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Un pomeriggio nella stanza dei sogni

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L’avventura artistico-letteraria di Alba de Céspedes è segnata da un cosmopolitismo in anticipo sui tempi e da una fiera militanza. Non c’è modo qui di ripercorrere le tappe salienti del suo processo di formazione ma è opportuno ricordare almeno la sua doppia radice, metà cubana e metà italiana, la tensione costante verso un senso vivo della libertà e della giustizia, la precoce esperienza di madre e di donna separata, che la costringe a guadagnare per vivere fino in fondo la sua indipendenza. Sarà la scrittura a darle il lasciapassare per un’esistenza autonoma e responsabile, a cui si abbinerà presto l’esercizio pubblico dell’intelligenza attraverso i canali della stampa periodica (paradigmatica in tal senso la direzione della rivista «Mercurio» in quanto atto di resistenza culturale).

L’incontro con il cinema è precoce e duraturo, nonostante la prudenza iniziale («quello che voi chiamate il mio ingresso nel cinema altro non sarà che un rapido passaggio. M’allontano vigliaccamente come si fugge da una donna bella per tema di restarne prigionieri» - Ho paura del cinematografo, «Film», 12 dicembre 1942), e viene scandito da una suggestiva ambivalenza tra vita e forma, produzione e ricezione, generi e volti. Se l’attività di sceneggiatrice, già accreditata dalle feconde analisi di Lucia Cardone, resta forse il capitolo più interessante dei suoi scambi intermediali, le note a margine affidate a periodici o a rotocalchi offrono un ritratto mosso dello sguardo della scrittrice, capace di sostare ai bordi dello schermo e di lasciarsi conquistare dai sogni vellutati della commedia americana o dai palpitanti corpi del neorealismo.

I grandi temi che attraversano la scrittura romanzesca di de Céspedes tornano, anche se con sfumature diverse, negli articoli dedicati al cinema, a testimoniare una profonda circolarità di idee e simboli dentro il macrotesto dell’autrice. La dialettica fra interno ed esterno ad esempio, cioè una delle strategie del racconto di de Céspedes, diviene presto metafora del suo rapporto con la sala, intesa come luogo di «dolci estasi», distante dal clamore della città.

Il pezzo che qui presentiamo si apre proprio con l’indicazione di una precisa consuetudine («Mi piace andare al cinema di pomeriggio»), che anticipa il vero motivo d’interesse del brano, ovvero la descrizione di un ‘modo’ spettatoriale deciso e consapevole, votato a un principio di evasione e incanto. A rendere possibile questa fuga nel regno della "favola"è Katharine (Caterina) Hepburn, ricordata di recente da Emanuela Martini per Film Tv nell’anniversario della sua scomparsa, protagonista di delicate screwball comedy in cui appare– secondo l’attenta lettura di Mariapaola Pierini – «sofisticata, eccentrica, risoluta ma romantica […] capace di sapersi destreggiare con i tempi “matematici” della commedia» (Hepburn-Grant: una coppia brillante, in Cary Grant. L’attore, il mito, a cura di G. Alonge e G. Carluccio, Marsilio, 2006). Il «tempo artificiale» di Holiday di Cukor (Incantesimo per la distribuzione italiana, 1938) accende la fantasia di de Céspedes, che sceglie di guardare all’effetto di presenza di Hepburn, alle traiettorie della sua performance; la sua penna sembra ricalcare le morbide superfici degli abiti dell’attrice, anche se poi è il suo passo a incarnare lo spirito del testo («Attoniti la sentiamo camminarci addosso col suo passo irreale»). L’immagine-guida del film per la scrittrice è «la stanza dei giochi», uno spazio separato – di evidente matrice woolfiana – che richiama e accoglie l’inclinazione prima della protagonista, quel «favoleggiare» che resta probabilmente il lemma chiave dell’articolo. La radice stessa del rapporto di de Céspedes col cinema sembra ispirarsi allora al principio coltivato da questa «poetica ragazza» nel chiuso della sua stanza: il grande schermo, prima dell’ingresso nel vortice della produzione al fianco di Blasetti, è una sorta di mondo di mezzo («mezzo infantile mezzo nevrastenico») entro cui avvolgersi, per ritrovare il distacco e l’armonia giocosa dell’infanzia. (Stefania Rimini)

 

 

Caterina Hepburn presentata da Alba de Céspedes

 

Mi piace andare al cinema di pomeriggio perché la sala è colma di ombra soffice, un’isola d’ombra nella città ancora tutta chiara e viva. Contro le porte ovattate i rumori di fuori si frangono, si spengono addirittura. Lì dentro si respira in un clima di benessere, perduti in una dolce estasi. Mi piace, seduta al buio, ascoltare la musica, appesa al filo di una delicata vicenda d’amore. Perciò non amo il film di massa, le fanfare, le battaglie cruente. E ancora meno mi piacciono le commedie americane, dove si vedono entrare liberamente nello schermo come in casa propria, volgari “yankees” che sparano colpi di rivoltella, percorrono in automobile la città di cartone rincorsi dalla sirena della motocicletta inseguitrice, strapazzano dattilografe procaci e stupidelle. Mi pare così che la sala oscura non mantenga la sua promessa, che improvvisamente lasci entrare lì dentro tutto quanto mi disturbava fuori. Amo invece, seduta al buio, vedere entrare nello schermo la magica figura di Caterina Hepburn. Mi sembra che al suo apparire ogni cosa si trasformi, che lei soltanto sappia raccontare la favola che mi interessa: ella porta sullo schermo, e ce lo mostra e ce lo svolge come una sciarpa di seta, il miracolo del suo mondo interno, quello che appare nei grandi occhi trasognati. Attorno a lei, in ogni trama, vivono personaggi che non la comprendono. È la ragazza sposata di Primo amore, è la sorella ribelle di Incantesimo, è la collega ambigua di Palcoscenico. In ogni film ci narra come, al suo nascere, la cicogna che la portava verso chissà quali meravigliosi destini se la sia lasciata sfuggire dal becco ed ella sia caduta per caso nella famiglia meno adatta a riceverla. 

 

Ma lei non se ne preoccupa; immediatamente, dovunque, alza la sua tenda come gli zingari. Si fabbrica un mondo di cartone, di stracci, si mette addosso un vestituccio di percalle. E poi si muove, e cammina. Allora, miracolosamente, quanto è attorno, rispecchiando la sua grazia, appare di colpo grazioso anch’esso. L’abitino di cotone diviene di preziosissima seta, lo scenario miserabile s’annobilisce. Basta che lei percorra due volte lo schermo con quel suo armonioso modo di camminare. Si diffonde attorno una luce che ha sorgente in lei, nelle sue movenze. Poi, in primo piano il viso nervosissimo, gli occhi. Poche decine di metri di pellicola. E tutti gli spettatori entrano al suo seguito nella favola. Allora ella può compiere qualunque cosa, farci qualunque gioco di prestigio. Di nulla ci meraviglieremo. Attoniti la sentiamo camminarci addosso col suo passo irreale. Tutti ne siam affascinati. Tutti no, forse. Non a tutti è aperta la porta della meravigliosa stanza di giochi che abbiamo visto in Incantesimo. Caterina Hepburn non è mai stata tanto stupefacente come in quel film e in quelle scene. Arditamente, quasi istruendoci con una parabola, ci svela il suo segreto. Il suo mondo è come una stanza chiusa in una ricca villa di gente borghese. Lì si vive un tempo artificiale, mezzo infantile mezzo nevrastenico, dove i nostri ideali di adolescenza paiono ancora raggiungibili, dove c’è la fiamma accesa invece del termosifone, dove ci sono il piano ed il violino invece della radio, dove abitano i grotteschi pupazzi e le principesse immaginarie e gli animali di pezza che popolavano i boschi della nostra fantasia. Poca gente entra nella stanza chiusa della poetica ragazza d’Incantesimo.

 

V’entra il fratello quando è ubriaco, cioè anormale, debole, che facilmente si lascia condurre ad agire come lei vuole. Vi entrano i due vecchietti ingenui, rimasti chiusi in una loro giovinezza idilliaca e gentile, che il chiasso della pantagruelica festa di fuori intimidisce e sgomenta. Per loro la ragazza, nella finzione scenica, ritrova il vecchio teatrino dei burattini e muove i fili dei fantocci; recita, insomma, nella commedia, una commedia sua. E così, mi sembra, manifesta il suo gioco. Per i pochi iniziati, Caterina vive nel film il suo film, apre sotto il mondo dell’autore e del regista il suo mondo, si rivela, si inventa, si lascia andare a favoleggiare. Pochi, dalla platea, possono salire nella sua stanza chiusa. Con quelli corrono invisibili, misteriosissimi cenni d’intesa. Gli altri trovano che ha la bocca larga, le narici da gatto, che, insomma, è proprio bruttina. Io, quando sento dire questo, annuisco, approvo, dico che sì, è molto più bella Mae West, diamine. E dentro di me, zitta zitta, mi rallegro del privilegio. Sono coloro ai quali Caterina Hepburn ha chiuso in faccia la stanza dei sogni.

 

 

L’ho vista, in carne ed ossa, a Washington. Annunci e manifesti delle sue recite dappertutto. Uomini-sandwich, vestiti di rosso, fermi agli angoli delle strade, portavano sulle spalle il sorriso di lei, felino, e indifferenti, pelavano con le nere mani una banana. Un teatrone: di quei teatri americani così vasti che, sembra, le parole debbono faticare a raggiungerti e ti arrivano già un po’ appassite e stanche. Io ero sola, perduta nella gran folla. E attorno la gente rideva divertita in anticipo, emozionata da fanciullesca aspettativa. Tre ometti andavano attorno vendendo coca cola e gomma da masticare. Poco mancava che me ne andassi, se no distruggo tutto, pensavo, le risate di questi bravi americani manderanno in aria la stanza dei sogni come se dentro vi esplodesse una bomba; “lei” parlerà col naso e con frasi fatte, che voce avrà? Dio mio, forse non sarà più neppure così bella. Tuttavia, intimorita da questa gran folla, restavo; bisognava scomodare troppa gente per uscire. E poi, meglio finirla con questi ideali da cinematografo; al teatro non resisterà, il teatro è un’altra cosa. Mentre mi dibattevo in queste incertezze, si fece buio, silenzio, il sipario s’aprì.

 

Che commedia fosse, neppure rammento con precisione; si trattava di una famiglia che sembrava rubata al cinematografo. Tutti sportivi; sport, niente altro che sport. L’animatrice di questo gruppo, la più indemoniata, il pepe della famiglia, era colei che ancora non era entrata in scena, l’interprete; Caterina, senza dubbio. Fu a quel momento che venni più fortemente tentata di uscire. Tutti guardavano attenti, divertiti, a bocca aperta. Adesso dico “prego, prego” mi faccio largo ed esco.

Ma già, in un lieve volo, Caterina era entrata in scena. Vestiva in foggia quasi mascolina, da sport. Ma le scarpe grevi non potevano appesantire il suo magico passo. Essa era la stessa dello schermo. Solamente mi parve, forse per la vastità della sala, un po’ più spenta e fragile. Forse le costava maggior sforzo affrontare la platea come persona viva che come ombra. Diceva con la dolce voce cose piuttosto sciocche e però non sembravano tali; già dal suo apparire ogni cosa attorno a lei aveva incominciato la trasformazione. Anche i bravi ragazzi che la circondavano, senza panciotto e col cappello in testa, divennero improvvisamente simpatici. E tuttavia ella si muoveva in un’aria sua, particolare, che la divideva dai suoi stessi compagni, simile a certe immagini di santi che hanno intorno una fitta cornice di nuvolette.

Avvinta dal fascino dell’attrice, la grande mandibola aveva smesso di masticare; e lei, idealmente liberata dai suoi vestiti sportivi, già si muoveva in uno di quei suoi scenari ideali che facilmente riesce a fare accettare per veri. 

Era, al solito, una ragazza sposata e infelice; fingeva di essere d’accordo con gli altri per mantenersi il “job”, l’impiego. Ma, dentro, era diversa. Spiegò questo in un modo suo specialissimo che mi fece battere il cuore per l’emozione di averla ritrovata. Epperò per un certo gioco di parole il pubblico non capì la mestizia della sua ironia. La grande mandibola scoppiò in una fragorosa risata. Allora Caterina, con uno di quei suoi atteggiamenti inimitabili, si accasciò in una poltrona bassa e mormorò: – Nessuno mi capisce.

Questa frase mi parve fuori del testo, un suo intervento personale: mi sembrò di vederla improvvisamente vestita di lungo, seduta accanto al fuoco nella stanza dei sogni in Incantesimo. Alta era la stanza, irraggiungibile. – Nessuno mi capisce – ripeté. E fu come se con quelle sue parole ella avesse gettato giù dal palcoscenico una scaletta di seta. Lesta e invisibile, agilmente mi vi arrampicai e la raggiunsi sorridendo nel mondo della sua favola.

 

(Dalla rubrica “Gli scrittori e il cinematografo”, in «Film», II, 49, 9 dicembre 1939. Riprodotto su gentile concessione di Franco Antamoro de Céspedes).

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Ricette immateriali. Testaroli

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Sono un piatto caratteristico di quella lingua di terra dell'alta Toscana chiamata Lunigiana. Regione antica, per lo più aggrappata agli Appennini e “da sempre” via di transito tra il mondo continentale delle terre un tempo chiamate Lombardia e quello più solare del Mediterraneo. E piatto antico e misterioso sono i testaroli, preparati ben prima che la pasta facesse la sua timida presenza in Italia in pieno Medioevo.

Testaroli, ovvero dischi di un impasto di farina, acqua e sale cotti tra testi di coccio o metallo arroventati sul fuoco. La cottura con i testi– assimilabili a una specie di forni portatili – rappresenta una delle tecniche di cottura più originali e antiche, utilizzata un tempo fuori dalle mura domestiche. Tagliati a larghi pezzi, vengono poi sbollentati rapidamente e conditi con pesto o pecorino. 

Il pesto o il formaggio di pecora dunque come condimento per uno stesso piatto a collegare non solo idealmente gli orti alla montagna, non solo l'agricoltore della costa al pastore di greggi. È anche una conferma di come il Mediterraneo sia uno e sia tale anche lontano dal mare, anche sui monti che lo costeggiano o lo attraversano, una conferma di come ogni alimento, ogni ricetta giuntaci dalla tradizione sia stata selezionata attraverso il tempo e le generazioni.

 

Eppure è idea comune ai nostri giorni che il benessere debba arrivare soprattutto con le conoscenze scientifiche, con le teorie, le attualità nutrizionali, pillole di divulgazione dietetica che ci informano e ci confondono...

Il cibo della tradizione sarebbe appunto "passato" (in questo periodo in auge) ma sostanzialmente buono per il brodo e per il gusto più che per il benessere. L’alimentazione mediterranea e poche altre tradizioni alimentari sarebbero le eccezioni epocali che tuttavia avrebbero sempre bisogno delle conferme della scienza. 

 

Ma il conflitto tra modernità e tradizioni, tra nuovo e vecchio, almeno in alimentazione non dovrebbe esistere: il cibo che arriva dalla tradizione non è in qualche misura sempre moderno?

Quasi sempre ci si dimentica che un piatto o un alimento del territorio un tempo sono stati novità, sono state invenzioni che qualche vantaggio – qualunque fosse stato – ha fatto riconoscere e selezionare attraverso il tempo.

 

Selezione culturale come selezione naturale? 

Scriveva a proposito Charles Darwin: “La conservazione delle variazioni individuali favorevoli sono state da me chiamate "selezione naturale" o "sopravvivenza del più adatto””.

Il grande scienziato inglese non conosceva l'esistenza del DNA (né quella dei testaroli...) ma aveva compreso come la selezione dell'ambiente fosse il motore dell'evoluzione. Era sotto la pressione della selezione che le specie viventi evolvevano con le loro varianti migliori. Era la sopravvivenza dell'individuo più adatto che garantiva il passaggio delle sue qualità alle generazioni successive. 

Accade forse la stessa cosa per il cibo della tradizione. Non è forse selezione (culturale) ciò che ha favorito la trasmissione di questa o quella consuetudine, scelta alimentare, ricetta? Perché la tradizione alla fine per diventare tale deve sempre aver dimostrato qualche vantaggio. Un piatto, una scelta alimentare, una ricetta sono conservati e diventano tradizioni solo dopo aver confermato le loro "verità" per il gusto, per il corpo, per il benessere e sempre per le comunità...

Se così fosse stato, se così è... allora la tradizione in cucina è anche innovazione, perché nel cibo e nei suoi benefici ci sarebbe sempre la selezione di qualcosa di positivo, di qualcosa che un giorno si è rivelato “più adatto” al corpo o allo spirito...

 

Dopo il famoso viaggio con il Beagle Charles Darwin non si staccò più da Down House, dove concepì la teoria che cambiò le scienze biologiche; mai quindi scese in Italia per un altro, possibile e differente, gran tour

Piace pensare che se fosse andata diversamente, forse Charles Darwin avrebbe potuto amare i testaroli della Lunigiana; li avrebbe amati come ogni ricetta antica in cui si fosse imbattuto. 

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Appennini, tradizioni alimentari e Darwin
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Che fare quando il mondo è in fiamme

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“What You Gonna Do When the World’s on Fire?”, verso iniziale di un negro spiritual ripreso più tardi dal cantante e chitarrista nero Lead Belly (1906-1949), è il titolo del nuovo film di Roberto Minervini.

Virato in urgente e imperativa domanda politica attuale, “Che fare quando il mondo è in fiamme?”, quel verso introduce limpidamente il film che il regista e la sua troupe hanno costruito mescolandosi alla gente di Tremé, uno dei quartieri più antichi di New Orleans, il primo nella storia della città ad accogliere le gens de couleur libres, le persone di colore non più schiave. 

Tremé, che in base al censimento del 2000 contava 8.853 persone, 3.429 case e 2.064 famiglie (4.918 persone per km²), dopo il passaggio dell’uragano Katrina nell’agosto del 2005 annovera oggi, secondo il censimento del 2010, 4.155 persone, 1.913 case e 827 famiglie. Dimezzato da una catastrofe ‘naturale’, attualmente è in via di gentrificazione, un disastro che di naturale non ha nulla.

 

Minervini, che nel corso degli anni ha scelto con coerenza di raccontare l’America profonda, mette questa volta al centro della sua narrazione questa specifica ‘zona di esenzione’, una delle tante dove i diritti civili sono stati sospesi o revocati dallo Stato: una comunità di africani americani in bilico tra estinzione e sopravvivenza, tra cancellazione e tenace memoria di sé. 

Per niente interessato a spiegare, giudicare, denunciare, fare la morale, il regista si assume il compito di mettere ‘semplicemente’ in vibrazione e in risonanza alcune storie individuali affinché agiscano tra loro e, intrecciandosi, dicano di sé e di ciò che hanno intorno. In altre parole le rende udibili attraverso un dispositivo filmico che postula e costruisce un ascolto partecipe, emozionato, politico.

I temi portanti, corrispondenti grossomodo a quattro blocchi narrativi, sono: la memoria (incarnata da Chief Kevin e dalla tradizione degli ‘Indiani’ del Mardi Gras, un nitido caso di gratitudine storica); la paura (filo conduttore di tutti gli scambi tra una giovane madre, Ashlei King, e i suoi due figli ragazzini, Ronaldo King e Titus Turner); la resistenza (incarnata da Judy Hill, proprietaria di un bar storico che sarà costretta a cedere, perché gli affitti stanno andando alle stelle); la lotta e l’autodifesa (personificate dal nuovo partito delle Black Panthers). 

 

 

La regia di Minervini e lo straordinario lavoro di montaggio di Marie-Hélène Dozo li uniscono, li mescolano, li giustappongono, creando una sapiente tessitura narrativa giocata sul ritmo, su un canto e controcanto fluido e compiuto.

Nelle immagini di questo film, nell’armonia con cui si legano le une alle altre, nei suoi personaggi, nella delicatezza con cui il regista li avvicina e li guarda avvicinarsi tra loro, nello splendore ipnotico del bianco e nero di Diego Romero Suárez-Llanos, c’è la grandezza del cinema classico, ma anche tutta l’invenzione necessaria a raccontare il mondo in cui siamo.  

Coniugandosi con un’idea di cinema e di responsabilità civile indocile alle idee ricevute, la passione di realtà, la modestia, la capacità empatica, l’occhio e il respiro da grande documentarista e narratore di Roberto Minervini hanno prodotto un film che è pura grazia – cinematografica, umana, politica. 

Se con Monrovia, Indiana il grande Frederick Wiseman continua a raccontarci l’ordinata America bianca illusa di democrazia, Roberto Minervini, forse proprio grazie alla sua ‘alienità’, ha il coraggio di immergersi nelle sue tenebre e di portare alla luce quel devastato rimosso che è l’America nera.

Misurarsi con la storia nel suo farsi – non limitandosi a ricostruire il passato attraverso film variamente autobiografici o in costume come molte opere in concorso a Venezia quest’anno, da Roma di Alfonso Cuarón a Tramonto di László Nemes – richiede coraggio e un’idea di mondo svincolata dai feroci dogmi politico-economici correnti. Il cinema di Minervini è questo e What You Gonna Do When the World’s on Fire? ne è il compimento.

 

Il film, che sarà presentato all'interno di “Le vie del cinema” in programma a Milano dal 19 al 27 settembre prossimi, sarà distribuito in Italia dalla Cineteca di Bologna, che ritenta così l'esperimento di “Villages Visages” di Agnès Varda. In Francia il film di Minervini sarà nelle sale a partire dal prossimo novembre, distribuito da Shellac. Dopo Venezia What You Gonna Do When the World Is on Fire? è stato invitato al Toronto Film Festival, al New York Film Festival, al Busan International Film Festival (Corea del Sud), al London Film Festival e alla Viennale.

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Domani a “Le vie del cinema”, Milano
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Robert Venturi, architetto gioioso

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Dunque il 2018 si porta via due grandi americani della East Coast, Tom Wolfe e Robert Venturi. Di Richmond, Virginia, il primo, di Filadelfia, Pennsylvania, il secondo, nonostante tutte le loro differenze stilistiche resteranno entrambi legati alla città di Las Vegas scoperta letteralmente da Wolfe in uno dei primi reportage del New Journalism, Las Vegas (What?) Las Vegas (Can’t Hear You! Too Noisy) Las Vegas!!!!, pubblicato su “Esquire” nel febbraio del 1964. «Las Vegas è l’unica città al mondo in cui lo skyline non è costituito da edifici come a New York o da alberi come a Wilbraham, Massachusetts, ma da segnali stradali» è la sintesi del suo paesaggio urbano. In quel periodo Venturi stava preparando il suo primo libro, Complexity and Contradiction in Architecture, pubblicato poi dal MoMA nel 1966 (e in Italia da Dedalo nel 1980), un saggio teorico che impostava similitudini fra architetture antiche e moderne con estrema disinvoltura, pescando anche tra autori più rimossi che proibiti come gli architetti italiani compromessi col fascismo Armando Brasini e Luigi Moretti, detestati da Bruno Zevi e dal direttore di “Casabella Continuità” Ernesto Nathan Rogers. Formalista allora era infatti un’offesa, eppure non solo Venturi – che avrebbe voluto intitolare il libro Complexity and Contradiction in Architectural Form–, ma tutta una nuova generazione di architetti si stava orientando verso lo studio dei problemi formali sulla base di una comune critica del funzionalismo. Questo era stato invece la spina dorsale della generazione “eroica” del Movimento Moderno, quello dei maestri Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe, Walter Gropius, introdotti negli USA dalla celebre mostra International Style curata da Henry-Russell Hitchcock e Philip Johnson nel 1932 proprio al MoMA.

 


 

Per esempio Aldo Rossi pubblica in parallelo con la Marsilio di Cesare De Michelis, sempre nel fatidico 1966, L’architettura della città (appena ristampata dal Saggiatore), vera e propria locomotiva del formalismo architettonico che esploderà però negli anni ’70. Un altro studio seminale, manifestatosi però a scoppio ritardato, è la tesi di dottorato a Cambridge di colui che negli anni diventerà un fiero avversario di Venturi, in una lotta intestina fra “white” e “grey”, puristi e impuri, vale a dire Peter Eisenman, autore di The Formal Basis of Modern Architecture (1963). Ma andiamo con ordine: dopo la laurea a Princeton nel 1947, Venturi aveva lavorato nello studio di due architetti dall’enorme peso culturale: Eero Saarinen, figlio di Eliel autore di The Search for Form in Art and Architecture (1948), e soprattutto Louis Kahn, l’architetto che aveva separato lo spazio in due tipologie, servente e servito, proprio per potersi concentrare sugli sviluppi più liberi della conformazione architettonica. Venturi non cita mai Kahn, prerogativa solo di chi riteniamo essere i veri maestri secondo Carmelo Bene: fra i due ci fu un dissapore perché durante una lezione il giovane allievo si era accorto che il maestro stava spacciando per sua una teoria sulle finestre che invece nasceva da una propria ricerca e forse qualche altro screzio. In ogni caso l’enfasi su Roma e i suoi monumenti, che Kahn visita a fondo solo nel 1951 dunque poco prima che Venturi entri nel suo studio (dove teneva appesa una mappa del Campo Marzio di Piranesi davanti alla sua scrivania) ha lasciato un’impronta indelebile sull’allievo – che andrà all’American Academy di Roma fra il 1954 e il 1956. I monumenti si sa non hanno funzione, quanto piuttosto un fortissimo valore simbolico, un valore che era stato rimosso dall’architettura moderna, impegnata perlopiù in battaglie di ordine sociale e tecnico.

 

Las Vegas from car.

 

Ecco perché ritornano prepotentemente dopo il ’66, i libri di Rossi e Venturi sono solo le prime due stelle che preannunciano un’inversione di tendenza dal modernismo al postmodernismo, dall’architettura della funzione a quella della comunicazione. Ciò che manca a Complexity and Contradictionè il Pop, fatta salvo l’ultima illustrazione di una tipica strada mercato americana, «main street is almost all right». È un’immagine molto significativa, perché rovescia il significato della lettura di Peter Blake, God's own Junkyard (1964) e al contempo manifesta il legame con Denise Scott Brown in modo ufficiale, in ogni senso. Nata in Zambia da genitori ebrei baltici, Denise Lakofski studia architettura a Johannesburg in Sudafrica e poi a Londra presso l’Architectural Association dove scopre la cultura Pop grazie a Reyner Banham, Alison e Peter Smithson e all’Independent Group insieme con il primo marito Robert Scott Brown, scomparso in un incidente stradale. Dopo un breve soggiorno in Italia, all’inizio degli anni ’60 si trasferisce a Filadelfia convinta che Kahn insegni urbanistica come lei, e invece non è così: dopo un breve apprendistato comincia allora a insegnare a Penn un corso di teoria parallelo a quello di Robert, conosciuto a una manifestazione di protesta contro l’abbattimento di un edificio di Frank Furness; alla fine lui le confida di essere d’accordo su tutta la linea, lei però lo sgrida perché non l’ha sostenuta in pubblico. Nasce un’amicizia fra colleghi e poi quando lei lo invita per un sopralluogo a Las Vegas nel ‘66, quello della ormai celebre doppia foto, all’improvviso in un bar si stringono la mano e non si lasceranno mai più. L’anno dopo si sposano, poi nel ’68 lei, passata a Yale, porta i suoi studenti prima a Los Angeles, fra l’altro nello studio di Ed Ruscha, e poi a Las Vegas per uno studio approfondito della città del vizio dove gli effetti dell’uso di massa dell’automobile stanno producendo i loro risultati più radicali. Per questo nella fotografia che ritrae i due novelli sposi nella nuova edizione di Imparare da Las Vegas (in Italia pubblicato da Quodlibet), scattata da uno studente seduto nel sedile posteriore mentre Robert guida e Denise regge la sua macchina fotografica, Rem Koolhaas ha visto, più che una foto di un gruppo di ricerca, «a love story».

 

 

Sempre nel ’68, esce l’articolo Un significato per i parcheggi A&P, ovvero imparare da Las Vegas su “Architectural Forum” che aprirà poi il volume, pubblicato solo nel 1972: «Attraverso Las Vegas passa la Route 91, l’archetipo della Strip commerciale, la più pura e la più intensa espressione di questo fenomeno. Siamo convinti che un’accurata documentazione e analisi della sua forma fisica siano importanti per gli architetti e gli urbanisti di oggi tanto quanto gli studi sull’Europa medievale, sulla Roma e sulla Grecia antiche lo sono stati per le generazioni precedenti. Un tale studio aiuterà a definire un nuovo tipo di forma urbana che sta emergendo in America e in Europa, completamente differente da quella che conosciamo; un tipo di forma urbana che siamo stati finora scarsamente preparati ad affrontare e che, per ignoranza, definiamo oggi sprawl urbano. Uno degli obiettivi di questa ricerca sarà quello di arrivare, attraverso un’analisi avalutativa e priva di pregiudizi, a una comprensione di questa nuova forma, cominciando ad affinare le tecniche per il suo trattamento». Nell’edizione rivista e corretta del 1977, Venturi eliminò molte soluzioni grafiche di sapore Bauhaus e introdusse il sottotitolo Il simbolismo dimenticato della forma architettonica che lo metteva in relazione con lo strutturalismo («Il primo criterio dello strutturalismo è la scoperta e il riconoscimento […] del simbolico», Gilles Deleuze) e quindi con la semiologia dei cartelloni al neon. Tuttavia sarà la formula dell’analisi “avalutativa” a scandalizzare gli intellettuali conservatori americani e quelli marxisti europei né più né meno che con Wolfe. Come si permettono V&SB di studiare un soggetto così brutto e ordinario per di più con una crescita esponenziale? Il dito nell’occhio dell’analisi avalutativa farà scuola, specie con Rem Koolhaas che a partire da Delirious New York (1978) e proseguendo con le sue analisi più mature su Atlanta (1987), Singapore (1994), le megalopoli cinesi, Lagos e altre città “brutte” e congestionate cercherà spesso di trarre una lezione di architettura a partire dall’analisi di una singola città, non sempre riuscendoci.

 

Denise Scott Brown e Robert Venturi nel deserto di Las Vegas, 1966, courtesy studio Venturi Scott Brown and associates inc., Filadelfia.


Secondo il filosofo Emanuele Coccia, i libri di Venturi&Scott Brown e Koolhaas «sono bastioni della modernità perché rifiutano lo snobismo tradizionale di tutte le discipline verso gli usi e costumi di massa che sono comunque prodotti delle culture democratiche, si confrontano col presente seriamente, modernizzandolo».

E veniamo però alla spinosa questione del postmoderno, di cui Venturi è stato considerato il padre almeno in architettura, anche se non solo. In realtà negli ultimi anni ha negato di considerarsi o di esserlo mai stato – così come Freud non è stato freudiano o Marx marxista – perché sincero amante del modernismo e di Ville Savoye in particolare per via dei suoi elementi desunti dal vernacolare industriale. Però già nel 1967, cioè prima del libro su Las Vegas, Zevi avvertiva che «Chi ha deciso di abbandonare il Movimento Moderno può scegliere tra Versailles e Las Vegas, tra la sclerosi e la droga». Con i suoi due libri capitali, Venturi aveva percorso entrambe le strade. È certo indubbio che gli storici propugnatori dello storicismo la fanno da padroni nella prima Biennale di architettura del 1980, La presenza del passato diretta da Paolo Portoghesi che fa eco al motto kahniano del “passato come amico”.

 

 

Essi sono Vincent Scully (che aveva scritto un’entusiastica prefazione a Complexity), Christian Norberg-Schulz (autore di Genius Loci e di vari libri su Kahn) e quel Charles Jencks autore di The Language of Post-Modern Architecture (1977) e non a caso Kenneth Frampton, inizialmente coinvolto, rassegnò le dimissioni. Tutti, tranne forse Norberg-Schulz, avevano in Venturi la stella polare, a ben vedere più per Complexity cioè Versailles che per Las Vegas, per usare le categorie zeviane. In ogni caso Venturi come tutti i classici resta un autore ancora da esplorare, paradossalmente: la sua estrazione cattolica (T.S. Eliot è l’autore più citato), il suo studio di Michelangelo e dei manieristi italiani e inglesi iniziato con Richard Krautheimer a Roma, la passione per il vernacolare americano e giapponese, il disinteresse per lo spazio architettonico, l’interesse per la comunicazione e l’architettura digitale sono presenti anche negli ultimi libri Iconography and Electronics Upon A Generic Architecture (1996) e Architecture as Signs and Systems: For a Mannerist Time (2004), tutti temi sviluppati insieme con la moglie naturalmente, che è molto di più che una compagna di vita e socia dello studio.

 

 

 

Per questo è stato profondamente ingiusto il conferimento del Pritzker Prize al solo Bob nel 1991, come se Scott Brown sia stato un accessorio e non l’inscindibile partner come nel caso di Figini e Pollini o Herzog & de Meuron. L’anno prima lo aveva vinto Aldo Rossi, primo italiano, che con Venturi condivide il destino di essere fra gli architetti più influenti del ‘900, ma solo per i loro scritti: quasi nessuno infatti ne ricalca l’opera progettuale. Robert Venturi ha avuto però un’ironia unica e la capacità unica di studiare e praticare l’architettura seriamente e al contempo divertendosi, fino agli ultimi giorni, spesi solo a fare una passeggiatina fino alla Mother’s House (1962) insieme con il cagnolino Alvaraalto– questo il suo nomignolo.

Nel documentario di Jim Venturi Learning from Bob & Denise che finalmente pare sia in dirittura d’arrivo, Tom Wolfe lo definisce nientemeno «L’architetto più divertente e giocoso che il paese abbia mai avuto».

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25 giugno 1925 – 18 settembre 2018
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Un affare di famiglia di Hirokazu Kore’eda

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Siamo nel Giappone di oggi: Osamu e Shota, un padre e un figlio di una decina d’anni, entrano in un supermercato e iniziano a girare tra gli scaffali. È una scena di vita quotidiana, come ce ne potrebbero essere tante e come spesso siamo stati abituati a vedere nei film di Hirokazu Kore’eda. A un certo punto il padre fa un cenno con le mani e il bambino si sfila lo zaino dalla schiena e lo appoggia per terra e inizia far cadere dentro alcuni prodotti alimentari cercando di non essere visto. Dopo essere usciti senza pagare ed essersi messi a trangugiare delle crocchette comprate in mezzo alla strada per festeggiare il colpo, il padre si rivolge al figlio con aria complice e gli dice che ha appena visto un martello rompivetro che vorrebbe avere, probabilmente per mettere a segno altri furti. “Ma quanto costa?” chiede il figlio. “Circa 2000 Yen”. “È molto caro”. “Se lo compri sì”. E scoppiano a ridere.

 

Che padre è quello che va con un figlio a rubare nei supermercati? Che irride la legge dicendo che le cose si possono avere senza alcun problema? La psicoanalisi ripete spesso che il padre dovrebbe essere colui che porta la Legge, il limite, le regole: che cosa ne è allora di una famiglia dove è il padre stesso a incitare alla trasgressione? 

 

 

Kore’eda ce lo mostra subito senza mezzi termini: è una famiglia povera ma dignitosa, che tenta di sbarcare il lunario in un periodo economicamente difficile per il Giappone in crisi economica. Si direbbe che si tratta di working poors, dato che non sono né nullatenenti né disoccupati: il padre lavora come muratore in una ditta di costruzioni, la madre fa la stiratrice. Ma poi c’è pure la nonna che con la pensione dell’ex-marito morto mantiene tutti gli altri, e una giovane zia che fa la sua parte lavorando come ragazza in vetrina. Come se non bastasse Osamu in una delle prime scene troverà persino una bambina sola e affamata (e maltrattata dai genitori, si scoprirà) e deciderà di portarla a casa con loro per qualche giorno (ma la permanenza diventerà presto definitiva). I furti insomma vengono fatti per necessità; il rapimento di un minore (perché è di questo che tecnicamente si parla) è fatto solo a fin di bene. Dall’interno questa famiglia è una famiglia amorevole come poche, e passeremo una buona parte del film a imparare a volerle bene e a vedere come i loro rapporti si costruiscono e si rafforzano sempre di più. D’altra parte… è quello che vediamo. 

 

 

Tuttavia il cinema di oggi ci ha sempre abituato a dubitare dell’immagine. L’apparenza inganna: è quello che ci ripetono più o meno tutti, da Lars Von Trier e i fratelli Coen al giornalismo delle intercettazioni e delle fakenews, assorbendo forse quello che è un cambiamento epocale nello statuto del visivo. Dell’immagine non ci si può più fidare nell’epoca della sua manipolazione infinita, e se non l’avevamo ancora capito col passaggio al digitale, ce l’ha mostrato meglio di ogni altro film la saga di Star Wars, che ormai non si vergogna nemmeno più di far recitare in forma digitale attori morti da due decenni. 

 

 

Dunque quest’immagine idealizzata di una famiglia povera ma amorevole, che riesce a costruire dei rapporti sani nonostante l’indigenza e la necessità del crimine, è vera oppure è soltanto un inganno? La soluzione di Kore’eda è dirci che entrambe le cose sono vere: l’immagine nasconde e inganna, eppure non per questo possiamo liquidarla con cinismo dicendo che il visivo è solo una truffa. La famiglia di Un affare di famiglia non è nulla di quello che vediamo all’inizio eppure la bontà e l’amore dei suoi gesti hanno una verità, che non è quella dell’esperienza diretta dell’amore (gli orrori peggiori possono essere fatti in nome dell’amore) ma che emerge proprio attraverso le sue contraddizioni. 

 

 

Osamu non è quello che crediamo, e nemmeno il piccolo Shota è quello che crediamo. Quando Osamu si infortunerà sul lavoro e sarà costretto a tornare a casa senza indennità d’infortunio e la moglie Nobuyo verrà licenziata dalla fabbrica dove lavora, vedremo la famiglia ricorrere a ogni mezzo lecito e non per riuscire a tirare a campare; ma soprattutto vedremo che il legame stesso che teneva insieme la famiglia aveva in realtà delle ragioni d’interesse affatto materiali. Eppure è possibile dare amore a un figlio e instaurare un legame famigliare anche e soprattutto a fronte di tutti questi limiti. Un affare di famiglia porta la riflessione che Kore’eda ormai sviluppa da diversi anni sulla famiglia come legame etico e non di sangue a un livello superiore e a un grado di profondità e sofisticatezza che è raro trovare nel cinema di oggi. 

 

 

La paternità in questo film emerge infatti soltanto nel punto del suo collasso definitivo, quando il figlio per la prima volta farà esperienza non tanto che il padre non è capace di trasmettere tutte le cure di cui lui avrebbe bisogno (cioè facendo esperienza del limite intrinseco a ogni figura paterna), ma quando – anche solo per un momento – la sua stessa investitura vacillerà e il padre per un momento non vorrà più essere padre. Come ha rilevato Slavoj Žižek, commentando il momento in cui Cristo sulla croce vede la sua fede vacillare (“Dio mio, perché mi hai abbandonato?”) – e contemplando così l’idea che esista un nocciolo di ateismo nel cuore stesso del cristianesimo – è essenziale pensare che ogni investitura simbolica prenda corpo proprio attorno al punto cieco che la abita. Perché per la psicoanalisi l’unica Legge possibile a cui il Padre deve essere fedele non è tanto quella della morale, dello Stato o della responsabilità e cura nei confronti dei figli, ma quella – che a volte non manca di essere crudele – del proprio sintomo. È solo a partire dal proprio sintomo, quando paradossalmente Shota scoprirà che il Padre non è abitato soltanto dal desiderio amorevole della cura nei suoi confronti, che qualcosa tra i due potrà autenticamente trasmettersi, e che finalmente la parola “papà” potrà uscire dalla sua bocca. Anche se per lo Stato – che nulla sa e che nulla vede dell’etica del desiderio – sarà ormai troppo tardi. 

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La Legge del desiderio
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The Garbage Island(s)

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Uno spettro s’aggira per il mondo. È un’isola. Di plastica. 

Sembrerà strano ma si tratta di un’isola d’utopia. Perché proprio come le isole utopiche e come i fantasmi marxiani è dovunque e in nessun luogo. È una ed è moltitudini. Terrorizza e (forse) dà la sveglia al mondo.

La più inquietante si troverebbe nel Pacifico, e la sua grandezza si dice oscilli fra quella delle isole britanniche e dell’Australia. Una presenza talmente ingombrante e distruttiva, popolata da forme di vita più o meno inedite e aggressive che, scopro da Wikipedia, nel 2011 l’Unesco per provocazione artistica o sensibilizzazione umanitaria l’ha riconosciuta come Stato: The Garbage Patch State

Ma se questo “Stato canaglia” esiste come fargli guerra? Come accerchiarlo, assediarlo, costringerlo alla resa? O quantomeno a una pace negoziata se non proprio a una nuova alleanza?

The Garbage Patch Stateè infatti uno stato più atipico e transnazionale dello Stato islamico, benché come esso sia fatto da un frustrante gioco di consumismo e regressione, di perturbanti incroci fra riconoscimenti e rifiuti.

 

THE GARBAGE PATCH STATE, opera di Maria Cristina Finucci.


Per affrontarlo dunque bisognerà ricordare che se il farsi Stato pare la naturale tendenza di qualunque isola, quest’isola ancor prima di esser tale è chiazza e vortice – Great Pacific Garbage Patch, Pacific Trash Vortex– e in quanto tale è o appare essere inafferrabile.

Di qui la nostra frustrazione. Perché un nome ha questa forza: istituendo cose genera aspettative e desideri d’azione. E dicendo “isola” si finisce dunque fatalmente per domandarsi: “ma se questa immondizia si fa così platealmente mondo, se è un’isola-mondo, com’è che non riusciamo a circoscriverla ed afferrarla? Perché non riusciamo a (com)prenderla?”.

Basta fermarsi un secondo, e anche senza essere biologi e oceanologi, è sufficiente focalizzare l’appena evocata pluralità di nomi, definizioni, identificazioni con cui proviamo a maneggiarla – “vortice”, “macchia”, “Stato”… – perché quest’isola ipotetica riveli la sua natura altra. La sua natura fantasmatica, mobile, sfuggente, polimorfa: la nostra croce ma anche (forse, come vedremo alla fine) la sua possibile delizia.

 

Intendiamoci, a ben guardare è così per ogni isola. Che non a caso sempre si oppone a una qualche “terraferma”. Ma quella che qui dobbiamo affrontare è un’altra forma di mobilità. E un’altra forma di assemblaggio. 

Diversa dalle isole deserte di cui parlava Deleuze, capaci di apparire dal fondo dell’oceano e da questo poter essere sempre risucchiate; diverse dalle isole introvabili di cui parlava Eco, reali e immaginarie al contempo: “sino al XVIII secolo, quando è stato possibile determinare le longitudini, un’isola si poteva magari incontrare per caso e, come Ulisse, si poteva anche fuggirne, ma non c’era verso di ritrovarla. Sin dai tempi di San Brandano (e sino a Gozzano) un’isola è sempre stata un’insula perduta” (“Perché l’isola non viene mai trovata”, in Costruire il nemico, p. 296). E la lista di isole mobili si potrebbe allungare.

Qui ciò che importa è che ad allungarsi su di noi è lo spettro di quest’isola di plastica e con essa il fantasma di quell’altro attore sempre più invadente (tranne che negli attici di Trump) che è il cambiamento climatico planetario. Ancor più precisamente, ciò che conta è ciò che di nuovo questo spettro ci indica rispetto alla vita (o alla morte) che popola il pianeta, rispetto alla proliferazione di esseri imprevisti (in quanto tali inquietanti e ambigui) agli inizi di questo nuovo millennio. Che si spera non sia l’ultimo.

 

Ecco dunque che l’ambiente fisico e comunicativo si popola di nuove isole. Alcune, proprio come la Garbage Island, sono minacciose: come le “isole di calore” di Milano– che a tratti però sono “ondate” – da dissolvere creando spazi, raggi, corridoi, reti di verde urbano. A proposito, perché a questo punto non dargli lo statuto di contro-isole e chiamarle “arcipelaghi verdi”?

A Rotterdam ci hanno già pensato. Anzi, l’hanno proprio fatto.

La plastica intercettata nella Mosa, il fiume cittadino, prima che arrivasse nel Mare del Nord – andando a contribuire alla costituzione delle Garbage Islands planetarie – viene riciclata e trasformata in piccole aiuole esagonali, galleggianti, che riposizionate sul fiume diventano imprevisti e bellissimi ecosistemi culturali-naturali. O come si preferisce dire oggi, al di là della scissione fra natura e cultura.

 

Forse quello della Recycled Island Foundation, con il suo arcipelago di attori no profit e istituzioni politiche e universitarie, con la sua rete di attori umani-non umani che va dai rifiuti, alle gru, alla chimica, fino a creare un parco che è incrocio fra ricerca, ecologia e intrattenimento è al momento – fra le isole di plastica – una delle utopie più concrete e realistiche. Forse anche più dei tanti meritori e necessari progetti di isole plastic-free, come da ultima Lampedusa, in giro per il mondo.

Del resto se anche andasse in porto il progetto (finanziato in crowdfunding) che si sperimenta in queste ore per inseguire e risucchiare  da qui al 2040, con un grande tubo a forma di U, tutta la plastica che aleggia nel Pacifico, di questo spettro dei nostri desideri consunti, di questo magma di scarti d’utopie quotidiane, qualcosa bisognerà pur farne: altre isole!

Insomma, se la miglior vittoria è la battaglia mai combattuta all’occorrenza bisogna saper battere il nemico sul suo plastico terreno. Per farlo però, prima, bisogna pensarsi attraverso le paradossali utopie delle diverse Garbage Island(s) che fluttuano per il globo.

 

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Le nuove isole d’utopia
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Le “lezioni americane” di Bruno Munari

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Essendo uno degli atenei più importanti al mondo, l’Università di Harvard è stato uno dei crocevia privilegiati per intellettuali e artisti italiani in visita negli Stati Uniti. Particolare risonanza pubblica hanno avuto nel nostro paese le Charles Eliot Norton Lectures, un programma di Visiting Professorship istituito nel 1925 attraverso cui quale scrittori, artisti, intellettuali di fama mondiale vengono invitati a trascorrere un anno accademico nell’università del Massachusetts. Famose e celebrate saranno le Lezioni Americane che Italo Calvino avrebbe dovuto tenere a Harvard nell’autunno del 1985, ma mai portate a termine a causa della sua morte improvvisa avvenuta nell’estate dello stesso anno. Il libro pubblicato postumo diventerà una sorta di testamento letterario e critico che ha accompagnato l’esegesi calviniana nei decenni a venire. Quelle sei lezioni, quelle Six Memos for the Next Millenium nell’originale inglese, saranno poi ricordate da Umberto Eco nel 1992, quando sarà invitato a sua volta (secondo italiano dopo Calvino, e prima di Luciano Berio), a tenere un ciclo di lezioni che saranno raccolte nel libro Sei passeggiate nei boschi narrativi (1994). 

 

Non molti ricordano però che qualche decennio prima, nel 1967, un altro artista italiano era approdato ad Harvard per tenere un corso presso il Carpenter Center for Visual Art: Bruno Munari. Kevin McManus ha pubblicato qualche anno fa un libro, Italiani a Harvard (FrancoAngeli, 2015), che racconta l’esperienza tutta italiana del Design Workshop della Graduate School of Design di Harvard, dove vennero chiamati alla direzione prima Costantino Nivola (1956-57, e 1970), e poi Mirko Basaldella (1957-69). In un dipartimento che contava tra le sue file alcuni dei più importanti progettisti, storici e teorici al mondo impegnati nel portare avanti gli ideali sviluppati in Germania dal Bauhaus, si diede vita a un’esperienza didattica destinata a lasciare un segno indelebile nell’arte e nella storia del design americano del secondo ‘900. E nessuno meglio di Munari nel contesto della cultura europea di quegli anni avrebbe potuto contribuire a quel progetto didattico di “learning by doing” che da sempre aveva caratterizzato il percorso artistico e professionale di Nivola e Basaldella. I resoconti delle sue lezioni, le sue impressioni bostoniane, e gli appunti visivi raccolti nel contesto di quel corso verranno poi pubblicati nel 1968 da Laterza con il titolo Design e comunicazione visiva (DCV), il libro più teoricamente informato e sistematico che Munari abbia mai scritto. Quell’invito era il giusto riconoscimento per un artista che aveva consolidato la propria fama soprattutto all’estero ma che veniva criticamente trascurato nel contesto italiano. Lo stesso Italo Calvino, pur avendo lavorato a fianco di Munari durante gli anni trascorsi a Einaudi, non ha mai considerato Munari come una significativa presenza nel panorama artistico italiano. Per Calvino Munari era semplicemente il “grafico” di Einaudi, avendo firmato insieme a Max Huber le copertine delle più celebri collane einaudiane del dopoguerra: dalla PBE al Nuovo Politecnico, dalla collana bianca di poesie alle Centopagine, diretta proprio da Calvino.

Più attento e generoso è stato invece il riconoscimento dato da Eco, che con Munari ha avuto una frequentazione più assidua, sia dal punto di vista professionale (Munari lavora anche per Bompiani) che intellettuale. Senza l’esperienza dell’Arte Programmata all’inizio degli anni ’60, Opera aperta sarebbe stato un libro diverso e avrebbe forse avuto un titolo differente. E sarà proprio Eco che nella sua “Bustina di Minerva” del 15 ottobre 1998, ricordando Munari dopo la sua scomparsa, avvicinerà l’artista milanese e il suo metodo proprio alle Lezioni americane di Calvino:

 

Lavorava sulla pagina come se accordasse un violino. … Quella matita si muoveva con una straordinaria leggerezza e rapidità, sembrava che tracciasse nel vuoto la danza delle api. E uso termini come “leggerezza” proprio pensando alla lezione americana di Calvino (chissà perché ho sempre visto Munari come un personaggio calviniano). Mi piace ricordarlo così, danzante e leggero perché lavorando accanto a lui ho capito molte cose sul ritmo, sul vuoto, su come si può “vedere” al millimetro, da un semplice schizzo, come sarà il lavoro finito – virtù rarissima.

 

Calvino aveva trovato soprattutto in Fausto Melotti, l’artista che avrebbe informato il principio di leggerezza e di trasparenza poi applicato alla scrittura delle sue “città invisibili”: 

 

Le immagini più felici di città che vengono fuori sono rarefatte, filiformi, come se la nostra immaginazione ottimistica oggi non potesse essere che astratta […] C’è stato un momento in cui dopo aver conosciuto lo scultore Fausto Melotti, uno dei primi astrattisti italiani […] mi veniva da scrivere città sottili come le sue sculture: città sui trampoli, città ragnatela (Romanzi e racconti II, 1363).

 

Probabile in questa scoperta e discussione la mediazione di Paolo Fossati, einaudiano di lungo corso e autore di un libro su Melotti, Lo spazio inquieto, per cui Calvino scrive la prefazione. Per Einaudi, Fossati aveva curato anche uno dei libri più importanti di Munari, Codice ovvio, che però non intercetta l’attenzione o gli interessi calviniani, né al momento della pubblicazione, né più tardi. Marco Belpoliti nel suo L’occhio di Calvino ha individuato un residuo di ricordi melottiani in Lezioni americane, ponendo l’accento sulla comune tensione alla verticalità e alla leggerezza. In realtà, come ha suggerito Eco, Munari è un candidato molto più adatto a incarnare non solo la proverbiale leggerezza ma tutti i valori estetici e categoriali indicati da Calvino nelle sue Six Memos. Se c’è un artista del Novecento che ha informato la sua opera e il suo metodo secondo principi di leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, e coerenza, questo è Bruno Munari. In questo senso il decalogo (o esalogo) calviniano può servire come mappa per individuare alcuni fili conduttori o denominatori comuni del lavoro di Munari, non sempre semplice da sistematizzare, avendo operato in campi così diversi e con linguaggi estetici così vari: dal design industriale alla pittura, dai laboratori pedagogici alla grafica, dalla scrittura saggistica a quella creativa. Rileggendo Design e comunicazione visiva sembra che Calvino abbia semplicemente elaborato la desinenza letteraria di quelle “virtù” che Munari aveva già ampiamente discusso vent’anni prima.

 

Lightness/Leggerezza

 

Nell’introduzione al volume che abbiamo curato per Peter Lang, Bruno Munari: The Lightness of Art (2017), abbiamo spiegato come la leggerezza calviniana sia una chiave descrittiva che meglio di altre abbraccia in maniera compendiaria la molteplice varietà dell’opera di Munari. Una leggerezza che secondo Calvino non è superficialità o frivolezza, ma una leggerezza pensata, calibrata, inserita come un colpo d’ala nella struttura stessa dei suoi lavori. Una recente mostra a Palazzo Pretorio di Cittadella, curata da Guido Bartorelli, ha adottato una prospettiva simile scegliendo come titolo il binomio “Aria/Terra”, dove da una parte vi è la leggerezza fisica e mentale delle opere munariane, dall’altra la pratica concreta, l’arte come esperienza materiale, e come pedagogia del fare, che riporta l’esperienza estetica a un radicamento quasi antropologico. Molte delle opere esposte, e che corrispondono ormai a un repertorio classico di qualsiasi retrospettiva su Munari, rispondono in maniera esemplare a quella dimensione di “leggerezza” predicata da Calvino: Le Macchine inutili, i Filipesi, Concavo-convesso, la lampada Falkland, ma anche Flexi, le Sculture da viaggio, Abitacolo.

La dizione inglese della prima lezione, lightness, suggerisce un’ulteriore declinazione di questa particolare leggerezza adottata da Munari, ovvero quella che fa riferimento alla luminosità, alla luce (light). Se pensiamo alle Proiezioni dirette, i Polariscop, le Xerografie originali, i cortometraggi, Munari ha lavorato molto con la luce, materiale incorporeo per eccellenza. 

La leggerezza di Munari va ovviamente interpretata anche nel senso dell’ironia, dello spirito irriverente, della mancanza di gravitas, che è un’altra costante delle opere e dello spirito di Munari. Ironia però anche come cosa seria, non tanto come posizione demistificante o scettica, ma come elemento metodologico. Da una parte l’ironia implica una distanza prospettica, osservativa, dall’altra viene definita come un “collaudo”. Il termine richiama la dizione di Marinetti che aveva rinominato le sue recensioni o le sue introduzioni come “collaudi”, prendendo a prestito un termine da manuale tecnico. Munari adotta la stessa terminologia, ma prendendola alla lettera: 

 

 

Si potrebbe dire che l’ironia è una specie di collaudo. Ci sono delle persone che producono degli oggetti nel campo dell’arte o in qualunque campo e si preoccupano di verificarli, per cui li mettono in giro e, magari, non funzionano. Invece, se noi pensiamo, per esempio, a quando un ingegnere costruisce un ponte sul quale deve passare un treno, lui lo carica con un peso equivalente a 10 treni; si potrebbe dire che fa dell’ironia, ma in realtà, su quel ponte siamo ben sicuri che passeranno i treni senza pericolo. Quindi, quello che io faccio, quando penso e progetto qualche cosa, è un’operazione di critica, di autocritica, per vedere se quello che io penso di fare resiste a qualunque obiezione. Se resiste, vuol dire che funziona (“Il caso e la creatività”, Domus, marzo 1985, 84-85).

 

Si tratta comunque non solo di cercare delle formule descrittive ad effetto, ma di capire più in profondità la matrice epistemica e metodica del suo operare, per potere dare un quadro di insieme o delle coordinate di comprensione del suo vagabondare tra modalità espressive così diverse. La leggerezza è infatti legata a un principio costruttivo fondamentale per Munari, che è la semplificazione; la riduzione alle componenti essenziali di un oggetto di design o di un’opera a funzione estetica: “complicare è facile, semplificare è difficile. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare”, ripete Munari in Codice ovvio.

Se nel campo del design questo principio ha ovvie determinazioni di carattere funzionale e di economia costruttiva, nel campo dell’arte fornisce spunti interessanti per capire l’epistemologia costruttivista di Munari. Si può fare un esempio prendendo come riferimento una delle sue opere più famose: le macchine inutili. Sono opere caratterizzate infatti da ironia (una macchina che non agisce secondo un principio produttivo o ripetitivo, ma aleatorio e di gratuità); essenzialità geometrica; riduzione estrema dei componenti pur mantenendo l’efficienza meccanica e cinetica, cioè pur rimanendo di fatto una macchina; meccanismo nudo che avvicina la macchina al giocattolo come macchina semplice. La macchina, la tecnica, se resa “inutile” diventa infatti uno strumento di gioco, ovvero un meccanismo di articolazione percettiva, sensoriale, e oggetto di interazione sia funzionale che estetica. È possibile intuire in questo modo le connessioni tra queste sue opere degli anni ’30 e i laboratori pedagogici sviluppati a partire dagli anni ’70. Con Munari l’homo faber incontra l’homo ludens

 

Quickness/Rapidità

 

Eco ricordava come la matita di Munari si muovesse “con una straordinaria leggerezza e rapidità” dettata ovviamente da decenni di pratica e di ricerca sulle più svariate forme di comunicazione visuale. Analoga la memoria che ci ha lasciato Giulio Einaudi:

 

Lo ricordo in centinaia di riunioni. Lui arrivava e noi gli avevamo già preparato una pila di libri da copertinare: con un’inventiva fulminea riusciva a dare immediata rispondenza formale ai contenuti. Sceglieva i caratteri, i colori, le immagini. Aveva dei circuiti mentali rapidissimi che si coagulavano nelle mani. Le sue mani agivano, creavano come in un film accelerato; sembrava che pensasse con le mani e che il pensiero diventasse realizzazione in tempo reale.

 

Cesare Pavese aveva definito Calvino come lo “scoiattolo della penna”; Munari allo stesso modo potrebbe essere definito come uno scoiattolo dell’arte, per il suo muoversi agilmente e rapidamente sopra le pagine di un menabò ma anche fra i vari rami delle forme artistiche, frequentate con medesima abilità e efficacia produttiva, in maniera irrequieta, pronto a sperimentare quanto possibile, senza mai fermarsi sul già dato o fatto, ma spostando sempre oltre i limiti di quello che si può fare o dire nel campo della comunicazione visiva.

Munari non associa però la rapidità alla fretta (come per Guglielmo da Baskerville di Il nome della rosa di Eco che aveva paura della “fretta”): la fretta infatti ci impedisce di conoscere un problema con attenzione; è sinonimo di ignoranza, o è solo ansia appropriativa e competitiva: “la fretta di fare subito qualcosa che altri potrebbero fare a nostro danno” (DCV 54). Che è poi la stessa preoccupazione individuata da Primo Levi nella sua recensione a un libro di Lorenzo Tomatis che insegnava a lottare “contro la propria stanchezza, la propria fretta e la propria ambizione”.

“La rapidità, l’agilità del ragionare, l’economia degli argomenti, ma anche la fantasia degli esempi sono qualità del pensare bene”, dice Calvino, e non c’è prontuario più esemplare di questo appunto del volume Fantasia, dove l’agilità dell’immaginazione e l’articolazione delle risposte creative a questioni di carattere visivo e comunicativo vengono illustrate da Munari con esempi, semplici, diretti, di esperienza comune. Un libro che proprio per questo è diventato un prontuario di estetica usato dagli insegnanti di ogni scuola e grado.

 

Calvino parla inoltre di rapidità come “concisione”, massima concentrazione di pensiero e poesia in un testo che sia essenziale e diretto. Gli fa eco Munari quando afferma che “tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare. […] La semplificazione è il segno dell’intelligenza, un antico detto cinese dice: quello che non si può dire in poche parole non si può dirlo neanche in molte” (Verbale scritto). 

“La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura”, scrive Calvino. “Pensare confonde le idee” ripeteva Munari, proprio perché l’esecuzione deve avere una precisa spontaneità, si potrebbe dire una “sprezzatura”, che non significa improvvisazione, ma un gesto che è stato allenato da anni di osservazioni e di esercizio pratico. A questo proposito Calvino mette in collegamento due figure mitiche, due archetipi: Mercurio, dio della rapidità e dello scambio, ma anche della sintonia e della partecipazione al mondo intorno a noi, e Vulcano, dio ctonio, chiuso nella sua fucina a battere incessantemente il ferro, e pertanto principio di focalità, ossia di “concentrazione costruttiva”. Rappresentano le due facce di una medesima disposizione all’efficacia e alla ricchezza produttiva: “La concentrazione e la craftmanschip di Vulcano sono le condizioni necessarie per scrivere le avventure e le metamorfosi di Mercurio”, scrive Calvino. E a mo’ di esempio cita la storia cinese di Chuang-Tzu, un pittore che chiese al re dieci anni di tempo e dodici servitori per poter disegnare un semplice granchio. Il re glieli accordò e allo scadere dei dieci anni Chuang-Tzu, “in un istante, con un solo gesto, disegnò […] il più perfetto granchio che si fosse mai visto”. Una storia che sembra riecheggiare con esattezza nelle parole di Munari nelle sue “lezioni americane”: anche nel campo artistico un prodotto fatto con rapidità conserva tutta la vita che era presente al momento concepitivo: le foglie di bambù di un dipinto cinese o giapponese sono fatte in un attimo, ma sono state osservate per lungo tempo. Osservare a lungo, capire profondamente, fare in un attimo (DCV 69).

 

Exactitude/Esattezza

 

Per Calvino il termine esattezza definisce soprattutto tre cose: “1. un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2. l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili, in italiano abbiamo un aggettivo che non esiste in inglese, ‘icastico’ […]; 3. un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione”.

 

Il fare dell’arte in Munari è informato da una prospettiva di carattere fortemente razionale, ispirata dai dettami dell’arte concreta, legata a una visione anti-impressionistica e geometrica dell’arte. Le sue opera sono attentamente progettate e informate da un rigore formale esatto. Munari non fa mai uso del termine avanguardia nei suoi scritti, se non per indicare una fase storica dell’arte del Novecento, né di sperimentazione artistica, ma descrive il suo lavoro estetico nei termini di “ricerca” usando un linguaggio tecnico-scientifico: “la ricerca parte da un fatto tecnico, parte dalle possibilità del mezzo per esplorare i valori di comunicazione visiva, indipendentemente dal contenuto della informazione, e senza tener conto di alcuna estetica passata e futura” (DCV 27). La necessità di precisione e esattezza lo porta anche ad avere una apertura epistemica e operativa nei confronti della tecnologia che permette di fare meglio e in meno tempo operazioni che una volta si facevano a mano “il principio è quello di arrivare allo scopo non solo senza fatica fisica ma con maggiore precisione”; “l’arte è un fatto mentale la cui realizzazione fisica può essere affidata a qualunque mezzo” (DCV 69-70). Sulla progettazione e sulla metodologia progettuale in campo di design industriale Munari scriverà poi un libro importante come Da cosa nasce cosa, dove scompone le varie fasi di un problema progettuale dando numerosi esempi di soluzioni progettuali, ragionate, definite e ben calcolate. 

Per Munari è importante il valore oggettivo dell’opera d’arte, o di qualsiasi forma di comunicazione visiva, sia quella artistica in senso proprio, sia quella “applicata”, design grafico, editoriale o pubblicitario che sia: “Se l’immagine usata per un certo messaggio non è oggettiva, ha molte meno possibilità di comunicazione oggettiva: occorre che l’immagine sia leggibile a tutti e per tutti nello stesso modo altrimenti non c’è comunicazione visive: c’è confusione visiva” (DCV 13).

E a proposito, Calvino parla in Esattezza della peste del linguaggio che ha investito il mondo contemporaneo e che “si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche”; questa peste investe anche il mondo delle immagini, “immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza d’imporsi all’attenzione, come ricchezza di significati possibili”. 

 

Per Munari la chiarezza comunicativa, sia verbale che visiva, è una esigenza razionale, intellettuale, conoscitiva ma anche etica. Leggendo i libri di Munari risulta chiara la sua consapevolezza stilistica e di linguaggio. I libri di Munari sono scritti in un linguaggio piano, semplice, accessibile a tutti. Sono testi democratici e anch’essi “leggeri”. Esattamente come per le sue opere, la scrittura di Munari cerca sempre l’essenziale. È una lingua priva di tecnicismi, di formule critiche ricercate, non fa sfoggio di erudizione, ma è propedeutica a una comprensione dei problemi estetici che possano essere intesi da un pubblico generale e non solo dagli addetti ai lavori. Sono un esempio di uno stile che si oppone a quella che Calvino in un suo saggio avrebbe descritto come L’antilingua, – l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato”, dove la lingua viene uccisa, e la cui motivazione psicologica “è la mancanza di un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l'odio per sé stessi” (Una pietra sopra).

Proprio come Calvino anche Munari spende poi alcune pagine delle sue “lezioni americane” per parlare della confusione delle immagini simultanee e incoerenti che ormai ci investo nella nostra esperienza quotidiana, e chiede all’artista come al designer di provare a mettere ordine a questo caos. In questa direzione Munari sembra anticipare non solo le Six Memos di Calvino ma anche le famosissime righe finali di Le città invisibili (1971), sulla possibile salvezza dal caos infernale (“cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”) insistendo sulla necessità “di intervenire e collaborare per cercare di mettere un po’ d’ordine al caos”: 

 

che cosa facevano gli artisti antichi quando progettavano le loro opere? Cercavano di rendere evidente un ordine (che si chiama estetica) nel caos della natura. Un ordine regolato da leggi di rapporti “armonici” fra la parte e il tutto. (DCV 53)

 

Munari per tanto si pone contro ogni forma di “disarmonia” artistica come resa mimetica (presuntivamente critica in quanto rivelatrice) del caos del mondo, ma predica una necessità di chiarezza e di comunicabilità come prerequisito per una politica effettiva delle immagini.

 

Visibility/Visibilità

 

Parlare di visibilità in riferimento a un artista e designer grafico è in qualche modo pleonastico, soprattutto per qualcuno che ha abbracciato i termini dell’arte concreta il cui scopo, come spiegava Max Bill, “è di rendere visibile idee astratte che esistevano solo in uno spazio mentale”.

Ma il concetto di visibilità espresso da Calvino ha delle sue caratteristiche precipue e che riguardano innanzitutto l’immaginazione e la fantasia, “un posto dove ci piove dentro” come scrive Calvino parafrasando Dante in Purgatorio 12. Potremmo dire che Munari a proposito abbia costruito un “pluviometro” scrivendo il suo libro più famoso Fantasia (1977).

Munari ha sempre pensato nei termini di una necessaria alfabetizzazione visuale, cercando di esercitare quel “pensare per immagini” che sta a cuore anche a Calvino. Importante per Munari è acquisire un linguaggio estetico e relazionale che consenta a tutti di leggere la coerenza formale di qualsiasi tipo di comunicazione visiva, e di mettere creativamente in relazione gli elementi della propria enciclopedia visiva, in modo da stimolare attivamente l’immaginazione: “L’immaginazione è il mezzo per visualizzare, per rendere visibile ciò che la fantasia, l’invenzione e la creatività pensano” (Fantasia 22). Da questo punto di vista Munari cerca di distinguere più precisamente i termini che Calvino usa in maniera meno controllata in Lezioni americane. Per Munari l’immaginazione interagisce costruttivamente con l’invenzione (che riguarda l’universo pratico e non si pone problemi di carattere estetico), e con la creatività che è un uso finalizzato della fantasia, che di per sé stessa rappresenta l’assoluta libertà di pensiero. 

 

Calvino parlando di immaginazione si rifà a una ripartizione data da Jean Starobinski in L’impero dell’immaginario (1970), per il quale vi sono due correnti storiche che hanno pensato l’immaginazione o “come strumento di conoscenza o come identificazione con l’anima del mondo”, ovvero come capacità di “unificazione d’una logica spontanea delle immagini e di un disegno condotto secondo un’intenzione razionale” nel primo caso, e come “mezzo per raggiungere una conoscenza extraindividuale, extrasoggettiva” nel secondo. In Munari si può dire che agiscano entrambe le tensioni. La fantasia per Munari è essenzialmente una forma di conoscenza perché “nasce dalle relazioni che il pensiero fa con ciò che conosce”. È anche la capacità di articolare dei nessi relazionali con i termini e le immagini che abbiamo acquisito nella nostra memoria, consentaneo con quanto Calvino scrive in Visibilità: alla base del lavoro creativo c’è la capacità di produrre “associazioni d’immagini. […] La fantasia è una specie di macchina elettronica che tiene conto di tutte le combinazioni possibili e sceglie quelle che corrispondono a un fine, o che semplicemente sono le più interessanti, piacevoli, divertenti”. 

Per Munari la visibilità è legata anche a un principio democratico, alla necessità di usare le immagini per il loro valore oggettivo, per la loro capacità di essere efficacemente lette da tutti, o perché parte di un repertorio collettivo, depositato negli anni e nei secoli, o perché legate a leggi fisiche e a orizzonti naturali (da cui lo studio di forme antropologicamente essenziali come il quadrato, il cerchio e il triangolo). Come già detto riguardo a “esattezza”, lo spirito democratico di Munari si misura anche mediante la necessità etica e politica di una pedagogia del linguaggio e delle immagini, e pertanto contro quegli artisti che si sono “chiusi nelle loro torri d’avorio, nei loro linguaggi segreti e così oggi siamo nel bel mezzo della massima confusione dalla quale si può uscire solo ristabilendo delle nuove regole per la comunicazione visiva, regole elastiche e dinamiche […] che seguano il corso dei mezzi tecnici e scientifici usabili nelle comunicazioni visive, che siano soprattutto oggettive, cioè valide per tutti, e che diano una comunicazione visiva tale che non abbia più bisogno di interpreti per essere capita” (DCV 77).

 

Multiplicity/Molteplicità

 

A questo aspetto si può legare anche l’ultima delle lezioni lasciateci da Calvino che discute del “romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo”. Traslando questa definizione all’ambito della creazione artistica e della comunicazione visiva, è chiaro come Munari sia sempre stato guidato da uno spirito enciclopedico, dalla necessità e dall’impulso inesausti di conoscere più cose possibili, di sperimentare quanti più stili, tecniche e generi possibili (come spiega in una intervista a Quintavalle). La molteplicità riguarda una necessaria apertura epistemica: “più aspetti conosciamo della stessa cosa, più la apprezziamo e meglio possiamo capirne la realtà che un tempo ci appariva solo sotto un unico aspetto” (DCV 78).

Sin dall’inizio della sua carriera artistica negli anni Venti, Munari si è messo in dialogo e ha preso a prestito e sviluppato elementi formali dal futurismo, dal surrealismo, dal dadaismo, dall’astrattismo, dal costruttivismo, dal Bauhaus, dal concretismo, dal razionalismo; ha sperimentato con l’arte cinetica, con l’arte programmata, con l’arte ambientale, con il cinema sperimentale, con la performance. Come altri protagonisti del modernismo internazionale Munari ha attraversato tutti i possibili generi e tecniche espressivi, nel campo della pittura, della scultura, della grafica, dell’illustrazione, del design industriale, della pubblicità, dell’architettura, del teatro, della scrittura creativa e saggistica.

Esattamente come il Perec o i sodali dell’Ou.li.po. citati da Calvino, Munari sviluppa un’idea generativa dell’arte, legata a dei vincoli programmatici che permettono all’opera di moltiplicare i propri aspetti in maniera potenzialmente infinita, come in un Aleph borgesiano. Un esempio erano già i mobiles degli anni Trenta e Quaranta, come le Macchine inutili o Concavo-convesso, che sono delle sculture che moltiplicano infinitamente la propria forma. All’inizio degli anni ’60 Munari sarà il promotore e il punto di riferimento principale di una serie di esperienze estetiche che saranno rubricate sotto il nome di “arte cinetica” (da cui lui si dissocerà), ma che riguardano essenzialmente un’idea di arte moltiplicata e programmata, generata da procedure e dispositivi che consentono di costruire “una successione di situazioni visuali diverse che si ordinano secondo uno svolgimento cronologico imprevedibile, sia pure con varianti in un ambito di situazioni che possono essere più o meno previste completamente dall’autore”.

 

Ispirato dal motto di Lao Tse: “Produzione senza appropriazione, azione senza imposizione di sé, sviluppo senza sopraffazione” (Da cosa nasce cosa), Munari programma la molteplicità dell’opera in vista della presenza attiva del fruitore che partecipa integralmente alla sua creazione. Questa potenzialità moltiplicativa è legata anche alla disponibilità tecnica data dalla contemporaneità, alle sue macchine, e alla possibilità di creare dei “multipli”, opere di design industriale a funzione estetica che come Flexi o le Strutture continue possono essere ricreate, manipolate, moltiplicate infinitamente, “per poter dare a tutti la possibilità di arricchire la propria cultura visiva, assorbendo per via diretta queste informazioni” (Codice ovvio). Da questo punto di vista la molteplicità di Munari fa della replicabilità dell’opera d’arte non tanto un problema di perdita di aura (Benjamin), ma lo strumento che può veicolare una migliore comprensione dell’arte e un più democratico accesso alle sue articolazioni percettive e formali.

 

Bruno Munari: The Lightness of Art, a cura di P. Antonello, M. Nardelli, M. Zanoletti, Oxford, Peter Lang, 2017.

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Cesare Garboli: conoscere e agire

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I due libri usciti quest’anno su Garboli, Cesare di Rosetta Loy (Einaudi) e Vita contro letteratura di Paolo Gervasi (Sossella), formano in certo senso due figure molto garboliane, cioè “speculari”. Il primo è firmato da una scrittrice che gli è stata compagna; il secondo da uno studioso troppo giovane per averlo conosciuto di persona. Eppure nella Loy i ricordi autobiografici fanno appena da esile cornice alle lunghe citazioni del protagonista, mentre Gervasi – per ragioni teoriche – ne riconduce di continuo la vicenda intellettuale alla presenza fisica. Ma tra le affermazioni che la scrittrice lascia cadere sullo sfumato del suo rapporto con “Cesare”, ce n’è una che mi sembra importante per capire l’uomo umorale, disinvolto fino all’apparente noncuranza e ossessivo fino all’idealizzazione persecutoria di sé stesso, di cui prova a offrirci un ritratto. Parla, la Loy, di “una sorta di schizofrenia” garboliana: termine già usato in un’intervista a Repubblica, dalla quale emergeva un Garboli capace di mandare all’aria una vacanza se scopriva un errore in un suo articolo, e soggetto a scatti di furore manesco degni di una commedia con Sordi e la Vitti. “Penso che fosse un po’ schizofrenico, anche per una doppia radice che l'avrebbe condizionato per tutta la vita”, diceva la Loy a Simonetta Fiori radicando la sua idea nella sociologia. “Il padre era un grande imprenditore, molto ricco; la mamma una contadina analfabeta. Un gioco di contrasti fortissimo che ne turbò l'infanzia”. 

 

 

Il gioco delle parentele e dei contrasti, con la sua dialettica irrisolvibile e polare, è al centro della saggistica di Garboli, in cui abbondano espressioni come “opposizione complementare” o “gemellarità litigiosa”. Non solo il critico procede spesso per coppie, quasi un De Sanctis novecentescamente morbid (Delfini e Landolfi, Morante e Ginzburg, Fortini e Penna, Tartufo e Don Giovanni, Agnelli e Feltrinelli, servi e padroni, la vita e la letteratura…), ma è affascinato dai fenomeni che sono una cosa e insieme tutto il contrario, che stanno ossimoricamente al di là del principio di non contraddizione (così l’Amleto è “borghese e barbarico, famigliare e guerriero”, e nel dramma shakespeariano la regina verrebbe visitata dalla certezza che il figlio è sia ragionevole sia pazzo). Cesare riporta un brano di Garboli che può fare da chiosa ulteriore alle dichiarazioni della Loy: “Non appartenevo a nessun ceto riconoscibile”, ha scritto il critico introducendo il suo antipode Chateaubriand, “venivo da una famiglia ricca ma senza radici, mio padre si era fatto da solo e mia madre era quasi analfabeta”. E poco più in là: “Per una strana confusione di sentimenti, forse per qualche oscuro senso di colpa o per un sospetto insopportabile di inferiorità e di diversità, diventai comunista e scoprii di essere nato per la letteratura”. 

 

Queste scelte e prese d’atto cadono durante una lezione liceale sul romanticismo: eppure si tratta di una politica e di una letteratura ostentatamente antiromantiche. Garboli lotterà sempre con le idee e i climi legati alla grande svolta ottocentesca; ma lo farà come si combatte un avversario a cui si potrebbe d’improvviso cedere, riconoscendo che è una parte di sé stessi. L’allievo di Sapegno si mostra subito insofferente sia davanti agli ambigui miscugli di militanza e di poesia (Pasolini, Fortini…) sia davanti a tutte le metamorfosi dell’estetismo. Devoto ai filologi severi e alle esibizioni effimere dei teatranti, rifiuta l'ideologia moderna che fa dell'arte un valore in sé, un ente metafisico, e insieme pretende che assorba l’esistenza, la redima, ne diventi il fondamento privato e pubblico. Tenendosi alla larga dal totalitarismo estetico dei letterati italiani, inclini a reinterpretare l’intera storia in chiave romantico-decadente, ricorda che i sommi autori nazionali a cui ha dedicato la giovinezza, Dante e Leopardi, non parlano mai in nome della poesia bensì in nome della realtà, della “razionalità” e della vita. 

 

Questa allergia al prometeismo degli ultimi due secoli ha una conseguenza immediata. Garboli s’innamora dell’arte che attinge la grazia perché sembra non sapere nulla di sé, dell’arte che brucia ogni scoria demiurgica in una leggerezza antipsicologica, antistorica e quindi anche monotona, seriale (quella dei Sillabari di Parise e dei motivetti di Penna); ma la stessa monotonia e serialità lo intrigano anche quando rimangono mera ottusità, non-stile, brandello di realtà piatto e osceno come una bistecca sul banco del macellaio. A contare, nella sua esperienza, è ciò che sta per così dire al di sotto e al di sopra della cultura moderna: da una parte Casanova, il prosaico libertino veneziano, dall'altra Don Giovanni, sublime funzione teatrale irriducibile all’individualità romanzesca. Come si vede, siamo di nuovo ai poli opposti e privi di mediazione: qui la forma suprema, là una totale mancanza di forma, ma entrambe uniformemente lontane dal volontarismo e dall’intellettualismo otto-novecenteschi. La verità di cui questi estremi sono portatori deriva dall'assenza o rimozione di quel soggetto che celebra i suoi primi trionfi in Fichte. Per questo molti ritratti garboliani sono dedicati a uomini che hanno abdicato al loro io in nome di una funzione o vocazione tirannica: Gallo, Agnelli, Eduardo... Rinunciare all'io vuol dire “servire” e in parte degradarsi, come sanno Penna e Soldati e come in altro modo sa anche Garboli: il quale però, per dirla parodiando il suo stile, ha accettato ininterrottamente questa rinuncia senza accettarla per nulla. 

 

Ecco una pista che avrebbe meritato di essere seguita da una testimone d’eccezione, se avesse voluto scrivere un libro di testimonianza. Ma la Loy non lo ha scritto; forse per pudore, o per l’umanissima difficoltà a tradurre una relazione senza tradirla troppo. Però non ha scritto nemmeno un libro-antologia, un libro-montaggio in senso rigoroso, cioè articolato secondo un progetto leggibile. Così quello che ci resta è un mazzetto di fogli che sembrano sul punto di volar via dalla rilegatura: un non-libro silenzioso, oscillante, che commuove perché lo ha composto una donna segnata a fondo dall’intelligenza, dal fascino e dall’imprevedibilità del protagonista, dal modo in cui i suoi torpori casalinghi e le sue accensioni cavalleresche, i suoi abbandoni e le sue risoluzioni improvvise, i suoi indugi annosi e la sua imperiosa efficienza mattutina giocavano a prendersi per la coda come avviene in certi eroi morantiani, o come è avvenuto in genere tra la vita, l’opera e la malattia degli autori di cui lui stesso si è reso interprete. In più, verrebbe da dire che è mancato alla Loy un collaboratore capace di fare proprio il mestiere che Garboli si era reinventato: quello di editore. La cura di Cesareè infatti decisamente cattiva. Nessuno ha aggiustato i passi sciatti o zoppicanti, nessuno ha asciugato le ripetizioni, nessuno ha corretto i marchiani errori di cronologia politica; per non parlare della quarta di copertina, che è addirittura linguisticamente imbarazzante. 

 

E tuttavia, anche da questi quinterni scuciti un pezzo del fantasma garboliano s’incarna sotto i nostri occhi, e non passa solo attraverso la sua voce. Ѐ  la Loy a muoverlo brusco e affettuoso nei paesaggi di Versilia dove Medioevo e liberty appaiono ugualmente diroccati, ridotti a macchie d’umido nel chiasso del benessere; è lei a farlo recitare nelle trattorie come il suo Tobino, a restituirci gli odori della casa e i sapori della cucina che nella prosa garboliana giocano un ruolo così importante, se è vero che la metafora gastronomica, oltre a riflettere la golosità impaziente e al tempo stesso disamorata che lega il critico ai libri, gli serve da sprezzatura stilistica di fronte agli oggetti più monumentali. La casa è quella mangiata dalla muffa a Vado di Camaiore, la villa troppo vasta del frantoio e dei gatti, un luogo dove tutto sembra al limite dello sfascio e tutto sembra pronto a riprendere vita come se la routine fosse stata interrotta un attimo prima, col sugo ancora fresco sopra la tovaglia. Nelle sue stanze, ricorda la Loy, ha preso forma parecchia letteratura: non solo quella del suo compagno e la sua, ma anche una famosa poesia di Sereni. Ѐ una situazione che i lettori di Garboli conoscono bene, e su cui Gervasi si sofferma più volte: un racconto, un verso, un progetto nascono dall’incontro domestico tra gli autori e quel loro critico che trasforma in maieutica tutto ciò che fa o che tocca, qualunque gesto o battuta, persino la sua sola presenza. Però si tratta di una maieutica segreta, che rifiuta di raccontarsi platonicamente: è un intervento che sfiora l’interlocutore e sfugge via di scatto come il Cesare sciatore e nuotatore descritto in altre pagine, l’amante che s’immerge nella natura come nel suo elemento, in una placenta originaria di bellezza principesca e agio animale che lo distanzia dalla cultura e gli permette di passarci attraverso senza lasciarsene intrappolare. Da un tale agio sembra venirgli quella felicità ariosa senza la quale, pensava Garboli, non si può capire nemmeno la più asfittica delle disperazioni; così come senza l’insofferenza per l’umanesimo musone e senza una certa eccitazione infantile per la tecnologia (la tv, il pc), seconda natura e droga adattissima ai bioritmi garboliani, non si può forse gustare il piacere antico della filologia, dei testi e delle loro polveri.

 

 

Eccoci dunque ancora ai due poli che sempre seducono il critico seduttore, e che presidiano il confine con l’inumano: l’arcaico e il nuovo di zecca, l’assoluto e il dozzinale. E il punto in cui si toccano, negli aneddoti della Loy, è l’adesione di Garboli a una scienza leggendaria dei caratteri, a un’astrologia o superstizione che sostituisce in lui le tortuosità scolastiche dell’analisi psicologica “profonda”, ennesimo travestimento delle pretenziose metafisiche moderne. 

In questa mobile identità di condottiero e di indovino, di scrutatore infallibile e di adolescente rapinoso col ciuffo da bravo, Cesare somiglia davvero agli eroi morantiani. Ѐ il ragazzo ritratto dallo stesso Garboli nei bei distici che aprono il libro senza commento, l’Achille che tra le corse a perdifiato nei boschi e i lunghi pomeriggi a pancia in giù coi libri d’avventura sotto il naso resta impigliato nelle sottane delle sorelle grandi (chi scriverà un libro sui nostri artisti e intellettuali cresciuti o invecchiati nei nidi femminili? Non solo Pascoli ma Morandi, e Sordi, e un altro critico-astrologo come Berardinelli…). In quello struggente omaggio alla sua Italia antica e modernissima, l’io del poeta viene liquidato all’ultimo da un fulminante: “Se qualcuna mi ha amato, / ha amato voi”. Come dire che la nostra persona la si può esprimere garbolianamente solo tramite l’altro, gli altri, e che anzi con loro quasi coincide. Perché sono gli spazi che abitiamo, i convitati che ci circondano, i fasci di luce che ci riversano addosso a farci apparire come siamo, e non una nostra presunta essenza: tema proustiano che nelle pagine del critico s’infiltra ovunque, accordandosi allo spodestamento di quel soggetto moderno che pretenderebbe a un tempo di conoscere e di trasformare il mondo. 

 

Ma siccome siamo arrivati alla prosa di “Cesare”, che la Loy così discretamente lambisce e incastona, vale la pena indicare alcuni leitmotiv che le citazioni mettono in risalto. Quasi scaturite dal paesaggio intimo sembrano le metafore dell’acqua che scorre, dello “slittare”, ma anche quelle opposte del ribollire, dell’ingorgarsi, dell’incistarsi, del coprire e dell’esplodere; e naturalmente quelle che rimandano alla seduzione, a qualcosa d’inafferrabile e d’informe. Ancora. Sia su Morante sia su Delfini la Loy sceglie brani in cui Garboli illustra la loro attitudine a perdersi metastasianamente nei giochi che inventano; e forse questo oblio è connesso a un altro tema che coinvolge anche Matilde Manzoni e Giovanni Pascoli, cioè al desiderio impossibile di essere amati. C’è poi un motivo, di commedia ma anche tragico, che coinvolge più che mai la biologia: quello dei giovani e dei vecchi, e in particolare dei giovani che più o meno inconsciamente parassitano i vecchi. Capita che le due età condividano apparentemente qualcosa di cruciale; ma quel luogo di tangenza così intenso, che cancella per un attimo la divaricazione dei punti di partenza e arrivo, non può che trasformare l’incontro in un fraintendimento: è il caso dell’incidente epistolare Longhi-Berenson, o dei malinconici vagabondaggi notturni di Garboli e Delfini nella Roma del ‘56. Su tutti aleggia infine il tema scelto come titolo da Gervasi, la vita contro la letteratura. Garboli non smette mai d’indagare il loro scambio equivoco, il modo in cui la cifra di un destino affiora inattesa mentre s’inseguono chimere o vocazioni fallite, e il modo in cui le opere vengono alla luce come falsi scopi. Ѐ un tema che permette come pochi di cogliere il passaggio tra la modernità trionfante e quella tarda, condannata a consumare rapidamente sé stessa. Se l’Ottocento ha conosciuto formidabili scrittori intrattenitori e impresari (Balzac, Dickens) i cui libri sembrano un puro prolungamento dell’energia vitale, già nella seconda porzione del secolo le attività sociali e artistiche iniziano a collidere: lo si vede bene in Verga e Proust, che compongono i loro capolavori quando smettono di voler dominare la realtà mondana con un gesto a sua volta mondano.

 

Nel Novecento vivere e scrivere diventano verbi nemici, come prima di Garboli ci hanno detto in maniera indimenticabile Čechov e Montale. E al centro della galassia garboliana sta appunto questa letteratura che sorge quando la vita si ammala: letteratura come libido cambiata di segno, creatura “infetta” nata dalla frustrazione e magari da un odio mascherato. 

Del resto il critico ritrova l’infezione anche più indietro, anche là dove sottolinea la distanza enorme di un autore dalla nostra epoca. Dante è un “integrato”, non un romantico. Eppure a Garboli, analista degli istinti più luminosamente distruttivi, la Commedia appare un monumento “alla capacità di odiare”; ed è ragionando sul posto che non vi ha Guido Cavalcanti che si chiede, in una di quelle domande con cui traveste certe sue indimostrabili quanto irrefutabili intuizioni filosofiche, se il nocciolo ultimo della nostra identità non sia per caso l’invidia. Ma tornando al Novecento, quando gli capita di accennare a quel sommo scolastico moderno che fu Joyce individua la radice del suo Ulisse in un dolore rancoroso, fallimentare, stagnante, e con una frase che è anche stilisticamente caratteristica lo definisce il “grande poema goliardico di tutti i defraudati di qualcosa, poema di epica miserabile e derisoria ‘per giovani soli’ nato dal disgusto e dal disprezzo di vivere, da un'euforia immaginaria unita a un magone inconsolabile e a un leggero, ma inestirpabile, odore di water di campagna”. 

 

Ѐ questa rivelazione della malattia che Garboli vuole evitare a sé stesso, rifiutando di far scivolare la sua saggistica così suggestivamente narrativa verso la creazione romanzesca? “Non mi piace trasformare il mondo con le mie parole”, ha scritto in un noto passo di Pianura proibita citato dalla Loy. “Mi piace solo capire com’è fatto, e lasciarlo com’è, come l’ho incontrato. Trasformarlo con le parole vorrebbe dire esporre le mie viscere, e chissà che cosa nascondono le mie viscere. Dio mi guardi dal saperlo”. Per Garboli la sua sconfinata immaginazione ha il segno meno, è una virtù negativa. Perciò la costringe a tradurre i romanzi nascosti nella realtà. Lascia che venga tutta risucchiata, per usare un suo verbo-contrassegno, dalle ombre che chiedono di essere disseppellite, riconosciute, tolte a una tomba col nome sbagliato. L’energia immaginativa viene incanalata nella regia che sistema le luci giuste su ciò che è accaduto e rimasto nel buio, si tramuta nella mossa scientifica e magica di chi evoca una costellazione unendo punti già dati, trattando ad esempio il Pascoli famigliare “come certi legni che le onde portano a riva, sagome dove si crede di riconoscere un disegno, una figura, dei tratti accennati da una mano che non ha mai voluto tracciarli”. Così, mentre a Vado scrive il suo romanzo più famoso, la Loy spia Cesare che lì accanto “affronta ogni giorno il suo serrato confronto con l’antagonista di turno, senza mai lasciarsi corrompere dalla fantasia”. 

 

Ma al di là delle ragioni personali radicate a profondità insondabili (la fobia dell’errore, l’angoscia del limite, l’idealizzazione persecutoria che costringe a confessarsi soltanto obliquamente), in questa scelta gioca un ruolo decisivo l’idea che nel nostro mondo l’immaginazione coli ormai da ogni parte come un liquame inquinante, proliferi soffocando tutto come un cancro, produca irrealtà nel momento stesso in cui diventa una cosa sola con il reale. L’industria delle proiezioni che ci avvolge e corrompe è l’ultimo esito della demiurgia otto-novecentesca, dei suoi sogni romantici e utilitaristici; e Garboli vi avverte qualcosa come un sacrilegio. Mettersi sotto il patrocinio di Molière per giudicare questa cultura è allora cercare un punto esterno, o liminare, per giudicarne la deriva, per cogliere a monte l’inevitabile decomposizione dei fantasmatici progetti di potere concepiti dall’intelletto moderno e dalle sue discipline. E in Molière il baricentro dell’osservazione, il luogo preciso dove pre e postmoderno si ricongiungono è rintracciato dal critico in Tartufo: che è sì il suo antagonista, ma che non potrebbe capire in modo così originale se non ne sentisse in sé il germe (lo “schizofrenico” Garboli non è forse un servo-padrone, un collaboratore domestico e sotto mentite spoglie un direttore di coscienza che dà i suoi colpi di pollice ai destini degli autori, che aggiusta e scompiglia i ménage delle famiglie letterarie in cui s’intrufola?). Questa deriva culturale è descritta già nel ’69, nella Stanza separata, in termini che pur senza ancora evocare Molière restituiscono efficacemente la cesura degli anni del boom, anni durante i quali una modernità putrefatta fa risorgere e trionfare, “inconfondibile, irriconoscibile”, il falso devoto sconfitto nel Seicento: “La letteratura è giunta a un punto di crisi, le manca l’aria, l’ossigeno, proprio nel momento in cui ci si è accorti che i valori della cultura sono ‘utili’. Non reali, come era stato nella civiltà classica e poi umanistica, ma ‘utili’. Ѐ vero, la cultura appartiene alla prassi, è una fabbrica e non un giardino. Ma diventa utile soltanto in tempi di barbarie”. 

 

 

Ed è appunto da questa cesura storica che prende avvio l’analisi di Paolo Gervasi. Garboli, infatti, esordisce proprio allora: quando tramonta l’ultima repubblica delle lettere, quando l’umanesimo viene sostituito dalla burocrazia delle scienze umane e l’ipertrofia dei linguaggi estetici comincia a equivalere alla loro liquidazione massmediatica. “A fronte di un aumento della complessità dell’insieme delle pratiche simboliche, le strategie interpretative tradizionali smarriscono la capacità di fare presa sugli oggetti culturali, consegnandosi a un’impotenza raccontata spesso con una sorta di euforia apocalittica”, constata lo studioso introducendo il suo ritratto. In questo senso “l’esperienza di Garboli si colloca tra due epoche, tra il prima e il dopo del complesso di cambiamenti che hanno messo in crisi le pratiche e le gerarchie di valori della modernità, e per questa sua posizione può essere utilizzata come un generatore di domande da porre al presente: qual è il ruolo della critica nell’era della mutazione di tutti i sistemi comunicativi?”. Gervasi inizia a rispondere osservando che “il senso della ricerca critica di Garboli si può sintetizzare nel tentativo inesausto di definire il rapporto tra l’arte e l’esperienza umana, tra l’immaginario e il nostro destino di creature immerse nell’ambiente naturale modellato dalla cultura. Nella letteratura Garboli rintraccia e porta alla luce le forze vitali, le esperienze essenziali, i movimenti profondi della creatività umana; riconosce, anche dove erano stati sublimati o trasfigurati, le pulsioni e i desideri, la persistenza pesante e opaca del corpo. Combattendo la tentazione implicita nell’arte di risolvere la durezza dell’esistenza nell’evasività dell’immaginario, Garboli ripete continuamente che l’arte non deve imporre una forma all’informe, ma lasciare che nelle forme la vita continui a fluire”. 

Ecco di nuovo la metafora del flusso, dello scorrere, in cui si riflette la natura di organismi reali e fantastici che non stanno mai fermi. A questa oscillazione continua tra forma e non-forma corrisponde il genere che Garboli ha praticato da maestro: quel saggio che, come ha detto in una delle sue felici definizioni en passant, mette in scena la nascita, la storia e il drammatico mescolarsi delle idee come i romanzi fanno con i personaggi. “Costitutivamente ibrido, il saggio conosce un’esistenza carsica: la sua presenza invisibile e indefinibile, situata nelle pieghe del sistema dei generi, dipende strettamente dall’efficacia della sua esecuzione.

 

Il saggio esiste nello spazio empirico e nel tempo definito di una performance, per poi ri-inabissarsi. La storia del saggio diventa allora una teoria di accensioni saggistiche”, commenta Gervasi confermando qui la concezione del suo autore. “Critico inappagato”, “storico miscredente”, “narratore di frodo”, Garboli è in quanto saggista – e traduttore – una sorta di attore senza gesti. Per esorcizzare quei caratteri della sua operazione che potrebbero apparire romantici e gratuitamente istrionici, li estremizza e al tempo stesso li cancella assumendo su di sé il potere paradossale di chi recita dando vita a uno spartito come è e come nessuno lo ha mai visto: cioè il potere di colui al quale è concesso esibire senza pagar dazio un protagonismo impudico, perché la sua libertà e il suo talento si esprimono solo attraverso l'annullamento dell'io. Realizzando i destini incompiuti, e riflettendo sui testi creativi dei suoi autori, Garboli li “esegue” traducendoli nel proprio linguaggio. Dire questo significa riconoscere che l'unico saggista davvero affine a un tale interprete resta Roberto Longhi, il critico-conoscitore che sa far coincidere un massimo di idealizzazione con un massimo di aderenza al dato materiale, lo scrittore che nelle sue ekphraseis brucia senza dialettica ogni rapporto con la cultura “esterna” alle opere, ma rifiuta anche qualsiasi vaghezza fantastica. Longhi però ha un vantaggio: si occupa solo di pittura, linguaggio muto che permette al traduttore di sfogare senza rimorsi tutto il suo talento manierista. Garboli invece, oltre che di immagini, si occupa di uomini e di scritti, nonché del cordone ombelicale che li lega: cioè di oggetti che di per sé stessi già parlano, che sono impregnati di una cultura e di una storicità di secondo grado davanti alle quali ogni traduzione rischia di apparire una parafrasi insieme superflua e infedele. Al di là delle differenze di generazione e di stile, è anche per questo che mentre il suo maestro fa sfoggio di una lingua virtuosisticamente antiquaria Garboli adopera invece un tono sbarazzino, alternando finezze e modi sbrigativi, sfruttando prosaicamente le già ricordate similitudini “domestiche” (la cucina, l'artigianato, lo sport, l'infanzia), e cercando di raggiungere una distratta eleganza attraverso equivalenze qua e là quasi grossolane. 

 

Ma nel gioco a nascondino col romanzesco, il teatro non è per questo saggista solo una metafora accorta del proprio lavoro. Specie quello non modernamente pensoso per partito preso, cioè non preoccupato di appiccicare ai suoi stracci l’etichetta di una cultura autorizzata, è anche un luogo privilegiato di ricognizione. Nel teatro il mestiere più terragno, il sudore della vita non si è ancora staccato dall’opera. Realtà e finzione si scambiano le parti su una soglia che non si può abolire: il contrario della mistificazione che le vorrebbe separare per poi inglobare l’una nell’altra, e che Garboli denuncia fin dal suo primo libro osservando che se si annulla il mondo nel testo allora anche il testo si riduce a nulla. “Per ogni vero critico”, scrive molti anni dopo in una nota sul diario di Matilde Manzoni opportunamente citata da Gervasi, “non esiste, separato dall’arte, il mondo sensibile, il mondo che nasce e muore, il mondo sciocco e peribile che chiamiamo reale, ma non esiste neppure, separata dal mondo, l’arte che lo eterneggia e lo redime. Non esiste nessuna creazione d’arte, nessuna forma d’arte separata dalla caducità del mondo. Queste due realtà non si trovano mai disunite; i loro sguardi non si staccano mai, sono sempre incantati, appiccicati l’uno all’altro da una fascinazione reciproca che non ha mai fine”.

Di tutto ciò il teatro è un’incarnazione esatta. Ma come si è detto, l’allergia per l’eterno, e tanto più per la retorica dell’eterno prodotta da una modernità costitutivamente caduca, porta Garboli ad allestire anche un teatro critico intorno a una letteratura per altre ragioni formalmente instabile, e intorno al suo legame misterioso con l’instabilità della vita di cui si alimenta. Questo saggista, spiega Gervasi, si occupa delle opere in fase d’incubazione, dei margini dell’esperienza letteraria: ad esempio del limbo in cui svolazzano i cartigli pascoliani fatti a metà per la circolazione domestica e a metà per quella pubblica. Oltre che a un attore, qui Garboli somiglia un po’ a un detective. E a questo punto lo studioso lascia cadere un fin troppo canonico rimando a Carlo Ginzburg e alle sue ricerche sulle vie indiziarie: vie che oggi alcuni critici, parodiando Garboli, battono francamente con un po’ troppa enfasi, circondando di un’aura misterica eccessiva il più qualunque dei biglietti ed eleggendolo subito a oscura traccia di un imbroglio del destino o di un morbo fisiologico-poetico. 

 

In ogni caso, sovrainterpretazioni a parte, di sicuro l’autore degli Scritti servili“esplora il buio in cui la creazione non si è ancora compiuta, sosta nel territorio incerto della potenzialità, guidato dall’idea che ‘niente è più sacro di ciò che non è stato ancora redento dallo stile, non ancora raggiunto dall’intelligenza’ ”. Ad attrarlo non sono le opere in quanto tali, ma non sono nemmeno, in quanto tali, le persone: è piuttosto lo spazio che divide e unisce vischiosamente poesia e realtà. Garboli vuol essere un ostetrico delle forme, vuole decifrare e portare alla luce i grovigli artistici ed esistenziali ancora privi di contorni e dispersi nel ventre buio che si stende tra la vita e la pagina. Il Novecento, lo si è detto, ha reso il loro legame innaturale, sancendo una separazione torbida tra le due. Ma se un'affinità rimane, suggerisce Garboli, sta forse nel fatto che testi ed esistenze appaiono entrambi come “processi patologici”: e per questo, più che un ritrattista di tipi umani o un analista di opere, lui si sente un diagnostico. Una tale affinità non implica però un netto rapporto di azione-reazione tra l'opera e l'esistenza del suo autore: le due “forme” potrebbero correre in parallelo. Sembrano realtà incommensurabili; e se anche vengono risucchiate l'una nell'altra lo fanno attraversando un diaframma segreto, scambiandosi i sintomi in una terra di mezzo intricata e informe. A Garboli interessa appunto questo paludoso luogo di passaggio, dove una vita non più realizzabile in pienezza contagia dei testi a loro volta incapaci di dare di questa vita una rappresentazione integra. E allora, per elaborare diagnosi attendibili, è logico che faccia esperimenti su chi gli è più vicino, su uomini e donne che ha potuto visitare a lungo: Delfini, Natalia Ginzburg, Penna, Morante, Soldati, Longhi... Così come, date queste premesse, non stupisce che le sue cavie preferite siano artisti che non mostrano piena consapevolezza di sé, che non dominano la loro giornata e il loro talento.

 

 

Esemplare è il caso di Delfini, che “ha vissuto e coabitato con se stesso senza mai vedersi”, e che Garboli ha avviato verso la “rinarrazione ex post” precipitata nella prefazione alla Basca del ’56, dove lo scrittore riporta i racconti agli eventi da cui erano stati ispirati e al loro “filo autobiografico”: come dire a una coscienza, sollecitata dall’attore-editore in grado di orientare il Ricordo con la sua interpretazione.

Questo personaggio che restaura i testi dietro le spalle degli autori, questo suggeritore di varianti che rimodella nel bene e nel male le carte dei suoi amici e dei narratori che segue per un periodo nelle vesti di funzionario editoriale, ci appare quasi come una specie di Niccolò Gallo “parlante”: un conoscitore di orecchio assoluto che diffida dell’io e della forma, ma che al contrario dell’amico ha un desiderio di dichiarare la sua diffidenza abbastanza forte da farlo diventare un saggista. E un illusionista. Perché oltre a stendere i suoi pezzi lunghi o brevi come un Debenedetti o un Cecchi, Garboli si nasconde e si esibisce in una serie di libri-palinsesti, di introduzioni-(auto)biografie, di curatele al limite della riscrittura. Calandosi in questo ruolo fiuta alcune tendenze fondamentali sia di una nuova sensibilità comune sia dell’industria culturale (il passaggio dell’aura dall’opera alla personalità dello scrittore, la retorica dilagante dell’editing…), e finisce per rappresentarne tanto uno straordinario complice quanto un contravveleno “gratuito”, nel senso che mantiene l’intramontabile gioia del ragazzo che vuol vedere come sono fatte le cose per poi abbandonarle alla loro sorte, chiacchierare fino a notte e tornare randagio bevendo alle fontane senza appartenere a nessuno anche quando abita le stanze più lussuose. Tipico di questo personaggio è il modo in cui si mostra incuriosito dai casi di successo, ostentando sempre di esser lontanissimo dalle mutrie dei catoni che gridano alla decadenza e allo scandalo, ma al tempo stesso pigliandoli per un verso che mentre implica il tout comprendre lo pone a una distanza ancor più siderale dalla confusione tra esigenze pubblicitarie e attestati di eccellenza poetica. Basta leggere alcuni degli articoli usciti su Repubblica negli anni Novanta, come gli interventi sul Nobel a Fo o sull’esordio di Simona Vinci, per capire cos’è una stroncatura affabile ma inappellabile, uno di quei delitti perfetti che nessun polemista di mestiere potrebbe commettere senza lasciare le sue ditate di unto sulla pagina, e che a Garboli sono invece consentiti dal suo tono luciferinamente accogliente e sardonicamente soave. 

Di questo attore-editore, Gervasi ci offre un ritratto molto accurato. Finché resta sulla concreta realtà garboliana, e la confronta con la cultura circostante, il suo giudizio si rivela acuto, oltre che fondato su informazioni precise. Fa le citazioni giuste, le commenta con puntualità, e sembra precocemente in grado di controllare una materia vasta per diramazioni e sfumature. Peccato solo che voglia incastrare a tutti i costi il suo ritratto in un’astratta cornice ricavata dalle teorie biopoetiche della letteratura a cui si stanno arrendendo i dipartimenti delle humanities. “L’efficacia esplicativa del saggio si basa anche sulla valorizzazione di alcuni presupposti cognitivi che aiutano a comprenderne meglio il funzionamento e allo stesso tempo ne approfondiscono il valore conoscitivo: il saggio ci fa capire qualcosa perché il modo in cui lavora è analogo al modo in cui lavora la mente per assimilare e interpretare il mondo”, scrive ad esempio a un certo punto, cambiando stile come un attore che cambi di colpo la voce per imitare il personaggio di un altro dramma, diciamo come un ottimo Iago che all’improvviso si metta a pronunciare le battute del Dottor Diaforetico.

 

Il saggio è la forma della mente, verrebbe da riassumere parafrasando un titolo di Giorgio Manacorda che dava la palma del pensiero emotivo alla poesia. La cornice incongrua montata da Gervasi intorno a Garboli esalta la fisicità che ha invaso il discorso estetico degli ultimi decenni, trasformando il Corpo in una parola-feticcio pronunciata come un tempo si pronunciavano “operai” o “popolo”, ossia con un anelito all’unione mistica che tradisce la lontananza dall’oggetto. Ma adesso, a colmarla, i biopoetici chiamano euforicamente le scoperte scientifiche sull’embodiment e i neuroni specchio. “Radicalizzando in senso materialistico le teorie psicoanalitiche”, prosegue lo studioso, “Garboli cerca nella scrittura le tracce che rendono manifesto il pensiero delle viscere. I suoi saggi mostrano la creatività come un’attività contigua alla fisiologia del corpo, quasi un effetto collaterale del lavorìo col quale la materia tenta di sdoppiarsi per diventare autocosciente. Inconsapevolmente in accordo con le più radicali teorie materialiste della coscienza, Garboli descrive l’emersione della consapevolezza di sé come una eccedenza dell’attività neurobiologica”.

 

Si può certo insistere sul ruolo giocato in Garboli dalla fisiologia, e sulle immagini filamentose che ne derivano. Ma questo corpo biopoetico poco somiglia a quello garboliano, attraverso cui il critico esprime l’ininterrotto e insopprimibile stupore provato davanti alla relazione segreta che i segni lasciati su un libro intrattengono con un gesto, un individuo, una voce, ossia davanti all’eterno scherzetto metafisico per il quale la presenza e l’assenza della persona che li ha scritti sembrano modificarne la natura. 

In sintesi, nel suo Vita contro letteratura Gervasi in parte “esegue” Garboli alla giusta distanza con il linguaggio di un saggista; e in parte incrina questo linguaggio col codice di una trattatistica che non fonde né con l’altro tono né col tema. Questo altro tono, cioè il migliore, torna a farsi sentire quando verso la fine del libro pone frontalmente la questione di un bilancio del suo oggetto di studio: “qual è il giudizio complessivo sulla saggistica di Garboli?”, si chiede in una pagina molto nitida. “La sua critica è giusta o sbagliata, coglie nel segno o manca clamorosamente il bersaglio? Aggiunge qualcosa alla conoscenza delle opere di cui parla, oppure non fa che opacizzarle e sovrascriverle, e va considerata un’operazione creativa parassitaria, da valutare, semmai, autonomamente? E anche: l’idea della critica che emerge dal lavoro di Cesare Garboli è riattivabile nel contesto attuale? Si può ricavare qualcosa dalla sua lezione? Si può riprodurre il suo metodo? 

La risposta più immediata a ognuna di queste domande probabilmente è no: non si può rifare Garboli, non c’è niente di replicabile nel suo metodo, e dopo l’attraversamento della sua opera, nonostante i lampi di intelligenza che vi si incontrano, resta perfino un po’ di irritazione, la tentazione di rifiutare in blocco la sua critica vischiosa, l’idea che egli si sia appropriato indebitamente, subdolamente, di scritture, temi, opere che dopo il suo passaggio tirannico non si potranno più leggere innocentemente. Se pure Garboli ci dice qualcosa delle opere, ce le fa conoscere diverse da come le conoscevamo, aggiunge elementi di comprensione locali ed empirici, i suoi risultati non sono generalizzabili, i contorni del suo metodo si perdono in una foschia affabulatoria, e c’è innegabilmente qualcosa di condivisibile nelle obiezioni che sono state mosse al suo cannibalismo critico. 

 

Dalla pratica saggistica di Garboli esce deformato, assumendo fattezze distorte, anche quello che è forse uno dei suoi meriti principali: l’esercizio di una instancabile critica militante, che aiuta le opere a nascere e a trovare spazio; il sostegno dato alla creatività nel suo farsi, il coraggio nel tentare di individuare valori emergenti e/o divergenti, fuori dalle gerarchie consolidate; la scrittura praticata sulla linea di avanzamento del presente, senza rete, esposta ai venti dell’attualità. La militanza però, in Garboli, non si mostra mai come tale, si camuffa da compromissione, occulta il gesto della scelta e della selezione, presentandosi quasi come una fatalità ineludibile, come una questione di destino. E quindi anche riguardo a questa parte fondamentale del momento valutativo, che Garboli ha praticato con passione autentica e offrendo intuizioni decisive, il suo esempio si presenta opaco, sfocato, inutilizzabile, inimitabile anche nel processo che porta ai risultati migliori”.

 

 

Molte osservazioni di questa pagina vanno tenute presenti: ad esempio quelle che riguardano il rapporto equivoco con la valutazione e con la militanza. Il disinteresse apparente, anzi la noia esibita da Garboli di fronte ai canoni implica a volte un’accettazione o imposizione implicita di certe gerarchie che passano così per indiscutibili quando non lo sono affatto; e siccome la sua ricognizione si sostanzia soprattutto di ritratti, la vicinanza appassionata ad alcuni scrittori finisce per ingrandirli oltre misura sullo sfondo della loro epoca senza che questo ingrandimento sia giustificato (per questo i medaglioni più indiscutibili, nel senso di attendibili, sono quelli dove indiscussa è la statura del modello, come nel caso di Penna). Ѐ poi senz’altro vero che in questo saggismo serrianamente umido proprio le suggestioni più forti si trascinano dietro l’ombra di limiti che sembrano poterle minare alla radice. La svogliatezza dell'assaggio critico che lascia sempre un po’ d’appetito insoddisfatto, che lambisce appena e poi sorvola le intuizioni cruciali, lasciando che il lettore si accorga alla fine che i bocconi più prelibati, nascosti nelle anse del discorso, li aveva già inghiottiti senza masticarli, ha a volte in Garboli qualcosa di ipnotico. Il passo accidioso eppure rapidissimo, il chiaroscuro che si tende in epigramma e l’epigramma che si smorza in un’alzata di spalle o in un aneddoto, spesso costituiscono davvero una performance dai perfetti tempi attoriali. Ma bisognerà pure aggiungere che come in Serra, abituato a tenere sullo sfondo tutt’altro lirismo, questa letteratura d’atmosfera che vorrebbe autocancellarsi sfiora e non di rado supera la posa. 

 

Eppure Garboli è malgrado tutto un critico straordinario. Lo è perché in lui ragioni e idiosincrasie, argomenti e sensibilità si uniscono a una serie di idee-forza sulla realtà circostante che fanno del suo gusto un organismo, uno strumento conoscitivo, una visione del mondo che ce lo mostra come non lo avevamo mai visto. Lo è, ancora, perché come ogni critico ha la testa di un filosofo che non crede più nella filosofia; perché usa e abbandona i metodi quando gli servono come si prende dalla dispensa un setaccio, una spezia o una pentola a seconda del pranzo da servire. In questo senso un critico è sempre inimitabile perché è sempre in situazione: il suo sapere e il suo tatto devono riorientarsi e cristallizzarsi nella maniera più adeguata a ogni nuova partita. A differenza dello studioso, il critico deve cioè reinventare sempre tutto daccapo e tutto rimettere radicalmente in discussione: prospettiva, linguaggio, rapporto tra sé e l’opera, tra l’opera e il canone, tra questi poli e la condizione presente e passata. Contano il senso della posizione e delle proporzioni, la scelta del punto di vista, il taglio, la corrispondenza tra contesti e tono. Quando sa dosare gli ingredienti con originalità ed esattezza, un critico del genere è semplicemente uno scrittore. Qualunque oggetto intenda descrivere, uno scrittore dovrebbe riuscire a mostrarcelo come se ci apparisse davanti per la prima volta: ripulito dagli stereotipi, dalle opinioni ricevute, dall’autorità della tradizione. Vale anche per i testi, per gli organismi estetici, insomma per l’arte sull’arte. E lo si dice senza l’enfasi grossolana dell’estetismo, che gli autentici critici-scrittori hanno sempre evitato. Si pensi, a questo proposito, alla cautela sfuggente di Giacomo Debenedetti, evocato a ragione da Gervasi, che come Garboli è stato uno scrittore e un narratore assai più grande della maggior parte degli scrittori e narratori “non critici” della sua epoca. Non a caso entrambi, pur così inclini al gioco di prestigio, sono lontanissimi da Citati, da cui infatti l’autore della Stanza separata tiene presto a distinguersi perché vede nel suo coetaneo un complice dell’irrealtà, dato che nelle sue pagine “tutti i salmi finiscono in Gloria” e tutti gli autori evaporano in un gas neoplatonico dal quale si leva solitaria l'impudente ricreazione del ritrattista.

Quando Gervasi usa il suo tono e il suo linguaggio più appropriati, come nelle domande e nelle risposte riportate sopra, anche in lui si può scorgere sotto lo studioso un giovane critico di talento.

 

Ma appena vuole infilzare nella teca della humanities quella creatura così fastidiosamente mercuriale che è la critica, ecco che Iago ritorna Diaforetico, quasi per un’interferenza tra stazioni radiofoniche, ed ecco riemergono le astrattezze antropologico-politiche. “La risposta alla domanda sull’utilità della critica allora, posta attraverso Garboli e oltre Garboli, può consistere soltanto in un rilancio delle sue prerogative in una prospettiva che è allo stesso tempo più elementare e più ambiziosa di quella cui siamo abituati”, ci dice quest’altro attore generico. “La critica serve a ritrovare l’elemento vitale dell’arte, il quid che parla agli esseri umani perché si sintonizza coi loro corpi e con le loro menti, perché indica loro una possibilità di comprensione e attraversamento del mondo. Gli studi letterari specialistici, i saperi tecnici che troppo a lungo si sono ostinati in una dissezione dei testi che trovava in se stessa il proprio fine, possono riaprirsi e tornare, attraverso l’analisi complessa delle forme stilistiche, mezzi di scoperta della vita nella letteratura. Strumenti di restituzione dei testi letterari alla comunità, come nell’immagine di Garboli citata proprio in apertura di questo lavoro: dal luogo sconosciuto in cui le parole cadono, ‘lo scrittore-lettore va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo’. In gioco non c’è soltanto il destino di un insieme di discipline, o la conservazione statica del bello. C’è la possibilità di riaffermare, in un momento di inaudita espansione delle capacità poietiche della tecnica, che preme sull’immagine umana e la deforma in senso già post-umano, la centralità dell’arte nella storia profonda dell’umanità, il ruolo che ha avuto la creatività nel plasmare la mente e le sue interazioni con l’ambiente”.

Si avverte qui lo sforzo di un’intelligenza critica costretta a far finire tutti i salmi nella gloria delle teorie neurobioletterarie. Ora, se c’è una cosa che avrebbe giustamente ricordato a Garboli i dottori molieriani e le loro virtù dormitive è proprio il gergo di simili teorie; e se c’è una cosa che da Garboli è urgente imparare è proprio la diffidenza nei loro confronti, magari venata di un po’ di senso del comico. Perché le teorie biopoetiche provengono appunto dalla mostruosa crescita di quella religione culturale postumanistica che è fiorita negli anni Sessanta del Novecento, e che a differenza della cultura religiosa degli anni Sessanta del Seicento riserva a Tartuffe un destino (per noi) più minaccioso.

 

Il prete che si pretende sia servo sia padrone, che vuole vivere le passioni della vita al massimo grado ma insieme controllare questa vita con machiavellica freddezza, è punito dal suo autore come un empio, e prima ancora è dipinto con pennellate che ne restituiscono l’aspetto sgradevole, grottesco. Ma alla fine del ventesimo secolo, ci dice Garboli, “il personaggio di Molière è tutto fuorché ridicolo. Ciò significa che la scena ha girato su se stessa. Ridicoli sono diventati gli altri”. A partire dagli anni Sessanta del Novecento, prosegue il critico, si è preso atto che l'intelligenza coincide con il male: che l'innocenza esclude dalla vita, mentre la perversità e la simulazione ci rendono protagonisti. Così si può servire il male, e contemporaneamente esercitare il dominio. Si può essere servi, sì, ma servi dell'intelligenza che fa padroni; e nello stesso tempo si può vivere la violenza o la frode con inebriante cecità. Criminalità, gioia e salute sono tutt'uno. Si dissolve la dialettica romantica, col suo ping pong tra finzioni estetiche e poteri borghesi, e si torna a un mondo antiromanzesco, integralmente “teatrale”. Ma se tutto è recita, il teatro sparisce. E se l'irrealtà occupa l'intero campo, qualunque fiction non ha più senso. Così sbiadisce la letteratura, barbara e “utile” solo in quanto leva o decorazione nobilitante di un progetto di potere che la derealizza come fanno – dopo tante altre – le odierne teorie biopoetiche; e con la letteratura evapora la vita, che si erge “contro” di lei ma ne è inseparabile, perché diventa a sua volta irreale. Intanto in mezzo, bolla che scoppia e si scioglie nella loro indistinzione, muore la critica che le teneva insieme nel suo sguardo incantato. In queste condizioni diventa difficilissima anche l’operazione più tipica di Garboli, che dalla critica lui distingueva ma che a volte, non essendo forse troppo superstizioso per quel che riguarda le parole, si rassegnava a indicare come una delle sue tante forme possibili: ossia la traduzione letteraria della vita che è andata dispersa tra le tracce scritte. 

 

Garboli ripete spesso che esistono due concezioni fondamentali e opposte della vita: da una parte quella santa e stracciona di chi la vede come un gran fiume da cui ci si lascia trasportare, un regalo fangoso e sublime che non si fa possedere ma esige abbandono, e dall’altra quella borghese che pretende di farne un oggetto, uno strumento, una materia da costruzione. Solo nei personaggi di poesia le due concezioni si trovano del tutto separate: nel mondo reale anche il vagabondo più arreso, anche il mistico più spoglio devono costruire almeno un po’ per non andare in pezzi. E tuttavia vale anche il contrario: quando si edifica, quando si pensa di mettere su la casa della vita, lei continua a scorrere altrove, cieca, sventata, informe, perdendosi in una emorragia che le impedisce sempre di coincidere con un tracciato biografico e storico. Credo stia qui il primo, onnipresente tema del Garboli trovatore di romanzi: nella “frazione di realtà intima, inesplicabile, incomunicabile che andrà sempre perduta (la ‘vita’) e non potrà mai raggiungere, come Achille la tartaruga, la sua foce storica, sociale, istituzionale (la ‘biografia’)”. In questo schema se ne riflette poi un altro più strettamente critico, riguardante l’idea del rapporto che corre tra il pensiero e la realtà, tra il conoscere e l’agire. “Il nostro secolo ha decretato il fallimento dell’identità di teoria e pratica; identità che è il sogno di ogni ideologia e il miraggio di ogni rivoluzione”, ha dichiarato Garboli in un’intervista di fine Novecento sui nostri massimi, gemellari e opposti filosofi idealisti, riconoscendo una condizione che è divenuta sempre più ineludibile dopo il Duemila. “Non si può trasformare il mondo; si può solo inseguirlo. Rispetto all’euforia illuministica, o alla ragione hegeliana, la nostra situazione si è rovesciata. La nostra ragione è critica, non creativa; e l’uomo è oggi oggetto, non soggetto di Storia. Questo ci avvicina a Croce; ma, stranamente, ci fa schiavi di Gentile”. 

In poche battute, e con figure garbolianamente speculari, credo non si potesse definire meglio la servitù di cui tutti ormai siamo certi.

negli speciali in home: 
Non in Box
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Rosetta Loy, Paolo Gervasi
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Immagini come galleria: 

Thomas Bernhard: il suicidio del pensiero

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Sottotitolo: 
Piazza degli eroi

Oggi il secondo testo del nostro speciale Ritorno al futuro. L'idea è quella di rileggere libri del passato che offrano una prospettiva capace di illuminare il momento che viviamo oggi. Libri di storia, di antropologia, arte, filosofia, così come romanzi e testi poetici per leggere le nuove forme di autoritarismo del nostro tempo. Per leggere gli altri contributi cliccare sul nome dello speciale a sinistra sopra il titolo in questa stessa pagina.

 

Un clamore insopportabile di folle plaudenti. Il professor Josef Schuster, matematico e filosofo, si è ucciso. Buttandosi dalla finestra della sua casa che affaccia sulla Heldenplatz, Piazza deli Eroi, a Vienna. Il professor Schuster si è ucciso perché ebreo. 

Siamo nel 1988, ma ogni volta che le cameriere aprono le finestre che danno sulla piazza, di fronte al Burgtheater, la moglie, Frau Schuster, sente le grida scomposte e acclamanti dell’adunata oceanica di austriaci che proprio in quel luogo aveva salutato nel 1938 il discorso del Füher proclamante l’Anschluss, l’annessione del paese alla Germania nazista, e soffre dentro di sé la marea montante dell’antisemitismo rinascente, dell’odio. Tant’è vero che per questa sindrome paranoide è stata anche ricoverata allo Steinhof, il manicomio di Vienna dove fu internato anche il nipote del famoso filosofo Wittgenstein.

Schuster, che era fuggito dal nazismo rifugiandosi a insegnare a Oxford, mentre il fratello Robert si era sistemato a Cambridge come Wittgenstein, negli anni cinquanta ha voluto tornare a Vienna. Ma subito prima del suicidio era sul punto di abbandonare nuovamente l’Austria e di rientrare nella città universitaria inglese, non sopportando il terrore della moglie. La casa era venduta, il pianoforte spedito, molti mobili imballati, gli effetti impacchettati.

 

Perché uccidersi? Perché quelle voci che la moglie sente nella carne sono un ectoplasma di una realtà insorgente, quella dei neonazismi, dei nuovi patrioti che sputano per strada alla figlia perché ha caratteri semitici, quella delle camarille universitarie che lo hanno sempre guardato con sospetto, come un corpoestraneo. Quelle grida sono un fantasma che sta riprendendo corpo nell’intreccio originario di fascismo e cattolicesimo oppressivo, quello dei riciclati tipo il cancelliere Kurt Waldheim, quello che dilaga perfino travisando il socialismo, diventato puro affarismo.

 

Sembra di leggere una cronaca dell’Italia craxiana e poi berlusconiana e di quella più recente salviniana, un lungo filo nero che possiamo far risalire allo strapaese, al machismo, all’imperialismo feroce e di cartone, al fascismo e alle sue radici antiche. Ma siamo solo a metà della notte, nel 1988. 

 

Heldenplatz– rappresentato a Vienna nel novembre 1988 – è l’ultimo amaro, iperbolico, disgustato dramma di Thomas Bernhard. Lo scrittore attacca frontalmente la sua terra, quella dove era cresciuto senza padre, ramingo anche lui, allevato dal nonno scrittore e poi in un collegio in cui la sala delle adunanze con il ritratto di Hitler era stata sostituita, dopo la guerra, da una cappella cattolica. La nuova ricchezza del dopoguerra per quel paese, come per molti altri nel dopoguerra, aveva avuto come costo il conformismo, il pregiudizio, il disprezzo per la natura e per la bellezza, in una corsa alla modernità non esente da vecchie tare. Nella nuova Europa democratica non cessavano di agire l’oppressione confessionale, la grettezza piccolo borghese, il senso di colpa, la cura e la difesa strenua del particulare, alla radice dell’arroccamento xenofobo, del disprezzo per la diversità. 

“Oggi l’Austria è un paese governato da affaristi senza scrupoli di partiti senza coscienza, ho detto a Gambetti, pensai ora davanti alla fossa aperta. Questo popolo austriaco defraudato di tutto, ho detto a Gambetti, cui negli ultimi secoli, nella maniera più infame, cattolicesimo, nazionalsocialismo e pseudosocialismo hanno estirpato dalla testa l’intelletto”. Così Bernhard scrive alla fine di Estinzione. Uno sfacelo (Adelphi), l’ultimo romanzo pubblicato poco prima di Heldenplatz, nel 1984. 

 

Hitler accolto trionfalmente nella Heldenplatz a Vienna (marzo 1938).


Schuster in tedesco vuol dire calzolaio. Brecht, fuggendo dal nazismo, scriveva di aver cambiato più spesso paese che scarpe. Nel primo atto di Heldenplatz il guardaroba è invaso dalle scarpe del professore: per lui cambiare luogo vuol dire cambiare scarpe, sempre pronto a fuggire. Schuster il calzolaioè radicato a Vienna e in un paese di campagna dei dintorni, Neuhaus, dove sorge la villa di famiglia e dove risiedono i ricordi d’infanzia, una campagna amata in passato, ora odiata, ora minacciata di urbanizzazione selvaggia, per una strada che deve attraversare il gran meleto della tenuta. C’è qualcosa dell’esasperato senso di fine del Giardino dei ciliegi e c’è l’immobilità di Cechov, ma depurata di ogni patetismo, di ogni sentimentalismo o addirittura dei sentimenti, attraverso le maschere di personaggi che cercano di decifrare gesti inspiegabili di altri personaggi in una realtà incomprensibile secondo i vecchi criteri di ragionevolezza. 

Schuster è un senza luogo. Insofferente di Vienna e della campagna, impaurito dal risorgere di un nazismo antropologico, non ha più amici né conoscenze neppure a Oxford: nella terra di nessuno tra l’Austria e l’Inghilterra, in un mondo non riconoscibile e minaccioso, sceglie come meta il basta, la morte. Almeno questa è l’interpretazione del fratello Robert, ugualmente stanco e sfiduciato, ma pago di rinchiudersi nella tenuta avita. Fuggono tutti, questi personaggi, da una realtà insopportabile, in cui l’azione ha perso di possibilità e quindi di valore. Un mondo in estinzione, con i vecchi valori negati.

 

Ma noi non vediamo mai in scena il professor Josef. La sua storia e i suoi pensieri sono ricostruiti per frammenti dai discorsi, spesso fluviali, apparentemente senza controllo, dei diversi personaggi che ruotano intorno al centro vuoto creato dal suo atto, dal suo suicidio, nonché al pieno del nazismo risorgente. Nei testi narrativi e in quelli teatrali di Bernhard raramente vengono narrati fatti da chi li ha vissuti o avanzate opinioni da chi le ha maturate. Siamo precipitati in un labirintico gioco di specchi in cui un personaggio parla a un altro personaggio raccontando qualcosa di un altro ancora, presumendo qualcosa di lui. Così, con un tono di corrosiva indignazione, è narrata la storia della famiglia ebrea Schuster e del professore che si ammazzò per le grida frastornanti emerse nella psiche della moglie.

 

Primo atto: nell’appartamento del professor Schuster.


Heldenplatzè un crescendo. Si sviluppa da figure di contorno che cercano di descrivere il professor Josef e di darsi una ragione del suo gesto e sale a poco a poco finché in scena, nell’ultima, in una stanza da pranzo ormai impacchettata per traslocare in Inghilterra – vuota come la pièce, mancante del suo vero protagonista – monta il vociare della folla della piazza del 1938.

Nel primo atto Schuster è narrato, nei dati essenziali della sua biografia, dalla governante Frau Zittel in dialogo con la cameriera Herta mentre preparano gli ultimi bagagli nella stireria, tra alte porte e ante altissime di armadi, aperte e chiuse. Le didascalie in questa pièce, come raramente nell’opera teatrale di Bernhard, sono estremamente precise, per indurre a una ricostruzione puntuale di quell’ambiente peculiare. La vecchia servitrice delinea la personalità puntigliosa del professore rievocando le sue maniacali istruzioni per stirare le camicie. In un clima claustrofobico le due donne, devote all’estinto, osservano anche il vestito indossato il giorno della morte appena segnato dal volo nel vuoto e dal rovinoso impatto con la piazza. Saltano da un argomento all’altro, mentre chiacchiere e notizie ci offrono una prima rappresentazione “laterale”, “dal basso” del professore, dei suoi viaggi, delle voci che ossessionano la moglie, del ricovero allo Steinhof della donna, dei preparativi per la partenza, di vicende familiari... Sembra di essere in una surreale commedia di conversazione, addirittura forse in un’operetta viennese, sulla quale incombe qualcosa di sinistro.

 

Nel Volksgarten.


Il secondo ritratto di Schuster, più preciso, con l’ansia per il riemergere del nazismo, lo avremo all’aperto, nel giardino che chiude la piazza, verso il Burgtheater avvolto in una nebbiolina di marzo (marzo 1988, esattamente cinquant’anni dopo l’Anschluss). Dialogano su una panchina le figlie Anna e Olga, e poi arriva il fratello Robert, lento, più giovane e più malato di Josef. La personalità del suicida si arricchisce ed emerge il timore per un mondo in cui stanno riprendendo corpo vecchi fantasmi, in cui tutto viene stravolto. L’origine, per riprendere il titolo del primo volume dell’autobiografia di Bernhard e un tema centrale in Estinzione, torna a premere. 

L’origine è quella del popolo tedesco, forse dell’intera Europa sommossa dai nazionalismi, che è incapace di metabolizzare i principi della Rivoluzione francese e che anzi erige muri contro le sue idee fondanti. Ma è anche l’origine di un nomade del pensiero e della vita come il matematico filosofo Schuster, un ebreo errante, come i tanti costretti a fuggire incalzati dall’orrore, una personalità che cerca di mettere qualche ordine, almeno nelle minute cose quotidiane, in un mondo impazzito: senza riuscirvi. 

Schuster viene raccontato dai ricordi di chi gli è stato vicino, quindi con una buona dose di approssimazione, di soggettività che mira a ricostruire – come sempre in Bernhard – una personalità in modo indiziario e perciò con un basso tasso di verità. Siamo in un mondo omologo a quello del pensiero maestro novecentesco del dubbio sulla conoscibilità, Wittgenstein. Per Bernhard la verità è un flatus vocis, è un sommarsi di varie opinioni che la rendono incerta, sospesa, inattingibile: il mondo e gli uomini non li possiamo conoscere, possiamo solo rappresentarli come a teatro, spesso nei modi più grotteschi. 

 

Il nazismo avanza nuovamente, in molti modi antichi e nuovi, la natura e la bellezza vengono distrutte metodicamente. Dice il professor Robert, nel secondo atto, guardando verso il Burgtheater: “Quel che è rimasto a questo povero popolo minorenne / non è altro che il teatro / L’Austria stessa non è altro che un palcoscenico / sul quale tutto è depravato deteriorato e decomposto / una compagine di comparse detestata da sé stessa / fatta di sei milioni e mezzo di abbandonati a sé stessi / che ininterrottamente gridano a squarciagola reclamando un regista / e il regista verrà / per spintonarli definitivamente giù nel baratro (Heldenplatz, traduzione di Rolando Zorzi nel libro Garzanti, non più stampato, del 1992).

 

Atto terzo: l’ultimo pranzo.


Non si può non riconoscere in questo pezzo una sarcastica parafrasi del Macbeth nel suo momento più sconsolato (“La vita è un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco e poi non se ne sa più niente. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, che non significa niente”, atto V, scena 5). Così come in Schuster non si può non vedere un detronizzato re Lear dei nostri giorni (il personaggio shakespeariano ricorre più volte nel teatro dell’autore austriaco, popolato di vecchi cui diede corpo e voce l’impareggiabile Bernhard Minetti). L’assente Schuster è un Lear lontano, chiuso in sé stesso, verso il precipizio, spinto verso la tempesta impetuosa di tempi nuovi dal sinistro sapore già provato.

L’opera si concluderà nel salone svuotato, con un pranzo dopo il funerale. I personaggi sono seduti su sedie di fortuna, utilizzando anche valigie e bauli, dice la didascalia. Ancora conversazioni, futili a momenti, serie, tese in altri. Un convitato: “Sta succedendo proprio questo / quel che gran parte degli austriaci vuole / è che domini il nazionalsocialismo / sotto la superficie il nazionalsocialismo / è già tornato da un pezzo al potere”. 

E intanto riemerge la tempesta delle voci del discorso di Hitler e della folla festeggiante: la sente solo Frau Schuster, che rimane impietrita, e la udiamo noi spettatori a poco a poco salire dalle finestre aperte, montare sempre sempre di più fino a sovrastare con il suo frastuono insopportabile le parole di tutti. 

 

Manifestazione contro Bernhard davanti al Burgtheater la sera della prima di Heldenplatz.


Nel 1986 Jörg Heider diventa segretario del Partito della libertà austriaco, imprimendogli una svolta dal liberalismo verso un populismo nazionalista, xenofobo, razzista. Nel 1984 Umberto Bossi fonda la Lega Lombarda. Nel 1991 inizieranno le guerre nazionaliste nella ex Iugoslavia.

Bernhard fiuta il nuovo clima spirante non solo in Austria ma in tutta Europa. Ma non si limita a descrivere: senza didascalismi, con il suo stile bruciante, aggressivo, labirintico, apodittico, denuncia le cause, toglie le maschere, rivela intrecci perniciosi. Tanto che la prima rappresentazione dello spettacolo al Burgtheater di Vienna con la regia del fedele Claus Peymann si svolgerà tra le contestazioni violente e gli applausi, con la piazza antistante piena di striscioni contro lo scrittore “antipatriottico”. La direzione del teatro nel gennaio del 1989, poco prima della morte dello scrittore, pubblicherà un dossier con “trecento pagine di lettere minatorie, insulti, articoli scandalistici e diffamatori”, come si legge nella nota biografica pubblicata in calce al volume Thomas Bernhard: un incontro, edizioni SE. Il presidente Waldheim, ex nazista eletto nel partito cattolico, aveva scritto che riteneva questa pièce un insulto al popolo austriaco.

 

Bernhard muore della malattia polmonare che da sempre gli aveva tagliato il respiro il 12 febbraio del 1989. Nel testamento vieta per sempre la rappresentazione e la pubblicazione dei propri scritti in Austria.

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Fuga in Europa

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“A sud del Sahara quattro abitanti su dieci non erano ancora nati il giorno del crollo dei grattacieli del World Trade Center”. Basterebbe questa frase del libro di Stephen Smith per comprendere la grandezza delle cifre e dei dati demografici che stanno alla base dei fenomeni migratori attuali. La demografia non è una variabile facilmente controllabile e spesso produce effetti superiori a quelli di molte scelte politiche. La demografia ha spesso dettato i ritmi della storia e, ci spiega Smith, lo farà anche nei prossimi vicini anni. Un dato questo che rende ancora più vaghi e vani i proclami di certi leader che promettono muri e blocchi.

 

In un’epoca in cui le migrazioni sembrano divenute l’unico problema che assilla il genere umano, e ne assilla la parte più sedentaria, in cui le parole si sprecano in una cacofonia di opinioni spacciate per verità, leggere un libro come Fuga in Europa, è una sorta di terapia, magari non indolore, ma che serve davvero a comprendere cosa accade sotto i nostri cieli. Giornalista di Libération, Smith compie una dettagliata analisi dei movimenti tra quella che lui chiama l’isola-continente di Peter Pan e l’Europa, basandosi essenzialmente sui dati e in particolare quelli demografici. In un continente la cui popolazione è di circa un miliardo, solo il 5% degli abitanti supera i sessant’anni, mentre il 40% ha meno di 15 anni. Per fare un rapporto, la Francia, paese particolarmente prolifico, la percentuale dei giovani è la metà. Di quel miliardo di africani solo 150 milioni hanno un reddito giornaliero che va dai 5 ai 20 dollari e costituiscono il bacino di coloro che vogliono emigrare. Secondo un sondaggio fatto da Gallup il 42% degli africani tra i 15 e i 24 anni vogliono emigrare dal loro continente.

 

 

Ph Sebastiao Salgado.


Una base giovane così ampia è peraltro esclusa dal voto, portato a 18 anni in quasi tutto il continente, e quindi impotente a cambiare le cose nel proprio paese. La popolazione africana, peraltro, continuerà a crescere tra il 2,5 e il 3% sino al 2050 molto di più della media della popolazione mondiale. Se tale tendenza si conferma, nel 2100 quando il pianeta sarà abitato da 11 miliardi di persone, il 40 per cento di esse saranno africane.

Di fronte a un continente così giovane appaiono persino più comprensibili le difficoltà di molti stati africani ad assicurare istruzione e lavoro a una così ingente massa di ragazze e ragazzi, che peraltro sono per la maggioranza inurbati, abitanti di quelle megalopoli spesso sgangherate in cui ogni modello sociale stenta a definirsi. Questa massa giovane ha in gran parte abbandonato le tradizioni culturali che caratterizzano le aree rurali, vivono però una globalizzazione zoppa, vista dal basso. Le campagne vengono abbandonate all’inseguimento di un immaginario di modernità e nonostante in Africa ci sia il 60% delle terre fertili del pianeta, oltre 400 milioni di persone soffrono di malnutrizione cronica se non di carenze alimentari.

 

Se l’Africa trabocca di una gioventù avida di guadagnarsi un posto migliore, sul piano demografico l’Europa sta invece seguendo un andamento opposto, quello dell’invecchiamento. Per fare l’esempio italiano, nel 1951 c’erano 31,4 ultra sessantacinquenni ogni 100 under 15; nel 2015 ci sono 157,3 “anziani” over 65 ogni 100 ragazzi sotto i 15 anni. Si prevede che nell’arco di un decennio l’incidenza degli under 15 scenderà ancora passando dall’attuale 13,7% a meno del 12%. Secondo le Nazioni Unite nei prossimi decenni l’Europa dovrà accogliere 50 milioni di migranti per mantenere il suo numero di abitanti e se vorrà stabilizzare la sua popolazione attiva si dovrebbero raggiungere gli 80 milioni. Abbiamo bisogno di giovani e non potranno che venire dall’Africa. Che piaccia o meno, molto probabilmente nel 2050 avremo tra i 150 e i 200 milioni di afroeuropei. 

 

Infine, Smith ricorda le ciniche parole di Malthus, che risultano però di drammatica attualità: “Un uomo nato in un mondo già occupato, se non può ottenere dai genitori la sussistenza che può giustamente attendersi da loro, e se la società non ha affatto bisogno del suo lavoro, non ha il diritto di pretendere la più piccola porzione di cibo e, di fatto, è di troppo in questo mondo. Nel grande banchetto della natura non c’è alcun coperto vacante per lui. Sicché la natura stessa gli ordinerà di andarsene…”

In un mondo chiuso e immorale, come sembra sempre più diventare quello dell’Europa, questa sembra essere la sorte delle prossime generazioni africane, ma forse non sarà così.

 

S. Smith, Fuga in Europa. La giovane Africa e il vecchio continente, Einaudi, pp. 164, Euro 20.

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Umberto Simonetta: un paroliere di lusso

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Parlando con un amico, faccio il nome di Umberto Simonetta. Dallo sguardo, capisco che non gli dice molto. “Sai chi è, no? Lo scrittore, quello di Tirar mattina, Lo sbarbato, Il giovane normale…”. Niente. “Ma la ballata del Cerutti Gino la conoscerai…” “Eh! Certo! Giorgio Gaber!” “La musica è di Gaber, ma le parole sono di Simonetta. Come anche quelle di Una fetta di limone, Trani a gogò, Porta romana, Le nostre serate, Il Riccardo…”. Le accenno una dopo l’altra. “Belle! Pensavo fossero di Gaber…” “Te l’ho detto: musica di Gaber, testo di Simonetta” “Ah però, bravissimo! Mica male!”. 

Oltre che scrittore e autore teatrale di successo, Umberto Simonetta (Milano, 1926-1998) è stato un paroliere tra i più originali e innovativi dell’epoca in cui nasceva in Italia quella che si sarebbe poi chiamata canzone “d’autore”. 

 

Tra gli anni ’50 e i ’60 del secolo scorso diversi poeti e scrittori, da Calvino a Fortini a Pasolini e altri, si misuravano con la canzone (allora canzonetta). L’intento era quello di dar vita a un prodotto popolare “di qualità”, da contrapporre ai prodotti di consumo (o “di evasione”, come si diceva in quegli anni). Nel caso di Calvino e Fortini, la proposta veniva dal gruppo torinese di Cantacronache; Pasolini, invece, si improvvisò paroliere su invito della sua amica Laura Betti. Le strategie in vista di una riqualificazione della canzone erano differenti da un autore all’altro, naturalmente, ma una cosa avevano in comune: il tentativo di far riaffiorare, nei testi, quel mondo “reale” che nella canzonetta veniva rimosso, o avvolto nel marzapane di una poeticità di maniera. L’esperimento purtroppo durò poco e non ebbe seguito: messi alla prova come parolieri, gli scrittori italiani faticavano a adattare la loro scrittura alle esigenze della parola cantata. I loro testi -nati sulla pagina- messi in musica rivelavano una ruvidezza letteraria che a tratti era quasi più stridente di quella della pseudopoesia canzonettistica.

 

Nelle canzoni di Calvino (penso a Canzone triste, Oltre il ponte, Dove vola l’avvoltoio) la versificazione stentava a star dietro al metro musicale; in quelle di Fortini (anche la bellissima Quella cosa in Lombardia, musica di Fiorenzo Carpi) si incontravano frasi come “vanno a coppie i nostri simili quest’oggi”, che nessun parlante italiano avrebbe mai pronunciato in quella famosa realtà che doveva essere il punto d’arrivo della canzone “riformata”.

Nemmeno questi generosi tentativi riuscivano a eliminare l’effetto di innaturalezza che – in una pagina de Il giovane normale di Umberto Simonetta (1967) – l’intellettuale Nelson riscontra nella canzonetta cantata dal protagonista, Giordano:

 

Tic tic tic,

nell’auto c’è un tic tic tic.

Che cosa sarà?

L’accensione?

La frizione?

Il cassetto?

Lo specchietto?

(…)

O che ira ti dà 

questo tic che prosegue insolente…

 

“Tutte quelle parole in un italiano vecchio, scolastico…” – sghignazza Nelson. Sono sicurissimo che tu Giordano non dici mai, per dire che sei incazzato: o che ira mi dà…”

 

Nei testi scritti da Pasolini per Laura Betti, la letterarietà della canzonetta (di cui nemmeno la canzone “d’autore” riusciva a liberarsi) viene decisamente travolta: nel testo di Macrì Teresa detta Pazzia, l’uso del romanesco produce un effetto bruciante di realtà, di genuinità. Purtroppo, la musica (il jazz di Piero Umiliani) annulla e anzi distorce questo effetto, dando alla canzone un imbarazzante sapore da telefilm americano.  Il problema, insomma, non è solo quello di creare dei testi “alternativi” ai modi della canzonetta: si tratta di trovare un punto d’incontro fra testo e musica. Per farlo, non basta che il testo di partenza sia di buona qualità: occorre una solida sintonia tra paroliere e musicista, che può nascere solo da una lunga collaborazione. I poeti e gli scrittori italiani che in quegli anni accettano di misurarsi con la canzone si limitano a fornire i loro versi al compositore, senza che tra autore della musica e autore del testo ci sia un vero confronto. 

Nelle canzoni che Simonetta scrive per Gaber, invece, non si avverte nessun contrasto tra musica e parole. Simonetta è tutt’altro che un paroliere mestierante: è uno scrittore, un letterato, un intellettuale; ma riesce – senza sforzi apparenti – a evitare quegli effetti di legnosa letterarietà che gravano tanto sulla canzonetta quanto sulla canzone “d’autore”. 

 

Per capire la qualità del suo lavoro, è utile confrontare il testo di una delle prime canzoni scritte per “I due corsari” (Gaber e Jannacci), Una fetta di limone (1959), con quelli di due pezzi dello stesso periodo, Geneviève, di Gaber, e Ciao ti dirò, di Gaber Tenco e Reverberi. Ecco qualche verso di Geneviève (1959): “Quando tu/eri ancor/l’amor/Geneviève/solo allor/ la mia vita/ ignorava il dolor”. Ed ecco un saggio di Ciao ti dirò (1958): “Giurami che tu/ ami solo me/ pupa non scherzar/ voglio il tuo amore solo per me/ se no ciao ti dirò/ pupa ciao ti dirò…”. Infine, leggiamo qualche verso da Una fetta di limone, di Simonetta:

 

Non voglio cento sacchi

né il grano per gli intappi,

né i regalini a mucchi.

Sei ricca ma sei racchia,

per me sei troppo vecchia,

per questo non mi cucchi.

Dimmi che vuoi da me.

 

 

In Geneviève ritroviamo gli amor, i dolor, gli allor della canzonetta;  Ciao ti dirò si dà arie più “moderne” (la musica è un rock), ma il suo linguaggio, che vorrebbe essere aggiornato e “giovanile”, non ha mai circolato fra i ragazzi dell’epoca: “pupa” è un termine che solo in qualche film di gangster poteva trovare spazio.  Ben più credibile è il gergo con cui Simonetta gioca nei suoi settenari martellanti, inventando la contro-serenata di un ragazzotto a una “tardona”: grano, intappi, racchia, cuccareUna fetta di limoneè un crepitare leggero di rime, assonanze, allitterazioni, uno scherzo (un po’ nello spirito del rock di Boris Vian), ma le sue radici affondano nella realtà della Milano di quegli anni, la stessa descritta vivissimamente nei romanzi dell’autore. 

 

La strategia di Simonetta, come quella degli scrittori e dei poeti suoi contemporanei che si misurano con la canzone, è quella di contrapporre la cruda realtà quotidiana alle melensaggini della canzonetta. Ma mentre nelle canzoni di Calvino, Fortini, Pasolini, la realtà si presenta nei suoi aspetti più seri, la “contro-canzonetta” del paroliere di Gaber ha una speciale predilezione per la banalità più grigia, per il terra-terra. Così, il termine whisky a-go-go, in voga in quegli anni per definire i locali notturni alla moda, diventa Trani a gogò (trani si chiamavano le osterie più squallide della Milano di allora):

 

C’è un vecchio barista

dall’aria un po’ triste

che si gratta in testa

poi serve un caffè

e un toast a me,

nel trani a gogò. 

 

Ci son quattro dischi,

due tanghi una polka,

un’antica mazurka,

due mosci fox-trot,

e il twist non c’è,

nel trani a gogò. 

 

Quello che caratterizza i primi testi di Simonetta per Gaber è innanzitutto che non si parla d’amore, com’era quasi d’obbligo nella canzonetta di quegli anni. D’altra parte, ciò che li differenzia dalle canzoni “d’autore” degli stessi anni è che non si fa nemmeno denuncia sociale. La realtà non viene sottoposta a uno sguardo critico, dall’alto: viene osservata da dentro, con un sorriso malinconico e sottilmente complice (in Trani a gogò, a parlare è uno degli avventori). 

 

Anche nel suo testo forse più famoso, La ballata del Cerutti (1961), Simonetta gioca al ribasso. La canzone – come risulta fin dal parlato iniziale – è una parodia delle ballate folk americane allora in voga in Italia (Tom Dooley del Kingston Trio, La ballata di Davy Crockett, evocate nell’arrangiamento dal banjo), ma anche – senza dichiararlo – delle “canzoni della mala” lanciate da Ornella Vanoni e altri in quegli anni. Il nostro eroe non vive in Oklahoma ma al Giambellino, periferia di Milano e, prima che col suo titolo da bulletto (“Drago”), viene presentato molto prosaicamente col cognome e nome, Cerutti Gino. 

 

Il suo nome era

Cerutti Gino,

ma lo chiamavan Drago.

Gli amici, al bar del Giambellino,

dicevan ch’era un mago.

 

Come in altre sue canzoni e nei suoi romanzi, anche qui Simonetta utilizza un linguaggio molto vicino al parlato, con sprazzi di gergo. E qui apro una piccola parentesi “filologica”. Nelle versioni in circolazione, la strofa che racconta l’arresto del Gino dopo il tentato furto della Lambretta recita così:

 

Ma che rogna nera quella sera,

qualcuno vede e chiama.

Veloce arriva la pantera,

e lo vede la madama. 

 

Nella versione che ho in testa io, l’ultimo verso dice “se lo beve la madama”. La madama, naturalmente, è la polizia, e il verbo bere (utilizzato in questo senso anche in Tirar mattina: “Si sono bevuti il Berti”) significa, in gergo, arrestare. La mia versione “a orecchio” mi sembra corroborata anche dal fatto che nella strofa in circolazione il verbo vedere viene ripetuto due volte (“qualcuno vede… e lo vede…”), con un effetto di sciatteria stilistica, ma soprattutto dal senso dell’evento descritto: la madama non si limita a “vedere” il Gino (e poi andarsene, magari), ma lo arresta, come si apprende nelle strofe seguenti. All’autore non si può chiedere più nulla, purtroppo, e in mancanza di alternative il testo ufficiale rimane com’è. Pazienza. Chiusa la parentesi. 

 

La ballata del Cerutti non è solo una parodia: anche qui, come in Trani a gogò, a prevalere sulle punte del comico è un sorriso benevolo che “salva” il Gino prendendo bonariamente in giro lui e il suo ambiente. L’umorismo di Simonetta non è mai moralistico, aggressivo: nella sua vena c’è sempre una malinconia di fondo, che emerge pienamente in canzoni come Porta Romana (1963) o Le nostre serate (1963):

 

Molti mi dicono

“Sei fortunato

tu che hai trovato

un lavoro sicuro,

bello, tranquillo,

interessante

e che ti rende 

decentemente”.

 

Io penso alle nostre serate

stupide e vuote. 

“Ti passo a prendere?

Cosa facciamo?

Che film vediamo?

No, l’ho già visto.

Tutto previsto. 

 

Quello che colpisce, in canzoni come questa, non è solo l’originalità e la delicatezza nello svolgimento del tema d’amore, ma anche l’eleganza metrica. Simonetta paroliere riesce a scrivere – grazie anche alla sensibilità musicale di Gaber – un’intera canzone senza nemmeno una tronca, un amor, un dolor.  I suoi versi scorrono con la naturalezza del parlato, con un effetto di genuinità, di grazia (non esibita), che a distanza di tanti anni continua a emozionarci. 

 

Nel ventesimo anniversario della scomparsa di Umberto Simonetta (1926-1998), si è svolto ieri 2 ottobre, presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Viale Pasubio, 5 –Milano, l’incontro “Un milanese non tanto regolare. L'intrattenimento irriverente di Umberto Simonetta”. Hanno partecipato Gianni Turchetta, Umberto Fiori, Luca Daino, Alberto Bentoglio, Piero Colaprico, Andrea Aveto, Vittorio Zucconi, letture di Luca Sandri. Pubblichiamo qui l’intervento di Umberto Fiori.

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La follia nella gratitudine

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“Se ti faccio un regalo, tu pensi: ‘Oh! che cosa vorrà in cambio?’, e dici: ‘No no no, grazie, non posso accettarlo, sei troppo gentile’ [risate], ‘Sì sì sì, ci tengo!’ Che rapporto di forze! Te lo metto in mano, te lo ficco in tasca…” ( Gilles Deleuze, Il potere, Ombre Corte, p. 47). 

 

Gratitudine e ringraziamento

 

Gratitudine e ringraziamento non sono la stessa cosa. Il ringraziamento consiste in un gesto, la gratitudine è sentimento. Il gesto è qualcosa che si fa, il sentimento qualcosa che si sente. Si dice: ringrazio l’altro perché provo un sentimento di gratitudine, ma è sempre così? Oppure il ringraziamento, soprattutto di questi tempi, nasconde sentimenti di sottomissione, ben diversi dalla gratitudine? 

Da piccoli abbiamo imparato le raccomandazioni che ci accompagnano durante il corso della vita: “Saluta la signora Bice!”, “Ringrazia lo zio che ti ha regalato il trenino!”, “Telefona al signor Augusto, che ti ha raccomandato per quel posto di lavoro!”, “Forse è il caso che offra una cena al professore, che mi ha aiutato per passare il concorso”, oppure “Magari gli parlo del mio concorso”, “ Non voglio disturbare”, “Permettimi di insistere”. 

Non sto sostenendo che ciò sia disdicevole, sono interazioni, pratiche educative palesi o nascoste, costitutive del nostro sistema di vita. Sono le nostre “ontologie”, detta in volgare: così vanno le cose qui da noi. Non si tratta di esaltare queste pratiche, come accade al moralista, né di condannarle, come accade al radicale. Per me, si tratta di descriverle. Come ha fatto Norbert Elias (1897-1990) che ha compilato interi volumi per descrivere in dettaglio le formazioni storiche compromissorie – che, nel mio linguaggio, sono i sintomi nevrotici di un’epoca – e ha chiamato quest’epoca “civiltà delle buone maniere”. 

 

L’ultimo uomo

 

Friedrich Nietzsche (1844-1900), prima di Elias, criticò questi sintomi sostenendo che l’ultimo uomo ammicca, è un adulatore. I sentimenti dell’ultimo uomo, così lo chiama Nietzsche, sono dissimulati, mostrano il loro carattere di merce di scambio, ma se glielo riveli, l’ultimo uomo lo nega e si offende. Come si permette il filosofo di dubitare dei miei sentimenti? Nasce l’ermeneutica del sospetto, di cui si occupa Paul Ricoeur (1913-2005). Chi è l’ultimo uomo? Nietzsche risponderebbe: l’ultimo uomo è chi ringrazia sempre chi sta sopra e disprezza sempre chi sta sotto. Ma l’adulazione viene smascherata dal fanciullo: “Il Re è nudo!”. 

 

Opera di Hiroshi Nagai.


Tuttavia le cose assumono reciprocità. Un tempo, quando le “buone maniere” non c’erano, il gioco dello scambio era governato dalla rovina delle parti, le “buone maniere” hanno cacciato la dissipazione nell’inconscio. Ciò che in alcuni contesti – tra i nativi nord-americani – è stato chiamato potlatch è un sistema di scambi destinato a dissipare le ricchezze delle parti per stipulare gerarchie di potere all’interno di una comunità, pratiche di umiliazione da parte di chi è potente, verso chi non lo è. La riparazione di queste pratiche consiste nell’immolazione periodica del potente; sacrificio per gli dei. Ne hanno scritto in molti: Marcel Mauss (1872-1950), Georges Bataille (1897-1962), alcuni autori della Scuola di Francoforte (sorta intorno agli anni Venti del secolo scorso) e, più recentemente, René Girard (1923-2015). Bataille definisce tutto questo processo di scambio simbolico come “dissipazione”. La dissipazione è un processo sociale remoto, dimenticato, tanto da essersi trasformato in un processo sociale inconscio, coperto dalle regole delle buone maniere, che tuttavia ribolle nell’animo di ognuno di noi. 

 

L’opulenza

 

Thorstein Veblen (1857-1929) coglie una caratteristica della dissipazione, sotto il velo delle buone maniere, anche in epoca moderna quando descrive La società opulenta. Veblen smaschera l’ipocrisia di chi, come Max Weber (1864-1920), pensa al capitalismo come società razionale, governata dalle leggi calviniste del risparmio, abitata da attori che calcolano il rapporto costi-benefici. Veblen invece si domanda come mai esista ancora il lusso, come nelle società pre-capitaliste. 

Il lusso è plusvalenza e minusvalenza allo stesso tempo, produce sentimenti opposti: ricchezza/invidia, superiorità/risentimento, grandeur/gelosia, umiliazione/rancore, adulazione/odio. Un tempo questi sentimenti erano sublimati dal sacrificio periodico agli dei del potente, oggi sono censurati dalle buone maniere, ma si vedono negli sfrisi che subiscono le auto di lusso, nelle arrampicate politiche e manageriali orientate a vendicarsi, a fare piazza pulita, anziché ad amministrare la res pubblica. 

Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Nietzsche se la prendono con il mercato. Hanno visto lontano, oggi il mercato è un imperatore collettivo e crudele: decide se un governo è o meno buono, produce sindromi bipolari negli investitori, dilapida i risparmi dei sudditi, ecc. A differenza di Marx, chi sfida il mercato per Nietzsche non è la classe operaia; è il folle. Ricordate? “Cerco Dio! Cerco Dio!”, il mercato è la morte di Dio. Che significa questa frase detta da un ateo impenitente?

 

Gli antichi, sapevano di avere a che fare con la potenza distruttiva degli dei: le corde per ascoltare le sirene, il vino per ubriacare il ciclope, il travestimento da mendico, o, in altro contesto, l’arrivo dell’angelo che ferma la mano del padre, sostituendo il figlio con il capro. Le corde, i legami, il vino, l’ebrezza, il travestimento, la dissimulazione, il capro, la sostituzione sono gli elementi che salvano Anthropos dalle potenze distruttive. Tra gli antichi, accanto alla dissipazione, si trova anche il suo opposto: la sostituzione, la mediazione. Il primo elemento di illuminismo si incontra quando Ulisse si orienta secondo i suggerimenti di Atena, figlia di Metis.

 

La gratitudine: un’iperbole

 

Ma la gratitudine ha qualcosa che si sottrae al ringraziamento. Se lo scambio è costitutivamente ineguale, lo è anche la gratitudine, ma in senso opposto. La gratitudine trasgredisce lo scambio, è iperbolica. Come sostiene Jacques Derrida (1930-2004) nel suo lascito sul perdono (Derrida, Perdonare, Raffaello Cortina), ciò che è assente nel gesto di ringraziamento è presente nel sentimento di gratitudine, un sentimento che richiede coraggio. Va ben al di là dell’idea di giustizia. La gratitudine è un sentimento folle, capovolto, paradossale. Scorgo un ladro in casa mia, un clandestino nella mia comunità; gli offro qualcosa: prendi ciò che vuoi e, mi raccomando, torna a trovarmi, tu mi sottrai ciò che non mi permette di vivere una buona vita, mi sottrai l’eccedenza, il rischio di esagerare. Questo sentimento, nei versi di Shakespeare si può esprimere così:

La qualità della gratitudine non si forza./ Cade come la pioggia gentile dal paradiso/ Sulla terra in basso: è due volte benedetta:/ Benedice colui che la esercita e colui che la riceve./ È la più potente tra le potenze; diviene:/ Al monarca in trono migliore della corona./ Il suo scettro mostra la forza del potere temporale,/ Attributo di rispetto e maestà,/ Dove risiede il terrore che incutono i re./ La gratitudine sta sopra lo scettro,/ Ha il suo trono nel cuore dei re;/ È attributo di Dio stesso;/ E il potere temporale appare simile a quello di Dio/ Quando la gratitudine tempera la giustizia.

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Danzare al tempo del crollo

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Corpi (Matteo Brighenti)

 

Un corpo ha tutti gli altri corpi dentro di sé. Tutte le forme, le posture, le direzioni. Oggi, ieri, domani. È il primo e l’ultimo passo, il riverbero iniziale e finale della nostra presenza nel mondo. Dobbiamo imparare ad ascoltarlo per capire se, ora come ora, ci stiamo innalzando, stiamo cadendo o rimbalzando tra verità e racconto, realtà e rappresentazione. Sono le stesse prospettive che ha l’uomo illustrato da Andrea De Santis, l’immagine della XVI edizione del festival promosso dal Teatro Metastasio di Prato (24-30 settembre, doppiozero ha partecipato nei giorni 28, 29 e 30), che ne ha inaugurato la stagione: è a mezz’aria, sopra campeggia la scritta Contemporanea 18 Festival – Le Arti della Scena, sotto si affaccia un rombo di cielo squarciato da tre nuvole.

Tutto intorno il nero la fa da padrone. D’altra parte, il tema, avviato lo scorso anno, è Vivere al Tempo del Crollo. Etico, politico, sociale, artistico. L’oscurità avanza e la manifestazione diretta da Edoardo Donatini prova a contrastarla dando voce a corpi che, nell’incontro con la luce della scena, disegnano spazi di ricostruzione. Danzando. Il moto è (s)composto in atti e attimi, così da riuscire a esplorarlo, indagarlo passo dopo passo, afferrarlo compiutamente. E, infine, riconoscersi.

È il riflesso di una progettazione che, si legge nella nota curatoriale, pone al centro “il ‘processo’ come percorso necessario, come punto d’incontro dell’intera comunità, come confronto critico sull’opera nel suo divenire, come angolo di osservazione e sguardo aperto sul futuro”. Una piattaforma d’indagine che ha prodotto persino un seminario su invito a numero chiuso, La funzione culturale dei festival, varato con un messaggio collettivo d’auguri di matrimonio a Massimiliano Civica, consulente artistico della direzione del Metastasio.

 

Barbara Berti, Bau#1.


La struttura di una presenza 

 

Barbara Berti è immersa nel bianco, un ritaglio nel Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Il museo immaginato che compie 30 anni. Vestita di grigio chiaro e marrone aspetta nell’estremo angolo a destra. Ha i capelli raccolti in una coda che le scende lungo la schiena. Sembra una bambina composta al suo dei quattro cantoni.

Un gesto nel silenzio più rumoroso comincia una serie di aperture, chiusure, avvitamenti, che cercano di intrappolare un crinale, un declivio, uno scivolamento progressivo. BAU#1 – An interactive pieceè la struttura (questo significa “bau” in tedesco) di una presenza, una testimonianza di sé, piccola e radiosa.

Sulle labbra le si forma il morso del cane, i denti, e poi il suono, un altro senso del “bau”, mentre il bianco delle luci lascia il posto al verde e al rosso, colori visualizzati da Berti medesima attraverso pratiche legate alla meditazione. Creano per terra un cerchio unito a un rettangolo, possono ricordare una serratura, forse per accedere proprio alla sua percezione.

 

Nello scherzo continuo delle ombre, sembra comparire alle sue spalle la sagoma dell’Italia, la nostra Penisola, dentro una sorta di tricolore critico, slabbrato e sfocato, con il grigio-marrone della danzatrice invece del bianco.

All’arrivo della parola, un filo di voce minuto e raccolto, BAU#1 muta nella didascalia animata del “disembodiment”, nel dialogo coreografico con gli spettatori su separazione e distacco tra l’azione del pensare e il pensiero stesso.

Domande suscitano domande, misurando lo spazio con il corpo e il corpo con il tempo. Se nel progetto di Kinkaleri All! (presenti a Contemporanea con il riallestimento del loro storico <OTTO>) le sequenze corporee restituivano le lettere dell’alfabeto, qui il movimento è la sillabazione di interi concetti, che si attuano nelle espressioni di gambe, mani, braccia, testa.

Con il gessetto, mentre distoglie lo sguardo, accenna per terra qualcosa come lo “stivale” intravisto poc’anzi, e dei cerchi, quasi i petali di un fiore oppure il gioco della campana, stretti in un occhio di bue. I passi, prima in avanti, adesso sono indietro, la luce si affievolisce e Barbara Berti torna nella posizione di partenza.

 

Gruppo Nanou, Mappe.


Lo spazio generato dai corpi

 

Dunque, è provato che si può “pensare con il corpo”, per citare il libro di Jader Tolja e Francesca Speciani. Già Einstein sosteneva che “abbiamo bisogno di pensare con sensazioni nei nostri muscoli”. Seguendo le Mappe di Gruppo Nanou nella Sala Campolmi dell’Istituto culturale e di documentazione Lazzerini, la danza è, per l’appunto, pensiero in atto, con un vocabolario coreografato da Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci, agito da Carolina Amoretti, Sissj Bassani e dalla stessa Bracci.

Per terra del nastro nero traccia tre figure (due triangoli e un trapezio), quante sono le danzatrici. Le linee spezzate dei gesti si fanno incontro, traiettoria, vicinanza in piena luce. Lo spazio è generato anche dai corpi e infatti i vuoti di campo lasciati liberi assumono caratteri, densità e calore altrettanto geometrici. “È una mappa – spiega la voce off di Amico – che il danzatore deve rispettare per ottenere quel limite capace di verificare l’evidenza del lavoro, sottolineandone i percorsi da intraprendere”.

Amoretti, Bassani, Bracci, in maglietta e calzoncini come ginnaste, tratteggiano una specie di meccanismo, ingranaggio cosmico, inquadrato qua e là dal commento del coreografo. L’autore è il creatore della nostra visione, guida solo noi, non pure loro: i suoi ragionamenti incidono su come, invece che su ciò che vediamo. In una simile cornice incomunicante, le tre ballerine ci appaiono sempre più straniate, assenti, tipo in trance.

 

Mappe, allora, appare un astratto esperimento di laboratorio, algido e concettuale. La musica (suono di Roberto Rettura) dal rimbombo di un qualche antro percorso dal vento si apre al ritmo, all’elettronica, tuttavia la qualità di diagonali, salti, avvitamenti, rimane immobile. “Compito della coreografia – prosegue Marco Valerio Amico – è evidenziare il limite per trovare le vie di fuga, per afferrarne l’incidente creativo”. Non si fa mai cenno alla risorsa imprescindibile per dare gambe al coraggio dell’inaspettato, ovvero il respiro, il soffio vitale, l’anima e il cuore.

Vanno giù le luci e al buio completo la sua voce torna a spiegare ciò che vedevamo e ora non vediamo più. Resta la sola, vera e propria protagonista, un poco oltre la fine, come le scie che si imprimono negli occhi appena chiusi, a ricordarci che qualcosa c’è stato. In questo caso, la perizia tecnica e la pulizia gestuale.

 

Claudia Caldarano: Sul vedere.

 

Metà incomplete

 

La parte mancante, nascosta alla visione, è il nucleo della ricerca di Claudia CaldaranoSul vedere – quel che resta del non aver ancora visto. Una figura si trascina sui gomiti nel rettangolo del Centro Pecci speculare a quello di Barbara Berti. Pare una contorsionista, perché ha il volto dietro le spalle.

Ma non è il suo, è una maschera messa alla rovescia, a indicare l’espressione nei tessuti della parte del corpo nascosta alla vista. Il volto in carne e ossa è chiuso dai capelli tenuti in una coda. Uno specchio, nero come il suo costume, è appoggiato per terra.

Le braccia sono da una parte, le gambe dall’altra, il davanti è il dietro, e viceversa. L’archetipo del Bifronte ci interroga su quale faccia mostriamo agli altri e quale, invece, celiamo. Siamo metà incomplete, cerchiamo di ricomporci, come descritto da Platone nel Simposio. La difficoltà di spostarsi con “gli occhi dietro la testa” è notevole, lo sforzo di raccontare l’identità di spalle non è da poco.

I capelli via via si slacciano, la maschera allenta la presa e s’intravede il vero volto di Caldarano. Nel respiro affannato, una volta sdraiata per terra, c’è tutto l’impegno che ha profuso per tentare di liberarsi dell’altra e ritornare in sé. La stanchezza ha maturato la possibilità dell’essere una.

I movimenti ricalcano quelli dell’inizio, a visi adesso invertiti. Lo scontro interiore di questa danzatrice “cubista” pare giunto a una sintesi, con la ricomposizione e superamento del doppio. E invece, di nuovo spalle al pubblico, veste allo specchio sé stessa e la maschera con una maglietta nera. È pronta per “uscire”, e se avanza, indietreggia, e se indietreggia, avanza, perché ha due orizzonti e un corpo soltanto. Così, Sul vedere diventa un “solo a due”, diciamo, lungo e insistito: l’ingresso della musica segna la fine della narrazione e l’avvio di pura azione. Ciò che rileva è l’effetto visivo, piuttosto che quello percettivo o interpretativo.

Terminati i giri e rigiri, si toglie definitivamente la maschera: lo specchio, attraverso cui ha danzato fino ad adesso, è ancora là. Non è bastato voltarsi dall’altra parte.

 

Siro Guglielmi, P!nk Elephant.


Il desiderio è un’estateal mare

 

Di spalle, Siro Guglielmi si riflette nella sua ombra, un’attesa carica, pensante, con moventi impercettibili della testa, dei glutei. P!nk Elephant parte nel Pecci che è stato di Barbara Alberti da un ordine calmo, una simmetria esibita. Guglielmi ruota il capo come se qualcuno lo chiamasse: ha un costume da bagno a vita alta e la luce tratteggia di fronte a lui quella che può rimandare a una fila di cabine. Il desiderio è un’estate al mare nell’ambivalenza tra presenza e assenza.

La flessuosità si impadronisce di lui, un fuoco mai uguale a sé stesso. Bellezza è anche forza. La musica (Alessio Zini, Cristiano de Palo) lo prende per mano, lo porta come in spiaggia, tra gli ombrelloni e le onde. Fa surf, e non solo perché ce l’ha scritto sul costume. Sono posture leggibili, caricaturali, il danzatore ha tecnica, eleganza, controllo, eppure il fine, a questo stadio, pare di nuovo l’esecuzione di un esercizio.

L’oggetto amato, attorno a cui Siro Guglielmi intende danzare, si direbbe essere la danza medesima. Predominante, quindi, è la volontà tautologica di mettersi alla prova, volare più in alto, cercando una forma che è semplice slancio, effetto. Un trampolino che ci consegna unicamente le vibrazioni di una sfida.

 

Silvia Gribaudi, Primavera contemporanea.


Ciò che si vede e ciò che è

 

Alle radici del corpo, alla sua essenza, cioè la nudità, risalgono Davide Valrosso e Silvia Gribaudi, con esiti peraltro opposti: compiacimento, da un lato, liberazione, dall’altro.

Nella piena luce dello Spazio K, Valrosso esibisce la sua corporatura atletica. Lo sguardo è anch’esso nudo. Un’esposizione di micromovimenti è l’introduzione alla Biografia di un corpo, sottolinea le pressoché infinite possibilità di attenzione che muscoli e tendini possono attirare su di loro e dilatare nello spazio. È il principio del gioco di prestigio: scoprire le carte, mostrarle nella loro innocua naturalezza, e poi coprirle per fare la magia. Ciò che si vede non è tutto quello che c’è.

Difatti, il danzatore avvolge presto il suo corpo nell’oscurità. Soltanto alcune pile ne impediscono la completa negazione al nostro sguardo. Quella pudica penombra è quasi un ritorno al grembo materno, all’assenza di fisionomia delle origini. La poca luce scolpisce il corpo nei dettagli, universo di presenze suggerite da un crescendo continuo di avanzamenti, torsioni, indietreggiamenti. Un teatro di ombre e mistero in cui l’uomo sembra poter riscrivere il proprio destino.

 

Spinto alla ricerca della forma assoluta, Davide Valrosso finisce per incontrare un lezioso manierismo. Ripetizioni su ripetizioni non vanno oltre il dato sensibile, non svelano altro di quanto non sia già trattenuto dalla luce. È come se, da un certo punto in poi, fosse rimasto ad ammirare la prestanza dell’idea coreografica, lasciandola nuda, simbolo affatto di pienezza, quanto di apparenza. Una maschera, alla stregua di quella dibattuta da Claudia Caldarano. Un costume (per fare) della scena.

A guardare e sentire Silvia Gribaudi nel campo del Centro Pecci di fronte a quello di Siro Guglielmi, il nudo rappresenta il modo più autentico di essere e accettare sé stessi. Tanto che gli applausi finali li prende così com’è, senza coprirsi. Il “clown” incarnato da Gribaudi è (diventato) quel seno, pancia, braccia, gambe, un’abbondanza di cui non ha vergogna, né paura, né chissà cosa, semplicemente perché esprime i segni lasciati e attesi dal tempo. È vita. Come disse, una volta, Anna Magnani al suo truccatore: “Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. C’ho messo una vita a farmele venire”.

Primavera contemporanea brilla per la capacità di oltrepassare l’evidenza meccanica del corpo, grazie all’ironia, che permette un distacco ancora maggiore del “disembodiment” di Barbara Berti. Il solo è un estratto da What Age Are You Acting? The Relativity Of Ages – Le età relative sul tema delle trasformazioni corporee durante la vecchiaia, un lavoro condiviso in scena con Domenico Santonicola. Le primavere passano per tutti: la bruttezza non risiede tanto nello sfiorire della gioventù, quanto nella perdita di consapevolezza che il corpo, di per sé, non è mai impacciato, è il giudizio che lo rende tale.

L’energia parte da dentro, la grazia sta nell’intenzione prima ancora che nel risultato. Gribaudi spiega le varie posizioni che assume, misurandone la difficoltà in base all’età. L’evoluzione che raccoglie più entusiasmi è quando scorre da parte a parte aprendo le braccia e incrociando i piedi sulle punte come una ballerina classica. Tutto addosso le si muove come in una centrifuga. Ciò che conta è far cantare il corpo, farlo “esultare”, come intona Franco Battiato.

 

Un’ulteriore dote che la contraddistingue è il suo sorriso: non abbandona un istante le labbra e gli occhi. Non solo perché Primavera contemporanea è anche una canzonatura bonaria della vuota seriosità della danza odierna, cui, in parte, non sfugge nemmeno quella presentata al festival pratese, ma soprattutto perché essere vivi è una felicità. La fatica è il prezzo per meritarsela. E farla durare.

 

Kinkaleri, <OTTO>.


<OTTO>: danzare nel vuoto cadere cadere ancora (Massimo Marino)

 

Nel bianco del Centro Pecci, su un tappeto grigio va in scena la riedizione di <OTTO>, spettacolo di culto dei Kinkaleri, nato tra il 2002 e il 2003. Guardandolo oggi, ci rendiamo conto che allora si chiudeva una fase, quella dei “nuovi gruppi anni ‘90”, esplosione algida di nuovi furori d’avanguardia per interpretare e destrutturare un mondo minaccioso, in rapida terribile trasformazione, momento di sperimentazione e lacerazione su linguaggi e formati. <OTTO> era un prodotto maturo della danza novissima, della scena concettuale, di una ricerca dolorante di realtà attraverso il graffio, la ferita ma anche l’ironia e addirittura il sarcasmo destrutturante. Alle sue spalle c’erano l’11 settembre e tutti i crolli precedenti. Un mondo che si disfa e il buio del vuoto davanti. Lo raccontavo (più o meno) così sulla prima rivista di teatro online, “tuttoteatro.com”:

 

“Otto di Kinkaleri è una danza sul vuoto in forma di caduta. Un meccanismo basato sulla ripetizione e sulla variazione, sull’attesa e sulla sorpresa improvvisa, materiato di rari oggetti emblematici estratti dal nostro quotidiano consumismo, con azioni e suoni ridotti a riflessi, echi, brusii, incidenti. Un ‘atto senza parole’ beckettiano e post-pop, minimale. Un attore entra e cade facendo precipitare piccole cose che rimbombano sul pavimento con rumori amplificati da casse acustiche. Si alza. Esce. Rientra. Cade… Una donna passa, accenna esercizi ascoltando in cuffia la sua musica che si diffonde, attutita, fino alle nostre orecchie. Un altro uomo irrompe apparentemente più deciso, ma poi si trova a combattere col vuoto e, alla fine, cade anche lui. La danza è rifiutata pure dagli accenni di evoluzioni della brava danzatrice. Ma soprattutto si trasforma in un’opaca forza gravitazionale che porta ogni atto a finire rovinosamente sul pavimento, in un’anticipata, ritardata, rallentata inevitabile caduta. Patatine, yogurt, palloncini, un salmone, una figura in bianco e nero, disegnata, che punta qualcosa contro il pubblico, rotoli di scottex, perfino una tenda da campeggio entrano come supporti di un vuoto passare, come riempitivi di atti implacabilmente meccanici. Al microfono la voce emette solo respiri, ansimi e la musica si lascia amplificare dalle cuffie che a loro volta riproducono da un’altra fonte sonora… La ripetizione, la storditaggine di clown senza belletto chiamano le risate del pubblico: prima evidentemente nervose, a disagio, autoprotettive, poi più rilassate quando gli accenni alla recita diventano via via più espliciti. Il vuoto viene riempito da esibizioni, baffi finti, accenni di desideri che crollano inevitabilmente, come gli attori, fino alla caduta più da slapstick, il volto nella torta alla panna, in terra. In questo deserto illuminato bene da una luce secca, senza modulazioni, tanto più ansiogeno quanto più divertente, tanto più crudele quanto più aggrappato a oggetti, atti, distrazioni d’uso comune, si può perfino provare a segnare strade per inventare misure, tragitti, riferimenti: ma ogni percorso porterà sempre là, alla caduta, allo smarrimento. Con cattiveria spensierata. Senza enfasi”.

 

La magia di quello spettacolo, a pensarci oggi, era lo sberleffo alla tragedia incombente con spirito di impassibile clownerie alla Buster Keaton, intinta in un decennio di sperimentazioni e sfregi ai linguaggi normativi. Oggi cambiano gli interpreti: al posto di Cristina Rizzo, Marco Mazzoni e Luca Camilletti troviamo tre giovani, bravi performer, che il programma del festival non nomina (la concezione è sempre dichiarata della formazione storica della compagnia). Si legge: “Dopo 15 anni riprendiamo e riportiamo in scena un lavoro nella necessità di capire quanto ci sia ancora di vero in uno spettacolo che navigava nel vuoto, facendo del crollo l’emblema di una nuova era”. Aggiungerei del crollo e della riproduzione: tutto era serializzato, dalla musica rubata a un diffusore attraverso le cuffiette, poi “dimenticate” sul microfono e amplificate, alle cadute, agli oggetti di scena emblemi del mondo più pop, agli albori di un nuovo oscuro millennio ormai svuotati, nella loro inflazione, di investimenti simbolici. 

A rivederlo oggi, questo spettacolo sembra una lezione di anatomia sotto fredde luci su un passato prossimo che non passa e trascolora in inquietante presente, con meno divertimento e più “lentezze”: ma i ritmi sembrano gli stessi dell’originale, cambia l’occhio e la coscienza di chi guarda. Di crolli il nostro sguardo è ormai pieno e questo crudele rito di perdita e smarrimento parla anche alla nostra coscienza postuma di consunzione degli stessi sfregi ai linguaggi, causata negli anni dalla ripetizione di modalità espressive. Il “contemporaneo”, grazie alle affilate trame iterative di <OTTO>, dimostra tutta la sua capacità di consumarsi, di ripetersi, di correre continuamente il rischio di precipitare negli stessi buchi neri che scoperchia. Eppure lo spettacolo, per accumulazioni, ancora diventa irresistibile e conquista, con la forza della ricerca che, giocando con i linguaggi, sfregiandoli, diventa per sapienza ritmica e compositiva narrazione seducente.

 

Le foto degli spettacoli sono di Ilaria Costanzo.

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Contemporanea 2018
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Manga e anime

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Caro, vecchio Goldrake fai ancora un figurone.

Ieri la critica di sinistra non capiva i cartoon giapponesi e oggi gli anime si prendono la loro rivincita, anche senza la televisione.

 

Japan Expo, la kermesse delle culture pop giapponesi che si tiene ogni luglio al Parc des Expositions di Parigi, attrae centinaia di migliaia di francesi, la maggior parte dei quali fra i 15 e i 25 anni che si riversano negli immensi padiglioni, che potrebbero contenere un’armata di Gundam a grandezza reale. E hanno un’intenzione di spesa media di 200 euro fra manga, dvd, gadget, accessori e prelibatezze culinarie nipponiche, riferisce Thomas Sirdey, uno dei tre fondatori della fiera.

 

Nello stendere queste righe comincio con una notazione un po’ dura ed è per questo che dovevo partire dal contesto transalpino: l’Italia e il Giappone stanno perdendo una grande occasione per ravvivare una volta di più quello che negli anni Ottanta e poi nei Novanta si era configurato come il grandissimo exploit dei cartoon e fumetti giapponesi nel nostro paese, molto più penetrante e massiccio che in qualsiasi altro paese europeo, come ho documentato e analizzato nello studio sociologico Il Drago e la Saetta (Tunué 2008, 650 pp.) e ancor prima in Mazinga Nostalgia (1999, 2018). I sistemi dei media e delle industrie creative italiani sembrano ormai incapaci di muovere capitali importanti in merito ai prodotti giapponesi: per esempio, le serie animate del Sol Levante sono scomparse dalle reti in chiaro; e le aziende di Tokyo sono scettiche sull’investire risorse da noi, anche perché hanno alzato i prezzi, pertanto le società di casa nostra non fanno i salti di gioia all’idea di acquistare serie che anni fa costavano un terzo o un quarto di quelle americane e che oggi invece hanno prezzi simili. Non è un caso che la filiale europea della Tōei Animation (lo studio di Goldrake, Candy Candy e Dragon Ball) sia stata aperta a Parigi, malgrado dal 1978 al 2005 sia arrivato in Italia il triplo delle serie giapponesi (animate a fumetti) viste in Francia; tredici anni fa, peraltro, il sorpasso dei Cugini. 

 

La popolarità mainstream dei cartoon giapponesi per la tv, così trasversali e interclassisti (sulla Rai e nelle stazioni private raggiungevano tutti i bambini: quelli con le scarpe bucate e quelli che i buchi nelle scarpe li avevano di serie e di marca), per anni è andata perduta in un mare di indifferenza e si è trasformata in una costellazione di nicchie di nostalgici ormai quarantenni, riuniti in una subcultura che si nutre di concerti revival e di collezioni di dvd e gadget su Jeeg Robot& co. ma non può più nemmeno rivendicare come una medaglietta sul petto lo stigma che fino a quindici anni fa sanzionava gli anime e i manga come prodotti iconoclasti, brutti, sporchi e cattivi – detto per inciso, erano invece tutto l’opposto, com’è stato dimostrato nei miei studi e nell’illuminante libretto di Luca Raffaelli Le anime disegnate (1994, anch’esso in uscita nel 2019 in un nuova edizione).

 

 

La normalizzazione e parziale accettazione di questa subcultura in Italia ha tuttavia i suoi vantaggi: in primis, la transustanziazione degli anime dal supporto televisivo a quello su piattaforme internet come Netflix e altri servizi simili per abbonamento. Un processo che però ancora stenta. Oggi il leader europeo della distribuzione di anime su internet, Wakanim, è presente nei principati mercati del continente ma non in Italia, dove – mi dice il suo fondatore e proprietario, Olivier Cervantès – la fa da padrone la piattaforma tutta italiana Vvvvid ma con risultati inferiori in confronto ai numeri francesi o tedeschi. Insomma, si sta consumando il passaggio dalla trasmissione per tutti mediante la tv a quella per chi usa il pc e pratica il binge-watching (bulimia dell’audiovisione: tre, cinque, dieci episodi in sequenza visti in una notte); questo vale in generale e sta funzionando anche per l’animazione nipponica. Questa transizione potrebbe produrre una riscossa dei cartoon giapponesi vecchi e nuovi grazie alle nuove abitudini di consumo. Però c’è una possibile incognita: i quarantenni di oggi vanno in brodo di giuggiole se vedono immagini o odono note musicali riferite gli eroi giapponesi della loro infanzia, allorché per la prima volta entrarono in contatto con gli anime proprio grazie alla televisione; invece oggi il primo accesso agli anime subentra nell’adolescenza o nella prima giovinezza: basti guardare al pubblico di Rai 4, che dal 2009 al 2015, grazie alla lungimiranza dell’allora suo direttore Carlo Freccero, ha trasmesso molti anime di qualità alla sera e per un pubblico tutt’altro che infantile. L’incontro con questa forma di intrattenimento in età più avanzata produrrà un pubblico fedele e coinvolto fra quindici anni? A giudicare dalle folle di astanti delle tante fiere italiane del settore come Lucca Comics & Games dovremmo dire di sì; staremo a vedere.

 

Nel frattempo possiamo registrare la consacrazione a nazionale-popolare (nel senso originario introdotto da Antonio Gramsci) di alcuni eroi giapponesi sì, ma naturalizzati italiani, a partire dal mitico Goldrake: vituperato dalla stampa di sinistra fin dal 1978 sia in Italia che in Francia (dov’è noto come Goldorak), fu sostanzialmente incompreso perché mai realmente esaminato con dovizia. Michele Serra, in un vecchio articolo su L’Unità del 1981 (“Caro, vecchio Topolino fai ancora un figurone”), lo condannò a vantaggio di Mickey Mouse, in un capovolgimento invero spassoso: per mettere all’indice le presunte brutture dell’intrattenimento industriale alla giapponese, Serra portava come esempio virtuoso uno dei simboli dell’imperialismo culturale un po’ bigotto all’americana.

Oggi possiamo passare quel tipo di critica blasé e alquanto prevenuta in cavalleria. Il paladino della resistenza interetnica e interstellare, il pacifista re-filosofo Actarus con il suo maestoso, arcano ufo-robot – di cui si celebrano quest’anno i quarant’anni di successo immarcescibile nei cuori di una generazione, per la quale nel 1999 coniai appunto la definizione “Goldrake-generation” – è ancora vivo e, anche se non lotta con noi, in compenso è divenuto un classico nel senso calviniano: va riscoperto, perché certi suoi contenuti educativi di grande profondità non hanno ancora finito di dirci quel che hanno da dirci.

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Il 5 ottobre 1975 i primi episodi di Goldrake
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The last days in Galliate: Leonor Antunes

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Sulla soglia dello Shed, la sezione dell’Hangar Bicocca che precede l’area delle navate, una serie di placche di ottone verniciato delimita l’ingresso dell’installazione site specific di Leonor Antunes. L’opera, ispirata da un rilievo di Mary Martin, si intitola alterated climbing form (I, II, III, 2017, IV, 2018) e come una cortina, invita lo sguardo dello spettatore a filtrare fino al campo di azione dell’intervento installativo. Antunes, pluripremiata scultrice portoghese, scompagina la vocazione industriale dello Shed e trasforma l’organismo architettonico in uno spazio familiare, raccolto, di ariosa eleganza, sfruttando la luce solare proveniente dai lucernari solitamente chiusi e organizzando una partitura di oggetti-opere autosufficiente, germinativa, sottilmente ammaliante.

 

Leonor Antunes, the last days in Galliate, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2018. Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca. Foto: Nick Ash.

 

La familiarità delle sculture che modulano l’ambiente non è solo frutto di un’impressione passeggera: The last days in Galliate, l’opera site specific realizzata dall’artista per il polo Pirelli, si sviluppa a partire da una meticolosa ricerca sul lavoro di alcune tra le figure più significative dell’architettura e del design moderni: stiamo parlando di Gio Ponti, Franco Albini e Franca Helg, ma anche Lina Bo Bardi, Anni Albers, Clara Porset, Greta Magnusson Grossman, figure con le quali Antunes intrattiene un ideale dialogo e una relazione di affinità. Dopo l’intervento ospitato dallo spazio Barriera di Torino nel 2007, intitolato Dwelling Place e basato sul lavoro di Carlo Mollino, e l’installazione vista alla Biennale di Venezia nel 2017, dal titolo So then we raised the terrain so that I could see out, il progetto voluto per l’Hangar Bicocca e curato da Roberta Tenconi prosegue la linea di indagine dell’artista, che questa volta sceglie come fonte di ispirazione sia figure storicizzate dell’architettura e del design legate alla città di Milano – personalità che hanno concorso in maniera sostanziale a determinare le vicende artistiche del capoluogo lombardo, centro del modernismo italiano –, sia artiste il cui lavoro tocca temi cari ad Antunes, come il rapporto tra “expat” e culture locali nonché l’impiego di materiali e pratiche legati alla dimensione artigianale.

 

Leonor Antunes so then we raised the terrain so that I could see out, 2017 Veduta dell’installazione, 57a Esposizione Internazionale d'Arte, La Biennale di Venezia, 2017 Courtesy dell’artista; Air de Paris, Parigi; kurimanzutto, Città del Messico e Luisa Strina Gallery, San Paolo Foto: Nick Ash.


Dopo i moduli in ottone, la seconda opera che attende il visitatore è il pavimento in linoleum (modified double impression, 2018), che richiama il lavoro di stampa e incisione portato avanti da Anni Albers nell’ultima fase della sua attività artistica. I motivi decorativi sono ripresi da un lavoro datato 1978, intitolato Double Impression, titolo che indica una tecnica di stampa nella quale è previsto un doppio passaggio della carta, che acquisisce così una colorazione più satura. I rimandi si allargano fino a comprendere l’opera di Gio Ponti, e conducono al Grattacielo Pirelli, la cui costruzione terminò nel 1960. Dal progetto del pavimento del grattacielo, Antunes prende i colori: con il grigio, il nero e il “giallo fantastico” (così battezzato dallo stesso Ponti), costruisce una partitura visiva che dialoga con gli elementi plastici dell’allestimento, scandendo una dinamica di forme piene e di vuoti che si avvicina molto, per concezione, a una composizione musicale.

 

Osservando i separatori modulari, le corde, i pezzi in mostra si scopre che sono stati prodotti estrapolando elementi dai lavori degli artisti selezionati, studiati a fondo e riconcepiti in forma scultorea per assumere una nuova vita: è il caso di the last days in Galliate (2018) l’unica opera che riproduce in scala reale un frammento originale, in questo caso le curve del corrimano presente nella casa di Helg, tradotto successivamente in una forma in cuoio. Il legame indissolubile con le opere originali permane, come un cordone ombelicale da cui i pezzi di Antunes traggono nutrimento. La storia diventa un humus che rende fertile il presente e permette una forma di innovazione all’interno della tradizione, una via “dolce” che salda le storie artistiche e personali degli artisti ai luoghi che hanno abitato e in cui hanno operato. Il contesto in cui si inscrive l’intervento di Antunes è perciò sempre determinante rispetto all’opera finale: i suoi lavori sono frutto dello studio delle vicende industriali, sociali e culturali che costituiscono il tessuto dei luoghi prescelti. Per questo, le opere sono sempre legate in maniera inscindibile ai luoghi per cui vengono concepite, non ammettendo altra condizione di esistenza che la dimensione esclusiva del site-specific. 

 

Leonor Antunes, the last days in Galliate, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2018. Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca. Foto: Nick Ash.


In questa relazione di esclusività risiede il calore che emanano questi lavori, così classici nell’impianto eppure indiscutibilmente contemporanei nelle istanze. Un modus operandi che avvicina Antunes alla sensibilità e alle pratiche di Lina Bo Bardi, architetta italiana naturalizzata brasiliana, interessata allo studio delle culture locali e all’artigianato come patrimonio di sapere applicato, ma anche alla cura maniacale per il dettaglio di Albini e alla “rarefazione” tipica di alcuni suoi progetti; a Gio Ponti, formidabile innovatore nel solco della tradizione di cui ricordiamo la passione per la pittura e la ceramica, che si concretizzò nella felice collaborazione con le manifatture Richard Ginori durante il periodo 1923-1930; ad Anni Albers, figura cardine del Bauhaus che seppe elevare la tessitura da semplice arte applicata a forma espressiva completa, al pari di scultura e pittura; o, ancora, a Eva Hesse, con le sue forme biomorfe sospese e l’utilizzo di materiali soggetti a degradazione naturale. Tra le figure più affascinanti, c’è la designer cubana Clara Porset, il cui lavoro era già stato oggetto di interesse da parte di Antunes, che le aveva dedicato due personali: discrepancias con C.P., al Museo Tamayo di Città del Messico, nel 2018, e the last days in chimalistas alla Kunsthalle di Basilea nel 2013, che si riferiva alla scelta di Porset di trascorrere l’ultimo periodo della sua vita nell’omonimo quartiere di Città del Messico. Anch’essa espatriata, la sua storia merita una breve digressione: nata a Cuba nel 1885 da una ricca famiglia, Porset studiò a Parigi, New York e al Black Mountain College in North Carolina, dove fece amicizia con Joseph Albers. In aperta polemica con la corruzione del governo cubano, si spostò in Messico nel 1936, dove incontrò Xavier Guerrero, artista ed esponente di spicco del Partito Comunista Messicano, che sposerà e con cui viaggerà in tutto il paese. In Messico Porset raggiungerà l’apice della sua carriera, studiando la cultura locale e subendone l’influenza: elaborerà uno stile molto personale, coniugando un gusto modernista di stampo europeo alla dimensione vernacolare della tradizione messicana e diventando una figura di spicco nel panorama culturale dell’epoca.

 

Altrettanto carismatica è la figura di Franca Helg, donna emancipata e straordinaria progettista, partner professionale di Franco Albini, a cui si lega in un sodalizio di totale collaborazione e fiducia, autrice di alcuni tra i più celebri complementi d’arredo prodotti dalla manifattura Vittorio Bonacina (ricordate la poltroncina in giunco Primavera?). Helg, come Porset, sceglie un luogo preciso, situato tra Varese e le Prealpi, per firmare uno dei pochi progetti a suo esclusivo nome di cui si ha notizia, ovvero la casa di famiglia dove trascorrerà gli ultimi anni della sua vita, luogo a cui allude il titolo della mostra. 

Vicende diverse nei luoghi e nel tempo che risuonano, una fitta rete di riferimenti, rimandi e consonanze, che dimostrano come l’arte che riflette su sé stessa non produca necessariamente tautologia, né sia un cul-de-sac da cui, esaurita l’indagine sul linguaggio, non rimanga che polvere. Antunes sa che le storie sono una materia viva in grado di iniettare sangue nel corpo (talvolta prossimo alla morte clinica) della scultura contemporanea e le utilizza come un mezzo per riflettere sulla pratica dell’arte, un mezzo da utilizzare per trascendere la dimensione narrativa e approdare a riflessione organica sulla forma.

 

Leonor Antunes Veduta della mostra, “the last days in chimalistac”, Kunsthalle Basel, Basilea, 2013 Courtesy dell’artista e Kunsthalle Basel Foto: Nick Ash.

 

Nel lavoro di Antunes ogni esperienza discende da un’altra e l’osservazione accurata dei processi è funzionale alla necessità di comprendere e assorbire, fino a fare propria, una esperienza artistica, da cui far emergere un nuovo soggetto. “I don’t believe in the idea of originality”, afferma, condensando la sua visione della storia dell’arte del XX secolo come territorio libero, fertile, da cui attingere con rigore, per restituire allo spettatore una forma che, persa la sua vocazione originale d’oggetto d’uso (Antunes parte sempre da un elemento concreto, un pavimento, un dettaglio architettonico, una sedia) possa essere libera, astratta, carica di un nuovo potenziale espressivo. Affascinata dal modernismo, interessata a figure femminili dell’arte rimaste nell’ombra, nella sua ricerca sfrutta la misurazione – un atto di matrice concettuale – come strumento conoscitivo, per dare vita a una pratica di appropriazione che non è mai citazionista, né si muove esclusivamente sul filo del canone ripetizione/differenza: si tratta piuttosto di una forma di prelievo del passato e di riformulazione del possibile, una sorta di “scultura nel tempo”. Tempo che si manifesta attraverso la naturale modificazione dei materiali impiegati per le opere – sughero, legno, corde, ottone, gomma – e nella luce, elemento espressivo fondamentale nel discorso plastico dell’artista.

 

Di fronte a un lavoro mai declamatorio, è interessante scoprire passo passo la stratificazione di tracce, segni, memorie industriali, vicende talvolta dimenticate, impresse e modellate nelle forme, come in enlarged rods (2018), una serie di elementi verticali cavi che collegano pavimento e soffitto e scandiscono lo spazio dell’installazione, moduli che richiamano i montanti in mogano creati dallo Studio Albini-Helg nel 1956 per l’iconico negozio Olivetti di Parigi, o shed (2018), una partizione realizzata a partire dai montanti della celebre libreria LB7 di Albini (1956), splendido esempio di razionalismo applicato all’interior design. Storie che si intrecciano con altre storie, attraverso un patrimonio di conoscenze che trova spazio nel coinvolgimento di artigiani sapienti in grado di dare vita alle visioni dell’artista. 

 

Il desiderio di interpretare la realtà attraverso la griglia severa della geometria non concede spazio al dogmatismo, e quello che ci viene restituito da Antunes è un lavoro specificamente scultoreo, di stratificazione formale e contenutistica, dove ogni elemento è connesso agli altri in un inesauribile gioco di rimandi, nel quale anche un elemento semplice come una corda, per definizione dell’artista, diviene un “conceptual device” e ogni dettaglio ha un valore fondante. Antunes si approccia in maniera scientifica al lavoro dei suoi predecessori, utilizzando la misurazione come strumento di studio e di appropriazione. Nel caso specifico si potrebbe parlare di “adozione”, riferendosi all’accezione di Joan Fontcuberta in relazione alla postfotografia, un’adozione qui intesa come pratica autoriale di scelta e sussunzione di un’immagine preesistente (in questo caso un oggetto o la porzione di un’opera), ricodificata secondo un processo di elaborazione, per poi essere condivisa pubblicamente. Un’accezione positiva, che sgombra il campo dall’ipotesi della sottrazione o della mera citazione e, chiarendo la dimensione concettuale dell’azione, evidenzia la natura di queste opere, il cui elemento costituente – il prelievo – rientra nell’iconosfera con nuova forma e significazione, in una versione sofisticata e ipercontemporanea del ready made. 

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Jacques Brel: il talento del sognatore

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Jacques Brel amava ripetere che l’essere umano necessita di un solo talento: avere dei sogni. Il resto, diceva, non è che sudore e disciplina. Con il candore dei visionari, esortava tutti a “sognare un sogno impossibile”, rêver un impossibile rêve, dando voce e corpo alla dismisura dell’animo umano (succedeva nella commedia musicale L’homme de la Mancha, portata in scena nel 1968, dove Brel interpretava Don Chisciotte). Quanto più impossibile quel sogno, sosteneva, tanto più la nostra vita sarà stata degna d’essere vissuta.

 

Il destino di Jacques Brel, senza quel suo sogno smisurato (in principio, conquistare Parigi con le sue canzoni; più avanti, dedicarsi al cinema, al teatro, diventare pilota d’aereo, solcare i mari del sud), sarebbe stato con ogni probabilità quello di fare di conto nel cartonificio del padre. La grisaille. La grigia e rispettabile vita del borghese (“Les bourgeois”, non dimentichiamo, “c’est comme les cochons: plus ça devient vieux, plus ça devient bête”; i borghesi sono come i maiali: più invecchiano e più istupidiscono). Proprio come Georges Brassens e Leo Ferré, anche Brel arrivava dalla provincia. Brassens sbarcò a Parigi da Sète, nel sud del paese; Leo Ferré si trasferì nella capitale dal Principato di Monaco; Jacques Brel, cittadino di provincia, era cresciuto a Bruxelles. Per capire quanto il Belgio fosse considerato provincia dai parigini sul piano culturale (e quanto provinciale, di conseguenza, fu inizialmente percepito Brel dai parigini), basterebbe la frase apparsa su France-Soir all’indomani di uno dei suoi primi concerti: “ricordiamo a Brel che esistono degli ottimi treni per Bruxelles”.

 

Quella che sulle prime parve una tara insormontabile, si trasformò ben presto in un’arma di conquista. Sul palcoscenico Brel dava sì corpo all’impaccio di chi avrebbe voluto essere altrove, mai disinvolto, un’inadeguatezza che lo prendeva alla gola, terrore allo stato puro (prima di ogni spettacolo era solito vomitare dietro le quinte, se teneva tre spettacoli al giorno, vomitava tre volte), ma riusciva poi a compensare quell’handicap con delle performance ad alto contenuto scenografico, estenuanti sul piano fisico ma estremamente coinvolgenti sul piano emotivo. Quello di Brel era un corpo in perenne tensione. Fisso al centro della scena, munito di lunghe braccia e dotato di un’eloquenza che sconfinava spesso nella pantomima, concentratissimo, uno stato di allarme che s’insinuava in ogni strofa, l’abbondante salivazione con relativa irrorazione delle prime file durante il concerto, tutto contribuiva, agli occhi dello spettatore, a trasmettere un senso di autenticità, di groviglio emotivo e di tormento morale che non poteva significare altro che la totale dedizione alla propria arte. In questo seppe far sua la lezione di Yves Montand, per il quale il corpo era tenuto a parlare sul palcoscenico. A Brel fu subito chiaro che darsi senza riserve era l’unico modo di affrontare il pubblico. Bisognava scendere stremati dal palco. Niente bis. Quel che si è dato si è dato. La pozza di sudore sotto il microfono avrebbe certificato non solo lo sforzo, ma l’onestà dell’artista.

 

Brel si dichiarava spavaldamente germanico e barbaro, e si riferiva alla sua identità in termini di belgitude (a immagine della negritude, come fiera rivendicazione di una cultura altra). Nel 1973, nel corso di un’intervista televisiva, acciambellato sulle dune delle Fiandre, dichiarò: “le peuple d’ici c’est pas très beau, c’est pas très intelligent, c’est pas très cultivé, ça fait partie des caractéristiques des peuples rudes”; “la gente di qui non è particolarmente bella, non è particolarmente intelligente, né troppo acculturata, tutti tratti distintivi dei popoli rozzi”. Visse e cantò questa belgitudine con commozione (Mon père disait; Le plat pays; Marieke; Il neige sur Liège; Mon enfance; Mai ’40:Quelques Allemands disciplinés / Qui écrasaient ma belgitude”; Dei tedeschi disciplinati, che calpestavano la mia belgitudine), ma anche in tono sarcastico o derisorio (Les flamandes; Les bonbons; Les F.). Considerava il Belgio un luogo dello spirito, artificiale e tutto da inventare. “La grande couleur de ce pays c’est le rouge, parce que il n’y en a pas” disse ancora. “C’est la loi des minorités. C’est un pays sans horizon”; “il grande colore di questo paese è il rosso, perché non ve n’è traccia. È la legge delle minoranze. Questo è un paese che non ha orizzonte”. Il Belgio aveva lasciato in Brel un’impronta indelebile. L’accento di Bruxelles anzitutto, quel francese aspro e già quasi vichingo, ma anche il ricordo dell’odore della zuppa di cavoli nella cucina di mamma Lisette. Il fascino che Brel esercitava sul pubblico fu spesso fatto risalire proprio alle sue origini. Nell’ottobre del ’64, dopo un recital all’Olympia, e quando Brel era già un gigante della canzone francese, la giornalista Claude Sarraute rinnovava lo stereotipo scrivendo su Le Monde: “Jacques Brel s’inchinava, il sudore sulla fronte e sulle labbra, il sorriso stupito e tranquillo del ragazzo del plat pays”. Per i parigini era importante che continuasse a essere soprattutto questo. L’enfant du plat pays. Erano disposti a perdonargli tutto, l’ingenuità, la goffaggine e l’umiliazione (Ne me quitte pas; “un uomo non dovrebbe cantare queste cose”, lo aveva benevolmente redarguito Edith Piaf), quella sua risata da osteria e la mancanza di raffinatezza (in una parola, il provincialismo), purché confermasse, insieme con Ferré e Brassens, la sua duplice identità: origine provinciale ma statuto d’artista che riconosceva implicitamente il primato culturale della capitale (fu Parigi a certificare il suo valore, e a decretare il suo successo).

 

 

A Brel in verità tutto questo importava poco. Antinazionalista e pacifista convinto, restò ai margini delle questioni politiche inerenti l’identità francese e francofona, peccato coloniale compreso (fa eccezione la canzone Jaurès, dedicata al politico e fondatore del giornale L’humanité Jean Jaurès, assassinato alla vigilia della Prima Guerra Mondiale). Questo non significa che non si sentisse in debito con la Francia e con la cultura francese, e che ne avesse persino soggezione. Fra gli autori preferiti, ça va sans dire, Antoine de Saint-Exupéry, lo scrittore-aviatore; côté musique, gli amati Debussy e Ravel. A differenza di molti suoi colleghi, Brel si mostrò sempre freddo e scettico nei confronti dei modelli culturali di provenienza anglosassone, perfettamente consapevole dell’omologazione che s’andava prefigurando (a questa omologazione Brel sottraeva il mito del far west; ma più che l’America, lì, contava probabilmente la manutenzione dell’infanzia). Va anche ricordato che Brel, al pari di Brassens e Ferré, non aveva conosciuto l’ubriacatura per il jazz che aveva invece infiammato Boris Vian, Henri Salvador, Charles Aznavour, Sacha Distel o Serge Gainsbourg, ovvero i parigini DOC della chanson. Al jazz Brel preferiva di gran lunga le orchestrazioni di François Rauber, capaci di esaltare il crescendo emotivo di molte sue canzoni (Les prénoms de Paris, Madeleine, La valse à mille temps, Ces gens-là), oppure le ballate in cui lasciava affiorare i ricordi e l’eco della sua belgitude, con tutta la pregnanza e l’esemplarità epica che la ballata sottende. Il jazz, al pari del tango o di altri ritmi esotici, serviva piuttosto a Brel per caratterizzare, spesso in chiave comica o grottesca, alcune delle storie che metteva in musica.

 

Nell’impermeabilità di Brel al jazz prima, e al rock poi, oltre che nella volontà di muoversi dentro dei modelli se non proprio intrinsecamente francesi, quanto meno modellati su forme riconoscibili e appartenenti alla tradizione europea (la ricorrenza della ballata, ma anche del tempo di valzer, che infondeva un movimento e una cadenza ideali alle sue canzoni), potremmo cogliere uno dei motivi della sua straordinaria popolarità in terra di Francia. Per non dire della fisarmonica, strumento dal polmone possente e dal respiro viscerale, di cui Brel si serviva alla stregua di un ordigno da collocare direttamente nel ventre dell’ascoltatore. Tanto convenzionale era la forma attraverso cui aveva scelto di esprimersi (valeva per lui, ma anche per Ferré e Brassens), quanto eversive erano invece le premesse. Brel, Brassens e Ferré pensavano e praticavano la canzone muovendo da presupposti del tutto diversi rispetto alla tradizione della chanson francese, che aveva contribuito in modo rilevante alla definizione dell’identità nazionale. Senza l’esempio tracciato su questo piano dalla generazione dei Brel, quello cioè di una canzone di spirito anarchico e segnatamente antinazionalista impostasi su scala nazional-popolare, sarebbe impossibile immaginare qualcosa come la versione reggae della Marsigliese che Serge Gainsbourg registrò nel 1979 a Kingston, con dei musicisti giamaicani (Aux armes et cætera). Quella versione della Marsigliese si rivelò una provocazione che andava ben oltre l’impertinenza di farsi uno spinello con l’inno francese. Gainsbourg, con quel canto rivoluzionario messo in levare, poneva di fatto le basi per una revisione del ruolo che la canzone avrebbe dovuto svolgere nella definizione di una nuova identità nazionale.

 

Di recente Paul McCartney (76 primavere) ha raccontato di aver chiesto a Willie Nelson (85) se avesse mai pensato di ritirarsi. Fulminante la risposta di Nelson: retire from what?– ritirarsi da che? Nel maggio del 1967, quando si esibì nell’ultimo recital, Jacques Brel aveva 38 anni, la metà degli anni di Paul McCartney oggi. La decisione era nell’aria, Brel aveva la sensazione di non aver più nulla da dire ed era sempre assillato dalla domanda che aveva determinato ogni sua scelta: sérait-t-il impossible de vivre debout? (dalla canzone Vivre debout; sarebbe dunque impossibile vivere in posizione eretta?). Tutto avrebbe voluto fuorché finire i suoi i giorni come una vecchia vedette in un night-club di Knokke-Le-Zoute. Fra il giorno del suo ultimo concerto (16 maggio 1967) e la pubblicazione di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles (1° giugno 1967), passano appena 15 giorni, ma la sensazione è che fra le due date corra uno spartiacque. Brel ebbe la prontezza di voltare pagina prima che fosse la storia ad occuparsi di lui. Dopo di allora s’impegnò con alterne fortune nel cinema (dieci film fra il 1968 e il ’73, due dei quali anche da regista), nel teatro musicale (il Don Chisciotte nel 1968), ma soprattutto partì all’avventura, pilotando il suo aereo e attraversando prima l’Atlantico e poi il Pacifico in barca a vela, fino alla decisione di trasferirsi definitivamente in Polinesia. Nel 1977, già gravemente malato, tornò a Parigi per sottoporsi a cure mediche e per incidere in gran segreto un ultimo disco, Les marquises, concepito sull’isola di Hiva Oa nell’arcipelago delle Marchesi, sua ultima dimora, dove oggi riposa a pochi metri dalla tomba dell’amato Paul Gauguin.

 

Al Brel interprete, dimissionario della canzone, sopravvisse il personaggio Brel. Fedele al suo credo, decise di non disertare il sognatore, trasformandosi, suo malgrado, in un oracolo in fuga. Brel non era soltanto ammaliante, era contagioso. Lo si amasse o meno, era impossibile che lasciasse indifferenti. Intellettualmente acuto, sopperiva alla mancanza di erudizione con l’agilità del pensiero. E se mai veniva meno l’acutezza, c’era pur sempre quella risata beffarda. La sua debordante vitalità era pari solo all’audacia con cui sfidava le convenzioni (le regole del vivere, i doveri famigliari e matrimoniali, e in genere la condizione di sudditanza dell’individuo). Brel avrebbe saputo dare la sveglia anche al sognatore più recalcitrante (“ma fonction c’est de clarifier les rêves des gens qui n’ont pas le temps de s’occuper de leurs rêves, ou de brouiller la douleur des gens qui ne savent pas très bien à quoi ils ont mal”; “la mia funzione” dichiarò, “è quella di rendere espliciti i sogni a chi non ha il tempo di occuparsene, o di distogliere dal dolore le persone che non conoscono la natura del male che li affligge”). Evocato il sogno, aveva poi l’ardire di spingersi fin sul crinale che separa il desiderio dal suo esaudimento, consapevole che è proprio su quel fronte che gli uomini sovente compiono sé stessi oppure falliscono. Era convinto che la cosa difficile, per un uomo che abita a Vilvoorde e vuole andare a vivere a Hong Kong, non è trasferirsi a Hong Kong ma lasciare Vilvoorde, perché una volta a Hong Kong, diceva, tutto si sistema da sé, posto che si goda di buona salute e che si coltivi una follia. Hong Kong è alla portata di chiunque, ma mollare Vilvoorde… ecco la vera sfida. Sbagliare, per inciso, non conta. La libertà, insisteva Brel, consiste nell’esercitare il diritto all’errore. Il successo non è mai prova di libertà, mentre il fallimento lo è. E gli uomini, concludeva, fanno troppo poco uso della libertà.

 

Le canzoni di Brel, ogni volta che le si riascolta, procurano lo stesso brivido. Anche quarant’anni dopo la sua morte. È la vertigine dell’abisso, il nostro abisso, sul quale Brel invita a sostare senza timore. L’ammirazione per Brel non discende soltanto dalla sua arte, ma anche dall’emozione che l’interprete Brel suscita in noi. È lui la scintilla. Per riuscite che siano le interpretazioni altrui (si pensi in particolare al Brel di Juliette Gréco, che come Ella Fitzgerald aveva facoltà di interpretare ogni cosa non solo con pertinenza, ma persuadendo l’ascoltatore nel profondo, come se ogni canzone fosse stata scritta appositamente per lei), le canzoni di Brel, senza Brel, appaiono orfane. C’è una ragione precisa perché questo accade, e va ricercata, come sottolinea il suo biografo e amico Olivier Todd, nel fatto che la prosodia di Brel “s’accomplit dans son chant, par sa bouche” – si compie nel suo canto, attraverso la sua bocca. Il ritmo del verso di Brel si rivela nell’interprete Brel, nel modo in cui Brel scandisce e accenta le parole. Per sentire il suo verso e per cogliere il ritmo delle sue frasi, è necessario prestare orecchio al cantante Brel.

 

Che fare dunque? Beh, anzitutto mostrare cautela nell’interpretare Brel. In secondo luogo consumare i suoi dischi, o procurarsi i DVD che lo colgono in scena, dietro le quinte, oppure ai comandi del suo piccolo aereo, un Beechcraft 50 Twin Bonanza, intento a trasportare una donna incinta, un medico, oppure la posta da un’isola all’altra nell’arcipelago delle Marchesi, infine sgravato dai problemi del mondo. È l’ultimo Brel, quello polinesiano, l’uomo che pare più prossimo al sognatore sfuggito al cartonificio del padre molti anni prima. Fox Oscar Delta Bravo Uniforme, FODBU, è l’ultimo ritornello di cui si ha notizia, quello con cui si faceva riconoscere dalle torri di controllo polinesiane. Con gli amici parla ormai di rotte, degli alisei, di come sia la mancanza di vento a fermare il tempo alle isole Marchesi (“Et par manque de brise le temps s’immobilise / Aux Marquises”, dalla canzone Les marquises), e parla infine della sua malattia. Da quel temerario che è, lo fa con spavalderia, infischiandosene della morte: en tout cas, moi je suis foutu– ad ogni modo, io sono spacciato. A chi prova a distoglierlo dal pensiero, o soltanto a infondergli un filo di speranza, risponde come avrebbe verosimilmente fatto un personaggio delle sue canzoni: mort aux cons! – a morte gli imbecilli! Fedele a sé stesso fino all’ultimo. Molti anni prima, rivolgendosi alla moglie Miche ne La chanson des vieux amants, aveva già mirabilmente riassunto la sua parabola di vita: il nous fallut bien du talent / pour être vieux sans être adultes– ce n’è voluto del talento, per invecchiare senza diventare adulti. Missione compiuta, aviatore Brel.

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9 ottobre 1978 - 9 ottobre 2018
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Deflorian-Tagliarini: “Quasi niente” a Roma

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“Ma quanto sarebbe più facile se questo fosse quel teatro con una trama, / una di quelle trame che sostengono la vicenda, / quelle trame dentro cui ti puoi immedesimare” dice a metà di Quasi niente LQ, la quarantenne, guardando il pubblico dritto negli occhi. Nell’ultimo lavoro di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini – con cinque strepitosi attori, in scena a Roma all’Argentina per Romaeuropa Festival fino a domenica 14 ottobre – poco prima C, il cinquantenne, aveva raccontato del palazzo dei suoi, supercontrollato contro ladri e aggressori, un vero moderno fortilizio di sicurezza, dove una sera si sente un rumore ripetuto da una casa. “Qualcuno ha chiamato la polizia, che ha sfondato la porta dell'appartamento / da cui provenivano i colpi. / Hanno trovato una donna che da ore sbatteva la testa contro il muro”.

Solitudine. Un tarlo interiore che corrode. Una sensazione di non trovarsi mai al proprio posto, un posto che non c’è. Paura degli sguardi degli altri, paradossale perché qui siamo in teatro. LQ, all’inizio, provenendo da uno spazio posteriore del palcoscenico, interiore, chiede agli spettatori di girarsi dall’altra parte. Di non guardare (o forse di guardarsi dentro).

 

Ph. Luca Del Pia


Quasi nienteè l’ultima creazione meravigliosa di Deflorian-Tagliarini, una compagnia che da qualche anno sta esplorando in modo radicale il nostro stare disagiato nel mondo, esibendoci su palcoscenici inospitali a raccontare la realtà e il rapporto malato che abbiamo con essa, l’indifferenza, il vuoto, il pericolo continuo di crollo e di isolamento mentre la vita continua e la sofferenza sociale cresce. Lo ha fatto in spettacoli come Reality, l’universo troppo pieno di cose e memorie di una donna sola, in Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, che partiva dalla crisi greca per raccontare profondi disagi quotidiani, in Il cielo non è un fondale. In questo penultimo lavoro il tema era il rapporto tra la figura e lo sfondo, uno sfondo che sfochiamo abitualmente fatto di miseria, emarginazione, quello che attraversiamo nelle nostre città, che ci mette a disagio o che ignoriamo. Durante la lavorazione Deflorian ha fatto vedere a Tagliarini Il deserto rosso di Antonioni, il film della depressione (mai nominata) di Giuliana, la pellicola che inizia con figure sfocate di paesaggi industriali e di persone in attività, con il primo fuoco centrato sulla protagonista, interpretata da una magnifica Monica Vitti.

Qualcosa è scattato, tanto che nei crediti dello spettacolo si legge “liberamente ispirato al film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni”. Della pellicola rimangino alcune citazioni, che si intersecano con memorie personali e brani raccolti da scritti letterari e filosofici.

 

Ph. Claudia Pajewski.


All’inizio i cinque personaggi, definiti da una sigla che ne indica l’età, e la generazione, dai trenta ai sessanta, sono immobili dietro un velatino che li stacca dalla parte anteriore del palco. Una membrana che li allontana e li sfuma dal pubblico, dal luogo dell’esibizione, dalla comunicazione, dalla memoria. Separati. Spaesati nel vuoto. A uno a uno verranno in avanti, al mondo, un mondo ugualmente deserto, con pochissimi oggetti: e si narreranno, racconteranno storie, maschere, ansie, parole della loro generazione, del loro personaggio ma anche dell’attore che lo interpreta e di Deserto rosso, in uno slittare continuo di piani che crea quella fluidità imprendibile nella quale siamo immersi, sempre fuori posto, spostati, magari non di molto, da una realtà grigia o dolorosa, che acquista felicità quando si intinge di ricordo, che si sfarina nei pensieri, nelle azioni impossibili, in quel battere la testa contro il muro, in un volersi ritrovare in una facile trama di teatro, ma soprattutto di vita, con un senso che scacci i troppi fantasmi. 

Qui il teatro diventa il gran teatro del mondo barocco, lente d’ingrandimento e metafora, cannocchiale che continuamente avvicina e allontana da quell’enorme teatro interiore aperto nelle generazioni nate dopo la guerra dal benessere (apparente), dall’inconsistenza, dalla prestazione. Una prestazione d’opera ansiogena perché offerta al padrone più esigente, sé stesso, che chiede continuamente di essere all’altezza, di colmare i vuoti, di rendersi sempre pronti, sempre disponibili. Dice LQ: “Almeno mia madre lo faceva per qualcun altro. / Io lo faccio solo per me stessa, /per essere pronta a fare tutto. […] Mi porto il lavoro a letto. / Mi comando a bacchetta, / sono peggio di qualunque proprietario terriero, datore di lavoro, direttore, superiore”. Il lavoro penetra in ogni momento della vita, come sa chi abbia letto La società della stanchezza di Byng-Chul Han o semplicemente viva nella situazione di precariato diffuso, di sospensione comune. 

 

Ph. Luca Del Pia.


“Io non sono guarita e non guarirò mai” dice ancora LQ, una Monica Piseddu che con il suo parlar quotidiano, con i suoi sguardi che sembrano trattenuti ti scortica, seduta nella sua poltrona rossa, citando una battuta di Monica Vitti. Qualcuno sempre usa le parole di qualcun altro per dire qualcosa su di sé. 

Con tre canzoni Francesca Cuttica, T, la trentenne, una vera rivelazione, ridisegnerà per voli e sbalzi d’anima, i paesaggi. “Cerco spazi di disagio esistenziale / per tornare a immaginare/ come essere normale / ritornare elementare”, canta, accompagnata dalle schitarrate fuori scena di Leo Cabiddu. E quella voce dolce da bambina adulta, non tanto amareggiata ancora da diventare roca ma già disincanta, senza orizzonti e in cerca di futuro, scava crepacci, mentre Benno Steinegger, IQ, il quarantenne, dopo essersi pure lui raccontato si avvicina alla poltrona rossa, la esplora, la impugna, la fa girare vorticosamente, vorticosamente. 

In scena, di qua dalla membrana, con la poltrona rossa, isola, rifugio, luogo della introspezione e della memoria, ci sono solo un vecchio comò, che sarà rovistato, poi grattato come per scorticare il proprio malessere, che si riempirà alla fine di oggetti e di foto, e un armadio un po’ sfasciato, che attraverserà la scena, rimembranza delle vecchie cose da abbandonare del Giardino dei ciliegi, luogo per rintanarsi dal peso dei ricordi e della solitudine. 

Slitta continuamente questo spettacolo, tra la confessione e la rappresentazione, tra il film di Antonioni e il disincanto raccontato magari con le parole di Buono a nulla  di Mark Fisher, una riedizione politica e contemporanea dell’“essere zero” di Jakob von Gunten, romanzo di quel poeta dell’assenza e dello stupore che fu Robert Walser. Legge S, la sessantenne (quasi sessantenne, dice lei), Daria Deflorian, e intanto gli altri fanno o provano a fare la verticale in vari punti della scena. Alberi, antenne del disagio.

 

Ph. Luca Del Pia.


Sembra a volte allo spettatore di non stringere nulla in mano e nel cuore, e ti accorgi che tutto quello che avviene, disincanti, deviazioni, fughe, ti circonda come una nuvola della quale sei tu il vapore, perché sei tu, oggi, vuoto, in cerca di una realtà indefinibile, da ritrovare o da evadere nel sogno, nell’utopia che le renda sostanza. 

Anche Antonio Tagliarini, C, il cinquantenne, e Daria Deflorian, S, si confessano e si esibiscono, con quel risonante stile ormai affinato di creazione in creazione, tra il disarmato, la concessione al comico che scivola verso il ridicolo del lapsus, dell’inciampo, la confessione in leggerezza lievemente ansimante per celare un malessere che rode in profondità.

Maschere, maschere compaiono in continuazione, riflessi in specchi dell’altro personaggio più giovane o più avanti negli anni, il film, la letteratura, per provare a squarciare i sipari. Per guardare negli occhi, pur senza una trama, sapendo, come Giuliana nel film, che quel disagio angosciante che ti separa dalla vita non si può tagliare come un ramo secco. Un male così malato che “neppure ti allaga”, “neppure ti allarga”, come la realtà: “C’è qualcosa di terribile nella realtà e io non so cos’è, nessuno lo dice”. Forse bisognerebbe solo andare via, vivere anonimamente in una stanza d’albergo. Portarsi, dalla vita precedente, solo due valigie, quasi niente.

Spariscono, a uno a uno, i cinque, tornando dietro la membrana. La nebbia a poco a poco li copre, come in una delle più belle scene del film di Antonioni. Non si vedono più. Non si vede più. “Tu ti chiedi cosa devono guardare i tuoi occhi, / io mi chiedo come vivere. / È la stessa cosa”.

 

Ph. Luca Del Pia.


A Roma

 

Quasi niente, nelle meravigliose penombre che restringono e moltiplicano gli spazi, disegnati entrambi da Gianni Staropoli, testo e regia di Deflorian-Tagliarini, con il contributo essenziale di Francesco Alberici e con i costumi di Metella Raboni, ha debuttato negli edifici spaziali del Lac di Lugano per il bel Festival internazionale del teatro diretto da Paola Tripoli e da Carmelo Rifici, responsabile di LuganoinScena (giovedì su “doppiozero” Maddalena Giovannelli racconterà il festival). Arriva per Romaeuropa Festival all’Argentina di Roma (lo stabile capitolino è uno dei produttori, insieme al Metastasio di Prato, a Emilia Romagna Teatro Fondazione e a molti importanti festival europei). 

Approda a Roma in una situazione incandescente, dopo una lettera di artisti, operatori e critici che domandavano chiarezza sui nuovi scenari del teatro stabile. Scrivevano i firmatari: “Chiediamo innanzitutto un processo di trasparenza riguardo alla delicata situazione in cui si trova oggi il Teatro di Roma, il Teatro Nazionale della nostra città, a causa delle dimissioni del direttore Antonio Calbi, in virtù del nuovo incarico a dirigere l’Istituto Nazionale del Dramma Antico (Fondazione Inda)” (la lettera integrale si può leggere su “Teatro e critica”). Subito dopo l’appello, Calbi ha rassegnato le dimissioni e la direzione pro tempore è stata affidata al presidente del Consiglio d’amministrazione Emanuele Bevilacqua, che ha manifestato il proposito di emanare un bando per un nuovo direttore, perché il progetto triennale disegnato da Calbi possa essere portato a termine e sviluppato. 

E questo effettivamente chiedeva il documento, firmato da artisti romani di primo piano, molti dei quali emigrati altrove per la difficoltà o addirittura l’impossibilità di operare in una città che non dà spazio ai luoghi alternativi e che nel suo teatro stabile si è finora dimostrata non sufficientemente attenta a fermenti creativi riconosciuti a livello nazionale e internazionale. Si legge nell’appello: “Roma sta attraversando un momento difficile e insidioso: quasi tutti gli spazi indipendenti, più o meno atipici, che hanno ospitato la creatività e la sperimentazione, hanno chiuso o stanno chiudendo. Una rete di spazi associativi, teatri off e realtà multidisciplinari, abitati e condivisi negli anni da quella comunità di artisti e di pubblico che ha dato vita alla scena contemporanea di questa città. Registi, drammaturghi, attori di fama nazionale e internazionale che hanno spesso prodotto i propri lavori fuori dal territorio regionale e che, a Roma, sono stati intercettati proprio da questa scena informale. Il Teatro di Roma, l’istituzione teatrale principale della città che per vocazione e missione dovrebbe essere uno degli interlocutori principali della scena contemporanea, pur dialogando con il mondo dell’innovazione teatrale, non ha saputo diventarne l’epicentro, come molti auspicavano”.

 

Ph. Claudia Pajewski.


In particolare India, lo spazio contemporaneo voluto da Mario Martone agli albori degli anni 2000 e mai valorizzato, avrebbe dovuto essere ripensato e affidato alle importanti energie locali, costrette spesso a provare e a debuttare in luoghi di fortuna o lontano dalla città, che sembra aver sprecato e dissipato le forze di una scena indipendente. Una scena, ricordiamo, che ha generato creatività come quelle di Roberto Latini, primo firmatario del documento, Massimiliano Civica, Timpano/Frosini, Fabrizio Arcuri e l’Accademia degli Artefatti, Ascanio Celestini, Deflorian-Tagliarini, Lucia Calamaro, Lisa Ferlazzo Natoli, Giorgina Pi, Andrea Cosentino, Veronica Cruciani e molti altri, in quella che il compianto Nico Garrone definì felicemente in anni ormai lontani la “non-scuola romana”, un insieme di esperienze differenti, tutte votate a una vera ricerca e proiettate verso un rinnovamento della scena.

Si legge ancora: “Un Teatro Nazionale non può essere un’istituzione di retroguardia. Deve saper guardare al presente e indirizzare il futuro. Ha pertanto bisogno di una figura che possa disporre di una carica che duri nel tempo e che le consenta di rafforzare e restituire quella progettualità generativa e di respiro europeo che si addice a un Teatro Nazionale. Deve saper alternare tradizione e innovazione, mettendo in connessione le varie anime e culture della scena che vivono parallelamente in una città importante come la capitale d’Italia. Costituendo il centro nevralgico di un intero sistema, come fortemente voluto dalle Istituzioni in questi anni, il Teatro di Roma ha il dovere di svolgere questo processo attraverso un meccanismo di assoluta trasparenza e in tempi che non paralizzino inevitabilmente le attivitaà del Teatro stesso”.

 

Ph. Luca Del Pia.


Ribadisce uno dei critici che hanno aderito all’appello, Attilio Scarpellini, che il nuovo direttore dovrà riadattare il progetto triennale. Un nuovo ruolo, per lui e per altri dei firmatari, può giocare proprio India, in un’idea che non divida gli spazi in palcoscenici di serie A e di serie B, come è stato finora (Argentina e India), “ma sviluppi un progetto in cui teatro più istituzionale e teatro contemporaneo non siano separati da confini marcati. Non c’è una grande scena e una scena minore. Il discrimine diventa la qualità: e però ci vuole un nuovo collegamento del teatro con la città, con gli artisti, con l’arte che c’è”. E un altro attento osservatore della scena romana (e non solo), Graziano Graziani, chiede «un dibattito pubblico quando sarà aperto il bando per il nuovo direttore, con progetti visionabili, pensando proprio a un teatro stabile che dialoga con la città e con le tante sale dove si fa un teatro molte volte importante e con i suoi vari pubblici. A Roma gli spazi periferici o underground hanno prodotto cose seminali, che spesso hanno dovuto crescere altrove. Sarebbe ora di ripensare il sistema, riflettendo anche sulla necessità di luoghi di residenza artistica”.

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Sul palco di uno stabile in crisi
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Ricette immateriali. Polenta di castagne

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“Rossa” come la farina di cui è fatta, era polenta comune lungo e attraverso l’Appennino Tosco-Emiliano. Per un tempo lunghissimo, una presenza quasi obbligatoria su terre dove il grano è sempre stato carente.

Ma più che una ricetta è stato innanzi tutto cibo essenziale, condiviso per generazioni e intere popolazioni, succedaneo del pane vero. Solo acqua, farina di castagne e sale, nient’altro.

È stato del resto proprio il castagno “l’albero del pane”, l’antidoto della fame e della carestia, almeno dove il Mediterraneo mostrava un clima più rigido, il suolo avaro e già impervio.

Polenta rossa anche per differenziarla da quella “gialla”, a base di farina di mais, altro succedano del pane, consumata al posto di quest’ultimo, e come tale accompagnata in piatti semplici con l’accostamento di pancetta, latte, ricotta, formaggi.

 

Una ricetta che non è importante certo per la gastronomia o la storia della cucina; siamo infatti nell’orizzonte alimentare fatto di sussistenza e sopravvivenza per un piatto che pur ha nella dolcezza una delle sue caratteristiche essenziali.

Ma quello che questo piatto può raccontarci va oltre la tradizione di un luogo o di una comunità, va oltre la cucina o la dietetica. Non racconta infatti storie di cui, attraverso le generazioni, ogni tradizione è portatrice, ma essa stessa è in fondo un racconto, nudo nella sua essenza, immobile come il tempo quando è guardato negli abissi che stanno dentro la storia. Questo alimento racconta infatti di qualcosa che abbraccia tutte le società dell’epoca preindustriale, e di ancor prima perché parla dell’urgenza primordiale, noi di fronte all’urgenza della vita. In un certo senso piatti come questi sono una tradizione prima di ogni tradizione, sono il loro originario perché. 

 

Nella ricerca per il benessere, il cibo è sempre stato la prima arma, quella essenziale. Ma nella storia della nostra specie, era un orizzonte esistenziale di breve termine quello con cui abbiamo spesso avuto a che fare, quando la sopravvivenza era tutto ciò di cui preoccuparsi e non andava oltre il domani. In alimentazione questo ha sempre significato la preoccupazione di riempire la pancia, di evitare la fame e la sua deleteria “fisiologia”, più che la preoccupazione di un nutrimento vero; erano dunque le calorie la prima esigenza, le farine e gli amidi (oggi diciamo carboidrati) il livello nutritivo più immediato ed essenziale da cui si era dominati e a cui bisognava comunque rispondere. Quella dimensione elementare del vivere è sempre stata lontana da ogni cultura alimentare che invece è presente quando la consapevolezza del benessere guarda avanti e abbraccia i giorni e le stagioni, quando si ha un’idea di se stessi oltre le necessità del momento, nella gioia e nel dolore, in tutte le possibilità che la vita può dare. Solo in questo senso, ogni ricetta e ogni dieta sono anche conoscenze per i giorni che verranno, sono un’idea di se stessi per un domani verso cui andare e a cui affidarsi.

 

La polenta di castagne, e tutti i piatti equivalenti nella loro essenzialità, non appartengono a questo orizzonte, non a quello in cui la cultura di una comunità si rivela e può dispiegarsi. È solo sopravvivenza dell’immediato, è la risposta alle urgenze della vita che sono solo presente: gli occhi bassi sui passi, uno a uno, sui morsi della fame e le sue risposte, su come arrivare solo al domani. 

Ma è proprio su questa dimensione dimenticata, lontano da ogni cultura alimentare, che riuscivamo ad avvertire tutta la fragilità della vita che attraversa il creato. Quella nuda consapevolezza della precarietà del vivere era anche un continuo insegnamento all’umiltà.

 

Oggi, nei giorni della perenne quotidiana abbondanza questa dimensione ci è preclusa, smarrita, sebbene il corpo di tutti abbia potuto dimenticare la fame. E allora la polenta rossa può essere non solo la curiosità gastronomica di un pranzo in montagna, non solo un antico succedaneo del pane o un residuo archeologico di una fisiologia non più necessaria ma – basta volerlo vedere – può anche essere un richiamo a quell’umiltà del vivere che ci è ormai sconosciuta.

È forse anche questa la sua dolcezza, oltre a quella del suo sapore, mille anni lontano dalla cucina gourmet, mille anni lontano da ogni chef.

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Fame chef e umiltà
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Biografie politiche al Fit di Lugano

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Nutrirsi di esistenze altrui. Andare alla ricerca di vite in cui rispecchiarsi e riconoscersi.

Dalla letteratura contemporanea alla serie tv, dal cinema al teatro: proliferano biografie, storie vere, testimonianze in prima persona. È ‘reale’ quello che mi stanno raccontando? Quanto viene concesso all’invenzione? Leggiamo interviste, cerchiamo tracce, proviamo ad approfondire. Vogliamo le prove, non importa quanto siamo colti e consapevoli che l’arte è sempre e comunque rielaborazione. 

Il genere letterario della non-fiction – che da Emmanuel Carrère a Annie Ernaux sancisce clamorosi successi editoriali – prolifera anche sulla scena contemporanea. Di questa tendenza dà conto il Fit Festival di Lugano (giunto ormai alla ventisettesima edizione) che tenta una ricognizione sul tema, e indaga le sue risonanze politiche. Tra gli italiani, non può mancare la compagnia Deflorian/Tagliarini che in questi anni si è distinta per la capacità di elaborare “partiture di realtà”: drammaturgie per frammenti che danno voce alla vita interiore degli attori sulla scena (su Doppiozero Massimo Marino racconta l’ultimo spettacolo).

 

Ma il festival svizzero rappresenta sempre una preziosa occasione per conoscere nomi della scena europea che raramente approdano sui palchi nostrani. Curiosando tra le proposte, si possono rintracciare alcune linee di ricerca sul tema della biografia. Da un lato, i riflettori si accendono sui processi di ricostruzione dell’identità altrui: l’atto di indagine, lo sguardo esplorativo sull’altro da sé, e infine la presa d’atto dell’impossibilità di una reale conoscenza diventano più rilevanti del profilo biografico ottenuto. È il caso, per esempio, del polacco Janek Turkowski che (con un progetto del tutto simile a Reality di Deflorian/Tagliarini) cerca di dare forma all’identità di una donna delle Germania dell’Est a partire da una pellicola trovata in un mercatino delle pulci. Turkowski fruga nei più insignificanti dettagli della vita di Margarete – questo il nome della protagonista e dello spettacolo – muovendosi tra la proiezione immaginaria e il dato di realtà.

 

“Margarete” di Janek Turkowski.


In altri casi, le vite raccontate diventano esemplificative di un più ampio segmento di comunità: la biografia assume una funzione di metonimia, rendendo il singolo una porta di accesso all’intera collettività. Hanno lavorato in questa direzione i greci Anestis Azas e Prodromos Tsinikoris con Clean City, mostrando di avere appreso fino in fondo la lezione dei Rimini Protokoll (entrambi sono stati assistenti alla regia e ricercatori per il gruppo berlinese). In scena cinque donne delle pulizie: una bulgara, una sudafricana, una filippina, una moldava, una albanese. Condividono con il pubblico le loro storie di migrazione e lavoro nero, gli stereotipi di cui restano quotidianamente prigioniere; raccontano dei rapporti con le donne-capo, delle case ricche irrimediabilmente sporche, delle molestie sessuali subite tra le mura. Nel guardare l’energia dei loro corpi sulla scena, nel percepire la visibile emozione dello stare sul palco e la complicità derivata dalla condivisione di un’esperienza ‘eccentrica’ accediamo direttamente a un privato di cui percepiamo tutta la verità; e allo stesso tempo attraverso gli occhi delle cinque donne guardiamo da un’altra prospettiva Atene, o forse qualunque contraddittoria capitale europea.

 

“Clean City” di Anestis Azas e Prodromos Tsinikoris, ph. Christina Georgiadou.


Il viaggio nella biografia altrui non è dunque semplicemente un dispositivo per creare empatia, ma anche (e forse soprattutto) l’assunzione momentanea di un punto di vista altro, di nuovi occhiali con cui guardare la stessa realtà che osserviamo ogni giorno. Il ribaltamento prospettico può causare disagio. Non è confortevole, per esempio, il viaggio attraverso cui Mohamad El Khatib conduce il suo pubblico con C’est la vie. In scena due attori, che riferiscono agli spettatori la (vera) morte dei loro figli: Fanny ha perso la sua bambina a cinque anni, il figlio di Daniel si è suicidato a 25. I due testimoni offrono la loro tragedia in tutta la sua crudezza – senza abbellirla e senza esasperarla – e condividono persino i pensieri più imbarazzanti e politicamente scorretti (Fanny ride a crepapelle per una terribile freddura sul figlio di Daniel). Oppure, d’improvviso, entrambi guardano il pubblico e stanno in silenzio, come a rimarcare che dopo alcuni traumi non è più possibile riempire i vuoti parlando.

 

El Khatib arriva dritto al cuore del racconto biografico, svelandone i meccanismi e la funzione. La drammaturgia gioca sulla necessità, da parte dello spettatore, di conoscere quanto c’è di vero nella vicenda narrata. Così, alla fine dello spettacolo, il pubblico in sala viene invitato a consultare la pagina 26 del libretto, dove un nutrito “fact checking” segnala eventuali discrepanze tra le informazioni date dalla drammaturgia e la realtà dei fatti avvenuti (ma da cosa ci deriva, in fondo la fiducia sull’attendibilità del libretto?). La biografia possiede, per El Khatib, un evidente valore politico: raccontare cicatrici, fragilità, malesseri significa smentire le dominanti cronache di realizzazione e successo. Proprio nel momento storico in cui l’idea stessa di verità viene irreversibilmente messa in discussione, chiediamo al teatro di raccontarci storie vere. E mentre il mondo ci invita a catturare e narrare momenti di felicità, scopriamo che abbiamo più che mai voglia di parlare di dolore.

 

L’ultima è un’immagine da C’est la vie di Mohamad El Khatib. 

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Frammenti di vite
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Resoconto

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Resocontoè narrato da una voce femminile di cui nel corso del racconto continuiamo a ignorare sia il nome che gli elementi biografici essenziali – solo a racconto un bel po’ avanzato scopriamo che si tratta di una scrittrice inglese con due figli e un matrimonio fallito alle spalle, e altro non ci sarà dato sapere. Nell’appartamento di cui è ospite ad Atene irrompe una drammaturga, anche lei inglese, che come tutti gli altri personaggi incontrati fino a quel momento racconta alla voce narrante frammenti importanti di verità personali. In aereo la drammaturga ha incontrato un uomo, proprio come è successo alla Nostra: anche lei ha incontrato un uomo, greco, che stava tornando a casa, e che poi ha rivisto nel corso dei giorni seguenti e le ha raccontato molto della sua storia personale, compresi fallimenti e storie di mogli e figli. L’uomo incontrato dalla drammaturga, invece, sembrava molto più realizzato: aveva una bella famiglia e una bella carriera; un’esistenza piena, vissuta peraltro in molte lingue, dato che l’uomo era diplomatico e ne padroneggiava diverse.

 

Di fronte a lui la donna “aveva cominciato a vedersi come una sagoma, un abbozzo, i cui contorni erano completi in ogni dettaglio mentre l’interno restava in bianco”. Sarà per l’aggressione subìta mesi prima, sarà per il blocco creativo che da allora la attanaglia, ma la donna, figura-specchio della narratrice, incarna perfettamente il titolo inglese Outline. “Contorno”, “abbozzo”: il titolo inglese restituisce l’immagine di personaggi incompiuti, come se fossero tratteggiati velocemente a matita e mancassero di profondità e spessore.

 

Outlineè parte di una trilogia scritta da Cusk usando le confessioni di uomini e donne incontrati in giro per il mondo; si tratta di personaggi che sembrano non vedere l’ora di confidare alla narratrice le loro storie; Cusk, dal canto suo, in passato ha fatto largo uso del genere del memoir, raccontando in Aftermath la fine del suo matrimonio e in A life’s work l’esperienza della maternità. In Resoconto, invece, siamo in presenza di un narratore che nasconde le tracce e omette volutamente dettagli sulla propria vita, pur raccontando così tanto degli altri. È un narratore che sa tutto e tuttavia non giudica, anche se a volte non si astiene dal fornire dettagli impietosi dei suoi interlocutori, per esempio quando descrive la schiena robusta e pelosa del suo vicino d’aereo greco o quando accenna al desiderio di essere altrove rispetto al luogo dove si svolgono le conversazioni riportate. Le conversazioni si svolgono spesso con uomini; di solito questi uomini hanno disastri alle spalle, e altrettanto spesso non mostrano grande consapevolezza delle proprie responsabilità nella creazione dei disastri. Sono più argute le donne: più vivaci, più pratiche, pronte quasi sempre a raccogliere i cocci con ironia e a raccontare le proprie disavventure con inaspettata leggerezza.

 

Della nostra narratrice sappiamo invece che ha abbandonato alcune strutture di pensiero preconfezionate, come quelle che suggeriscono a una donna di non andare in barca con uno sconosciuto, che si sente ferita da visioni repentine e imprevedibili, come quella di una famiglia che fa una tranquilla gita in barca, che ha la sensazione che la sua vita sia ridotta in frantumi, ma non sa bene il perché. Le mancano i figli, ma neanche più di tanto. Non ha più una relazione, ma se gliela offrono risponde che sta “cercando un modo diverso di stare al mondo”. Questo passo indietro, questo passo diverso corrisponde a una maggiore chiarezza della visione, ed è forse ciò che la autorizza a raccontare non più la propria storia, ma le storie degli altri stavolta, e con una forza che fa pensare al lettore di essere in presenza di autentici scampoli di verità: 

 

Ho detto che io, al contrario, ero sempre più convinta dei pregi della passività, e del vivere una vita contrassegnata il meno possibile dall’ostinazione. Si poteva far accadere quasi qualunque cosa, se ci si sforzava abbastanza, ma il fatto di sforzarsi, a mio avviso, era quasi sempre un segno che si stava andando controcorrente, forzando gli eventi in una direzione che di per sé non avrebbero preso, e per quanto si possa asserire che non si combinerebbe mai nulla senza andare almeno in parte controcorrente, in tutta franchezza aborrivo l’artificiosità di tale visione e le sue conseguenze. C’era una grande differenza, ho aggiunto, fra ciò che io volevo e ciò che in apparenza potevo avere, e finché non mi fossi infine e per sempre pacificata con tale stato di cose, avevo deciso di non volere nulla di nulla. 

 

Rachel Cusk, Resoconto, traduzione di Anna Nadotti, Einaudi 2018, 17 euro.

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Rachel Cusk
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