.

La notte però non è lontana: se la collina e la valle appena fuori dalla foresta sono ancora bagnati dalla luce rossastra del sole, le colline e la montagna appena oltre sono più scure, già invase dall’ombra. L’oscurità incombe, ma l’infinito barbaglio permane, a definire ancora per qualche attimo ogni cosa, ogni ramo e foglia, ogni cespuglio e felce. A glorificarli.

 

Il paesaggio che si intravede sullo sfondo indica che siamo vicini al confine, oltre il quale la radura accoglie la vita civile e la città, le istituzioni che il drago con il suo fiato mefitico e le vittime sacrificali che richiede sconvolge (ora è addirittura il momento della figlia del sovrano!), ma qui siamo ancora nella foresta che incombe. Il confine è violato dal mostro, e così abolito. San Giorgio, portando il mostro in città e poi uccidendolo, dopo aver fatto battezzare i cittadini, ricostituisce il confine e la differenza basandoli su un nuovo ordine, che il sangue del drago, divenuto vittima sacrificale a sua volta, sancirà in un vincolo sacro, a sua volta sancito dal mito. Nel momento scelto da Altdorfer però niente è ancora deciso, la foresta circonda il cavaliere da ogni lato e il suo signore, il drago, lo guarda non ancora vinto e niente garantisce che lo sarà. Il guerriero però non teme il suo fiato né la sua vista e lo fronteggia. Non fugge, e forse già questa è una vittoria. (Il preannuncio di quella definitiva.)

Ma la foresta conserva tutta la sua magia, e la conserverà anche dopo l’uccisione del drago, dopo il ripristino dei confini. Richiusa di nuovo su se stessa, sul proprio mistero, che attrae e respinge, che minaccia ma anche dà rifugio a chi varca il confine (come ricorda R. P. Harrison, “il dio dei sacri confini nella religione romana era Silvano”,Foreste, Garzanti, 1992).

 

Alcuni hanno detto che tale era l’interesse di Altdorfer per il paesaggio che San Giorgio e il drago sono solo un riempitivo o una scusa, come se non si potesse rappresentare la selva da sola. Ciò che in un certo senso è vero, perché se l’uomo diventa tale solo uscendo da essa, cioè staccandosi dalla vita naturale, finché vi resta dentro non la vede, per lui la selva è irrappresentabile. Come lo resta una volta che è uscito, perché l’occhio che vi getta è sempre esterno, le categorie e il modo in cui la vede sono quelle del fuori, del campo arato, del pascolo, del fiume, della città. Però intendere in questo senso la presenza dei due eroi, poiché anche il drago lo è, sarebbe lasciarsi sfuggire un aspetto fondamentale del quadro: che la foresta è protagonista, sì, ma lo è proprio nel contrasto tra il cavaliere e il mostro. È fondamentale per entrambi: senza di loro, come senza lo scorcio verso l’esterno, anche se io avrei preferito che non ci fosse, sarebbe tutt’altra cosa. Ma una cosa di cui non saremmo qui a parlare.

 

 

 

Il cavaliere ha solo una lunga spada, non la lancia che gli attribuiscono tutti gli altri pittori, con la quale infilzerà, ferendolo e riducendolo in sua balia, il drago. Il piccolo vantaggio della distanza assicurata dalla lancia, l’intervallo che attenua la pericolosità del mostro, che resta comunque di grandezza e forza soverchiante, non è previsto. Quello che qui si preannuncia è più uno scontro corpo a corpo, un contatto diretto, senza mediazioni con l’avversario, che ha le sue armi: il fiato mefitico, le zampe con gli artigli, fauci enormi con denti affilati, una stazza superiore (come era stato rappresentato, con formidabile senso drammatico, nel San Giorgio di Melbourne di Paolo Uccello, il solo a mia conoscenza che mostra un corpo a corpo vero e proprio: una stretta feroce e quasi erotica, come quella di Tancredi a Clorinda nel Tasso). Per il momento però non succede ancora nulla. Il cavaliere sembra chinarsi per meglio guardare il suo avversario, per individuare le sue fattezze, i punti di forza ed eventualmente quelli deboli, quasi a prendere le misure per poi decidere che tattica adottare, aspettando forse che sia lui a fare la prima mossa, a spiccare un balzo per assalirlo, come sembra suggerire la sua posizione accucciata, ripiegato su se stesso pronto a spiccare il salto, la cui veemenza poi il santo sfrutterà per affondare la spada nella sua carne oltrepassando le dure scaglie della pelle che la protegge. Non è lui quindi che prende la rincorsa e aggredisce, ma aspetta a piede fermo, senza farsi intimorire, per sommare la propria forza e la durezza della spada all’impeto dell’assalitore. (Per rovesciare la forza in debolezza e viceversa, come quando si vince la tentazione, la potenza del richiamo del peccato.)

 

 

Il cavallo non sembra condividere l’atteggiamento calmo e risoluto del suo cavaliere, un po’ si impenna per un moto naturale di paura, o forse reagendo al fiato mefitico del drago che ammorba le contrade vicine, al di là degli alberi, o all’odore e alla vista dei resti delle sue vittime, che però qui non sono esibite come in altri quadri (specie in Carpaccio), ma resta ancora sotto controllo. 

È un attimo sospeso, di reciproca contemplazione dei contendenti, di studio. La lotta mortale è imminente, ma in questo momento ancora assente, lontana e forse in dubbio, come se l’essersi incontrati, il trovarsi di fronte, e il reciproco scrutarsi e riconoscersi, la rendesse inutile.

Noi non sappiamo cosa accadrà, ce lo dice solo la leggenda. La leggenda ci dice che il santo ferirà il drago e, liberata la principessa, lo condurrà in città senza ucciderlo prima che tutta la popolazione si sia convertita, chissà con quanta convinzione; ma al momento non sappiamo niente, possiamo dimenticarci dei contendenti, della povera ragazza atterrita, del padre sconvolto e trepidante, del popolo soggetto al duplice potere del signore e del terribile ricatto del mostro, e tornare alla foresta, alla sua maestà, alla fitta trama dei tronchi e del fogliame, alle mobili, scurissime ombre che proiettano, alla luce che li fa vibrare, e pensare alle nostre paure, alla solitudine davanti ai nostri draghi, alle minacce, ma anche al silenzio, al rifugio, alla quiete, al riposo.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Un quadro
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 
Viewing all 3499 articles
Browse latest View live