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Sarah Moon

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A Milano, inaugurate durante la settimana della moda, si possono vedere due mostre dedicate a Sarah Moon. L’una, presso la Fondazione Sozzani, “Sara Moon. Time at Work”, si snoda in un arco temporale che va dal 1995 al 2018. È composta da circa novanta opere, oltre al cortometraggio “Contacts” del 1995 e al documentario “There is something about Lillian”, del 2001, dedicato alla fotografa di moda Lillian Bassman. Contemporaneamente, presso Armani/Silos, sotto il titolo “From one season to another”, vengono esposte 170 opere a colori e in bianco e nero e due cortometraggi.

In entrambe le mostre il tema centrale è il tempo: un insieme di istanti che se ne vanno, perdono la loro consistenza, si trasformano. Il vuoto pare essere tanto il punto d’arrivo di ogni istante, quanto lo spazio da colmare perché tutto non vada perduto e dimenticato. Così accade nel video del 2013 che si può vedere alla galleria Carla Sozzani, vera sintesi di tutta la mostra. Si intitola “Ou va le blanc”, la storia del tempo che passa e cancella”, scrive Sarah Moon.

Vi appaiono immagini che avrebbero dovuto essere stampate per un libro. La fotografa racconta che sono polaroid in positivo che non ha terminato, alcune inaspettate, altre rovinate, molte sbiadite: lo scheletro di un uccello, un cane addormentato, un automa, il volto di una donna che sta svanendo, una ragazzina che si abbassa per raccogliere qualcosa. Nulla è davvero afferrabile in queste immagini.

 

Sarah Moon, Audrey, 1998.


Sarah Moon, L'avant-dernière, 2008.


Guardarle significa scoprire, come in uno scavo archeologico, altri strati del reale: le immagini sopravvivono come brandelli dimenticati dalla corsa del tempo. Fiori, alberi, corpi, oggetti sono testimoni silenziosi. Non vi è un vero buio e nemmeno una vera luce, ma una bicromia imprecisa. Sarah Moon fotografa tutto con una tonalità lattiginosa, vaga. Eppure si ha l’impressione di balzare in un mondo saldo nelle sue forme indefinite. Il suo universo visivo è lieve quanto magnetico: l’assenza di luce avvicina alla notte, a un mondo colmo di presenze in procinto di scomparire nel buio. Stare fermi dinnanzi a queste fotografie equivale a fare i conti con la realtà ma anche con le sue alternative, con i suoi vuoti e le storie rimosse, ma non del tutto cancellate. Lo sguardo è un dito che scorre le immagini come pagine di un libro, ne sfiora la superficie. Pellicola in italiano significa “piccola pelle”, Sarah Moon dice che è “sensibile e fragile come se fosse viva e si distruggesse poco per volta”.

 

Sarah Moon, Fashion 06, Gauthier, 1998.


Ed è proprio in questo moto verso la disgregazione che la realtà, spesso impenetrabile, d’improvviso si sfalda. Appare diversa. La morte si allontana dal vuoto e si avvicina al sogno. I soggetti vengono avvolti da un crepuscolo incerto, al tempo stesso luogo della mortalità di tutte le cose e dell’emergere di nuova vita. Il cielo carico di nubi, le tracce del vento, il viso impaurito di una bambina dinnanzi a qualcosa che non possiamo vedere, hanno la consistenza di fantasmi che restano immobili dinnanzi a noi, proprio come quei sogni che non vogliono abbandonarci. In questo spazio ambiguo lo spettatore si interroga sulle sue paure, sui suoi bisogni, sui suoi desideri. E scopre una verità, che dapprima appare latente: guardare queste immagini è insieme un viaggio nel tempo e contro il tempo.

È voler rifiutare che la morte giunga dinnanzi a noi, poiché ogni gesto, nelle fotografie di Sarah Moon, è sospeso a un passo prima dell’oblio. Così, camminando avanti e indietro, senza seguire percorsi obbligati, chi guarda si prende gioco della paura più oscura e profonda, lasciandosi attirare in un mondo abitato da ombre.

 

Sarah Moon, Cotinga du Pérou et Trichoglossus du Timor, 2000.


Anche gli animali sono presenze misteriose. Osservare i corpi sinuosi, abbandonati mollemente o addormentati, è compiere un viaggio alla ricerca della dimensione magica e sciamanica dell’uomo. Forse addirittura di una condizione edenica, prima che venisse sancita la separazione tra uomo e animale. Cani, gabbiani, coccodrilli, uccelli, presenze disseminate in entrambe le mostre, sono le tracce dell’animalità che ognuno di noi porta con sé, specchi per sondare l’inconscio di ciascuno. Basti solo ricordare il grande scarafaggio kafkiano. Per Sarah Moon il pappagallo verde che occupa tutta la superficie del fotogramma, è un essere prediletto, un daimon, potenza intermediaria tra uomini e dei, qui tra realtà e sogno. La natura, animali e alberi, diceva Anna Maria Ortese, “sono l’uomo senza tempo, l’uomo che sogna”.

La mostra presso l’Armani/Silos è diversa. Le immagini sono di piccolo e grande formato, a colori e in bianco e nero e, anche per il contesto in cui vengono esposte, fanno riferimento principalmente al mondo della moda, che la fotografa conosce, essendo stata anch’essa modella negli anni Settanta. “La moda è effimera come le stagioni… Come i giardini, come il tempo che passa” ricorda la Moon nell’introduzione al suo libro “Vrais semblants” del 1991.

In questa esposizione, che ha un tono meno intimo, i soggetti hanno la consistenza di residui provenienti da altre dimensioni, trascinati nelle immagini da correnti invisibili. Ed anche qui c’è un’opera che sembra svelare il nucleo profondo dell’intera mostra: la fotografia di una modella vestita con un immenso abito a pois. Forse sta giocando. Si copre gli occhi per non vedere, o per non essere guardata. Sembra ergersi sulla linea di una soglia, di un confine invisibile, quasi a suggerire la presenza di qualcosa di incerto. È una bambola o una donna?

 

Sarah Moon, Coney Island, 2016.


Anche qui la linea che separa la realtà dall’illusione si fa indistinta. Si ha l’impressione che le fotografie delle scene circensi, degli edifici industriali, dei grandi fiori colorati rappresentino ciò che esiste oltre il visibile ed implichino un’esistenza non esibita, e quindi da esplorare, uno spazio al tempo stesso pieno e vuoto, superficie e negazione della superficie. Viene da chiedersi: si tratta della rappresentazione di un “memento mori”, uno spettacolo barocco che teatralizza la lenta degradazione dei corpi e degli oggetti? O la fotografa cerca di allontanare l’orrore della decomposizione preservando ciò che va scomparendo in attitudini quasi familiari, mostrando i soggetti abbelliti dal tempo e dalla polvere?

 

Le immagini di Sarah Moon sono occasioni perdute, promesse future o semplici inganni percettivi? La risposta è probabilmente nelle parole di T. S. Eliot impresse su una parete: “Tutto ciò che può essere stato e tutto ciò che è stato conduce a un solo fine che è il presente”. Ed è vero. Le fotografie di entrambe le mostre tengono i nostri sguardi immersi nelle loro forme, in quella sospensione del tempo che si verifica quando ci si abbandona al suo scorrere lieve: “come una bottiglia in mare, (…) un messaggio che galleggia”, scrive la fotografa, nel libro “Coincidenze” del 2001. 

Sta in questo la forza di ogni immagine fotografica: mostrare il qui e ora ed evocare l’istante in cui appare chiaro che ogni conoscenza è transizione verso altro e altrove.

 

Mostra: Fondazione Sozzani e Armani/Silos, Milano, dal 19 settembre 2018 al 6 gennaio 2019

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La fotografa degli istanti che se ne vanno
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Storie di ubriachezza

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Sono milioni gli individui che soprattutto verso sera entrano in un clima interiore fatto di ansia diffusa e aspettative strane, non ben definite, qualcosa che ha a che fare con la pulsione alla fuga, con il desiderio di evasione, di liberazione. C’è in loro un certo nervosismo. Ma tutto si placa, verso sera, quando appare una qualunque forma fenomenica del noumeno alcolico, dal prosecco al gin-martini… L’alcol sembra l’approdo, e l’alcol era il manque che innervosiva.

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Allestire un libro, leggere una mostra

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È uscito un libro strano e speciale. Si chiama Con mano che vede e lo ha scritto un artista, Claudio Ballestracci, progettista di opere, allestimenti, musei, sculture pubbliche che spesso hanno il loro innesco poetico – non è un caso – in vecchi magazzini, cumuli di scarti, luoghi in cui nessuno più mette piede da anni. Cascami di un mondo finito, o forse solo assopito, che ha interesse a far tornare in vita solo in virtù della sua eloquenza contemporanea: non assecondando operazioni nostalgiche, ma generando atti di ri-immaginazione, di ri-cognizione di un tempo e di un luogo. 

Siamo per lo più, ma non esclusivamente, in Romagna, territorio di adozione dell’artista, intessuto delle tracce di un passato recente che parla di colonie estive, pensioni con nomi femminili, spiagge cariche di promesse, orme felliniane. E poi, l’Hotel Mocambo.

 

Qui Claudio Ballestracci esplora il territorio nel suo emerso e nel suo sommerso: e c’è spesso, nella sua ricerca, la traccia del collegamento fra un sotto e un sopra, fra ciò che sta dietro e davanti alla parete: sono belli i racconti del suo muoversi negli spazi come un rabdomante, ma con la concretezza dell’idraulico che cerca la perdita nella tubazione, o del muratore che saggia la composizione del muro bussandoci sopra. Qui ha realizzato la maggior parte dei suoi interventi artistici: l’allestimento della casa museo di Alfredo Panzini a Bellaria-Igea Marina, quello per il museo Francesco Baracca a Lugo, le mostre (quella dedicata al CEIS di Rimini, quella per Giulietta Masina), molte installazioni in spazi pubblici a Rimini e Santarcangelo, con un andirivieni verso altri luoghi, anche molto lontani.

 

Archivio preparato.


Tanta parte della riflessione artistica e allestitiva (non c’è soluzione di continuità) di Claudio Ballestracci parte dalla forma del libro, e ancor prima dalla pagina nella sua materialità. Mettere in mostra il lavoro degli scrittori, della scrittura, è diventata nel tempo una sorta di sfida ai propri fantasmi. Aver adesso progettato un libro in cui raccontare tutto questo è un gesto interessante, tanto più se compiuto con l’umiltà di chi sa che allestire una mostra o un museo vuol dire fare un passo indietro e mettersi al servizio di un’idea: non parlare di sé. È, in questo senso, un progetto meraviglioso che è insieme strumento di studio e dichiarazione poetica, libro d’artista e viaggio nel processo creativo: quelli che si vorrebbe aver letto a vent’anni. È figlio di un atto di coraggio perché mette a nudo incidenti e intuizioni, pentimenti e salti in avanti, nessi e passi falsi. Ci si immerge fra le pagine come in una mappa intima e poetica, in cui non importa più quello che è stato realizzato o quello che è stato “solo” pensato, perché tutto trova un suo posto dentro il perimetro rigoroso ma sinuoso della progettazione. “Tenevo un diario. Da un certo momento la pagina non mi è più bastata”.

 

Allestire un libro

 

L’idea del volume nasce dal colloquio amicale e professionale con Maria Gregorio, raffinata traduttrice e studiosa di allestimento del materiale librario, cui ha dedicato fondamentali volumi (si veda per esempio Imago libri. Musei del libro in Europa, Sylvestre Bonnard). Partendo da una riflessione sulle case-museo degli scrittori, anche per il ruolo che ricopre all’interno del comitato dedicato di Icom-International Council of Museums, Maria Gregorio ha raccontato, per esempio, la casa di Goffedo Parise a Salgareda, in Veneto, curando I lembi dei ricordi. Ri(n)tracciare il paesaggio di Goffredo Parise, altro libro-processo di rara bellezza pubblicato da Antiga Edizioni.

 

Maria sa bene quanto il racconto dell’allestimento sia un territorio semideserto, ancora da abitare con parole, riflessioni e studi storici: per questo ha sollecitato Claudio Ballestracci, dapprima recalcitrante, a tendere dei fili dentro la sua produzione, cucendoli fino a formare diverse trame sovrapponibili o accostabili liberamente. All’Editore Panozzo il merito di aver pubblicato, con il patrocinio della Biennale del Disegno di Rimini, un volume di grande eleganza, le cui scelte tecniche – la carta, il formato, la copertina – parlano di una profonda cultura libraria. L’impaginazione, che intreccia il testo al disegno senza mai dissolverne la continuità, è un’opera d’arte a sé, ed è stata realizzata da Roberto Ballestracci.

Si può scegliere se leggere il testo accompagnandolo con i disegni, o viceversa; e si potrebbe anche provare ad abbandonarsi al fluire delle immagini, farsi guidare solo dagli schizzi a penna, caratterizzati da un tratto veloce ma sempre esecutivo, come fossero pronti per essere consegnati a un fabbro o a un elettricista, spesso in forma di esploso assonometrico: 

 

Bambini.


Ero catturato da tutte quelle linee che, dalle annotazioni, portavano lo sguardo al cuore del disegno scomposto; quindi, ai nascondigli più remoti di un’apparecchiatura elettrica, di un motore a scoppio o negli anfratti di un edificio. Più ancora mi affascinavano le linee che, tracciate velocemente, uscivano da uno schizzo – poco più che uno scarabocchio – per terminare dentro una calligrafia quasi illeggibile ma, nell’insieme, chiara espressione di un pensiero architettonico. 

Solo ad apertura di capitolo una fotografia dà conto del realizzato (quando esiste), ma sempre rinunciando alla descrizione. Non conta la visione d’insieme dello spazio, ma il racconto della sua gestazione: quanto è stato pensato, dunque desiderato.

 

Il tempo e i suoi tempi

 

La mia progettazione di allestimenti per mostre e musei segue a grandi linee questa procedura. Prima di ogni pensiero ho bisogno di conoscere lo spazio/scatola attorno al quale tramare la ‘trappola’ emotiva. A volte, i sopralluoghi diventano soste prolungate, permanenze, ricognizioni quasi residenziali. Stabilire il contatto, disporsi alla percezione dello spazio è come scegliere la carta su cui scrivere. Solitamente preferisco quelle usate, dove è possibile una scrittura sovrapposta, un disegno nel disegno, un allestimento che deve rapportarsi necessariamente con la vita del luogo prima del mio arrivo. Potendo scegliere lo spazio dove allestire, penso a certi muri stinti con fioriture di muffe azzurrognole o ammantati di parietaria, oppure a meravigliose stanze con il soffitto sfondato, per cui la pioggia ha fatto crescere un albero maestoso al centro del pavimento: sarebbe un buon foglio su cui disegnare pochissimo, poiché tutto è già predisposto.

 

L'isola dei nomi.


Vengono in mente tanti nomi di artisti che possono, forse, abitare l’orizzonte di Ballestracci: Joseph Cornell, i surrealisti, Louise Bourgeois, e poi molta fotografia del secondo Novecento, Giovanni Chiaramonte e la sua scuola per esempio, o progetti recenti di riscoperta dei luoghi come quelli, poeticissimi, di Davide Pagliarini, e poi forse anche l’allestimento del Museo dell’Innocenza di Orhan Pamuk a Istanbul (su cui è uscito recentemente Un sogno fatto a Milano. Dialoghi con Orhan Pamuk intorno alla poetica del museo, a cura di Laura Lombardi e Massimiliano Rossi, Johan and Levi). Il nome di Christian Boltanski mi sembra forse il più appropriato per la poetica che guarda al passato senza retorica né moralismo, ma con incisività e convinta forza politica. Valga per tutti l’allestimento del Museo per la Memoria della strage di Ustica a Bologna: quando Boltanski ripone gli oggetti appartenuti alle vittime entro casse nere, a proteggerle dalla curiosità e dall’usura, compie un atto di pietà che non richiede parole, e che toglie le parole. Pensavo a questo allestimento leggendo del progetto finalista di Ballestracci con Frederic Barogi per le vittime di Nassirya: scatole di ardesia che avrebbero racchiuso oggetti appartenuti alle vittime; sopra, solo il loro nome di battesimo.

 

Più che tracciare una geografia culturale, tuttavia, interessa cogliere la complessità del gesto che lega la carta su cui si disegna, lo spazio che si allestisce, e di nuovo la pagina su cui si fissa il progetto per renderlo pubblico. C’è un cerchio, infatti, che collega il libro come luogo dell’incanto e dell’ispirazione, il disegno, l’allestimento di mostre e musei, il sentimento di una responsabilità (verso la storia, la memoria, le città, gli spazi pubblici) e che si chiude infine su questo libro, paradigmaticamente contenitore e contenuto. “Nonostante la mia titubanza a nel mostrare ciò che disegno e scrivo nei miei quaderni di lavoro, una piccola fenditura sembra essersi dischiusa. Tant’è che ora mi trovo a lavorare all’altra parte, cercando di allestire un libro dall’interno, quasi mi trovassi in un edificio”. 

 

Mostrare, voce del verbo ascoltare

 

Il libro è organizzato in due parti: nella prima sono descritti i musei (il Musée Rabelais a Chinon, la Casa Rossa di Panzini a Bellaria-Igea Marina, il Museo Francesco Baracca a Lugo); nella seconda quelle definite “mostre di pubblica ragione”, che comprendono tanto le esposizioni temporanee quanto le installazioni in spazi pubblici, i progetti di monumenti e memoriali, le azioni puntuali come i laboratori con i bambini. 

 

Memoria dell'acqua.


Fermiamoci sui progetti per musei e mostre, avendo ormai compreso che valgono qui come esempio di un metodo. Ballestracci procede a spirale, partendo al contempo dal grande dello spazio e dal piccolo del reperto/documento. Si tratta di individuare il punto in cui queste due dimensioni si possono toccare, stando in equilibrio e rispettandosi a vicenda. E poi non deve mancare una dimensione di ricerca e di scoperta, una traccia dinamica affidata allo sguardo di chi osserva: 

Paradossalmente, proprio la trasparenza delle vetrine costruite per rendere esplicita l’opera diviene veicolo di mistero. Questo, a mio avviso, dovrebbe essere il cuore segreto della scatola/museo. Le biografie, le storie e gli oggetti impliciti nella morfologia di un museo dovrebbero condurre a un’altra dimensione narrativa. Una macchina costruita sul ricollocamento dell’oggetto indiziario in modo da consentire al pubblico di ricostruire la propria storia nella storia universale.

 

La circolarità, la delicata quasi-identità fra immagine e testo che è la protagonista del libro ritorna come tema costante anche negli allestimenti. 1999, mostra dedicata a Vittorio Belli, medico visionario e fondatore di Igea Marina: un tessuto istoriato da una calligrafa porta ai taccuini manoscritti. Estate 2010, Casa del fattore Finotti, integrata nel complesso museale della Casa Rossa di Panzini: le didascalie dell’Album di famiglia (così si chiamava la mostra, che esponeva le fotografie entro scatole di lamiera zincata), sono cartellini sostenuti da fil di ferro. 2013, proposta di allestimento temporaneo degli archivi della Regione Toscana, Firenze: qui i faldoni diventano grandi navi lunghe tre metri, che solcano lo spazio del palazzo storico. Nella stanza successiva, gli scaffali di documenti, apparentemente inerti, avrebbero rivelato – a tendere l’orecchio – un leggero ticchettio di nocche (“Di nuovo tutto tace, ma solamente per qualche istante. L’archivio è vivo!”). 

 

Studio Panzini.


Finire la frase interrotta, saldare mondi

 

Si tratta di mettersi al servizio di un luogo (una pensione, una piazza, un edificio rurale) per aiutarlo a portare a termine il suo discorso, interrotto dal passaggio del tempo, da una scomparsa, dal disinteresse delle istituzioni, dalla nostra distrazione. Saldare mondi: in senso stretto, perché qui si parla di manichette, fusibili, viti, bulloni, opere di scavo, tubazioni, protuberanze che collegano il sotto e il sopra, l’invisibile e il visibile, in un vocabolario spesso tecnico, sublimato nella magia ipnotica del cantiere, poiché come scrive scrive Peter Sloterdijk “mentre la discarica smaltisce i resti materiali dei cicli biologici in modo anonimo e verso il basso, il museo realizza uno smaltimento verso l’alto e verso la memoria”, (“Museo. Una scuola dello spaesamento”, ne L’imperativo estetico. Scritti sull’arte, Raffaello Cortina Editore). 

Un’intuizione rimbalza di qua e di là, l’idea non realizzata prende forma in un allestimento successivo, quel tema che scorreva carsico trova poi il punto di emersione, avendo atteso con pazienza l’occasione formale che lo portasse in vita. Nulla va sprecato: letti arrugginiti, partite di stoffe, vecchi lavabi, ipotesi formali.  

 

Questione di connessioni, di saldature: così, per esempio, dopo aver esplorato nottetempo la casa abbandonata dello scrittore Alfredo Panzini a Bellaria-Igea Marina che tanto lo affascina (“Incuriosito, ritorno più volte finché trovo un piccolo pertugio...”), Ballestracci ne immagina un’emanazione poetica in forma di monitor appesi agli alberi di quel giardino – momentaneamente aperto al pubblico – che trasmettono, al buio, immagini di ciò che avviene all’interno delle stanze grazie a dodici monitor a circuito chiuso (nulla, o forse invece, chissà?), accompagnandole con un sonoro composto da diversi musicisti. Quell’operazione, svolta con senso di urgenza e senza chiedere il permesso, piano piano chiama l’attenzione dell’amministrazione, che la acquisisce e ne affida all’artista il periodico riallestimento.

“Che cosa mi attrae di quel foglietto usurato, scarpa, calamaio, radice, altimetro e proiettile?”. Carte d’archivio, vecchie fotografie, l’icona della bicicletta tanto amata da Panzini, piccole teche, giochi di illuminazioni variabili, suoni. Un linguaggio che sa di officina, che parte dall’ascolto paziente dello spazio; una geografia sensibile di segni, volti, parole affiora dal passato e prende vita per parlare al presente: per suggerire, cioè, il valore politico e poetico della restituzione della storia; per raccontare vicende e biografie a un passo dall’essere dimenticate; per restituire ai paesi e alle città dei luoghi che le sappiano spiegare; per rappacificare il festivo e il feriale, il pieno e i suoi vuoti. 

 

Teca lanterna.


Ecco dunque un alfabeto di tropi che si rincorrono da un allestimento all’altro: il tabernacolo-reliquiario, come nell’allestimento della Casa degli Ercolani del 2017; il lavandino che raccoglie l’acqua nel gorgo e la porge a un altrove (Memoria dell’acqua, realizzata per la città di Rimini); il libro che diventa piccolissimo o enorme (fissato da morsetti, fatto sussurrare tramite tracce audio, oppure fiorito, come nel progetto in memoria delle vittime del terremoto di San Giuliano di Puglia); il tubo che connette e distribuisce (è la rielaborazione della biblioteca di Thélème progettata per il Musée Rabelais, in cui i tubi raccoglievano la linfa della conoscenza; sono i megafoni che, appoggiati ai muri delle case, avrebbero amplificato i pensieri lì prodotti, progettati per le luminarie natalizie di Santarcangelo); il letto, piccolissimo oppure altissimo, come ancora al Musée Rabelais, dove il sogno si protendeva verso l’alto e l’ignoto, oppure quelli dell’installazione permanente Pensione Oniria, dedicata a tutti i “depositi del sonno” della riviera adriatica.

 

Dalle pagine di Con mano che vede sprigiona un senso di meraviglia e di rigore insieme. Leggendolo, si ha l’impressione di essere seduti al tavolino di un bar con l’autore: Claudio, come è nata questa idea? E lui la racconta e la illustra con il suo tratto veloce eppure preciso, scrivendo i nomi delle parti: telaio, lampadina, perno. E poi trova un titolo poetico, e la lega a quello che ha pensato prima e dopo. E si segue, da un progetto all’altro, questa produzione coerente, che ha una radice antica, in cui l’allestimento non è forma di protagonismo ma di servizio: per questo deve essere un mediatore intelligente, specifico, che prende per mano il visitatore e lo porta più lontano possibile nella tessitura dei nessi e nell’intuizione dei significati. 

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Per un teatro minore – Babilonia Teatri

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“Ma quanto se la tira questa!” mormora sordamente la solita signora seduta accanto a me, qui in versione alternativa e indianeggiante (siamo a Short Theatre, santuario romano del teatro contemporaneo), la stessa che, alla fine di Calcinculo di Babilonia Teatri, urlerà a squarciagola “bravi, bravi!” con le braccia protese in un applauso pieno di fervida riconoscenza: all’inizio di ogni incanto c’è sempre un principio di avvelenamento, un lieve sentore di irritazione, e non è sempre facile stabilire se si tratti di quella particolare irritazione che, diceva Ortega y Gasset, “si rivolge immediatamente contro l’artista per rimbalzare però contro chi la prova, lasciandolo inquieto nei confronti di sé medesimo”. 

Ma la signora che da anni frequenta i miei tentativi di recensire spettacoli, sempre diversa e sempre la stessa, non ha tutti i torti: con la sua gonna sbriluccicante e multistrati, l’informale giubbetto jeans, il microfono che sfiora il grembo, Valeria Raimondi “se la tira” davvero moltissimo, è una star strapaesana che calca una scena dove per miracolo, sotto un basso firmamento di luci, il pavimento della sala prende il colore smorto della terra battuta – di quella povera terra spelacchiata su cui atterrano i circhi e le giostre di periferie – e tutto si intona a una derisoria minorità: macchine celibi da due soldi, come gli estintori che fanno garrire le bandiere con il leone alato della liga veneta, sfilate di cani accompagnati dai loro padroni e magnificati da Enrico Castellani nelle vesti di un afasico imbonitore, cori di finti alpini con barbe e capelli veramente bianchi, un avanspettacolo di illusioni raccolte dalla polvere del paese profondo destinate a sgretolarsi appena si materializzano sul palco.

 

Con la differenza che la Raimondi è strepitosamente brava, non solo perché sa cantare ma perché la sua gestualità è sempre in bilico tra la parodia e l’apologia della performance rock-pop, tra l’intrattenimento e il suo brusco precipizio, nascosto nei testi delle canzoni come un innesco esplosivo sotto i cumuli di vestiti di un kamikaze: senza soluzione di continuità seduce e graffia, conquista e respinge, la sua sfrontatezza si spinge fino ad apparire innocente, la sua vitalità fino a far dimenticare che il suo refrain più struggente è un inno brutale al male del secolo, “la mia depressione fa orario continuato / ho chiesto il part time ma non gliel’hanno dato / mi sono suicidato”. 

 

 

Funziona così con i Babilonia, da sempre e non da oggi: la potenza dei loro spettacoli è spesso concentrata nel metro, e dunque nell’oblio, non nell’accento (cioè nella memoria) con una scansione poematica talmente veloce e fluviale che gli spettatori non hanno il tempo, lì per lì, di trattenere o di decifrare tutti i detriti, gli idioletti, le invettive, le ustioni che la sua colata lavica si porta appresso, si ritrovano ricoperti di tagli quasi senza essersene accorti, il ritmo incalzante, la musica, la confezione spettacolare perfetta (e anch’essa contraddittoria nel suo sposare l’alto e il basso, il sontuoso e lo squallido) li ha anestetizzati. Ogni ferita è destinata a riaprirsi soltanto dopo, a cose fatte, appena il corpo riconquista la sua intimità con la notte, confermando la regola aurea a suo tempo enunciata da Claudio Morganti: lo spettacolo finisce quando finisce, il teatro comincia con (dal)la sua fine. 

 

 

Calcinculoè un concerto punk ambientato in una sagra di paese e ci vuol poco a capire che il suo comando più imperioso, la sua attrazione più invincibile non parlano tanto agli occhi, quanto a quell’organo eminentemente speculativo che è l’orecchio. Da ogni personaggio di cui Castellani e Raimondi, cantando o declamando i loro cori, disegnano l’ombra – tutto quello che ci resta del caro vecchio personaggio nel mondo in cui i comportamenti hanno definitivamente soppianto le azioni – un animoso frammento dell’attuale Cacania italica si stacca e si trasforma musicalmente in tema, con tanto di variazioni. Si va da una libertà canzonettistica che evoca immediatamente il suo contrario (Voglio la mia libertà // Mi chiudo in casa con doppia mandata / inchiodo la porta / la saldo / la blindo”) al delirio paranoico della paura percepita srotolato fino ai suoi esiti più paradossali (lasciare la porta aperta ai ladri e segregare la progenie sin dalla più tenera età), dalla canzone Comunista, che in realtà è un inno al solipsismo, fino a un poemetto, anch’esso macinato dal frugale e stentoreo dispositivo vocale dei Babilonia – qualcosa che ricorda i vecchi mitragliatori a rullo – in cui Enrico Castellani tocca il culmine di violenza e di lucidità della sua drammaturgia poetica proclamando di voler smettere di fare teatro perché c’è gente che “dentro e fuori dei teatri compie azioni che non hanno eguali”. Ed è proprio perché l’autore e performer veneto lo dice, sottraendolo a qualunque simulazione, a qualunque ammiccamento visivo, che l’atto terroristico nell’accezione ormai celebre di “grandiosa opera d’arte” (Stockhausen dopo l’11 settembre) perde qualunque ridondanza possibile (come invece accadde nella messinscena della Fura dels Baus dedicata al Dubrovka di Mosca): contro ogni tentazione di rispondere allo spettacolo con lo spettacolo, l’attentato clamoroso compiuto da “gente che in nome della buona riuscita dello spettacolo rinuncia alla vita e alla morte” viene reintrodotto in un discorso critico – critico non del terrorismo ma, appunto, dello spettacolo come forma suprema delle relazioni tra gli uomini. 

 

 

Crisi della spettacolarità generale, letterale, sanguinosa caduta dell’intero ordine spettacolare che l’ironia congenita del gruppo presenta nelle mentite spoglie di ciò che su tutte le scene appare più desiderabile: il successo (e, colpo mortale a certo letteralismo delle avanguardie, quel particolare successo in cui l’arte sposa la vita fino a morirne). È qui che il gioco al rilancio dei calcinculo sferra la pedata decisiva che scaglia il seggiolino fino all’azzurro più vuoto e vertiginoso, ma siamo solo in un atterrito luna park dove ce n’è per tutti – per gli ottanta euro renziani e per il “respiro asfittico, pentastellatico”, per il suprematismo delle leghe e per la liberistica società della trasparenza – un calcio in culo non si nega a nessuno, a cominciare, come ogni satira che si rispetti, da noi stessi: a forza di rotolare in su e in giù, anche la verità rischia di passare inosservata, ma non l’inavvertita striscia di sangue che il suo passaggio ci lascia sulla faccia. I cani sfilano, gli alpini cantano. Sta qui la forza inattuale del teatro minore dei Babilonia, nel nascondere la loro potenza testuale tra gli ammennicoli della più risibile insignificanza e nel farne brillare la mina al momento giusto, con tutto il rabbioso, luminoso umanismo di cui (loro e il teatro) sono capaci. 

 

Le foto di Calcinculo sono di Eleonora Cavallo.

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Godard. Tableaux, Films, Textes

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Si potrebbe dire che un trailer ha sempre davanti a sé la possibilità di scegliere tra due modalità. La prima ha a che fare con l'essere il film attraverso un montaggio narrativo che ne riporta spezzoni in modo coerente e comprensibile, e principalmente neutrale; la seconda – più rara e variamente declinata – è presentare il film, ponendosi come suo commento esterno. Sono scelte inversamente proporzionali: laddove c'è il film che parla da sé c'è meno spazio per qualcuno che parli al posto suo. Nel caso in questione riesce ad essere entrambe le cose, e vediamo perché.

 

https://www.youtube.com/watch?v=4wwyXcdMJzo

 

Nel trailer di Lelivre d'image sembra esserci tutto, tranne proprio quelle immagini che si suppone andremo a vedere. Musiche off, voci fuori campo che annunciano l'inizio delle riprese di un film (è il primo ciak dell'Odissea nel Disprezzo, per la regia di Fritz Lang nel ruolo di se stesso), soprattutto silenzi, titoli – evidentemente – di film che vanno e vengono a intermittenza, sospensioni, tracce grafiche che scompaiono per riapparire, la scritta “musique” che entra solo nell'assenza della musica, preceduta da altre scritte, altrettanto indecifrabili, in sovraimpressione. Tableaux, Films, Textes. Tutto s'interrompe all'improvviso per poi riprendere allo stesso punto. A presentificare le grandi assenti ci pensa il titolo, che interviene in senso compensativo: Le livre d'image. Che stiamo vedendo? È a lui che ricorre lo spettatore, per identificare una forma di ancoraggio in dorsale per la visione del trailer. Insomma, defezioni di audio, problemi di lettura dell'immagine. A essere sinceri, l'effetto complessivo sembra legato piuttosto a una questione di malfunzionamento del proiettore; poi, ci viene il sospetto che sia tutto legittimo: in fondo è un trailer, per di più di Jean-Luc Godard. 

 

 

L'assemblaggio casuale di tagli è prassi, e qui la manipolazione è ampiamente dichiarata. A conferma di ciò, gli stessi colori di sempre, cari al regista, il blu, il rosso e il bianco lavorano il testo artificialmente, delineandolo cioè come un oggetto su cui interviene un'operazione di natura artistica, laddove invece ci saremmo aspettati anche solo il mero assemblaggio di tagli senza particolari sforzi. In altre parole è il trailer perfetto, nell'apoteosi delle sue potenzialità. Nasconde 

tutto, e quel poco che mostra è difettoso, complicato, incompleto, opaco; è un trailer che non solo non lascia vedere il film ma non lascia vedere neanche se stesso. Godard se lo può permettere. Risulta accattivante perché è Godard certo, ma è così che andrebbero fatti i trailer, tutti.  

Capita qualche volta che queste anticipazioni possano lasciarci assorbiti in un mood di cui certi film fin dalle prime inquadrature si preoccupano di mettere in discussione il ricordo. Qui invece la proiezione si pone subito in una linea di continuità rispetto al film, sotto tutti i punti di vista (ritmo, atmosfera, stile), soprattutto perché a sua volta, non esiste linea di continuità interna al film. Sembrava un trailer e invece è il film; sembrava una manipolazione finalizzata al trailer e invece è addirittura un campione (dello stile del film), prelevato peraltro in blocco dalla pellicola (è la sua parte conclusiva). Ci troviamo di fronte a uno di quei casi rari casi in cui addebitiamo la forma del trailer a qualcosa che gli è congenito, salvo scoprire che resta fedele alla forma stessa del film, perché anche il film è un commento sul cinema fatto della stessa materia cinematografica (a cominciare dell'elenco di film che propone), qualcosa sia di interno che di esterno a se stesso.

 

 

Si diceva nel trailer, i silenzi. E se c'è qualcosa che è strano al cinema, è proprio il silenzio, da affrontare in una sala buia e gremita, l'Astra dell'Anteo, dove il film viene presentato nella sezione Fuori Concorso della 23esima edizione del Milano Film Festival, dopo aver vinto la Palma Speciale a Cannes, introdotto da Mitra Farahani, una delle produttrici, che lo definisce “un affresco” e ci invita a soffermarci sul décalage tra le immagini e le parole. Il fatto però è che tra le parole e le immagini c'è ben più di un décalage. Ci sono prima di tutto dei vuoti critici, provocatori. In assenza di trama, il film diventa un'esperienza di natura sensoriale (da qualche parte è stato detto che farà il giro dei più importanti musei come opera interattiva), che coinvolge la percezione uditiva e visiva, impedendola nell'ufficio delle sue regolari funzioni. Si ode l'insofferenza del pubblico, di fronte a un confezionamento inconsueto. È parte della visione, ne integra gli interstizi, in mancanza di un rapimento che lascia senza fiato. In rima con il trailer che l'ha preceduto, anche qui il sonoro non lineare corona una visione inceppata. Frasi già cominciate o interrotte sul più bello (proprio mentre qualcuno è in procinto di dire “ti amo”), ripetizioni, fermi immagine, ralenti, sovraesposizione, sovrapposizioni, contraddizioni (“montage interdit”). Lo sparpagliamento del senso articola una visione disturbata fatta di accostamenti di materie eterogenee che rassomiglia al risultato stridente di una ricerca della frequenza giusta della radio, o un banale zapping (come si diceva un tempo) tra programmi televisivi, che se niente dirà del singolo contenuto sicuramente molto rivelerà al contrario del mezzo in sé. 

 

 

Tutte le risorse del cinema concorrono a definire il risultato finale che ci si ricompone davanti a ricordarci in definitiva tutto quello che può voler dire (o aver voluto dire) lavorare sulle immagini in senso cinematografico; quella a cui assistiamo è tutta la storia del cinema (una nuova histoire(s) du cinéma) in senso linguistico, prima ancora che in quanto repertorio di immagini, col suo trailer sul cinema tutto, inteso in senso formale. È uno spot (con un occhio di riguardo nei confronti del copywriting), un'antologia, una teoria, un saggio, talmente colto che rende utopistica qualsiasi pretesa di coglierne tutti i riferimenti. In quest'intreccio tra cinema e letteratura, si isolano immagini, frasi, musiche particolarmente care. Come esplicitamente dichiara una frase in sottotitolo che, tra le tante, viene selezionata e citata dallo stesso Godard con voce fuori campo rauca, tossente, anch'essa quindi zoppicante: “solo il frammento porta la marca dell'autenticità” (“ci vuole un'eternità per fare la storia di un giorno”, cioè la frammentazione, l'estrema sintesi). Questo è il suo manifesto. Ma nel momento in cui si depone per sempre la speranza di capire, prende piede la sensazione che stia per ricompattarsi una trama politica. Politica, come dev’essere ogni rivoluzione.

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Romantic Italia

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Lucio Dalla una volta ha detto: “Le canzoni poi sono una cosa minima ma quando ti agguantano …”. Lo disse durante il concerto Work in progress raccontando la commozione e l’invidia che provò ascoltando per la prima volta Santa Lucia di De Gregori. Dalla parla per un paio di minuti – se dovesse venirvi voglia di cercare il video su youtube non lo trovereste più, purtroppo, ed è un peccato, perché Dalla sapeva anche raccontarla oltreché cantarla – e riesce a portarci dentro quel pezzo in una maniera unica. Lucio, ascoltatore in quel momento, come tutti noi, dovette accostare la macchina e fermarsi perché la canzone lo aveva agguantato. “Se fossi uno stronzo vi direi che ho pianto, ma siccome sono uno stronzo ve lo dico”. Questo frammento mi è tornato in mente appena ho cominciato a leggere l’introduzione a Romantic Italia (minimum fax, 2018) che la stessa Giulia Cavaliere scrive. Ho capito che l’autrice ha ben presente l’importanza di quella cosa minima e di come ci accompagni, ci aiuti, ci rappresenti, ci dica qualcosa di noi, ci sconvolga e chissà che altro ancora nel corso della nostra vita. Siamo fatti della stessa melodia delle canzoni che abbiamo ascoltato, arrangiati più o meno bene a seconda delle nostre ragioni e stagioni.

«[…] nella mia cameretta io salvavo le canzoni dall’invisibile e incombente macero del tempo e loro salvavano me dalla fatica dolorosa di descrivere e dire, da sola, l’indescrivibile e l’indicibile.»

Già.

 

Cavaliere mette in guardia i lettori e li rassicura; la scelta dei brani è ovviamente molto personale e non potrebbe essere altrimenti, io stesso avrei sostituito alcune canzoni con altre, ma veramente poche. Le canzoni romantiche appartengono a chi le ha ascoltate e a chi se le è portate appresso. È la musica leggera, bellezza, come Cavaliere stessa scrive. Quello che il sottoscritto e i lettori non sarebbero in grado di fare è costruire un libro come questo che si regge su un perfetto rapporto analisi critica / sentimento; un libro che ci porta per mano in più di cinquant’anni di canzoni italiane d’amore, che ci spiega qualcosa intanto che ci ricorda di noi. Lo fa attraverso una prosa bella, armoniosa, che non indugia in retorica o svenevolezze, ma che induce invece a un ritorno sentimentale, che sa di jukebox e di divani dai quali abbiamo guardato le finali di Sanremo con gli amici, innamorandoci cantando in coro “La cambio io la vita che non ce la fa a cambiare te …”.

È evidente che per invogliarvi a comprare il libro mi basterebbe fare un copia e incolla dell’indice, ma non siamo venditori, siamo cani romantici, siamo malinconici ascoltatori di canzoni alla radio, siamo quelli che hanno ricopiato parti di testi sul diario per poi mostrarli alla compagna di banco nel vano tentativo di fare colpo con il ritornello giusto. 

 

 

Nel libro troverete Lucio Battisti e Nilla Pizzi, De Gregori e De André, Tenco e Conte, Umberto Bindi e Rita Pavone, Gino Paoli e Mia Martini, Guccini e Carboni, i Baustelle e Nada, Anna Oxa e Fossati e Venditti, e i Pooh, e Modugno, e Ciampi, e Vasco Rossi, e i Decibel, e Califano, e Gaetano, e Rettore e Bertè, e Umberto Tozzi, e Morgan, e Battiato. E così via.

Li troverete con una canzone o con più canzoni, con la vostra canzone preferita e con una che non avrete mai ascoltato, con una che detestate (a me è successo), con una che avreste voluto ascoltare meglio, con un’altra che vi sarebbe servita in un momento diverso della vita. Con i capolavori che ci risolvono le giornate da molti anni, e in Romantic Italia di capolavori ce ne sono diversi.

 

Giulia Cavaliere sceglie quasi tutti brani che hanno significato un cambiamento nella percezione della canzone d’amore, uno scatto in avanti, e per ognuno di questi brani contestualizza il periodo storico, svela un aneddoto, ci racconta un dettaglio del testo che ci era sfuggito (pur conoscendolo, noi altri fissati, a memoria), ci spiega la particolare innovazione di un arrangiamento o di un uso nuovo di una parola. 

Si comincia con la sottovalutazione totale di Un’avventura di Battisti, brano, secondo i critici del tempo, destinato a essere dimenticato in un lampo, brano che invece fu un punto d’unione tra la classica canzone d’amore e l’innovazione musicale e testuale. Tutto racchiuso in quel “perché io sono innamorato / e sempre di più”, di una semplicità straordinaria eppure sconvolgente, come sempre è stato Battisti. 

Non poteva mancare Rimmel di De Gregori che arrivò a insegnare un nuovo modo di scrivere la canzone d’amore. Dopo Rimmel tutto è cambiato. Il brano (come succede con altri nel libro) parla con un altro capolavoro del cantautore romano, Cardiologia, scritta trentuno anni dopo, “si gioca per vincere e non si gioca per partecipare”. Cavaliere scrive che De Gregori risponde al se stesso lontano. L’innovazione di Luigi Tenco, il capolavoro senza inciso di Gino Paoli: Il cielo in una stanza, il prepotente arrivo sulle scene di La voce del padrone di Battiato, il preciso istante in cui in un testo di musica pop precipitarono i gesuiti e gli euclidei. Brani che tutti sapevano a memoria e cantavano e ballavano, senza sapere cosa fosse il senso del possesso prealessandrino, ma a chi gliene importava. E mi ricordo una festa data da amici dei miei genitori in cui tutti, dai trentenni ai sessantenni ballarono per tutta la sera l’intero album, cantandolo a memoria, tra lo stupore di due bambini che eravamo io e mia sorella. 

 

Cavaliere ci ricorda la gratitudine che dobbiamo a Franco Battiato e agli altri. Ci fa provare malinconia ripensando al talento di Morgan e a quel disco stupendo che è Le canzoni dell’appartamento. Ci spiega la capacità dei Baustelle di reinventare il colto nel pop, di far struggere e ballare, e far cantare per mesi interi al sottoscritto (e non solo) le loro canzoni, il caso più recente è Baby. La commozione che ci prende a ripensare a Mia Martini e alla sua versione di La costruzione di un amore, scritta e cantata poi da Ivano Fossati, e al tormento della loro storia d’amore. Fossati poi presente, in altri capitoli, con alcune delle canzoni assolutamente indimenticabili degli ultimi quarant’anni, come Pensiero Stupendo o Un’emozione da poco; interpretate dalle stupefacenti Patty Pravo e Anna Oxa. La delicatezza di Sergio Endrigo, quanto siamo stati fortunati. E Jannacci – unico – che ci manca tanto. Il Baglioni di Strada facendo che mi rimanda a un altro Baglioni, quello che faceva ballare mia mamma con me in braccio passi di felicità. Potrei andare avanti a lungo, ma voi sareste già altrove con il libro in mano e i dischi che suonano.

 

Tra le tante, lascio per ultima Cara di Lucio Dalla, che è a mio avviso la più bella canzone italiana di sempre. Un brano struggente e misterioso, come ribadisce Cavaliere, magico e inafferrabile. Mi pare che introducendola a un concerto a Piacenza, Dalla disse, più o meno: “Dovete chiudere un po’ gli occhi e immaginare quello che volete, tanto quello che volevo io l’ho già immaginato quando l’ho scritta”. 

«Le immagini si susseguono e non dipendono mai una dall’altra ma riescono a comporre un quadro sentimentale struggente, a suo modo devastante, capace di farci percepire i sensi mossi da questo incontro, dalla sua inevitabilità attraverso i tempi, dalla sua fatalità.»

Già, di nuovo.

Cavaliere ha scritto un bellissimo libro, importante per la storia della nostra canzone e per noi, che siamo ritornati nelle nostre camerette e nelle nostre cucine, durante i pranzi del sabato e la radio appoggiata sul frigorifero che trasmetteva la Hit-Parade.

“Io qui che sto morendo e tu che mangi il gelato”. La forza minima e inarrivabile.

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È in corso una grande guerra spirituale. Questo libro ce la racconta, insegnandoci a combatterla fino in fondo. Proveremo a utilizzare gli scritti di Huxley sulla psichedelia per mostrare il senso di ciò che sta capitando, l’urgenza di questa guerra e la radice millenaria che la sostiene. Per farlo ci inoltreremo in radure fiammeggianti dove inciamperemo in pietre preziose, incontreremo persone sconvolgenti, arriveremo al punto aurorale in cui potremmo dire che sta iniziando qualcosa di nuovo. Non sarà una semplice passeggiata tra idee rassicuranti. Era un mattino di maggio del 1953 quando, all’età di cinquantanove anni, Aldous Huxley provò per la prima volta la mescalina, un alcaloide contenuto nel peyote, la pianta sacra del deserto messicano. Ne assunse quattro decimi di un grammo in mezzo bicchiere d’acqua ed era, ne siamo sicuri, una giornata luminosa. La mescalina gliela portò dal Canada il dottor Humphry Osmond, lo psichiatra inglese che inventò il termine «psichedelia», un uomo in tweed e occhiali, molto serio, educato e premuroso: si fece tremila chilometri per raggiungere la casa di Huxley, a Los Angeles, un viaggio che lui stesso definì improbabile. Osmond tremava, temeva di condurre alla follia uno dei più grandi scrittori della sua epoca, un grande intellettuale, un erudito inesauribile, un autore la cui opera era già entrata nel canone dei classici. Huxley si era interessato a un lavoro di Osmond di psicologia clinica sull’utilizzo della mescalina per curare la schizofrenia e contemporaneamente aveva sviluppato un interesse per il misticismo. Nel suo romanzo più famoso, Il mondo nuovo (1932), Huxley era già arrivato al punto in cui i suoi nuovi interessi dovevano trovare una soluzione: aveva descritto una società totalitaria del futuro controllata e sottomessa dall’utilizzo di una droga, chiamata come la sacra bevanda descritta nei testi sacri induisti, il soma, capace di produrre tre diversi effetti tra loro impossibili da combinare: euforico, allucinante e sedativo. La società del mondo nuovo esercitava la sua tirannia attraverso la gioia indotta dall’eugenetica e dalla narcotizzazione delle menti. Vale la pena riportare un brano racchiuso in questo volume e tratto da una conferenza che Huxley tenne nel 1959, ventisette anni dopo la pubblicazione del suo romanzo: 

 

Veniamo da ultimo al tema dell’aggressione degli esseri umani a livello fisiologico tramite mezzi farmacologici. A questo punto è necessario chiederci quale uso si farà dei farmaci che saranno prodotti. Come possiamo essere sicuri che non verranno commessi abusi? Inevitabilmente, prima o poi, la ricerca elaborerà uno psicofarmaco euforico più efficace e meno dannoso dell’alcol e questa sostanza... potrà diventare nelle mani di un dittatore uno strumento assai potente, come ho messo in evidenza più di vent’anni fa nel Mondo nuovo... Era naturalmente una fantasia, ma una fantasia che oggi è assai più prossima a realizzarsi di quanto pensassi allora. È inevitabile perciò che, più o meno nel tempo di una generazione, venga inventato un metodo farmacologico che porterà gli uomini ad amare la loro sudditanza e, per così dire, produrrà dittature senza lacrime, una sorta di campo di concentramento indolore... (qui a p. 205) 

 

L’invito di Huxley a Osmond, in quel maggio del 1953, era una reazione a questo pericolo. E le sostanze psichedeliche erano una possibile soluzione a una società che si stava organizzando e chiudendo, tra propaganda, tecnica e farmaceutica, verso il controllo delle menti. Occorreva dunque un’azione uguale e contraria che favorisse l’apertura e che fosse capace di fare emergere la parte migliore dell’essere umano: alla narcosi si doveva opporre l’illuminazione. Usciti dalla Seconda guerra mondiale, eravamo già entrati nell’era atomica: contro l’istinto di morte si doveva generare l’istinto creativo. Sono più o meno le stesse idee ripetute, qualche anno dopo e a migliaia di chilometri di distanza da Los Angeles, da Elsa Morante nella sua famosa conferenza del 1965 a Torino sulla bomba atomica: «La nostra bomba» diceva Elsa Morante «è il fiore, ossia la espressione naturale della nostra società contemporanea, così come i dialoghi di Platone lo sono della città greca; il Colosseo, dei Romani imperiali; le Madonne di Raffaello, dell’Umanesimo italiano; le gondole, della nobiltà veneziana; la tarantella, di certe popolazioni rustiche meridionali; e i campi di sterminio, della cultura piccolo-borghese burocratica già infetta da una rabbia di suicidio atomico». La grande intuizione di Huxley è rivoluzionaria e le parole di Elsa Morante servono solo a illuminarla meglio: esattamente come i dialoghi platonici erano l’espressione della città greca e la bomba atomica espressione della società contemporanea, per Huxley era necessario trovare una manifestazione con cui edificare una civiltà alternativa a quella che si stava prefigurando; e l’LSD, la mescalina, i funghi allucinogeni, insomma le sostanze psichedeliche, potevano avere le caratteristiche per diventare in un certo senso le Madonne di Raffaello di un rinnovato Umanesimo. Eravamo negli anni Cinquanta, e Huxley stava iniziando a percorrere una strada affascinante e pericolosa, nuovissima e antichissima nello stesso tempo. Le linee essenziali di questo percorso si leggono nella risposta alla domanda che nel 1961 Huxley rivolse ai partecipanti di un convegno internazionale di psicologi: «Perché le pietre preziose sono preziose?». Sembra, ed è, una domanda da maestro Zen e da bambino insolente. Anche in questo caso è necessario riportare un brano: 

 

... a tal proposito citerò un filosofo antico, Plotino, il più grande dei neoplatonici, che in un passo molto interessante e profondamente significativo dice: «Nel mondo intelligibile, che è il mondo delle idee platoniche, tutto risplende; di conseguenza, la cosa più bella nel nostro mondo è il fuoco». Questa osservazione è significativa per vari motivi. In primo luogo, mi interessa profondamente perché mostra che una grande struttura metafisica, la struttura platonica e neoplatonica, fu costruita essenzialmente su un’esperienza quasi sensoriale... Nel Fedone, Socrate parla del mondo postumo nel quale vanno gli uomini buoni dopo la morte... quello che Socrate dice di quel mondo – che lui chiama «la terra lassù» – è che lì tutto risplende, che le pietre della strada e delle montagne hanno le stesse qualità delle pietre preziose, e conclude dicendo che le pietre preziose della nostra terra, i nostri apprezzati smeraldi, rubini e via dicendo sono soltanto frammenti infinitesimali delle pietre che si vedono nell’altra terra... penso che a questo punto si cominci a capire perché le pietre preziose sono preziose: sono preziose perché richiamano alla mente qualcosa che già esiste nella nostra mente. (qui a p. 229) 

 

 

Huxley, che sin da ragazzo soffriva di gravi problemi alla vista, era alla ricerca della Visione. Sapeva che ogni visione autentica è ricordo e risvegliamento di una memoria inconscia. Sapeva che il desiderio di accedere alla visione, il desiderio di aprire le porte della percezione, è lo slancio che l’umanità insegue sin dalle sue origini. Il culto per le pietre preziose è solo una delle molte tracce di questo istinto primordiale comune a tutte le culture umane. Detto in altri termini, l’essere umano è un tossicodipendente di Dio, uno gnostico che ha assaggiato la divinità in tempi immemorabili, e tutta la sua vita, tutta la sua storia, è il tentativo disperato di recuperare quel paradiso perduto, di liberarsi da quell’arrancante se stesso che è diventato, forse per dannazione o magari per caduta incolpevole. Come ripetevano gli antichi, la conoscenza è innanzitutto ebrezza e follia, cioè estasi e danza, e Huxley pazientemente spiega, sulla scorta delle riflessioni di uno dei più grandi filosofi americani vissuti a cavallo tra Ottocento e Novecento, William James, che nessun essere umano è immune da questo desiderio; anche il più disgraziato tra gli alcolisti, per esempio, è un mistico mancato. Ecco il ragionamento di James che Huxley fa proprio: la sobrietà porta a svalutare, discriminare e dire di no. L’ebrezza invece amplifica, unisce e dice di sì. L’alcol, per l’ultimo degli ubriaconi, è il grande agente del Sì. Trasporta i suoi poveri adepti dalla fredda periferia delle cose al loro cuore splendente, li rende tutt’uno con la verità. La coscienza di un alcolista è una piccola parte della coscienza mistica. Insomma, ogni aspetto della vita dell’uomo, dall’arte alla guerra distruttiva, dalla devastante tossicodipendenza alla curiosità scientifica, è il segno di un’estasi perduta e rimpianta. E l’unico salto di civiltà possibile, per Huxley, è trovare il modo di accedere a quel piano superiore di visione che l’uomo reclama sin dalla notte dei tempi. 

 

Quello che successe a Huxley in quella luminosa mattina di maggio del 1953 fu l’inizio di questa rivoluzione copernicana, quella che in anni di poco successivi fu chiamata «rivoluzione psichedelica»: perché Huxley riuscì a accedere alla Visione e a tornare indietro con un bagaglio concettuale e immaginativo che pochi altri erano in grado di formulare, e lo fece semplicemente, senza attendere un’ipotetica intercessione divina, senza tecniche di respirazione orientali, senza digiuni e privazioni del sonno, senza mortificazioni corporali, semplicemente assumendo la mescalina che il dottor Osmond gli portò dopo il suo lungo e improbabile viaggio dal Canada; ripetendo un rito antico comune alla sapienza di tutti i popoli, la somministrazione rituale di sostanze capaci di generare l’estasi, Huxley aveva ritrovato la pietra filosofale della grande fatica degli uomini. Nel suo ultimo e indispensabile libro, How to Change Your Mind, uno dei più autorevoli giornalisti scientifici viventi, Michael Pollan l’ha scritto bene: Huxley è colui che ha dato gli strumenti concettuali e le immagini che sono state necessarie per definire e per fare progredire la nascita e lo sviluppo della moderna psichedelia, sia dal punto di vista teorico sia dal punto di vista pratico e politico. Nelle Porte della percezione, cioè nel libro in cui racconta la sua esperienza del 1953, Huxley prova a spiegare filosoficamente che cosa accade durante la Visione. È come se l’uomo, il cui cervello è costruito per percepire e concepire la realtà sulla base di un’utilità biologica legata alla sua sopravvivenza, grazie agli psichedelici riesca ad allentare le sue maglie e i suoi filtri cognitivi aprendosi così alla contemplazione della cosa in sé. In questo modo la realtà che lo circonda può manifestarsi in quanto tale, libera da ogni funzionalità, risplendendo per quello che è, affrancata da ogni finalità strumentale, proprio come se fosse un’opera d’arte: è il fuoco di Plotino.

 

Ed è solo l’uomo immortale, che è tale solo quando si libera dal demone della sopravvivenza, che è capace di averne visione. «La mescalina» scrive Huxley «mi aveva liberato, il mondo degli Io, del tempo, dei giudizi morali e delle considerazioni utilitarie, il mondo... dell’autoaffermazione, della presunzione, delle parole sopravvalutate e delle nozioni adorate idolatricamente... desideravo di essere lasciato solo con l’eternità in un fiore, l’Infinito in quattro gambe di sedia e l’Assoluto nelle pieghe di un paio di calzoni di flanella!» Abolizione dello spazio e del tempo, dissoluzione dell’arrancante e odioso Io, ricongiungimento con un universo archetipico di cui l’uomo mostra da sempre traccia nella nostalgia e nella nevrosi dell’estasi perduta, possibilità di accedere in un regno di luce da cui provare a costruire la vera alternativa al mondo totalitario del pericolo atomico e della psicofarmacologia narcotizzante di massa. Ecco perché per Huxley le sostanze psichedeliche sono le Madonne di Raffaello di un nuovo umanesimo possibile. Ecco perché, dopo Huxley, la rivoluzione psichedelica ha tentato di diventare, con sorti alterne e controverse, per esempio in Timothy Leary e nella beat generation, pratica politica per la guerra spirituale contro le forze della chiusura e dell’istinto di morte. È la guerra di Parmenide per superare l’illusione della realtà, è la guerra di Spinoza e di Giordano Bruno contro la superstizione che diventa sistema violento, è la guerra di Freud e di Jung per il riconoscimento dell’inconscio, è la guerra delle avanguardie artistiche e musicali, è la guerra delle lotte per la liberazione dei corpi, è la guerra dei poeti e dei diseredati e delle rockstar maledette, è la guerra degli scienziati che non rinunciano alla libertà di ricerca, è la guerra degli innamorati e dei liberi pensatori, è la guerra dei matti e dei Don Chisciotte: è una guerra gnostica, una guerra sapienziale, una guerra che ciascun uomo combatte innanzitutto con se stesso, contro il terrore della morte e la paura di cadere nella follia. 

 

La battaglia psichedelica, proprio nei nostri tempi, sta vivendo una straordinaria rinascita. La comunità scientifica sta parlando di una vera e propria Psychedelic Renaissance. E se Huxley fosse ancora qui con noi, anche Osmond saprebbe ritrovarlo: Huxley passerebbe il suo tempo a Londra con Robin Carhart-Harris e Amanda Feilding, due tra i protagonisti più interessanti di questo rinascimento psichedelico. Amanda Feilding ha un buco nella testa. Robin Carhart-Harris dei magnifici occhi azzurri. La prima ha settantacinque anni, il secondo trentasette. Amanda è discendente di re Carlo II d’Inghilterra e vive in una specie di castello incantato, il secondo è un ex studente di psicologia che ha deciso di dare la caccia all’inconscio cercando di individuarlo con la tecnologia più all’avanguardia. Cinquant’anni fa Amanda si è trapanata il cranio per raggiungere l’illuminazione, oggi Robin somministra l’LSD a dei pazienti per capire, tramite risonanza magnetica, cosa succede nel loro cervello. Amanda gli ha dato i soldi per farlo, Robin sta pubblicando le ricerche scientifiche più importanti e autorevoli sull’argomento. La prima dirige una fondazione psichedelica che annovera nel suo comitato dirigente alcuni tra i più grandi neuroscienziati viventi, il secondo lavora all’Imperial College di Londra, uno dei templi della ricerca scientifica. Ed entrambi fronteggiano il governo inglese e le leggi repressive e proibizioniste che sta varando con sempre maggior determinazione. Amanda e Robin rivendicano la legittimità delle loro indagini e citano molte pubblicazioni sulla pericolosità assai relativa delle sostanze psichedeliche, per esempio uno studio del 2010 pubblicato sulla prestigiosa rivista medica «Lancet» dove, in termini di rischio individuale e sociale delle droghe, l’LSD e la psilocibina (il principio attivo presente nei funghi allucinogeni) occupano le ultimissime posizioni in classifica, molto al di sotto di alcol, tabacco, cannabis, e di tante altre sostanze sulle quali non esistono rigidi divieti di condurre ricerche scientifiche. Ciò che nel 2016 Robin Carhart-Harris ha visto nei suoi esperimenti con l’LSD e la psilocibina è straordinario: si vede il cervello dei suoi pazienti attivarsi e accendersi completamente, con connessioni numerosissime e del tutto inedite capaci di interrompere i circoli neuronali abituali. È la stessa intuizione filosofica di Huxley. Vi è come una liberazione della coscienza, una destrutturazione anarchica dell’ordine cognitivo, emozionale e percettivo tradizionale. Ed è la prima volta che, con rigore scientifico, si sono potuti verificare gli effetti fisici delle sostanze psichedeliche sul corpo umano.

 

In un certo senso, la guerra di Huxley contro il soma del suo Mondo nuovo sta proseguendo, ma con altri mezzi. Secondo Carhart-Harris, infatti, la somministrazione di psichedelici potrebbe essere la più grande arma per sconfiggere molte patologie mentali legate all’ansia, alla depressione e alle dipendenze. La capacità di LSD e psilocibina di creare nuove connessioni permette infatti di sbloccare il circolo vizioso neuronale che opprime la mente di molti malati, riuscendo a ottenere quello che la psicoterapia e la psicoanalisi riescono faticosamente a raggiungere in molti anni di sedute. Rimane il fatto però che per un lettore di Huxley, la questione della legittimità psichedelica non si può basare soltanto sulla sua utilità medica, perché è lo stesso concetto di utilità che la psichedelia mette in discussione. Lo abbiamo già ripetuto. La rivoluzione psichedelica non è altro che uno dei modi per continuare la guerra spirituale che è in corso, forse uno dei modi oggi più interessanti per tenere in vita l’aspetto gnostico e sapienziale dell’uomo. Ed è ciò che unisce Parmenide a Carhart-Harris, Don Chisciotte a Amanda Feilding, Huxley a chiunque di noi cerchi più o meno disperatamente la propria uscita dal mondo. 

 

Viviamo in tempi interessanti. È come se alcuni grandi miti dell’Occidente avessero iniziato a convergere in qualche punto materiale, rendendosi reali, pretendendo di metterci in discussione, sollecitando la nostra reazione. Il mito del doppio, il mito di Faust e il mito dell’immortalità dell’anima, per esempio. Vale quindi forse la pena azzardare qui nient’altro che una suggestione che riguarda il presente che viviamo. Fa ormai parte della consapevolezza comune la discussione sulla presenza in qualche server remoto della Silicon Valley di un algoritmo che corrisponde a ciascuno di noi. Questo algoritmo conosce i nostri nomi, sa quali parole d’amore usiamo, sa dove ci spostiamo, a che velocità andiamo, prevede i nostri gusti e le nostre avversioni, e ogni giorno migliora, diventa sempre più preciso e tende a assomigliarci sempre di più. Ogni nostra scelta, ogni nostra decisione, ogni nostra preferenza, viene registrata e l’algoritmo ci restituisce automaticamente una realtà che tende a assomigliare alla realtà che ci rappresenta al meglio, in una simbiosi tra io e non-io, tra soggetto e oggetto, che ancora una volta ci getterebbe in abissi filosofici. Volendo però limitarci alla visionarietà dell’esempio, e imitando ciò che Huxley faceva quando parlava di psicofarmaci, potremmo aggiungere che l’algoritmo sia la versione attuale del vecchio soma del Mondo nuovo. E che, esattamente come il soma, ci regali un’illusione d’immortalità; riteniamo infatti che nella Silicon Valley ci sarà sempre il nostro algoritmo a sopravviverci e che anche in nostra assenza potrà elaborare in eterno le nostre idee, vivere i nostri amori possibili, reagire a ciò che di nuovo capiterà nel mondo come se noi fossimo ancora presenti. È una forma spaventosa di conquista dell’immortalità, in cui facilmente possiamo vedere la reincarnazione del mito del doppio innestato nel mito di Faust e del suo patto col diavolo. Senza accorgercene è come se avessimo già venduto l’anima immortale a qualcuno che ha lusingato, ancora una volta, come nel Mondo nuovo, la nostra vanità e il nostro bisogno di sicurezza. Sempre volendo proseguire in questa suggestione, non è neanche difficile immaginare, a questo punto, portandola alle estreme conseguenze, che possa instaurarsi anche un inquietante mercato di anime: qualcuno interessato alla nostra anima potrà sempre rivolgersi ai proprietari del nostro algoritmo e concludere l’affare. Si tratta di una prospettiva distopica, fantascientifica, ma non è una prospettiva completamente irragionevole.

 

L’algoritmo è capace di simulare la nostra coscienza e agisce in ambienti che ormai frequentiamo costantemente, come quelli dei social network, che ci costringono in una bolla digitale capace di replicare e di prevedere le nostre scelte e parte dei nostri pensieri. Forse siamo arrivati alla fine di questa ricognizione psichedelica e, tra poco, sarà tempo di riconsiderarla con pudore, scetticismo e perfino con un po’ di tenerezza per via della sua spensierata scorribanda nelle inquietudini adolescenziali più viete. Ma, prima che arrivi quel momento, si possono sfruttare gli ultimi giri di cervello per ritornare a quel luminoso mattino del maggio del 1953, a Los Angeles, a casa di Huxley. Il dottor Osmond, timoroso e spaventato, stanco del viaggio, dopo i convenevoli che la sua giacca di tweed ci fa intuire, si toglie gli occhiali e consegna a Aldous Huxley, con la raccomandazione di diluirla bene in acqua, la sua dose di mescalina. Che cosa avvenne dopo l’assunzione? Ormai, scientificamente, lo sappiamo: il cervello di Huxley prese fuoco e raggiunse, in un certo senso, l’universo neoplatonico. Si accese, iniziò a irradiarsi e a dissolvere la sua stessa riconoscibilità neurologica. Nel variopinto vocabolario psichedelico, forse, è oggi questa la parola da sottolineare, la parola chiave per la guerra spirituale in corso: irriconoscibilità. Per resistere al mondo algoritmico del deep learning digitale, bisogna sapersi rendere irriconoscibili, inclassificabili, imprevedibili. Occorre avere cioè un cervello capace di mettere in scacco l’algoritmo che è programmato per diventare noi; serve sviluppare un’intelligenza umana in grado di sopravanzare il passo dell’intelligenza artificiale. Bisogna rendersi unici. Quel mattino di maggio del 1953, i passi felpati del dottor Osmond forse non sapevano ancora dove stavano andando. Ma Huxley, qualche istante dopo, aveva capito fino in fondo che cosa era in gioco. La strada psichedelica era nuovamente aperta, ed era una strada antica e venerabile, la stessa dei sapienti greci e degli dèi antichi. Sono loro a ricordarci da millenni che non si dà vera conoscenza senza danza, gioia e ebrezza. Turn on, tune in e, soprattutto, drop out.

 

Prefazione a A. Huxley, Moksha. Scritti sulla psichedelia e sull'esperienza della visione, Mondadori 2018.

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Intervista a Valerio Evangelisti

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Come è nato il tuo libro d’esordio? In quali condizioni è stato realizzato, e come è stato accolto?

 

Se per libro intendi “romanzo” (avevo già pubblicato testi di storiografia), la sua nascita è stata un po’ casuale. Da alcuni anni mi divertivo a scrivere storie “fantagotiche”, per me e per gli amici. Era una distrazione dalla mia attività di saggista semi-accademico. Dopo la nascita del Premio Urania, nel 1990, pensai di inviare alla giuria uno dei miei lavori. Si trattava de Le catene di Eymerich. Non contavo su una pubblicazione, volevo solo avere un giudizio. Questo fu così lusinghiero, per quanto non vincessi, che partecipai alle edizioni successive del premio. L’obiezione era che si trattava di opere molto lontane dalla fantascienza tradizionale proposta da Urania. Finalmente proposi una storia in cui c’erano astronavi e mondi alieni: Nicolas Eymerich, inquisitore. Vinsi nel 1993, fui pubblicato nel 1994. Sarebbe finita lì, se non fosse stato che vendetti 15.000 copie (poi divenute 17.000), quasi il doppio del romanzo americano più venduto quell’anno. Di lì partì il mio successo, inizialmente con modesti prodotti da edicola. Se c’è un autore pulp, in Italia, sono io, nel senso più letterale del termine.

 

 

Quale bilancio puoi fare dei tuoi rapporti con il mondo editoriale? Di che cosa, eventualmente, senti più la mancanza, o che cosa vorresti funzionasse diversamente?

 

Dato il mio ingresso dall’uscio posteriore, il mondo editoriale l’ho conosciuto un po’ da lontano. Rapporti amichevoli, a volte molto amichevoli, con alcuni direttori di collana, certi editors, l’ufficio stampa ed eventi. Rari contatti invece con i vertici, ignoranza delle loro dinamiche. Dei dirigenti conosciuti all’inizio ne restano ben pochi. Va tenuto presente che io ho pubblicato in prevalenza nell’ambito di un gigantesco gruppo editoriale, quello Mondadori (con la sua associata Einaudi). Arrivare a contatto con le vette è difficile e non mi interessava. Non ho rivendicazioni particolari da avanzare, salvo forse una. Che smettano di guardare solo ai risultati di vendita immediati, e considerino anche quelli di medio o lungo periodo.  

 

Consideri che la critica abbia un peso importante, o lo abbia avuto, per mettere in luce la tua opera o coglierne le caratteristiche più importanti?

 

Non direi proprio, salvo rarissime eccezioni per lo più estere. I miei ultimi romanzi, come i primi, hanno avuto un numero irrisorio di recensioni. Posso scrivere non importa cosa, ma per la maggior parte dei critici resto “quello della fantascienza”. Roba non seria. Per conquistare un mio spazio ho dovuto fare quasi tutto da solo, con l’aiuto indispensabile dei miei lettori. Per fortuna sono molti. 

 

In quali condizioni professionali riesci a portare avanti il tuo lavoro di scrittore? Sei costretto a svolgere un altro lavoro? Quale peso economico hanno le attività legate al tuo ruolo di autore o connesse strettamente ad esso (giornalismo letterario, corsi di scrittura o altro)?

 

Alla fine del 1997, dato il successo dei miei romanzi e i discreti guadagni che cominciavo a trarne, mi licenziai dall’impiego, durato quasi un ventennio, di funzionario dell’amministrazione finanziaria. Era una scommessa pesante, ma la vinsi. Da allora vivo solo di ciò che scrivo, senza introiti a margine. Va detto che i primi anni furono molto prosperi, quelli recenti assai meno. Dall’inizio della crisi (2008) in poi, i miei compensi sono stati dimezzati. Per fortuna, avevo risparmiato abbastanza da potere aspettare la pensione di statale (che la legge Fornero sposta di continuo in avanti, che Dio la maledica). E’ bene precisare che conduco una vita molto semplice e ritirata, senza spese eccessive. La macchina l’ho venduta anni fa, sono proprietario del mio appartamento. Spendo in birra, fumo di tabacco, libri e dvd. 

 

Esiste nel tuo caso una preoccupazione specifica relativa alla lingua romanzesca? E come si profila in rapporto agli altri aspetti dell’opera (soggetto, personaggi, trama)?

 

La lingua che adotto dipende da ciò che narro. Di solito è stringata, con brevi escursioni descrittive, e magari – se capita – involontariamente poetiche. Mi rifaccio alla sobrietà di alcuni dei miei autori di riferimento: Hammett, Manchette, Hemingway, Dick. Non somiglio a nessuno di loro, però ne ammiro la concisione. Poi, se parlo di Medioevo, concedo spazio alla loquela. Se tratto di lotte contadine ottocentesche, cerco espressioni colloquiali o persino dialettali. Insomma, non è una regola. Non saprei dettarne. Soggetto, personaggi e trama non sono collegati direttamente alla variabile forma espressiva. Devono “catturare”, con qualsiasi espediente linguistico.

 

 

Che cosa significa per te l’impiego della forma romanzo? Quali sono le caratteristiche dell’arte romanzesca che ti sembrano imprescindibili e che tendi a far vivere nelle tue opere?

 

La morte del romanzo è stata decretata mille volte. Eppure è la forma narrativa che il pubblico continua a prediligere (e il cinema ne è un’estensione). Forse il lettore ama immergersi, a lungo, in mondi “altri”, non importa se più o meno inquietanti del suo presente. E’ la stessa cosa che fa il romanziere. Cambia di mondo. Non ci sono capisaldi imprescindibili, tranne, penso la partecipazione, la complicità fra autore e fruitore. Io cerco di agevolarla creando scenari fantastici e tuttavia concreti, che parlino ai cinque sensi e offrano uno scenario che appaia solido. Non è una regola generale: è la mia. Di canoni universali non saprei stabilirne. 

 

In che modo la rete ha cambiato (se lo ha fatto) il fare letteratura?

 

Ha concesso a tutti di farne, nel bene o nel male. Oggi lo scrittore sublime o il peggiore cretino riescono a farsi leggere, in tutto il mondo. A me sembra un progresso, con qualche remora marginale (riferita al cretino). 

 

— Hypocrite lecteur, — mon semblable, — mon frère! Chi sono i (tuoi) lettori?

 

L’età media di chi inizia a leggermi è tra i venti e i trent’anni, ma poi restano affezionati. Lo dico considerando chi mi domanda dediche o viene ai miei incontri. Purtroppo le mie apparizioni pubbliche si sono rarefatte, per cause indipendenti dalla mia volontà (una cura da cavallo mi ha salvato la vita, ma reso difficile camminare). Mi baso oggi sulle corrispondenze, fermo davanti allo schermo del computer. Non è una condizione che mi piaccia: ero, in passato, un gran viaggiatore, con rapporti diretti ovunque nel mondo. Ma tant’è: alla primavera segue l’autunno, poi l’inverno. 

 

Che rapporto hai con i traduttori e se la recezione all'estero ti ha riservato sorprese?

 

Con alcuni traduttori, in particolare quelli francesi o rumeni o cechi, si è instaurato un rapporto di consultazione frequente che si è convertito in amicizia duratura. In altri casi no, a stento ne conoscevo il nome. Essere tradotti all’estero, nel mio caso in una ventina di Paesi, non vuole dire avere ovunque lo stesso successo. Lusinga, è indubbio, però non ci sono ritorni garantiti, né di popolarità né economici. La Francia è un caso particolare. Essendo il francese la mia seconda lingua, l’ho girata in lungo e in largo, finché ho potuto, tra festival, convegni e presentazioni. Vi ho ottenuto risultati paragonabili a quelli italiani. Non so se potranno ripetersi.

 

Esiste una comunità letteraria (internazionale)?

 

Credo di sì, ma segmentata per temi. Nel mio specifico è la narrativa fantastica, e più ancora la fantascienza. Essendo un settore sfigatissimo ed emarginato, trovarsi è facile e solidarizzare anche. Ricordo meravigliose bevute collettive, in occasione di raduni europei e internazionali, seguite da fraterne attestazioni di fratellanza. Fuori, nel “mainstream”, penso si sia meno uniti. Non ne ho esperienza diretta. 

 

Questa intervista è tratta dal N. 69 della rivista Nuova prosa, dal titolo “La letteratura italiana con gli occhi di fuori. Avanpost - à la carte”, a cura di Il Cartello (F. Forlani, A. Inglese, G. Sartori e G. Schillaci), Greco&Greco editori, Via Verona 10 (Milano).

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La fotografia è una scultura?

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Mauro Zanchi: Ci puoi parlare dei territori immaginari che ritrovi nelle tue fotografie (scansioni stampate)? 

 

Giulia Flavia Baczynski: Inizio riportandoti un frammento di un libro che per me è molto importante, L’invenzione della Terra di Franco Farinelli. In questo capitolo l’autore racconta di come i greci iniziavano a produrre modelli occidentali del mondo e di come fossero tutti, in fin dei conti e di fatto, dei geografi. “A quel tempo gli unici esseri viventi erano tre: il Cielo, la Terra e Oceano, che funge da sacerdote del rito. La Terra allora non si chiamava ancora Gé, la Gaia dei latini, che significa quella che ride, che splende, che brilla, ed esprime la chiarezza, la visibilità, dunque l’orizzontalità. La Terra allora si chiamava ancora Ctòn, termine che nel nostro linguaggio sopravvive nell’aggettivo ctonio, o ctonico, che significa sotterraneo, oscuro, profondo, invisibile, e dunque implica non l’orizzontalità ma al contrario la dimensione verticale, quella dell’abisso di cui stiamo cercando di ragionare. Così funziona il rito delle prime nozze al mondo, quelle più sacre di tutte, che saranno modello per tutte le altre: Ctòn, la sposa, si presenta velata e quando essa si toglie il velo lo sposo, il Cielo (che poi è Zas, cioè Giove) le mette sulle spalle il mantello che egli stesso ha ricamato. La sposa resta nuda soltanto per un attimo, e proprio in tale attimo, che era quello dello svelamento, per i Greci era possibile afferrare la verità. Il rito consiste appunto nella sostituzione del velo primordiale col mantello che è il dono dello sposo, ricevendo il quale la Terra si sposa e cambia nome, o meglio, proprio come da noi ancora oggi alle donne accade, aggiunge al suo nome un altro nome e diventa così anche Gaia, Gé. Ma questo mantello non è un semplice mantello, perché su di esso lo sposo ha ricamato dei disegni, ha intessuto in vari colori la forma dei fiumi, dei laghi, delle montagne e dei castelli, la forma dell’Oceano e del suo palazzo. In altri termini: su questo mantello è rappresentata per la prima volta la forma della Terra, ovvero Ctòn è per la prima volta trasformata in Gé, appare come tale e perciò lo diventa. (…) Alla fine delle nozze sacre quello che si vede è soltanto l’immagine sul manto delle montagne, dei fiumi, dei palazzi, in breve non la Terra come Ctòn ma soltanto come Gé, come semplice faccia, anzi come immagine della faccia: quel che possiamo vedere e perciò conoscere non è la cosa ma l’immagine della cosa, non sono vere montagne e i veri mari ma sono le immagini delle cose cui si riferiscono.

 

Giulia Flavia Baczynski.


Le cose vere, le vere montagne, i veri laghi, stanno sotto il mantello, appartengono al corpo nascosto, ctonico, sotterraneo, oscuro, abissale della Terra stessa. Ma noi siamo condannati, se vogliamo tentare di conoscere qualcosa, ad accontentarci di ciò che si vede, e vedendo l’immagine di ciò che esiste crediamo di vedere ciò che esiste. Sicché la verità resta e resterà per noi celata per sempre e dovremo adattarci soltanto alle apparenze, alle illusioni.” Questo passo lo trovo particolarmente appropriato perché in qualche modo sto approcciando l’immagine della Terra, l’immagine di quella Gé che tutti conosciamo, ma utilizzando come materia prima del processo la carta stessa su cui il mondo è sempre stato rappresentato. Magari lavorando sul supporto e col supporto, modellando il mantello scopro cosa c’è sotto, chissà. Ritornando ai territori immaginari delle mie fotografie, quello che ti posso dire è che essi esistono. Non so dove si trovino sulla Terra, intesa come il pianeta su cui viviamo (e credo non sia un’informazione essenziale), ma proprio per il fatto che corrispondono e si avvicinano e contengono l’idea del paesaggio che ci è propria culturalmente sono reali. Tanto quanto l’idea che si forma nella mente prima ancora di diventare azione compiuta.

 

Cosa sta (e cosa si mette in moto) tra "l’idea che si forma nella mente prima ancora di diventare azione" e l'opera compiuta? 

 

C’è la percezione di una forma, la sua visualizzazione che è ancora immateriale. Potrei definirla come una sorta di immagine latente che ancora non è sviluppata e compiuta del tutto ma che è lì. È una traccia per un processo che porta a dei tentativi di realizzazione fisica. In questo processo alcuni tentativi vanno a vuoto perché non sempre poi l’opera compiuta (nonostante sia ancora in progress) corrisponde a quella pre-visualizzazione iniziale. È una ricerca che si sposta a un livello diverso, perché scende nel dettaglio della singola immagine più che rimanere sul piano del concetto generale che sta alla base della serie.

 

Giulia Flavia Baczynski, Carta fisica del cielo.


Che valore dai alla luce che giunge dallo scanner e che entra nella scelta formale della tua ricerca? 

 

Lo scanner mi permette di simulare il processo che l’occhio attua nei confronti della contemplazione della matrice di carta.  La prima volta che ho realizzato una matrice l’ho osservata dinamicamente: l’ho ruotata, l’ho capovolta, l’ho osservata appoggiata su un tavolo con luce radente e sospesa nel vuoto controluce. Ecco, l’averla guardata controluce e aver visto come la percezione della materia cambia mi ha spinta a prediligere lo scanner alla macchina fotografica. La macchina fotografica mi restituisce solamente la fotografia di un foglio di carta increspato, mentre la luce dello scanner attraversa la carta traslucida trasformandola completamente. Prima ancora: questo vagare dell’occhio da un punto all’altro della superficie della matrice mi riporta la mente all’occhio alato di Leon Battista Alberti che vola per conto suo svincolato dal corpo ed il suo motto: e quindi? Come cambia la percezione e l’immagine del mondo se lo si conosce con gli occhi e basta anziché attraverso le gambe e il viaggio fisico?

 

Giulia Flavia Baczynski, Carta fisica della terra.


Tu accartocci fogli di lucido, più volte, poi li spiani e li accartocci di nuovo, quasi fossi una scultrice inconsapevole in attesa di capire quale sarà il responso rivelato dalle linee, dalle increspature, dai segni, impressi per metà dal caso e per metà dal tuo desiderio di creare una ulteriore possibilità. E poi affidi la tua manipolazione alla luce e alla memoria dello scanner. Ci puoi rivelare cosa muove questo tuo fare tra l'azione sul foglio e l'apparizione della texture della serie Carta fisica della terra?

 

Questa serie sulle mappe non è nata con un'intenzione prettamente fotografica. Attraverso il mio lavoro, cioè costruire modelli di architettura per musei e mostre, spesso mi concedo di uscire dai tracciati rigorosi dell'esecuzione per sperimentare possibilità altre di rappresentare concetti spaziali o città o architetture singole. Non sempre queste sperimentazioni trovano un luogo appropriato nelle commesse. Il più delle volte alimentano ricerche personali che possono essere la base di tecniche da affinare sui modelli oppure rimangono nel campo della sperimentazione pura che converge poi nella fotografia. La Carta fisica della Terra è diventata tale dopo aver compreso che il semplice foglio di carta è uno strumento estremamente potente e versatile: da quando esiste è veicolo di informazioni, di racconti, di storie che vengono impressi sul supporto con inchiostri e grafite. Disegni, testi, mappe facilmente trasportabili e conservabili. La carta però non è un supporto neutro perché può diventare essa stessa un concetto spaziale se debitamente manipolato: piegata nel modo giusto sostiene un peso 50 volte superiore al suo ma è anche fragile, delicata, si sfalda, si brucia, si consuma, diventa bassorilievo, si plasma attorno ad un qualunque oggetto. Ogni carta poi ha caratteristiche intrinseche che la rendono unica e proprio su questo aspetto ho insistito. La carta da lucido che una volta era la base del disegno architettonico, se piegata produce una crepa bianca, un segno distintivo che diventa parte del supporto senza ricorrere ad agenti esterni. Più si piega e più segni compaiono. Come hai giustamente sottolineato, c'è una parte di casualità e una parte di intenzione che nel tempo mi hanno guidata in questo processo di costruzione e la parte di indeterminatezza mi ha spinta a continuare in questa direzione evitando la ripetitività del gesto (prova ad accartocciare nello stesso identico modo due fogli di carta... è impossibile). L'affidamento allo scanner è stato frutto di un ragionamento sulla luce e su come essa può essere utilizzata per veicolare un'idea nel modo migliore: ci sono tanti tipi di luce, noi stessi tendiamo a dividerla in categorie. Alle volte però capita che l'apparente banalità diventi una risorsa inestimabile. Basta cambiare punto di vista.

 

Giulia Flavia Baczynski, Carta fisica della terra.


La tua è una “fotografia artificiale” o una “fotografia naturale”? (Luigi Ghirri definiva così le due categorie: “La prima, la “fotografia artificiale”, trova la propria collocazione nella produzione culturale a catena, ripete all’infinito se stessa, credendo di sfuggire agli stereotipi ed è quindi riproduzione. La seconda attua una sospensione – interruzione nella catena della riproduzione, che è simile ai diversi momenti dello sguardo naturale e interazione col mondo esterno”).

 

Stando a questa netta distinzione direi senza dubbio fotografia naturale anche perché non ritengo le mie opere come qualcosa che facilmente si colloca all’interno della produzione e del panorama culturale a catena di oggi. Vorrei però fare un ulteriore ragionamento sulla scorta delle definizioni di Ghirri. Recentemente un amico architetto mi ha fatto notare come queste mappe si possano collocare all’interno di un solco: da un lato c’è la matrice, l’unicum irripetibile, dall’altro lato c’è la riproduzione di questa unicità attraverso la fotografia che non punta solo a renderla fruibile dalla moltitudine ma ne è parte essenziale per la comprensione e la decodificazione. Quindi si configura come una sintesi tra il processo artistico delle sculture da viaggio di Bruno Munari e il concetto di riproducibilità di Gillo Dorfles sul disegno industriale. Scendendo di scala però, questa differenza tra fotografia artificiale e fotografia naturale la vedo come un monito importante che mi insegna a non cadere, all’interno della mia produzione, nel facile tranello della ripetitività che genera lo stereotipo alla base di moltissime altre produzioni artistiche e fotografiche contemporanee che non riescono più a uscire dalle maglie strette in cui si sono infilate.

 

Giulia Flavia Baczynski, Vedute di montagne frattali.


Mi definiresti i termini "immagine" e "fotografia" all’interno della tua ricerca?

 

Ho sempre avuto una grande passione per l’etimologia, per la ricerca del significato e della radice dei nomi e delle parole con cui definiamo le cose del mondo sensibile. Sono convinta che l’etimo sia uno strumento importante con cui interagire perché di per sé contiene già le intenzioni che una parola rappresenta. La parola immagine ha la stessa radice di imitare e contempla l’azione, da parte dell’uomo, di rappresentare una cosa; ma immagine è anche la trasposizione di un’idea su un supporto (penso alla pittura e all’arte figurativa in genere, al surrealismo, al simbolismo, all’arte concettuale). Il tipo di meccanismo che le immagini innescano, per me, è il tentativo di decodificare un concetto/significato che l’autore ha rappresentato attraverso il segno. La parola fotografia invece significa letteralmente scrivere con la luce e ha a che fare con il far apparire su una superficie l’immagine visiva e ottica di un oggetto. La fotografia è uno tra i tanti tipi di immagini a cui si può dare luogo e per me è sempre stata la più misteriosa perché non si limita a trasporne la forma, il materiale, le dimensioni e il colore relativo ma in qualche modo cattura e fissa definitivamente anche aspetti più immateriali che rientrano nel campo dell’impalpabile. A questo proposito ti cito una riflessione che Edward Weston fece nei suoi diari: “ho fatto la fotografia di un tronco di una palma: è la fotografia di un tronco d’albero più qualcos’altro. Non so cosa darei perché qualcuno mi dicesse cos’è questo qualcos’altro…”. Ecco, per me, la sostanza della fotografia è questa, ed è questo aspetto che continuo a cercare ed anche il motivo per cui continuerò a prediligere la fotografia (anche le mie mappe sono fotografie nonostante siano ottenute con uno scanner, perché è sempre la luce il tramite per l’apparizione). Tornando un attimo all’immagine invece, non la ritengo meno (ho pur sempre avuto una formazione artistica) ma ciò che separa questi due concetti è quello che rimane invischiato nella trama della fotografia e che non ne esce più perché ne diventa parte fondamentale, aggiunge un metasignificato che va oltre a ciò che si palesa davanti agli occhi. Poi possiamo anche discutere di quanto, nella fotografia, ci sia la consapevolezza di questo aspetto ma è un altro capitolo.

 

Giulia Flavia Baczynski, Carta fisica della terra.


Nelle tue fotografie vivono contemporaneamente un’immagine dinamica (quella della messa in discussione concettuale e dello spostamento dei pensieri in corso d’opera) e un’immagine apparentemente statica (come quella dell’astrazione pittorica), stando in equilibrio tra stati di quiete e movimento. Osservando le tue immagini mi pare che emerga una accurata ricerca della “sospensione”, evocando i tempi lunghi di lettura, la pausa di riflessione al di là della riproducibilità. In che ambito poni le tue immagini?

 

Questo senso di sospensione tra l’evidenza dell’immagine e la sua archetipicità a livello concettuale è la chiave di volta di questo lavoro. Non sono interessata all’esaustività che molta fotografia propone e trovo molto più stimolante utilizzare il simbolo e la metafora perché entrambi partono dal concreto per espandere il ragionamento in direzioni altre. Pensa al cielo stellato: sappiamo perfettamente che le costellazioni sono una nostra proiezione visiva e che le stelle che appartengono ad una costellazione sono distantissime tra loro sia nel tempo che nello spazio, è scienza. Ma nonostante questo ci vediamo orsi, cani, aquile, serpenti e donne e uomini e osservandoli a lungo costruiamo castelli mentali che sviscerano le questioni più ataviche. È il tempo che ci prendiamo per riflette e fare congetture su tutto questo che è importante e se queste fotografie si avvicinano anche solo minimamente a questa direzione allora è una buona cosa, anche se è solo la punta dell’iceberg.

 

Giulia Flavia Baczynski, Carta fisica della terra.

 

Giulia Flavia Baczynski nasce a Verona nel 1982 e si laurea in Architettura al Politecnico di Milano. Il suo interesse primario è la rappresentazione e l'interpretazione dello spazio che l'uomo genera e nel quale vive. Negli anni il concetto di spazio, sia esso urbano e naturale o immaginato e concettuale, viene approfondito sempre di più diventando il nucleo della sua ricerca.

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Intervista a Giulia Flavia Baczynski
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Fabio Pusterla. Cenere, o terra

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In Il capofabbrica, il primo libro di Romano Bilenchi, si racconta la storia di Giovanni, un piccolo industriale di provincia. Finalmente ha costruito la sua fabbrica, è tutto perfetto. Ma una sera, "fermatosi nel piazzale, al colmo del suo entusiasmo per il lavoro compiuto, si sentì a un tratto desolato. La sua felicità svaniva." Non c'è un vero perché. Solo segni inquietanti dalla natura che aveva appena violato costruendo la fabbrica. Erano stati trovati resti umani, ossa. Pare di frati, c'era lì un convento. È l'annuncio del male, la superstizione del male.

La moglie e il figlio di sei anni stanno guardando i lavori che si stanno concludendo. C'è una gora, dietro la fabbrica, un grosso scolo d'acqua adoperato dagli operai. C'è un grido. Il bambino è caduto nella gora. "Per quanto si facessero le più ardite ricerche il corpicino fu ripescato soltanto due giorni dopo e molto lontano: per uno stretto foro l'acqua, benché lenta, lo aveva spinto in un'altra rapidissima gora." Pieno di rabbia e di rancore per gli operai, che secondo lui ci godono a veder morto il figlio del padrone, "chiuse i cancelli e cercò un compratore per la fabbrica." 

Questa gora assassina mi è rimasta negli occhi, anche se è in un racconto letto tantissimi anni fa. L'acqua, affascinante e pericolosa, è un'immagine primordiale. Leggendo ora le nuove poesie di Fabio Pusterla, Cenere, o terra (Marcos y Marcos) mi è tornato in mente il racconto di Bilenchi. Come se a distanza di tempo un narratore nato all'inizio del secolo scorso e un poeta svizzero nostro contemporaneo vedessero la stessa immagine. Essere parte della natura e nello stesso tempo dominarla, piegarla, violentarla. Non è vero che poi c'è la vendetta della natura non umana, c'è soltanto il suo continuo essere quello che è. Ecco come esplode l'immagine dell'acqua in questo libro. 

 

Non ti basta, lo so. Vorresti altro.

Non ti basta, fiume, il mio ascolto,

né ora per te è il momento di ascoltare,

tu non puoi ascoltare perché corri infuocato 

spinto dalla violenza delle gole. 

C’è furia, ora, c’è

disperazione: distruggi, travolgi, 

scavi dentro di te la tua memoria 

di melma e detriti, antichissime 

deposizioni di roccia, cadaveri.

E non ti basta il mio ascolto. 

Ma io rimango qui, finché posso. 

Senza più nessun sogno o progetto, 

senza nessuna speranza. Resto qui. 

Tendo l’orecchio, mi dispongo 

all’attesa. Anche per te, fiume 

che ora libero ti perdi nel nulla della notte.

 

Ho voluto citare quasi per intero questo potente punto strategico di Cenere, o terra perché è davvero uno snodo narrativo. La poesia di Pusterla, da sempre, pullula di presenze, i dialoghi in versi sono frequenti, ma lungo questo nuovo percorso gli interlocutori si fanno afoni, lanciano segnali inquietanti di indifferenza, qualche volta di ottusità sconcertante. 

In Argéman, forse la sua raccolta di poesie più nota, insieme a Corpo stellare, nell'incipit o quasi, si dice "Ora però dovrei dirgli che invece\purtroppo io sono uno che annota dei versi,\ cose strane che incontro sul cammino,\ affioramenti di voce che non so\ quasi mai dove portino. \ …”

Fabio Pusterla si espone, come poeta, si mostra per quello che è, scrivendo note esplicative in calce ai suoi libri, naturalmente senza invadere l'interpretazione del testo ma soltanto spiegando parole e situazioni non altrimenti comprensibili. Possiamo anche leggere una raccolta di suoi ritratti molto bella, appena stampata da Casagrande. Si intitola Una luce che non si spegne. Ci sono dentro le sue passioni e la sua storia culturale, gli incontri che l'hanno segnato e che non posso riassumere. Da un'inedita Maria Corti a uno stupendo Jaccottet, per fare due tra decine di nomi.

Gli stessi nomi che tornano nel documentario che ho avuto la fortuna di vedere in anteprima, Libellula gentile (Fabio Pusterla, il lavoro del poeta), del regista Francesco Ferri. Curiosamente Pusterla si espone come una persona che non vuole segreti. Si espone ma non si esibisce, si espone nel senso che si mostra per quello che è. Ci mostra i suoi materiali di lavoro. Essendo un lavoro poetico lo vediamo con i suoi quaderni, di quelli che si aprono per ritrovare qualcosa che abbiamo pensato tempo fa, a volte stupendoci per vari e opposti motivi. Siamo come una formazione geologica, torniamo indietro come in un carotaggio del terreno, e niente può sostituire un quaderno. Siamo veramente sempre degli altri, rispetto a noi stessi, c'è soltanto qualcosa di sottile che ci tiene insieme – forse il nostro stile. In questo caso quello che produciamo con le nostre parole. Il film ci suggerisce un tono di lettura, delle poesie di Pusterla, che definirei fermo e sommesso.

 

L'incedere, il tono, il ritmo, quindi il camminare. Poeti e scrittori camminano parecchio. Anche alcuni malati di mente lo fanno, ma l'accostamento è casuale. Il passo è quello, lo stile è quello. Pusterla cammina con passo di montagna, nel documentario. Sopravanza Claudia, sua moglie, di una ventina di metri, poi la distanza aumenta. Claudia non è in gara, va volentieri per la sua strada, la stessa che condivide con lui da qualche tempo. Si ritroveranno davanti a un paesaggio, che per definirlo ci vorrebbe un filosofo.

Dicevo che quella di Pusterla non è una poesia che alza la voce, ma questo non significa che si dichiari neutrale. Non è neutrale, dice subito da che parte sta: "i cadaveri dei poveri danzano sulle onde… gli yacht lussuosi dei ladri." Questa necessità di pronunciarsi, di stare da una parte, è narrata in alcune poesie. Partendo da quella sul figlio musicista: fantasmi a un concerto di Terry Blue. La storia è vista attraverso gli occhi del padre, che dialoga col figlio poeta. C'è una sorta di conferma in questo incontro metafisico di tre, quattro generazioni. Sì, il ragazzo che stanno ascoltando è esattamente al suo posto. Sì, tutti si riconoscono in questa linea, quindi "ne valeva la pena". Leo (che firma le sue canzoni come Terry Blue) appariva nei versi di Pusterla già in Pietra sangue nel 1999, "… da uno squarcio\ abbagliante hai gridato, e in un lampo \ sei entrato nel mondo." Nella ricerca di una linea di successione, dal padre orologiaio migrante al figlio musicista, la poesia di Fabio ci segnala questo percorso, e proprio dentro questo percorso ci sono sentimenti e schieramenti di fondo. In Cenere c'è una vera foto di famiglia, appaiono il padre e il padre del padre:

 

Costellazione del cancro 

Il nome di mio padre era importante 

lo storpiavano gli amici 

da Elius in Elio 

secondo nome Virgilio 

suo padre parrucchiere letterato 

amava la classicità probabilmente 

nel momento peggiore

quando i nomi non erano innocenti 

non ne immaginava le conseguenze 

per il figlio operaio orologiero 

che ebbe nell’ordine una guerra

una ritirata di Russia un congelamento un esilio 

una moglie due figli una casa
 

una fabbrica in cui montare gli orologi.

Per conto di qualcuno…

 


Forse faccio una lettura troppo narrativa di Cenere, o terra, ma mi sembra giusto dire che leggendo questa poesia la mia fantasia si scatena: appare un vecchio insegnante di greco, ubriacone e sdentato, con la s sibilante, che però fa amicizia col nonno ragazzo, gli regala due libri illustrati che lo fanno sognare e che in qualche modo gli offrono una spiegazione arcana del mondo. Una fantasia comune li accomuna attraverso le generazioni, parrucchiere orologiaio poeta musicista. 

Un per nulla strombazzato nomadismo in giro per il mondo, una curiosità inesauribile per l'altro, l'escluso, il nato male, cioè nel posto sbagliato, il riconoscersi ossessivamente in lui, nel suo strazio muto, il trattenerne l'immagine in versi, come per memorizzarla.

Dell'impegno civile di Pusterla la sua poesia rende ampiamente conto senza mai prenderne la forma esteriore. Sceglierei un'altra poesia per seguire questo percorso, direi usuale per Pusterla: Stanze del crepuscolo. In effetti divisa in tre stanze che comunicano in modo non banale, come succede davvero nella vita mentale. Vediamo delle donne in pelliccia (una chiama l'altra), un bambino, una battuta un po' cretina, "sono piena come un uovo di Pasqua", colta per strada. Nella seconda stanza entra in primo piano proprio la strada. C'è un giornale appiccicato sull'asfalto. Foto di brutta gente. "Sembra il Duce" aveva detto la madre parlando di quella faccia. La poesia diventa politica nell'ultima stanza, la più enigmatica e dolente:

 

Dicono che in tedesco la parola Angst

copra lo spettro livido che corre

dall’ansia alla paura, con ogni sfumatura

intermedia: cieco timore, angoscia, 

presentimento cupo di sventura, 

cristalli rotti, roghi e il resto poi, 

che consegue. Economia

semantica, riassumere
 

in cinque lettere tutto il venir meno

della luce. Tutto lo sprofondare 

fra di noi.

 

C'è una disperazione alla Dylan Thomas, ci sono addirittura delle assonanze. La conclusione è che ci vorrebbe proprio quella parola tedesca così inquietante per descrivere quello che ha visto. In un'altra poesia appaiono altre signore con SUV e sportine, nel pieno trionfo delle svendite. Dev'esserci "qualcosa di eroico che mi sfugge"… In un rapido passaggio lo sguardo vola verso i movimenti di una gru, del suo carico, che ha una sorta di coda. La poesia si conclude con una danza macabra, nella terza stanza, di cavi e di coda che s'attorcigliano… Un quadro astratto ma concreto, come in certe foto di Giacomelli, quando scopri che la cornice di un bel campo arato è filo spinato fuori fuoco.

Ecco, c'è l'astrattezza, ci sono dei sogni, come quello bellissimo del…

 

Canyon. Acqua tinta impetuosa 

sgretola rocce altissime. È rossa, 

l’acqua, o rosa. A capotavola 

siede Alessandro Manzoni, 

con i capelli candidi e un maglione 

girocollo turchese. Saluta tutti. Porge 

dei fogli a me. Contengono

i nomi di tutti i pesci d’acqua dolce, 

di fiume e di lago. “Forse le serviranno 

laggiù, caro signor 

pescatore di perle. Vada. Si faccia onore”. 

 

Il poeta è continuamente esposto alla furia degli elementi, alla fine più accettabili, condivisibili anche se per forza, alla furia della stupidità che lo ferisce. È un continuo, una sequenza martellante di immagini. "Pasolini appeso" recita una scritta. C'è una ragazza "in posa da cubista su una stele/del Denkmal di Berlino" (il Memoriale di tutti gli Ebrei uccisi nel corso dell'ultima guerra) e alla fine della poesia il poeta prende un respiro, si trasforma in yogi, cerca di sentirsi vivo perché qualcosa dentro di lui è morto. Questo qualcosa che è morto, e che si assomma ai milioni di morti ricordati dal Memoriale, è la memoria. Il mondo sembra confondere la memoria con le opinioni. 

"Parto da quel silenzio\ in cerca di parola. \Con me porto l’assenza. \Stella che non consola. "

Allontanarsi volontariamente, allora, rivolgersi ai luoghi, alle montagne, ai laghi e ai fiumi…

 

Lungo questo sentiero di silenzio: 

pietre nere, pettirossi quasi immobili 

su balze di muro o ringhiere,
 

lunghi gatti che guardano altrove. 

E quando passi si stirano pigri, 

i gatti, i pettirossi non volano via. 

Come se tu non ci fossi. 

O fossi già 

tu andato via. 

 

Ecco, questa mi sembra la posizione naturale del poeta. Non parla, ascolta, non si mostra, si mimetizza. Gli animali sentono che non si tratta di una presenza predatoria. 

Inoltrandosi in questo mondo senza uomini si aprono panorami di pietre, e le pietre diventano costellazioni, e altre pietre in forma di meteore solcano il cielo stellato. Dove nascono le stelle, ci si spinge lontano. E giù, a terra, più in basso del livello del mare. Dovunque.

A un certo punto della narrazione poetica appare il fiume. "Il fiume immobile scorre…" Lassù "la musica del ghiaccio che smuove la roccia…"

L'acqua non è una metafora della vita, è la vita stessa. Soltanto questo vorrei precisare introducendo il grande tema dell'acqua. Ho deciso di chiamarlo così, e la stessa rilevanza dà al tema il regista che ha realizzato il documentario su Pusterla. Il lago, la palude, il ruscello, le gocce d'Argéman, che a un certo punto appaiono bianco-azzure incuneate nel verde.

 

Lì, direi in limine, è la casa del poeta. Da lì si intuisce la profondità del ghiacciaio, l'acqua che vi scorre a gocce. Soltanto due figure umane, pochi uccelli. Il tempo non è idilliaco. Non voglio anticipare la sorpresa – si aprono dei veri poemi con versi cristallini, di ghiaccio e di neve. L'apparizione del Custode di ultimi cenni del Custode delle acque mi entusiasma. Forse è il cuore del libro. Ci avviciniamo con l'eco di parole antichissime, secolari. Come secolare dev'essere stata la vigilanza di quel luogo. C'è vigilanza perché c'è pericolo, insito nell'apparente tranquillità del fiume. Che è in se stesso incontenibile, è già quel che sarà, agli occhi del custode.

Il dialogo che sembrava scomparso da queste poesie, e che è componente preziosa dei versi di Pusterla, riappare in modo del tutto inatteso. Il dialogo, dai toni leopardiani, diventa quello con il fiume. E la voce è quella del custode, che descrive la minaccia che sale.

 

Non ho più tempo di ascoltarti dice il fiume. 

Ribolle adesso l’acqua non c’è riva 

a tenerla, divaga…

 

Terra, aria, acqua e fuoco: i quattro elementi fondamentali verso i quali si è sentito attratto l'autore sembrano riuniti nella risposta del Custode (il poeta, colui che guarda), una delle più belle poesie del libro trascritta in parte all'inizio. Qui voglio trascrivere altri versi, che sono versi-ponte, un collante ad alta intensità poetica che tiene insieme armoniosamente il libro. Sono un elenco, in apparenza, una sequenza, capace di riprodurre il mondo.

 

È vietato lordare le acque. 

È vietato pescare di frodo. 

È vietato portare di là
 

chi di là non deve andare: 

mendicanti, malati, paure, 

disperati di sventura. 

Paghino alle dogane 

pedaggio ai nostri ponti, 

facciano i loro conti o

crepino a casa loro. 

Son venuti da terre lontane 

son venuti senza invito. 

È vietato portare al dito 

l’anello della pietà.

 

Di tutto questo saremo ricambiati. Si immagina il viaggio fatto al contrario, le facce che giustamente ci lasceranno annegare quando avremo bisogno d'aiuto. Perché "quelli" in realtà siamo noi. Fuggire dalla realtà non è possibile.

In Robinie si dice: 

 

…nessuna fuga, qui. Molte realtà, 

molte possibili vite.

Molta inquietudine, certo, ma

molta forza. E fiori, anche, inattesi,
 

gialli su vecchi ronchi. 

Vivere più realtà, com’è difficile.

 

Il ritorno a casa, appunto alla realtà e alle consuetudini, fatte di treni, di aerei che passano, e ancora di paesaggi. La natura senza gli uomini, questi sono i quattro elementi: terra, aria, acqua e fuoco, in fondo nomi della stessa cosa. Le tre cime, i "tre signori" riassumono tutto nelle loro tre figure affratellate alla base ma diverse nella loro evoluzione verso il cielo.

 

Tre signori. 

Il primo nome è la distanza,
 

il fuoco che brucia lontano,
 

con tenera angoscia;

poi viene mite il signore
 

dell’aria e del sangue, la piuma 

che splende e scompare;
 

e infine il terzo è nome di pietra, 

radicata nei millenni che dice 

di avere pazienza di avere fiducia. 

 

Il libro si chiude nel fuoco, nelle sue varie forme e furie, ma anche nelle sue benevole apparizioni domestiche – è fuoco anche quello del caldo braciere…

Il fuoco, in fondo come l'acqua, appare e scompare, quindi è sempre incombente. Si bruciano i rami potati e le foglie, gli avanzi legnosi… appare la cenere, che è insieme terra e aria, e in entrambe si insinua. L'incendio è anche il rinnovamento del bosco: alberi aspettano il fulmine per anni per finalmente riprodursi.

 

Margine estremo del fuoco.
 

Cenere persa nell’aria e terra dolce. 

Voce del vento che muove le fronde, discreto. 

 

Così si annuncia il poemetto eponimo quasi in chiusura del libro. Cenere, o terra. Qui tutte le cose si mescolano, alberi e tralicci, terra e cemento. La nostra convivenza con il resto della natura, cioè il nostro modificarla. È cenere, il pulviscolo nell'aria o è lo scarico di un diesel? L'Angelo del senso ha lasciato la terra per sempre? Cenere sono anche bambini morti e affogati o uccisi dalla sete o dagli infiniti morbi che stanno laggiù, dove si vive la realtà di un girone orribile: gli ultimi, gli inguardabili, i nullafacenti… Memorabile la poesia che scaturisce dall'incontro quasi muto con il nigeriano Victor, che si gratta la rogna e scompare nel buio. La poesia può soltanto ritrarlo per sempre, ritrarlo nella sua fuga, contento del minimo incontro umano fortunato. Quello che è lì e che ti ascolta e ti guarda è il poeta, che per un istante è stato simile a lui, simile con simile. Il messaggio civile della poesia di Fabio non è davvero politico, è più antico, riguarda sentimenti di fondo. Indefinibili con le parole, ma profondi. È vero, sembra dire il poeta, c'è il Destino implacabile, l'immutabilità delle cose, ma il poeta non è uno che canta per cantare, è uno che sin dalle origini si ribella ai voleri delle divinità capricciose. Sin dalle origini della poesia e fino ai nostri giorni: Rage, rage against the dying of the light.

 

In questo viaggio dantesco dentro gli elementi c'è anche un approdo, fragile e provvisorio. Le tempeste di acqua e fuoco sembrano finite, la cenere lentamente si deposita, le colline riprendono la loro forma abituale e provvisoria. Si può tornare a casa. "La strada che prosegue fa un po’ meno paura." 

Un poema, cos'è? Forse banalmente il romanzo del poeta. Ecco, come il romanzo, studiato con amore da generazioni di filologi ben noti a Pusterla, il poema è più convenzione che categoria, non essendo realmente definibile. Il romanzo non esiste, il poema non esiste. Ogni poeta scrive il suo poema, lo reinventa, così come il narratore reinventa quel che genere non è mai stato. La struttura stessa, è invenzione. È sicuramente il caso di Cenere, o terra.

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La disuguaglianza nelle società capitalistiche contemporanee

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Domani 25 ottobre 2018, alle ore 18.30 al Circolo dei Lettori di Torino, Andrea Brandolini - Capo del Servizio Analisi statistiche, nel Dipartimento Economia e statistica della Banca d’Italia - per il ciclo Parole del contemporaneo: salario.

 

Nel 2015 appena 62 individui disponevano della stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone – la metà più povera dell’umanità (Oxfam, 2016). La disuguaglianza dei redditi e della ricchezza è tema di grande attualità. Non passa giorno senza che il rapporto di un’organizzazione internazionale, un’inchiesta giornalistica, un blog ne sottolineino il valore elevato o l’inesorabile tendenza crescente, nei paesi avanzati e a livello globale. L’espressione “1 per cento” è entrata nel lessico quotidiano per indicare i ricchissimi, in contrapposizione alla massa assai più povera costituita dal rimanente 99 per cento della popolazione. Il successo di pubblico, oltre che accademico, del monumentale volume di Thomas Piketty Il capitale nel XXI secoloè l’esempio forse più rappresentativo di un’attenzione impensabile fino a un decennio fa. 

 

È in larga parte una conseguenza della Grande Recessione del 2008-09 e della difficoltà dell’economia globale di tornare su un sentiero di crescita sostenuta, pur nella grande diversità tra le varie aree del mondo. Probabilmente rimane minoritaria la posizione di chi individua nella sperequazione dei redditi negli Stati Uniti uno dei fattori principali all’origine della Grande Recessione, ma non v’è dubbio che la crescita debole, se non ristagnante, abbia considerevolmente aumentato la preoccupazione per le disparità economiche all’interno dei paesi avanzati. All’indomani della Grande Recessione, un commentatore autorevole come Martin Wolf scriveva sul Financial Times che la riduzione della disuguaglianza è una delle sette sfide che il capitalismo dovrà affrontare per sopravvivere. Qualche mese dopo, il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, indicava disuguaglianza e qualità della crescita fra le tre priorità della politica economica mondiale: “la crescita è essenziale per il futuro dell’economia globale, ma deve essere una crescita di tipo differente. Una crescita che non sia semplicemente la conseguenza indiretta di una globalizzazione senza freni. Una crescita che sia inclusiva”.

 

Che esistano grandissime disparità economiche all’interno e tra i paesi del mondo è indiscutibile. La citata stima dell’Oxfam si basa su ipotesi di calcolo ardite e basi statistiche frammentarie, ma il suo significato non muterebbe se anche il numero dei ricchissimi fosse 100 o 1000 volte quello indicato. Non è però un fatto nuovo. Le stime della distribuzione dei redditi tra gli abitanti del mondo, anch’esse da prendere con grande cautela, indicano come la disuguaglianza globale abbia probabilmente raggiunto i valori più elevati, assai maggiori di quelli osservati in qualsiasi singola nazione, intorno ai primi anni Novanta. 

In gran parte dei paesi avanzati è da oltre un trentennio che la disuguaglianza dei redditi è in aumento. Lo segnalano sia i dati raccolti con le indagini campionarie sia le informazioni desunte dai dati fiscali. Questi ultimi, alla base dei lavori di Piketty, mostrano come la quota sui redditi prima delle imposte dell’1 per cento più ricco della popolazione diminuisca dagli anni tra le due guerre mondiali fino alla fine degli anni Settanta (Figura 1). Negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Canada questa tendenza discendente si inverte bruscamente negli anni Ottanta e la quota è oggi sui valori anteguerra. Anche in Italia e in Svezia la dinamica cambia negli anni Ottanta, ma l’aumento seguente è assai più contenuto. In Germania l’inversione nel trend si manifesta in modo pronunciato più tardi, negli anni Duemila. In Francia la tendenza alla crescita è appena percettibile. Gli indici di concentrazione di Gini per i redditi disponibili equivalenti che riflettono l’effetto perequativo della tassazione e la condivisione delle risorse all’interno della famiglia, danno indicazioni qualitativamente simili per il lungo periodo, sebbene vi siano differenze su intervalli temporali più brevi.

Perché la disuguaglianza preoccupa e perché solo ora? Per rispondere a queste domande occorre volgersi all’intreccio tra fatti e teorie e tra spinte politiche e forze economiche.

 

Vizi privati, benefizi pubblici

 

... se un popolo aspira a essere grande, il vizio è necessario allo Stato quanto la fame per mangiare. La virtù da sola non può far vivere le nazioni nello splendore; coloro che vorrebbero far tornare l’età dell’oro insieme con l’onestà debbono accettare le ghiande.

Bernard Mandeville, 1714 

 

Bernard Mandeville era un medico olandese, nato a Rotterdam nel 1670, specializzato in isteria e ipocondria. Passò gran parte della vita adulta a Londra, dove divenne famoso per un pamphlet politico pubblicato nel 1714 con il titolo La favola delle api: ovvero vizi privati benefizi pubblici. Il pamphlet raccontava di una società di api ricca e prospera, invidiata e temuta dagli alveari vicini, nonostante che vi fossero grandi disparità: molti che svolgevano lavori faticosi, altri che vivevano nell’ozio e nel lusso. Un giorno, per intervento divino, tutte le api divennero probe e oneste. Scomparvero sprechi, lusso e ingiustizie, ma alla fine le api, tese a produrre solo ciò che era necessario senza alcuna concessione al superfluo si ridussero in miseria. Non gli rimase altro che essere contente della propria onestà.

Il pamphlet destò scandalo, perché considerato portatore di idee libertine, ma ebbe grande influenza sull’agenda degli economisti nei decenni successivi. Il suo influsso trapela nella famosa descrizione che Adam Smith diede della divisione del lavoro: “Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo e con loro non parliamo mai delle nostre necessità, ma dei loro vantaggi”.

 

Bernard Mandeville.

 

L’idea che il benessere collettivo si raggiunga quando ciascuno è libero di perseguire egoisticamente la propria utilità personale ha permeato una parte importante della disciplina economica. Il primo teorema fondamentale dell’economia del benessere di Kenneth Arrow e Gérard Debreu, il culmine della ricerca teorica fondata sull’ipotesi di agenti atomistici che massimizzano la propria utilità, stabilisce che sotto certe condizioni un equilibrio concorrenziale è un ottimo Paretiano, cioè non esiste alcuna allocazione alternativa dei consumi che aumenti l’utilità di un individuo senza ridurre quella di qualcun altro. Nondimeno, l’efficienza dell’equilibrio competitivo non implica che esso sia anche equo, perché dipende da una distribuzione originale delle risorse che è data e può essere assai sperequata. “Se la vita della massa dei poveri non può essere resa migliore senza intaccare la ricchezza dei ricchi”, scrive Amartya Sen, “la situazione sarebbe un ottimo Paretiano nonostante la disparità tra i ricchi e i poveri”.

 

Le condizioni alla base del teorema di Arrow e Debreu non sono mai soddisfatte in realtà e la ricerca successiva ha a lungo indagato cosa accade quando l’informazione è imperfetta, i beni non sono omogenei, le imprese hanno potere di mercato, esistono barriere all’entrata e così via. Parallelamente, tuttavia, una nozione stilizzata di equilibrio economico generale diveniva la base (“micro-fondazione”) della teoria macroeconomica anti-keynesiana sviluppatasi negli anni Settanta e centrata sul concetto di “agente rappresentativo”. Per costruzione, spiegare gli andamenti economici in base al comportamento ottimizzante di un unico agente “rappresentativo” degli individui (o delle imprese) che interagiscono nella società significa ignorarne la grande eterogeneità. Non vi sono molte possibilità per analizzare la distribuzione personale dei redditi con questo approccio, largamente dominante pur con sfaccettature diverse. Non sorprende, quindi, la lapidaria affermazione di Robert Lucas: “Tra le tendenze dannose per una solida analisi economica, la più seducente, e a mio parere la più velenosa, è concentrarsi sulle questioni distributive. ... Il potenziale per migliorare le vite dei poveri trovando modi diversi di distribuire la produzione corrente è nulla in confronto al potenziale apparentemente illimitato di incrementare la produzione”.

 

Anche abbandonando il mondo dell’agente rappresentativo, è diffusa l’idea che esista un conflitto tra equità ed efficienza, per almeno due ragioni. Da un lato, l’accumulazione di capitale può richiedere un’elevata concentrazione della ricchezza poiché molti investimenti sono indivisibili e richiedono un ingente ammontare iniziale di risorse che non può essere raccolto su mercati finanziari imperfetti. Dall’altro, una distribuzione egualitaria può rappresentare un disincentivo per gli individui a impegnarsi nelle loro attività. Come scriveva Arthur Okun in Equality and Efficiency. The Big Tradeoff: “Una società capitalistica democratica andrà alla continua ricerca dei modi migliori per tracciare il confine tra il dominio dei diritti e il dominio dei dollari. E può fare progressi. Di certo però, non verrà mai a capo del problema, perché il conflitto tra uguaglianza ed efficienza economica è inevitabile”.

I nessi tra distribuzione delle risorse e crescita economica sono tuttavia molto più complessi. Primo, la distribuzione può influenzare la domanda aggregata. Una maggiore disuguaglianza può ridurre la domanda attraverso effetti di tipo keynesiano, poiché la propensione al consumo è correlata negativamente con il reddito. Inoltre, nelle fasi di decollo industriale, l’esistenza di un’ampia classe media può essere una condizione per il consolidamento dell’industrializzazione quando l’adozione di tecnologie più avanzate richieda un livello critico di domanda interna: con un’eccessiva concentrazione della ricchezza la domanda dei possidenti si rivolgerebbe a beni di lusso prodotti all’estero, mentre con una distribuzione egualitaria si rischierebbe di non generare domanda sufficiente ad attivare la produzione interna. Secondo, ipotizzando che gli individui abbiano preferenze ben definite in funzione del loro reddito, la combinazione di imposte e trasferimenti scelta in un sistema democratico maggioritario è quella preferita dall’elettore “mediano”, che si colloca esattamente a metà della distribuzione dei redditi.

 

Quanto più questi è povero, tanto maggiore è la redistribuzione preferita e tanto minore è, di conseguenza, la crescita, poiché le imposte influenzano negativamente gli incentivi a investire: così la disuguaglianza (misurata dalla distanza della mediana dalla media) ostacola la crescita economica. Terzo, le imperfezioni nei mercati finanziari possono impedire agli individui poveri di sfruttare le possibilità di investimento quando non abbiano abbastanza capitale da offrire in garanzia: non potendo prendere a prestito, potrebbero per esempio trovarsi nell’impossibilità di investire in istruzione ed essere costretti ad accettare lavori a più bassa qualifica e meno retribuiti. Una distribuzione sperequata intralcia così l’accumulazione di capitale umano e frena la crescita. L’interazione tra asimmetrie informative e distribuzione disuguale può portare ad allocazioni delle risorse inefficienti in vari altri modi.

Una volta confutato sul piano teorico che esista necessariamente un conflitto tra uguaglianza e crescita, la questione si sposta sul terreno empirico. Le stime degli anni Novanta sono giunte a risultati contrastanti, anche se in prevalenza il legame è risultato positivo. Gli studi più recenti confermano che la relazione è complessa ed è difficile trovare una solida relazione univoca. Tralasciando i problemi posti dalla qualità dei dati, la ragione di questa indeterminatezza va probabilmente ricercata nel fatto che la relazione tra distribuzione delle risorse e crescita economica dipende dalle istituzioni politiche, sociali ed economiche e varia quindi nel tempo e tra paesi.

Ciò nonostante, la concreta possibilità che una distribuzione sperequata abbia conseguenze negative per la crescita, unitamente alla consapevolezza che occorra tenere conto dell’eterogeneità degli agenti economici, visto il fallimento dei modelli macroeconomici basati sull’agente rappresentativo, spiega perché all’indomani della Grande Recessione sia rapidamente salito l’interesse per gli aspetti distributivi. È un interesse “strumentale”: il livello della disuguaglianza è importante per i potenziali effetti destabilizzanti sull’economia, non perché segnala una distribuzione delle risorse ingiusta. Gli sviluppi dell’analisi teorica ed empirica non sono però l’unica ragione per l’emergere della questione distributiva.

 

Effetto tunnel

 

Supponiamo che io percorra in automobile una galleria a due corsie, entrambe orientate nello stesso senso di marcia, e che m’imbatta in un brutto ingorgo di traffico. Per quanto riesco a vedere (che non è molto), nessuna automobile si muove né nell’una né nell’altra corsia. Io mi trovo nella corsia di sinistra, e mi sento avvilito. Dopo qualche tempo, le automobili nella corsia di destra cominciano a muoversi. Naturalmente, il mio umore migliora considerevolmente, perché so che l’ingorgo è stato risolto, e che il turno della mia corsia verrà da un momento all’altro. Anche se sto ancora fermo, mi sento molto meglio di prima, grazie appunto all’attesa che assai presto potrò muovermi. Ma supponiamo che l’attesa venga delusa, e che soltanto la corsia di destra continui a muoversi. Ebbene, in questo caso io, e con me i miei compagni di sventura, sospetterò un imbroglio; e ad un certo punto molti di noi monteranno su tutte le furie, e saranno pronti a correggere la patente ingiustizia ricorrendo all’azione diretta (per esempio attraversando illegalmente la doppia striscia bianca che separa le due corsie).

Albert Hirschman, 1973 

 

Nel dibattito sulle politiche di sviluppo degli anni Cinquanta e Sessanta, Albert Hirschman introdusse “l’effetto tunnel” per spiegare come la tolleranza sociale per le disuguaglianze dipenda dalle caratteristiche del processo di crescita e come una distribuzione diseguale dei frutti dello sviluppo non generi necessariamente instabilità politica, rivolte popolari e risposte autoritarie. L’intuizione dell’effetto tunnel è però più generale.

Nell’ultimo trentennio il funzionamento dell’economia globale è stato radicalmente trasformato dall’integrazione dei mercati reali e finanziari e dalla rivoluzione delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Questa trasformazione è coincisa con un miglioramento degli standard di vita in molte aree del pianeta, in particolare in Asia. Secondo le stime della Banca Mondiale, il numero delle persone che vivono in povertà estrema (con meno di 1,90 dollari al giorno a parità di potere d’acquisto del 2011) si è più che dimezzato tra il 1990 e il 2012, passando da 1.959 a 897 milioni; la loro quota sulla popolazione mondiale è diminuita dal 37,1 al 12,7 per cento. Il processo di convergenza che ha visto le economie emergenti crescere molto più rapidamente delle economie mature non ha solo ridotto l’incidenza della povertà estrema in quei paesi, ma ha anche contribuito a ridurre il livello della disuguaglianza mondiale, nonostante l’aumento dei divari di reddito all’interno di molti paesi. Si è attuata quella che François Bourguignon ha definito una “internalizzazione” della disuguaglianza mondiale per cui le disparità tra americani e cinesi sono state in parte rimpiazzate da maggiori disparità tra ricchi e poveri negli Stati Uniti e tra ricchi e poveri in Cina.

 

Albert Hirschman.


Questa internalizzazione è l’altra faccia dei cambiamenti innescati dai progressi tecnologici e dalla globalizzazione. Nelle economie mature, l’organizzazione del lavoro è mutata, a favore dei lavori più qualificati e a svantaggio delle mansioni più ripetitive; pressati dalla mobilità dei capitali, allo scopo di recuperare competitività i governi hanno liberalizzato i mercati dei beni, deregolamentato il mercato del lavoro, diminuito le aliquote fiscali marginali, ridimensionato le politiche sociali e assistenziali. Questi processi hanno generato vincitori e perdenti. Le differenti dinamiche dei redditi sono state inizialmente “tollerate”, talvolta anche sostenendo i livelli di vita con un maggiore indebitamento, in attesa di un riequilibrio che non è però avvenuto. In linea con l’effetto tunnel, questo stato di cose non poteva durare senza che a un certo punto riemergesse la questione dell’equità della distribuzione. Ciò è avvenuto con la Grande Recessione, innescata da comportamenti speculativi, più o meno leciti, su mercati finanziari deregolamentati, ma dalle pesanti ripercussioni sull’economia reale. La crescita delle posizioni populistiche e antisistema è l’esito politico dell’effetto tunnel. È un esito che contribuisce a spiegare l’attenzione attuale alla questione distributiva anche in circoli finora refrattari a tenerne conto. Un esito prevedibile. Come avvertiva Dani Rodrik vent’anni fa, “la sfida più seria all’economia mondiale negli anni a venire sta nel rendere la globalizzazione compatibile con la stabilità domestica, sociale e politica – ovvero, detto in modo ancor più diretto, nell’assicurare che l’integrazione economica internazionale non contribuisca alla disintegrazione sociale domestica”.

 

Episodi non trend

 

… è fuorviante parlare di “trend” nel descrivere l’evoluzione dal dopoguerra della distribuzione dei redditi … in numerosi paesi può essere meglio pensare in termini di “episodi” in cui la disuguaglianza è diminuita o aumentata.

Anthony Atkinson, 1997 

 

I sette paesi ricchi considerati nella Figura 1 condividono un profilo temporale della disuguaglianza a U. Quest’evidenza può spingere a concludere che l’andamento della disuguaglianza sia determinato da fattori comuni, che è naturale identificare con la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica. A un’analisi più accurata si osserva tuttavia che la forma della U è diversa da un paese all’altro: varia il periodo in cui si osservano i valori minimi e la lunghezza di questo periodo; varia di quanto il braccio destro è speculare a quello sinistro; la dinamica non è uniforme, ma segmentata. Come nota Anthony Atkinson, la disuguaglianza appare muoversi in modo irregolare, configurando una successione di episodi più che trend ben definiti di lungo periodo. Mutamenti cospicui si concentrano spesso in tempi relativamente brevi, intercalati da fasi in cui poco cambia.

Ciò suggerisce che le cause di fondo comuni come progresso tecnologico, globalizzazione ed evoluzione demografica interagiscono con fattori nazionali specifici, riconducibili ai cambiamenti dei sistemi fiscali e di protezione sociale, degli istituti del mercato del lavoro o della struttura proprietaria, in ultima analisi agli equilibri politico-sociali di una comunità nazionale. Questi fattori non sono indipendenti l’uno dall’altro. Per spiegare l’evoluzione della distribuzione occorre quindi calare l’analisi delle grandi forze comuni nel contesto storico di un paese, concentrandosi in particolare sugli snodi cruciali in cui cambiano questi equilibri politico-sociali.

 

Era il tempo della speranza

 

In un clima di forte e crescente tensione il 21 dicembre, con la mediazione del ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin, viene firmato il contratto nazionale dei metalmeccanici per il settore privato. Quello per le Partecipazioni statali era già stato firmato il giorno 9. Tra i risultati conseguiti ci sono: le 40 ore settimanali di lavoro; gli aumenti salariali uguali per tutti; i vincoli allo straordinario; il diritto di assemblea in fabbrica; le garanzie contro gli abusi disciplinari; il superamento delle differenze tra operai e impiegati nei trattamenti di malattia e infortunio. Si chiudeva così una vicenda importante e, per certi versi, una stagione.

     Il 1969 sindacale è stato certamente un fattore di proporzioni straordinarie, ma non una rottura assoluta con il passato. Come lo era stato invece per gli studenti. Tutto il decennio Sessanta può essere infatti considerato una lunga incubazione, una lunga preparazione teorica e pratica. Un importante (e forse irripetibile) periodo di sperimentazioni contrattuali e rivendicative.

Pierre Carniti, 2001 

 

L’“autunno caldo” è uno snodo cruciale per la società italiana. Esso chiuse la stagione di “incubazione” degli anni Sessanta e ne aprì un’altra, una fase “egualitaria” durata poco più di un decennio che ha radicalmente cambiato gli assetti sociali e distributivi del Paese. Quella fase egualitaria coincise con un periodo di grandi mutamenti del quadro internazionale, caratterizzato dalla fine degli accordi di Bretton Woods, da due shock petroliferi, dal ritorno dell’inflazione e dalla fine di quel trentennio di rapida crescita delle economie capitalistiche seguito alla seconda guerra mondiale poi definito l’era d’oro del capitalismo.

In Italia, per tutti gli anni Settanta il conflitto sociale si mantenne molto acuto e la capacità di rappresentanza dei sindacati raggiunse un punto di massimo (Figura 2). I rapporti di forza si spostarono nettamente a favore del lavoro e alla metà del decennio la sua quota sul prodotto nazionale raggiunse i valori più elevati dal dopoguerra. Nell’industria, i redditi dei lavoratori dipendenti giunsero a rappresentare quasi i due terzi del valore aggiunto, da meno della metà nei primi anni Cinquanta. In un contesto in cui le domande retributive erano fortemente egualitarie maturò la riforma del meccanismo di indicizzazione del 1975 che portò all’adozione del punto unico di scala mobile. Associata a tassi di inflazione a due cifre, questa regola di indicizzazione si tradusse in una rapida compressione della struttura retributiva almeno fino ai primi anni ottanta, come anticipato all’epoca dalle analisi più attente.

La tendenza verso una minore dispersione delle retribuzioni negli anni Settanta fu generalizzata: si manifestò in una riduzione dei differenziali tra i diversi livelli di inquadramento (almeno nel comparto metalmeccanico), dei divari tra i vari settori, delle disparità complessive tra i lavoratori dipendenti, anche al netto delle imposte sul reddito. Questa spinta perequativa si propagò dalle retribuzioni ai redditi personali imponibili e ai redditi familiari complessivi: come mostrato nella Figura 1, la quota di reddito ante-imposta dell’1 per cento più ricco e l’indice di Gini dei redditi disponibili equivalenti scesero nei primi anni Ottanta a valori storicamente tra i più bassi.

 

La fase egualitaria non si limitò alla distribuzione dei redditi, ma riguardò altre dimensioni della qualità di vita, come gli orari e le condizioni sul posto di lavoro, ricordati nella citazione di Carniti, o la protezione offerta dal sistema di sicurezza sociale. Nel 1978 venne istituito il Servizio Sanitario Nazionale, il primo dell’Europa continentale, volto ad assicurare trattamenti sanitari universali, gratuiti e uguali per tutti. Quelle riforme contribuirono a diminuire le disuguaglianze nei livelli di vita, in un senso più ampio di quello colto dai soli redditi monetari, anche negli anni seguenti. Lasciarono tuttavia questioni irrisolte: l’aumento della spesa sociale avvenne al prezzo di un’impennata del debito pubblico ed emersero problemi strutturali che avrebbero indebolito la crescita economica nei decenni successivi.

 

La società dell’insicurezza     

 

... tanto maggiore diventerà il numero dei rapporti di lavoro “deregolamentati” e “flessibilizzati” e tanto più la “società del lavoro” tenderà a trasformarsi in “società dell’insicurezza”. E nel regime dell’insicurezza tutto può essere teoricamente possibile, ma nulla può essere concretamente prevedibile e, tanto meno, predeterminabile. La società dell’insicurezza sfugge infatti a qualsiasi previsione. Sia per le persone e le loro condizioni di vita, sia per le dinamiche politiche e sociali. Nulla autorizza a escludere che una tale prospettiva non possa addirittura mettere in pericolo la stessa democrazia. 

Pierre Carniti, 2001 

            

La spinta egualitaria venne meno nei primi anni Ottanta e, come si è visto, in molti paesi avanzati iniziò allora un lungo periodo di aumento delle disuguaglianze. In Italia, la parola d’ordine degli aumenti salariali uguale per tutti e l’appiattimento retributivo conseguente anche all’operare della scala mobile contribuirono a incrinare il rapporto tra le tre maggiori confederazioni sindacali e le fasce più professionalizzate dei lavoratori. La “marcia dei quarantamila” quadri e impiegati della Fiat nell’ottobre del 1980 a Torino – che “quarantamila non erano”, commenterebbe Pierre Carniti – segnò simbolicamente la spaccatura.

           

Questa frattura costituì un elemento importante nell’indebolimento della capacità di rappresentanza delle organizzazioni dei lavoratori, un elemento del tutto interno alla strategia sindacale, che discese dal perseguimento di un obiettivo intrinseco, l’egualitarismo salariale, a prescindere dal contesto e dalle conseguenze. Come ha osservato Trentin, la “scorciatoia egualitaria nelle rivendicazioni salariali” rappresentava, nonostante molti giusti motivi, “... l’illusione velleitaria di definire in un contratto un salario più o meno indipendentemente non solo dalla realtà, dura a morire, di un mercato del lavoro nel quale la domanda e l’offerta erano anche influenzate dalla scarsità relativa di lavoro professionalizzato, ma anche dalla articolazione professionale effettivamente esistente nel mondo del lavoro e in tutti i luoghi di lavoro. Un’articolazione questa, che rifletteva anche un patrimonio di saperi e di competenze, a volte acquisiti ad alto prezzo, con duri sacrifici, da lavoratori che il sindacato avrebbe dovuto difendere con maggiore rigore, tenendo conto non solo delle loro specifiche e diverse condizioni di prestazione, ma anche delle loro specifiche aspirazioni”.  Non fu però questo il solo elemento di erosione della forza del sindacato, né fu il più rilevante.

           

L’era d’oro del capitalismo aveva portato a una compressione dei profitti e a un rafforzamento della posizione contrattuale delle organizzazioni dei lavoratori che sfidava l’autonomia decisionale delle imprese sugli investimenti e sulla stessa organizzazione del lavoro. La risposta del capitale prese la forma di politiche di outsourcing di parte delle attività, di offshoring e graduale spostamento dell’attività di produzione verso paesi “emergenti”, di sviluppo di tecnologie che permettono di risparmiare lavoro, soprattutto non qualificato. Sotto questo profilo, rivoluzione tecnologica e globalizzazione assumono un connotato in parte differente: non sono solo il frutto di fattori esogeni quali i risultati della ricerca scientifica o l’evoluzione delle relazioni internazionali, ma rappresentano anche scelte strategiche che hanno consentito alle imprese di recuperare potere negoziale. Ne è disceso un indebolimento progressivo della capacità dei sindacati di contrastare uno spostamento della divisione del prodotto a favore dei manager e degli azionisti, a scapito soprattutto dei lavoratori inquadrati nelle mansioni più basse e meno qualificate, e più in generale di condizionare le decisioni aziendali.

           

Ronald Reagan e Margaret Thatcher.


Queste tendenze sono state più marcate negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove le dinamiche più strettamente economiche si sono intrecciate con la riscossa di una cultura centrata sul ruolo esclusivo del mercato, teorizzata dalla reazione anti-keynesiana nella disciplina economica e culminata con le vittorie politiche di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. In entrambi i paesi, a un aumento dei differenziali nelle remunerazioni da lavoro si sono sommate le politiche decise dai governi conservatori di riduzione delle imposte sui redditi più elevati e ridimensionamento della spesa sociale. Nell’Europa continentale, probabilmente per la resistenza di un modello di relazioni sociali più corporativo e per una diversa struttura produttiva, queste tendenze si sono sviluppate più lentamente e in forme diverse. Hanno però spinto le organizzazioni sindacali su posizioni sempre più difensive, portandole a concentrarsi sulla difesa della propria base di rappresentanza rispetto alla tutela di interessi più generali. Anche per questa ragione, gli oneri delle riforme della disciplina dei rapporti di lavoro e dei sistemi previdenziali sono ricaduti soprattutto sui nuovi entranti nel mercato del lavoro e hanno penalizzato maggiormente le classi più giovani.

           

In Italia, l’esito dei cambiamenti nell’organizzazione del lavoro è evidente osservando l’incidenza dei rapporti di lavoro “atipici” tra le varie classi di nascita, dove con atipico si intende, con una rozza approssimazione, ogni occupazione a tempo determinato o a tempo parziale, dipendente o autonoma. Tra i 30 e i 35 anni di età, aveva un’occupazione atipica appena il 6 per cento dei nati negli anni Cinquanta; questa quota sale al 12 per cento per i nati negli anni Sessanta e al 22 per i nati negli anni Settanta e, in futuro, a valori probabilmente ancora più alti per i nati nei due decenni successivi (Figura 3). Allo stesso tempo, le retribuzioni reali al primo impiego sono diminuite progressivamente, comportando un peggioramento della condizione dei giovani sul mercato del lavoro dovuto non tanto alla riduzione delle possibilità occupazionali quanto alla flessione dei livelli salariali e all’accresciuta incertezza sulle prospettive di carriera, con riflessi duraturi sui loro redditi complessivi lungo il ciclo di vita.

           

Questa tendenza alla frammentazione dei rapporti di lavoro è comune a tutte le economie avanzate. È probabilmente destinata ad accentuarsi con la diffusione di micro-attività imprenditoriali rese possibili dall’innovazione, come guidare un taxi per Uber o affittare una stanza nel proprio appartamento con Airbnb. Come ha scritto Branko Milanovic, la prospettiva è di una società dove “nessuno sarebbe disoccupato e nessuno avrebbe un impiego”. Sul futuro del lavoro e dell’uguaglianza incombe il rischio che la nuova rivoluzione tecnologica dei robot e dell’internet delle cose possa portare a una massiccia distruzione di posti di lavoro. Anche se questa previsione non è universalmente condivisa, si pone la questione politica se le scelte tecnologiche siano di esclusiva competenza delle imprese. La risposta di Atkinson, nel suo illuminante Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, è negativa: secondo la prima delle sue quindici proposte per ridurre la disuguaglianza, “la direzione del cambiamento tecnologico deve essere una preoccupazione esplicita dei decisori politici; va incoraggiata l’innovazione in una forma che aumenti la possibilità dei lavoratori di avere un’occupazione e metta in risalto la dimensione umana nella fornitura di servizi”.

 

Per concludere

           

Tre punti meritano di essere ripresi alla fine di queste sparse riflessioni sulla disuguaglianza nelle società capitalistiche contemporanee. Il primo è che l’interpretazione della dinamica della disuguaglianza nel lungo periodo richiede l’analisi di una molteplicità di forze, alcune trasversali alle economie del mondo, altre specifiche dei contesti nazionali. Vi sono congiunture storiche ove si situano i punti di svolta: lo studio di questi “momenti fatali” è essenziale. Secondo, la preoccupazione per la disuguaglianza risponde sia a motivi intrinseci – l’aspetto normativo di equità – sia a motivi strumentali – le conseguenze che può avere su altri obiettivi rilevanti. Perseguire gli uni indipendentemente dagli altri può mettere a rischio il fine di una minore disuguaglianza. Terzo, gli andamenti distributivi non sono solo l’esito dell’interazione tra forze economiche e strutture politico-istituzionali, ma dipendono anche dalle teorie economiche e dagli usi che se ne fanno nell’indirizzare le scelte di politica economica. Sta agli economisti superare una certa inerzia di pensiero, soprattutto nel momento in cui si affronta la questione del “che fare” per ridurre le disuguaglianze.

 

Evoluzione della disuguaglianza dei redditi in sette paesi avanzati.


Fonti e note: Quota di reddito dell’1% più ricco: elaborazione su dati tratti da The World Wealth and Income Database–WID (scaricati il 28 agosto 2016) relativi ai redditi imponibili lordi; per il Canada, la serie 1920-2000 è calcolata su dati tabulati per classi di reddito, mentre la serie 1982-2010 è calcolata su dati individuali per contribuente; per il Regno Unito, i dati si riferiscono a coppie sposate e adulti singoli fino al 1989 e individui adulti dal 1990 in poi. Indice di concentrazione di Gini: elaborazione su dati tratti da fonti nazionali per i redditi disponibili equivalenti; le serie sono indicative degli andamenti qualitativi, poiché ottenute retropolando segmenti di serie parzialmente comparabili e ignorando alcune discontinuità. Per entrambe le statistiche, i livelli non sono comparabili tra paesi a causa delle diverse definizioni dei redditi sottostanti.

 

Conflitti di lavoro, rappresentanza sindacale e quota del lavoro in Italia.


Fonti e note: Tasso di conflittualità sul lavoro: ore non lavorate per conflitti di lavoro nell’industria e nelle costruzioni per unità standard di lavoro dipendente; elaborazione su dati tratti da Istat per i conflitti di lavoro e da Prometeia (1951-1995: R. Golinelli, “La banca dati su dischetto per la contabilità nazionale in Italia in base 1990 (1951-1995)”, mimeo) e Istat (1995-2015) per le unità standard di lavoro dipendente. Grado di rappresentanza sindacale: quota degli iscritti al sindacato (al netto degli iscritti che sono lavoratori autonomi, disoccupati, studenti e pensionati) sul totale dei lavoratori dipendenti; elaborazione su dati tratti da J. Visser, “ICTWSS Data base – Version 5.0” (Amsterdam, Amsterdam Institute for Advanced LabourStudies AIAS, October 2015, archive.uva-aias.net/208). Quota del lavoro dipendente: rapporto tra i redditi da lavoro dipendente e il valore aggiunto al costo dei fattori nell’industria; elaborazione su dati Prometeia e Istat.

 

Fonti e note: elaborazione su dati Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro. Tasso di occupazione: rapporto tra numero di occupati e popolazione residente in ciascuna classe di età. Quota di occupati “atipici”: rapporto tra numero di lavoratori con un’occupazione a tempo determinato o a tempo parziale, dipendente o autonoma, e numero di occupati totali in ciascuna classe di età.

 

 

Questo saggio è estratto da Pensiero, azione, autonomia. Saggi e testimonianze per Pierre Carniti, Edizioni del lavoro, 2017. Per facilitare la lettura secondo la nostra linea editoriale sono state tolte le note.

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Platel-Cassol: la morte in scena

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La leggenda narra che un anonimo committente si sia presentato alla porta di Mozart nel cuore della notte indossando una maschera e un mantello scuro, offrendo una sacca con cinquanta ducati per comporre in quattro settimane una messa da requiem. Allo scadere delle quattro settimane l'uomo tornò per ritirare la composizione che Mozart non aveva ancora completato così gli offrì altri cinquanta ducati dandogli altre quattro settimane di tempo. Mozart morì poco dopo, il 5 dicembre del 1791, lasciando il suo ultimo capolavoro incompiuto. La portò a termine il suo amico e collega Franz Xaver Süssmayr, incaricato dalla vedova del compositore austriaco. 

Da qui una serie di controversie sull'autenticità dell'opera. Il teorico musicale Piero Buscaroli ha addirittura ipotizzato che il Requiem sia rimasto incompiuto non a causa della morte del suo autore, come vuole la tradizione, bensì per una scelta deliberata di Mozart stesso. C'è anche chi sostiene che sia stato Antonio Salieri, secondo un’altra leggenda lo storico rivale di Mozart, a commissionare il lavoro, tanto da indurre nel giovane compositore l'idea che il Requiem fosse per lui, già malato da tempo.

 

 

Giocando con l’ambiguità di appartenenze e di riconoscimento identitario dell'opera, è proprio nei suoi vuoti che è intervenuto Fabrizio Cassol, sassofonista e compositore belga di origini italiane, già autore di musiche di scena per Anne Teresa De Keersmaeker e per la Comédie Française di Parigi, per creare Requiem pour L., con la regia e coreografia di Alain Platel e la direzione di Rodriguez Vangama. È questo il quinto lavoro del fondatore della band jazz Aka Moon con il suo “fratello acquisito” Platel, entrambi alti, magri e con folti capelli ricci. 

Dopo un anno e mezzo di lavoro con quattordici musicisti provenienti da diversi paesi, Cassol, partendo da tradizioni scritte e orali dell'Africa centrale e meridionale, ha contaminato il Requiem di Mozart con il jazz, il rock, l'opera e la musica popolare africana, declinata in varie lingue oltre il latino (Lingala, Swahili, Kikongo, Tshiluba e Lari), in una partitura interculturale nella quale il classicismo mozartiano incontra i caldi colori del deserto, della savana ma anche delle periferie urbane. Cassol riscrive la classicità attraverso la multicomunità. È la cantante sudafricana Nobulumko Mngxekeza, unica donna in scena, a guidare i quattordici elementi del gruppo nel cimitero e nell'interpretazione dell'agonia di L., in arte Lucie, di cui Mozart diventa lo spettro. 

 

 

La scena della sala del Teatro Ariosto di Reggio Emilia, dove Requiem pour L. arriva per il Festival Aperto in prima italiana dopo aver calcato i palcoscenici di tutta Europa, è coperta da un insieme geometrico di parallelepipedi tombali neri di diverse dimensioni e altezze, un chiaro riferimento al Memoriale dell'Olocausto di Berlino. I quattordici performer in abiti scuri e stivali di gomma nera entrano esitanti e usano le tombe come sedili, panche, palchi, passatoie, pedane... Sullo sfondo un grande schermo mostra un filmato in bianco e nero, con il gigantesco primo piano del volto di un'anziana donna, stanca e sofferente. Il Requiem inizia ed è subito chiaro che sarà un percorso a senso unico: il volto si sfigura in smorfie, la musica segue il ritmo di un respiro sempre più affaticato, a volte interrotto, fino all'ultimo slancio prima della ritrovata pace con la morte di L. Quasi due ore di straziante agonia, in cui la musica e i movimenti dei performer l'hanno accompagnata, seguendo ogni sussulto, ogni battito, ogni brivido. 

Alain Platel con la sua compagnia Les ballets C de la B (Ballets Contemporains de la Belgique) nata nel 1984 dà corpo alla morte mettendo in scena i lutti di ogni spettatore, seguendo un’ispirazione già evidente in spettacoli come vsprs (2006), da Vespro della Beata Vergine di Monteverdi, o come Pitié! (2008), dalla Passione secondo Matteo di Bach, realizzati con Cassol, o come il recente, scuro Nicht Schlafen (2016), un viaggio negli orrori della guerra con musiche di Mahler mescidiate con ritmi africani, che richiamano l’altro spettacolo con Cassol, Coup Fatal (2014). Il Requiem diventa un incontro con ogni nostro caro, un inno al lutto di ognuno di noi, in cui il privato diventa un rito collettivo, un momento da guardare e vivere insieme. 

 

Il coreografo belga, ex ortopedico infantile grazie all'aiuto di un medico specializzato in cure palliative ha individuato Lucie, una donna in fin di vita disposta a farsi filmare durante l'agonia e che ha consentito l'uso delle immagini dopo la morte. Così una telecamera è stata collocata nella stanza di Lucie riprendendo ogni istante fino al suo ultimo respiro, sopra un letto con le lenzuola fiorate, accarezzata dai familiari.

 

 

Platel sembra essersi domandato fino a che punto la morte può essere rappresentata in scena. Lo ha fatto attraverso la mediazione di uno schermo. Supera il labile confine dell'irreversibilità della morte, e quindi della finzione teatrale, ma riesce in una tenera messinscena in cui paradossalmente non c'è voyeurismo, ma solo un profondo senso di rispetto della morte. La coreografia con il suo minimalismo è l'elemento cardine di questo rispetto dello spettacolo: mentre la musica accompagna il respiro sempre più faticoso di Lucie, i corpi si muovono diventando da un lato il tormento e la lotta della donna e dall'altro la frustrazione di fronte all'agonia di una persona cara. Platel avrebbe potuto trasformare il rito in danza funebre, come nella tradizione popolare africana, ma ha voluto, con pochi gesti decisi ma precisi, dare oscurità al colore caldo della musica. Tre strumentisti si affiancano al trio vocale lirico e danno “voce” a Lucie. Il congolese Rodriguez Vangama, dietro la sua Gibson fiammeggiante a doppio manico, è l'anima del gruppo a cui detta il ritmo battendosi il petto con il pugno chiuso.

 

Quel petto diventa anche quello di L. in un incitamento a riprendere il ritmo, a continuare, è un cuore che non vuole smettere di pulsare. Niels Van Heertum con la sua tuba dà fiato ai respiri della donna, mentre il fisarmonicista portoghese João Barradas raccorda Mozart ai canti africani seguendo e improvvisando le immagini dello schermo.

Gli interpreti, chiamati a personificare la morte di una donna attraverso il canto, la danza e la musica mettono così in scena anche la morte come soggetto. Quasi due ore in cui i sentimenti si alternano, dall'iniziale rifiuto della situazione alla sofferenza per il dolore e la stanchezza fino allo straziante e interminabile Lacrimosa, in cui anche gli ultimi attimi di ribellione alla morte lasciano il posto all'accettazione della inevitabile fine in un intenso Miserere.

La morte c'è, è tangibile e sconvolgente, Platel ce ne mostra ogni sfumatura più intima, ma siamo a teatro e basta far ripartire il video per ricominciare lo spettacolo.

 

Requiem pour L. si può vedere ancora alle Fonderie Limone di Moncalieri per Torinodanza il 30 novembre e 1° dicembre 2018.

Le fotografie sono di Chris van der Burght

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“Sulla mia pelle”: il fatto sussiste

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Coricato sul letto di un carcere ospedaliero, Stefano Cucchi, arrestato per spaccio il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo, ci appare subito, all’inizio di Sulla mia pelle, come una figura che assomiglia più a una cosa buttata che a una persona. Comincia a esistere, in senso cinematografico, come corpo ormai morto: inerme, pieno di lividi, disidratato, lasciato morire da solo.

 

 

Quelle quattro ossa per sempre incapaci di tirarsi su sembrano avverare le parole che ha lasciato Pier Paolo Pasolini in Empirismo Eretico (1972), poco tempo prima che anche il suo corpo fosse massacrato e fissato dalle immagini in testimonianza visiva perpetua di un’esistenza inconciliata. «La morte – aveva infatti scritto Pasolini – compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile […]. Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci». 

 

Ma il corpo di Cucchi, testimoniato dalle fotografie che la sorella Ilaria ha fatto scattare all’obitorio e mostrato in nove anni di proteste, è un corpo che non conclude, ma squarcia, offende, disturba. Quel volto inteschiato dalla magrezza, sfigurato dagli ematomi e con gli occhi infossati non dà coerenza; è un corpo irredimibile, tanto che potrebbe far ripensare alle parole usate dal principe Myškin, nell’Idiota di Dostoevskij, davanti a una copia del Cristo morto nella tomba di Hans Holbein (1521): «Ma questo quadro può far perdere la fede!». 

 

Hans Holbein il Giovane, “Il corpo di Cristo morto nella tomba”, (1521). Kunstmuseum, Basilea.


 

Impersonato da Alessandro Borghi e da tutti gli altri interpreti (Jasmine Trinca, Max Tortora) con una non comune disciplina attoriale – vale a dire trattando il corpo come significante e non come figurazione caratteristica – il film di Cremonini, scritto con Lisa Nur Sultan e presentato nella sezione Orizzonti dell’ultimo festival di Venezia, deve molto alle scelte di montaggio, e in particolare all’uso del cadavere di Cucchi come immagine da cui provare a svolgere di nuovo la storia, usando dunque la morte più che come punto di arrivo al culmine di una successione ormai definitiva, come centro simbolico da cui ripartire e intorno a cui far di nuovo girare il racconto, andando all’indietro e tornando ad esso nella penultima scena del film, quando si sarà dipanato un filo che si era rianimato mostrandoci Cucchi a partire dalla giornata che aveva preceduto l’arresto, una settimana prima. Stefano entra in campo uscendo, significativamente, da quello che è anche un buco nero, ossia un sottopassaggio da cui sbuca fuori, fisicamente e simbolicamente, mentre si allena facendo jogging e ascoltando, con gli auricolari, una musica che diventa anche la colonna sonora della scena, creando e chiedendo, attraverso la soggettiva acustica, una risposta immersiva. Le nostre orecchie percepiscono i medesimi suoni che ascolta il personaggio. E così aderiamo subito alla pelle di Cucchi, in senso visivo (grazie ai continui pedinamenti e alla costruzione di un campo a misura del suo sguardo), in senso acustico, corporeo, insomma, in una parola: sensoriale. Perché il punto è che Cucchi non dice mai “io”, non guarda mai in macchina interpellandoci direttamente. L’ambiente narrativo costruito dal film non intende parlarci, prima di tutto il resto, di un procedimento giudiziario, ma di una solitudine, dentro la quale, per tutta la durata del racconto, non risuona la domanda: “chi è stato?”, ma, contro la verità “ufficiale” di “un tossico di merda morto in carcere”, “cosa far rivedere e come far rimanere questa esperienza?”. 

 

Costruendo empatia, ma sabotando il pathos, grazie all’eliminazione di qualsiasi versione direttamente e estesamente articolata da Cucchi, Sulla mia pelle risponde a questa domanda facendoci vivere l’ultima settimana di vita del protagonista addosso alla sua pelle, ma lasciandoci fuori dalla sua coscienza, dosando distanza e avvicinamento in senso espressivo, facendo lavorare gli stacchi, i tagli, gli spazi neri. E così, quando, dopo meno di venti minuti dall’inizio, accade il pestaggio, noi non vedremo l’osceno delle botte, che rimane, appunto, “osceno”, situazione fuori scena, lasciata esistere come violenza fuori campo, mentre rimaniamo, per più di otto lunghissimi secondi, in silenzio, nel corridoio livido fuori dalla porta, 

 

 

per poi entrare nel buio dell’abitacolo della volante dei carabinieri, dove cominceremo a intravedere i lividi. Da quel momento, per più di un’ora, come in una specie di Via Crucis (proprio così si chiamava il primo trattamento) il corpo martoriato di Stefano sarà continuamente trasferito e buttato da uno spazio all’altro, sottomesso a decine di sguardi che non vedono. 

 

Donato Bramante, Cristo alla colonna (1480-90 ca.). Pinacoteca di Brera, Milano.


 

Non sono però soltanto gli occhi gonfi, le ecchimosi, la mascella fratturata, tutto questo insieme di dettagli così vistosamente invisibili, a costruire, nel corso del film, l’esperienza di un racconto cinematografico così impressionante e affaticante; perché, forse ancora più delle immagini, è il sentimento complessivo sprigionato dal loro insieme a colpirci, vale a dire il senso di isolamento, non solo fisico ma simbolico, vissuto dal quel corpo vulnerato che sempre di più (per sconforto? per dolore? per rabbia? non lo sapremo mai) non si fida più di nessuno («“Di che c’hai paura? C’hai paura di qualcuno?” “Basta, vattene!”»), fatta eccezione per le voci disincarnate e fantasmatiche che gli arrivano passando tra i muri.

 

 

Questa espropriazione di ogni fede è, forse, la violenza più terribile, e questo è il terreno attraverso il quale Sulla mia pelle, mostrandoci un corpo sempre più rappresentato come corpo afasico, abbattuto, orizzontale, restituisce immanenza alla verità che sta componendo. In un quadro complessivo in cui interagiscono almeno cinque piani temporali diversi, scanditi dai tagli di montaggio e che si alternano e si confondono come in una dimensione sospesa; il film mette in scena anzitutto il tempo della testimonianza di quell’evento rielaborato dal trattamento di regia e subito esibito dalla costruzione di una narrazione disarticolata che riparte dalla fine; poi il tempo vissuto da Stefano e che riviviamo sulla sua pelle; ancora, il tempo degli eventi messi a verbale e registrati; il tempo della latenza (delle cose che il personaggio non dice, coprendosi dietro i tanti “niente”; ma pure delle cose che i molti sguardi che lo scrutano in controcampo non ci fanno sapere); e, infine, il tempo che comincia dopo la morte di Cucchi, quello del processo, delle battaglie dei familiari, il tempo legato alla testimonianza fotografica che ha costruito memoria e discorso condiviso. 

 

A affaticarci, a emozionarci, durante la visione di Sulla mia pelle, è proprio l’esperienza di rientrata in contatto con la possibilità di una condivisione, anche civile, con un cinema «che ci riguarda», avrebbe detto Marco Dinoi. A sorpresa, quasi per dispetto: contro ogni complottismo, contro ogni facile adesione all’ideologia e all’estetica della post-verità. Quel corpo a cui da vivo non si trovava mai posto, sta ancora lì. Quel corpo è un fatto che sussiste. 

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Disorientamento, illusioni e paradossi

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L’indagine artistica di Lamberto Teotino si sviluppa principalmente sull’analisi e sulla natura dell'immagine, esaminandone i meccanismi percettivi. L’utilizzo della fotografia, gli interventi tecnico concettuali su immagini d’archivio, gli approcci filosofici dell’immagine in forma di comunicazione visivo-installativa sono le caratteristiche principali dell’opera. All’artista interessa la disseminazione del senso, del paradosso, le condizioni di alterazione percettiva e di un nuovo disegno concettuale, come una sorta di spostamento metafisico, una deviazione. Nel 2013 viene inserito nel volume The New Collectible Art Photography, di Susan Zadeh, edito da Thames & Hudson, tra gli artisti che nell’ultimo decennio hanno indagato in maniera più innovativa l’immagine fotografica. Nel 2012 la rivista Eyemazing, vincitrice del prestigioso premio “Lucie Awards”, pubblica per intero il progetto Sistema di riferimento monodimensionale, con il quale nel 2011 riceve la menzione speciale della giuria del Talent Prize. Nel 2016 vince il Premio Combat con l’opera Mary Shelley. In occasione della presentazione in anteprima della video-opera Surrendering – alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, nell’ambito di Videocittà (a Roma dal 19 al 28 Ottobre) – abbiamo intervistato Lamberto Teotino. Nei prossimi mesi faremo una ricognizione, attraverso una serie di interviste ad artisti nati tra la fine degli anni Settanta e gli anni Novanta, per approfondire le questioni aperte della post-fotografia e mostrare le diverse declinazioni all’interno della meta-fotografia italiana.

 

Sistema di riferimento monodimensionale SDRM07, 2011 Carbon pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond in wood frame 102 x 86 cm Edition of 3 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection.

 

Mauro Zanchi: Cosa pensi a proposito dello spostamento verso un'altra vita della fotografia?

Lamberto Teotino: La morte della fotografia corrisponde al superamento del mezzo in sé. Nella sua seppur giovane età risulta essere lo strumento più facilmente accessibile. Ora tutti possono fare "scatti". Quindici anni fa era impensabile questa cosa. Anche i bambini possiedono una fotocamera inclusa nel loro telefonino. Probabilmente ogni giorno verranno scattate trecento milioni di foto e siamo sicuri che tra queste non ci siano almeno 3 scatti geniali? Questo è un motivo per cui la fotografia va ripensata. La sua nuova vita probabilmente non è più definibile con il termine fotografia, ma si potrebbe parlare di meta-fotografia, o addirittura di fotografia quantistica, dato che si sta spostando verso lo studio delle particelle o dell'invisibile.

 


Come utilizzi il medium fotografico per dare corpo alle tue immagini?

Non sono mai stato attratto dalla fotografia tradizionale. La fotografia del "reale" fissa un ricordo, vive tra le luci e le ombre di una scena spontanea o ricreata, ma in entrambi i casi la combinazione alchemica che si crea porta in sé una componente prettamente decorativa. Non la considero arte, ma semplicemente fotografia. Rappresenta un documento visivo storicamente utile. A me interessano i meccanismi percettivi di un’immagine, lo spostamento fisico mentale che può fornire un’immagine visiva. Mi interessa creare ambiguità, illusioni, paradossi, inglobare elementi filosofici, matematici, scientifici, mi piace viverla in maniera installativa. Alla fine quello che cerco è il superamento della fotografia con un'alterità enigmatica.

 

In cosa consiste secondo te andare oltre il medium fotografico?

Significa uscire fuori da un punto spaziale preciso, ci sono parecchie possibilità oltre la pellicola o il sensore.

 

Wormhole, 2012-13 Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond in wood frame 41.5 x 34.5 cm Edition of 3 + 2 A.P. + 1 P.P. Courtesy of the artist, private collection.


Nella dialettica tra casualità, programmazione, spontaneità, accumulo e anonimato, per te quanto è importante il ruolo del cortocircuito?

Molto importante direi, gran parte della mia ricerca si indirizza verso quella direzione. Lo spettatore diventa parte integrante dei meccanismi devianti che applico nel comporre un’immagine. C'è molto pensiero dietro le quinte, che poi mi porta a fare determinate scelte solo apparentemente ponderate. Ma in realtà persistono non rari e incontrollabili elementi, che nel loro DNA, attraverso la casualità e la magia, mi risolvono l'opera. Mi sento molto fortunato in questo.

 

Quali sono i soggetti della tua ricerca?  

Da anni recupero immagini d'archivio. Faccio parte di quella generazione definita “Archival impulse” da Hal Foster. La mia ricerca prende spunto dalla realtà, e fin qui non ci piove, e da tutto quello che c'è attorno, dagli odori ai suoni, alle sensazioni emotive ecc.. Poi la ricerca si sviluppa nei vari interessi, tra svariate letture e ossessioni. 

 

Atmospheric Particulate Matter, 2017- (from the series 1816) Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond, gold leaf frame. 127.5 x 152.7 cm Edition of 5 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection.

 

Detail.

 

Detail.


Lo sviluppo di qualcosa non si può esaurire con un’immagine ma ha bisogno di seguire un ulteriore svolgimento?

Io penso che se un’immagine è potente non ha bisogno di immagini satellite per sostenere un pensiero. La ricerca è fondamentale e il risultato finale di una sola immagine può essere il frutto di anni di studio. Credo nell'opera d'arte e non nella solita produzione in serie su cui un autore allunga il brodo.

 

Ci puoi parlare dei territori al confine tra reale, immaginario e straniamento, che ricrei nelle tue fotografie?

C'è un’opera che risponde precisamente a questa domanda, che la racchiude. L'ho realizzata quattro anni fa e si intitola èidolon, che in greco significa "immagine", e il suo concetto ha tre accezioni basilari: anzitutto le immagini fisiche prodotte da un oggetto, dunque i riflessi ad esso proiettati su superfici lisce o lucide; in un secondo senso l’èidolon è l’oggetto stesso reputato immagine imperfetta di altri oggetti ritenuti veri, interessato alla pura verosimiglianza non alla verità, e dunque tale da ingannare; la terza accezione è quella dell’immagine sensibile, appartenente al dominio dell’anima, come intendeva Platone, legato ai nostri desideri, inteso che il corpo ci riempie di immagini. L’èidolon quindi è il manifestare in modo tangibile della presenza di una seconda realtà, parallela a quella vivente ma non meno importante di quella reale.

 

Èidolon, 2014 Inkjet print on Hahnemuhle cotton paper Edition of 5 different formats + 2 A.P. Courtesy of the artist, private collection.


Quale metodo applichi per tradurre un’intuizione in forma?

Non ho un metodo preciso che mi porta a realizzare un’opera. Diciamo che sono in continua ricerca di idee, che poi metto da parte e quando raggiungo gli ingredienti adatti allora provo a unirli. Forse c'è molta più alchimia di quella che penso. Di sicuro però passa molto tempo dall'illuminazione avuta a quando prende vita l'opera; ci sono volte che ho realizzato opere partendo da un titolo, da canzoni, da film, da un colore trovato casualmente in giro. Non c'è una regola.   

 

 


Quale radice d'enigma si nasconde dietro la prima apparenza delle tue immagini?

La sensazione che manchi qualcosa ritengo sia più complicata come operazione. Secondo me togliere è più difficile. Prendi ad esempio la magia. Lo spettatore cerca sempre di capire dov’è l’inganno, proiettandosi così verso l’elemento addizionale, e con lo sguardo cerca sempre di individuare il trucco. Così facendo perde di vista la vera percezione e la forza della magia, cioè quella di vivere ciò che non è visibile. 

 

La tua è una fotografia che trova la propria collocazione nella produzione culturale che ripete all’infinito se stessa, con sottili variazioni e declinazioni, o è una sospensione di giudizio in rapporto col reale?

Le mie immagini nascono dalla realtà e pertanto ne fanno parte. Io sono una persona che giudica e sono fiero di trarre giudizi soprattutto dalle apparenze e non mi interessa se l'apparenza inganna. D'altronde sta a noi scoprirlo. E poi l'inganno mi piace, nello stesso modo in cui lo presento nelle mie opere. Molto tempo fa leggevo gli aforismi di Oscar Wilde e tra tutti mi ha incuriosito quello in cui dice: "solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze". 

 

Secondo Luigi Ghirri, “La fotografia è insieme il luogo dell’analogo e dell’unico, è l’immagine di un mondo possibile, scelto tra tanti mondi possibili, più vicina alla fantascienza che ad altri generi letterari o estetici”. Che ne pensi, in rapporto alla tua ricerca?

Non ci avevo pensato, ma in effetti ho sviluppato progetti unendo il mondo della fantascienza quello dell'immagine. Probabilmente il futuribile si propone più facilmente come sfera di studio da trasportare nella realtà e Ghirri era un grande in questo, uno degli utilizzatori dello strumento fotografico che più ha influenzato il contemporaneo. Ghirri ha inventato il photoshop prima della Adobe.

 

Sistema di riferimento monodimensionale SDRM19, 2011 Carbon pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond in wood frame 92 x 115 cm Edition of 3 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection.


Mi interessano molto i meccanismi di percezione che evochi e inneschi nelle tue opere. Ce ne puoi parlare?

Un'immagine è impressa e vive su un’unica superficie. Nonostante possa avere una prospettiva compositiva, di per sé, nella sua fisicità, risulta piatta. Io invece la vivo come fosse un buco nero, una sorta di wormhole, un canale di passaggio cui ci si può passare attraverso, una finestra spazio-tempo. 

 

Chi è (o cosa è) per te “l’ultimo Dio”, termine che hai scelto come titolo di un tuo progetto? Potrebbe essere la rappresentazione del reale nella memoria eterna?

Sì, potrebbe. Quando penso all'ultimo Dio penso non al Dio ultimo, ma che ognuno di noi può essere un Dio. È un lavoro sulla collettività, quasi come se ognuno di noi dovesse rispondere all'ultima chiamata disponibile. È un lavoro improntato sulla coscienza degli individui e sul loro operato. Tutti noi possiamo cambiare le cose. Ogni persona è come una sorta di eroe contemporaneo.

 

Marsilio Ficino, Giulio Camillo Delminio e i neoplatonici rinascimentali parlavano di deificazione dell'uomo, ovvero della possibilità di ritrovare nella profondità del proprio essere una radice e natura divina, in grado di connettersi con le questioni universali. La tua visione è vicina a queste possibilità? 

Sì, è un punto di vista che mi appartiene. Nel progetto L'ultimo Dio la radice di cui parli è rappresentata dai frattali che ricoprono il volto dei soggetti come tramite tra interiorità ed esteriorità, tra la mente e l'anima; questo processo di auto-similarità crea un linguaggio che si ripete nella sua struttura e allo stesso modo su scale diverse. Studi recenti hanno estrapolato ed esplorato il genoma umano ad alta risoluzione e a tre dimensioni. Ne è derivata una scultura matematicamente armoniosa ed elegante, che ritroviamo in maniera ossessiva in natura in forma di codice. Si ritiene inoltre che i frattali abbiano delle corrispondenze con la struttura della mente umana, ed è per questo che la gente li trova così familiari.

 

L’ultimo Dio - 10, 2012-2013 Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond, oak frame 113 x 155 cm Edition of 3 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection .

 

Guardando i volti coperti da oggetti nella serie "L'ultimo Dio", ho collegato le tue opere con certi lavori di John Baldessari, quelli dove l'artista ha escluso le espressioni facciali delle figure, ponendo cerchi sopra i volti dei personaggi. Quale è l’ulteriore spostamento che hai messo in atto rispetto all’umanità e al futuro immaginato da Baldessari?

Il lavoro di Baldessari è più orientato verso la serigrafia e i suoi soggetti implicano più un'azione nella struttura compositiva, mentre le mie figure sono più asettiche, più algide, avide di emozioni. Nelle immagini di Baldessari anche se il soggetto non viene svelato è comunque il protagonista. Nelle mie immagini invece è l'esatto contrario: il soggetto è monolitico, deve risultare come una scultura, non ha l'intenzione di essere il protagonista, e lo spettatore nel guardare l'opera non dovrebbe cercare un legame con le figure.

 

Ci puoi sintetizzare quali sono gli ingredienti principali (o segreti) presenti nelle tue opere?

Ho passato molto tempo a studiare la composizione dello spazio visivo e questo mi ha aiutato a capire i pesi all'interno di una superficie. Il risultato così ottenuto, perché funzioni, deve risultare straniante per chi guarda, ma normale ai miei occhi, ed è a questo punto che ritengo il mio intento riuscito. 

 

Attraverso quale prospettiva rielabori le immagini degli archivi e della storia?

Attraverso la voglia di rigenerare il passato, fornire uno spostamento di senso al preesistente, per azionare un ribaltamento compositivo e trasformativo con lo scopo di alterare il pensiero di chi guarda. 

 

Mi interessa molto sapere qualcosa di più rispetto al tuo lavoro sulle immagini di opere pittoriche screpolate dal tempo.

Ho rielaborato dei ritratti a olio di tele pittoriche antiche recuperati dal web. Ho poi analizzato ed estrapolato i dettagli dalle parti rovinate e li ho presentati sotto forma di stampa, fondendo così la pittura con la stampa artistica. Il risultato finale risulta un dipinto senza materia e una fotografia senza scatto. Il progetto analizza l’anno 1816, da cui prende il titolo, un anno in cui s’intrecciano fatti e avvenimenti rilevanti, che determinarono la storia contemporanea in maniera significativa. Lo storico John D. Post lo ha battezzato “l’ultima grande crisi di sopravvivenza nel mondo occidentale”. Fu l’anno senza estate. Gli alti livelli di cenere nell’atmosfera, la diffusione di epidemie, la distruzione di raccolti, la morte di bestiame e le abbondanti nevicate dell’estate di quell’anno, in cui si moriva di freddo, costrinsero l’essere umano a non uscire dalle case. Questa estrema condizione di vita fu prolifica però per due tra i più grandi scrittori dell’epoca, e fu così che Mary Shelley e John Polidori, costretti a rimanere al chiuso, gareggiarono su chi avrebbe scritto la storia più spaventosa. Successivamente diedero alla luce due tra le opere letterarie più scure della storia: Frankenstein e Il Vampiro.

 

L’ultimo Dio - 12, 2012-2013 Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond, oak frame 130 x 190 cm Edition of 3 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection.

 

Ci puoi definire cosa intendi (nella tua ricerca) per “magico inatteso”, “enigma metafisico”, “suspense lynciana”?

Una combinazione di elementi inizialmente controllati, che successivamente scaturiscono in una dimensione rigenerante, fornendo così forme nuove appartenenti a uno stato gravitazionale.

 

Che valore dai alla parola "alchimia", nel senso di ingrediente che entra nel processo trasmutativo delle tue opere?

Per “alchimia” intendo generare il nuovo dalla mescolanza delle esperienze. Mi interessa che un’opera acquisti una nuova identità da una preesistente, che unisca i saperi accumulati nel tempo per produrre un disegno nuovo che mantenga l'intangibilità. Questa presenza purtroppo è andata persa nel tempo, a causa del declino dell'alchimia, che è stata sostituita dalla chimica moderna, incline a un disegno matematico e razionale, a sfavore dell'ermetismo che metteva in circolo la linfa filosofale.

 

Di fronte alle tue opere mi sembra che la ulteriore percezione del reale si sposti sul piano del non totalmente determinato, in direzione di una visione “altra” o di una serie di occultazioni, come quando si è pervasi dalla strana sensazione del non sapere se ciò che si è visto o udito è reale o immaginato, personale o condiviso. Ci puoi parlare della cancellazione dei volti nelle persone delle immagini prelevate dagli archivi della memoria?

La cancellazione dei volti che riguarda il progetto L'ultimo Dio avviene perché mi interessa annullare l'anima dei personaggi, che altrimenti emergerebbe dai tratti somatici e dal loro sguardo. Un volto ci comunica troppi elementi e potrebbe far sì che lo spettatore si possa immedesimare in ciò che guarda. A me tutto questo non interessa, voglio togliere punti di riferimento.

 

Come lavori sui meccanismi percettivi dell’immagine? Come ti addentri negli spazi evocativi delle tue visioni?

Cerco di contenere le mie visioni, nel senso che inizialmente non mi do limiti alle contaminazioni, ma quando poi mi occupo della pratica metto ordine alle idee per non uscire fuori da una logica.  Quello su cui tutt'oggi non ho controllo è la riuscita dell'opera. Inizialmente non so come potrà risultare, perché durante il percorso si creano delle dinamiche inaspettate, che la gran parte delle volte spingono l'opera stessa verso un cortocircuito, che crea a sua volta uno spostamento della percezione. Si aprono così degli elementi di lettura nuovi: formano una sorta di campo energetico, che non ti fa capire bene di cosa si tratti.

 

MDCCCXVI, 2017 - (from the series 1816) Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond, gold leaf frame. 66.5 x 80 cm Edition of 5 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection.


Oltre ai motori di ricerca per immagini e agli archivi d’immagini d’epoca, immagino che tu attinga (consciamente o inconsciamente) alla memoria universale che sta dentro alla memoria del tuo corpo e del tuo pensiero. Mi evocheresti qualche passaggio del tuo viaggio in te mentre stai immaginando le tue visioni?

Attingo molto dalla vita reale, a ciò che può capitarmi durante la giornata. Per quanto riguarda le mie passioni ho un forte interesse per il cinema, perché mi piace osservare le inquadrature, le luci e persino gli errori commessi dalla catena regia montaggio-produzione, i cosiddetti "Goof". Prendo spunto dalla musica. Per esempio anni fa ho realizzato una mostra, iI cui concept del progetto espositivo, intitolato EP (extended play), si strutturava sul processo metodologico che si applica nella costruzione di un EP, per l'appunto, in ambito discografico. Tutto questo è una parte del mare magnum che mi circonda e che mi dà continui suggerimenti, al quale poi io devo mettere ordine.

 

Ci parleresti degli aspetti “grammaticali”, presenti in nuce nelle tue immagini, e di quegli elementi che sfuggono alla gestione nell’atto della creazione, e di quelli che inizialmente non vengono considerati e poi appaiono (con l’esercizio dello sguardo) successivamente?

Spesso sono elementi intangibili, composti da pensieri astratti, da interessi, sensazioni, gusti e stili di vita, ma in fin dei conti poco importa se durante la realizzazione di un’opera ci si lancia da una finestra, perché ciò che conta è il risultato finale. Purtroppo è così: quello che lo spettatore vede è solo la parte finale di un’opera. Io personalmente ritengo che tutto ciò che riguarda la gestazione di un’opera non abbia la stessa valenza della riuscita stessa di un’opera. L'artista ha un ruolo molto delicato, in cui il dovere e l'obbligo di fornire un contributo culturale risultano imprescindibili.

È interessante anche sapere qualcosa di più in riferimento alla resa scultorea dell’immagine fotografica (intendo anche l’allusione scultorea evocata dalle crepe delle immagini pittoriche, delle foto rovinate da pieghe, dai tuoi ripiegamenti dei supporti cartacei). E individueresti anche gli elementi di “disturbo” che inserisci nelle tue opere? 

La fisicità che io intendo nelle mie immagini è di natura mentale. L'aspetto scultoreo è il risultato di volumi mentali che lo spettatore avverte nell'analizzare la scena. Un'immagine è bidimensionale per natura. Introducendo un elemento di disturbo – che può essere una linea, una sparizione, un’apparizione, un buco, uno spostamento – ottengo un livello nuovo, che nella lettura si interpone tra il piano naturale e il punto di vista dello spettatore. Questo crea una telepatia volumetrica tridimensionale, che dona un volume più plastico. Si crea così lo spostamento percettivo di cui spesso parlo. La percezione di qualcosa, non necessariamente esistente, fa sì che quella cosa esista in maniera sensoriale e che la mente in tutto questo abbia un ruolo primario.   

 

Cosa è il “Sistema di riferimento monodimensionale”?

Il sistema di riferimento monodimensionale, che dà il nome al titolo del progetto, è un teorema ideato da René Descartes. Si definisce sistema di riferimento l'insieme dei riferimenti utilizzati per individuare la posizione di un oggetto nello spazio, costituito da una retta, sulla quale un oggetto è vincolato a muoversi. A seconda del numero di riferimenti usati si può parlare di Sistema di riferimento monodimensionale (1D), Sistemi di riferimento bidimensionale (2D), Sistemi di riferimento tridimensionale (3D), ma a me ciò che interessava analizzare era la monodimensione. In un’epoca in cui si parla di iperspazio mi affascina l'1D. La ricerca del progetto non si riferisce tanto all’analisi algebrica del teorema, ma cerca di riformulare l’antitesi tra scienza e fenomeno paranormale, in cui, per mezzo di un chiaro intervento digitale definibile come una falla dell’immagine, prende forma lo spostamento nello spazio dell’asse cartesiano; si determina così un risultato visivo dove solo in una specifica porzione (lungo una retta) l’immagine sparisce, mentre il resto dello spazio, in questo caso uno spazio fotografico, rimane immutato.

 

Qual è la domanda che pongono le tue opere e la tua ricerca? 

Non c'è una domanda che pongono le mie opere o la mia ricerca, semmai lasciano a una libera interpretazione. Io non voglio dire nulla attraverso le mie immagini, non voglio insegnare nulla e non voglio fare nessun tipo di propaganda d'attualità, sociale o politica. Spero che diano un senso di disorientamento. Tutto qua.

 

Tutte le immagini per gentile concessione di Lamberto Teotino e mc2gallery, Milano .

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Magritte Berger, storia di un nome

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Dal nove ottobre è in corso alla Fabbrica del Vapore di Milano “Inside Magritte”, un percorso espositivo multimediale, curato dalla storica dell’arte belga Julie Waseige, di centosessanta immagini di opere di René Magritte (1898-1967), dagli esordi fino agli ultimi capolavori. L’undici ottobre, il Palazzo Blu di Pisa, ha inaugurato la mostra “da Magritte a Duchamp.1929: il Grande Surrealismo dal Centre Pompidou”, curata da Didier Ottinger, che ospita circa centocinquanta opere – dipinti, sculture, disegni, collage, installazioni e fotografie – dei maggiori esponenti dell’avanguardia surrealista, tra cui: René Magritte, Salvador Dalí, Marcel Duchamp, Max Ernst, Giorgio De Chirico, Alberto Giacometti, Man Ray, Joan Miró, Yves Tanguy, Pablo Picasso. 

La presenza di Magritte sia a Milano che a Pisa, mi ha fatto ripensare alla vita del pittore belga e all’esortazione «Vieni a fare un giro!», che il quindicenne René rivolse alla dodicenne Georgette Berger, figlia del macellaio di Charleroi. In questa città, dove dal 1913 andò a vivere la famiglia Magritte, si svolgeva una fiera che ospitava una giostra. Il primo gesto che avvicinò René alla sua futura moglie Georgette fu l’invito a un giro di giostra, come le parole di quest’ultima testimoniano.

 

A Charleroi, dove ho trascorso la mia infanzia, c’era una fiera… Sulla piazza, nella parte alta della città, c’era una giostra. «Vieni a fare un giro!», mi disse un ragazzo. (Magritte - his work his museum, Ed. Musée Magritte Museum/Hazan, Vanves Cedex, 2009, catalogo del Museo Magritte di Bruxelles.)

 

Il giovane artista belga e Georgette si sposarono nel 1922. In quello stesso anno, René espose sei quadri in una mostra internazionale organizzata ad Anversa, sotto il nome di “Magritte Berger”. 

Magritte amava accostare immagini e nomi apparentemente inappropriati. Anche per questo dedicava molto tempo al collage. Gli consentiva di creare composizioni libere, inusuali. Lo considerava un ottimo esercizio per separare gli oggetti dai loro contesti funzionali. Era per lui un principio poetico le cui possibilità si prestavano a venire esplorate e trasferite sulla tela. 

La sua passione per il collage, nata dalla scoperta delle opere di Max Ernst, non spiega tuttavia perché Magritte si presentò spesso al mondo sotto un’identità fittizia che includeva quella di sua moglie. Nel 1925 firmò “René Georges” la canzone Norine Blues che scrisse assieme a Georgette e che compose suo fratello Paul Magritte in occasione dell’evento “Gala des choses en vogue”, organizzato dalla casa di moda Norine. Nel 1936 firmò col nome di “Florent Berger” gli articoli che pubblicava per il quotidiano comunista “La Voix du peuple”.

 

Opera di René Magritte.


“Magritte Berger”, “René Georges” e “Florent Berger” sembravano essere un gioco di René e Georgette, il loro giro di giostra.

Chi era Norine? Norine era Honorine Deshrijver che, insieme al marito Paul-Gustave van Hecke, aprì la casa di moda per cui lavorò Magritte realizzando pubblicità legate a eventi e attività affini. Magritte fu disegnatore di copertine di dischi, di poster, di riviste. La sua attività fu varia, come le sue firme. 

La fusione divertita del pittore con sua moglie è rintracciabile anche nelle foto Love e The Shadow and Its Shadow, rispettivamente del 1928 e del 1932, che ritraggono i due coniugi. Nella prima, l’artista poggia un pennello sul corpo della moglie come se lo posasse su una tela. La dipinge, la crea. Nella seconda i ruoli si capovolgono. Georgette è in primo piano e René è dietro di lei, è la sua ombra. È Georgette a creare Magritte, assieme alla luce, poiché ogni ombra è creata da un corpo e dalla sua posizione rispetto a una fonte luminosa.

 

Nell’universo fantastico delle fiabe, così come nei miti, molti sono i casi in cui un essere viene creato da un altro a partire da elementi semplici: acqua, terra, farina, sale, vento. 

La foto di Magritte e Georgette, Love, può rimandare alla fiaba Re Pepe, presente nella raccolta di fiabe e novelle calabresi di Letterio Di Francia, pubblicata da Donzelli e curata da Bianca Lazzaro. In Re Pepe è la figlia del re a creare il suo sposo con farina e zucchero:

 

Una volta c’era un re; la moglie era morta lasciandogli una sola figlia. Siccome era in età da maritarsi, arrivarono proposte da figli di re, marchesi e conti; ma lei le rifiutava tutte e non si voleva maritare. Un giorno il padre la chiamò e le disse: «Figlia mia, perché non ti vuoi maritare?». «Papà –  rispose lei – se voi mi volete maritare, mi dovete dare un quintale di farina e un quintale di zucchero, perché lo sposo me lo voglio fare con le mie mani».

 

 Il pittore belga e sua moglie si crearono a vicenda, e forse è dalla peculiarità del loro incontro che nel 1988 nacque la stanza “René e Georgette Magritte” all’interno del Museo Magritte di Bruxelles.

Le opere dell’artista ci raccontano di sogni e visioni provenienti da una lucida e ferma osservazione del reale. Il modo in cui Magritte riuscì a guardare e a raffigurare le cose è simile a quello di Funes, protagonista del racconto di Borges “Funes, o della memoria” della raccolta Finzioni edita da Einaudi. Funes può essere letto come una caricatura della poetica magrittiana. Di Funes ci viene raccontato che fu travolto da un cavallo selvaggio e che, in seguito a questo incidente, rimase paralizzato ma si scoprì dotato di una memoria e una percezione straordinarie. Sappiamo che, dopo l’incidente, trascorse il suo tempo su una branda fissando dettagli, una ragnatela, un albero di fico dalla finestra. 

Il presente di Funes era denso di particolari, scorci, angolazioni, elementi. Era un presente ricco anche di ricordi, poiché la sua memoria era incredibilmente estesa. 

 

Cadendo, perdette i sensi; quando li riacquistò, il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così pure i ricordi più antichi e banali. Poco dopo s’accorse della paralisi; la cosa appena l’interessò; ragionò (sentì) che l’immobilità era un prezzo minimo; ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili.

 

 La percezione di Magritte era nitida come quella di Funes. Vedeva gli oggetti assieme a tutte le parti di cui erano fatti, per questo poteva scomporli, muoverli, ricomporli e dare loro nuove e inedite collocazioni. A questo invitava il collage. 

 L’opera d’arte diventava così un nuovo e sorprendente ordine nato dal disordine e dal gioco. 

Magritte non viaggiò molto, come Funes. La sua vita, fatta eccezione per il periodo parigino e qualche viaggio, si svolse a Bruxelles. 

Forse il segreto per sviluppare una buona memoria e una percezione attenta risiede nel coltivare una vita stabile, di pochi spostamenti, nell’avere quel tempo che erroneamente viene definito “morto” e che permetterebbe ai nostri occhi di aprirsi al dettaglio, alle piccole e grandi narrazioni che sa offrirci la realtà.

Le diverse firme che uniscono il pittore belga alla moglie sono il risultato della medesima poetica che scompone e ricompone le parti. Sono un ibrido di realtà e finzione, come i quadri di Magritte. Appartengono a personalità immaginate, possibili. L’artista belga era ossessionato dalle infinite possibilità che porta con sé ogni presente e che spesso rimangono celate nelle sue pieghe. 

Le distinte firme ideate dal pittore, probabilmente insieme alla moglie, possono essere intese come un tentativo di esplorare le possibilità ignorate della vita o come un’esortazione a giocare e a invitare chi ci è più prossimo a un giro di giostra.

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Gerda Taro e Vivian Maier

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“Cosa mi fa sentire forte?” si domandava Susan Sontag in un’annotazione del suo diario. “Essere innamorata e lavorare”. E, ancora, descriveva la “vita della mente”, con le parole: “avidità, appetito, desiderio, voluttà, insaziabilità, estasi, inclinazione”. Ci sono analogie tra amare e conoscere, “tra il modo in cui l’Eros agisce nella mente di chi ama e quello in cui la conoscenza agisce nella mente di chi pensa”, scriveva la poetessa e grecista Anne Carson.

È, questo, a mio parere, il punto di vista che hanno scelto Helena Janeczek e Francesca Diotallevi per raccontare le vite di Gerda Taro e Vivian Maier. La prima con il romanzo La ragazza con la Leica (Guanda, 2017), la seconda con l’altro romanzo Dai tuoi occhi solamente, (Neri Pozza, 2018). Entrambe le fotografe prestano attenzione al mondo e al loro tempo, ma il loro sguardo si pone a distanze diverse dalla realtà che rappresentano.

 

Per Gerda la fotografia ha origine nel centro delle cose, della sua vita e degli avvenimenti storici e politici. Gerta Pohorylle, nata nel 1910 a Stoccarda da una famiglia di ebrei polacchi, si trasferisce a Lipsia nel 1929 per frequentare la Gaudig Schule. Nel 1933 viene arrestata per aver frequentato attivisti antinazisti. Si trasferisce quindi a Parigi, dove incontra l’ungherese Endre Ernö Friedmann, di cui diviene la compagna, che le insegna a fotografare. Insieme, su Endre costruiranno il personaggio di un famoso fotografo americano, Robert Capa, mentre per sé adotterà il nome di Gerda Taro. Il 18 luglio del 1936 inizia la guerra civile in Spagna. Il 5 agosto i due arrivano a Barcellona, la città dove ha avuto inizio l’insurrezione popolare, e subito Gerda realizza una serie di immagini di donne della milizia che si addestrano sulla spiaggia fuori città. 

 

Le immagini delle volontarie in armi e non nelle retrovie a cucire e a cucinare, mostrano al mondo la cesura rispetto al vecchio ordine patriarcale e la svolta rivoluzionaria e libertaria in atto in Spagna e in Catalogna in particolare. Nel marzo 1937 comincia a firmare i suoi lavori “Photo Taro” e le sue foto vengono pubblicate da “Regards”, “Ce Soir” e “Volks-Illustrierte”. Il 26 luglio del 1937, al ritorno dal fronte di Brunete, un carro armato “amico”, sotto attacco aereo tedesco, urta la macchina a cui è aggrappata. Viene travolta e muore. Ai suoi funerali, il primo agosto 1937, nelle strade di Parigi, una sfilata di bandiere rosse attraversa la città.

Nella Spagna rivoluzionaria si ha la consapevolezza che la posta in gioco è tra libertà e fascismo, ben oltre i confini spagnoli; la lotta non è per un nuovo potere ma per un’utopia. “Noi portiamo un mondo nuovo qui, nei nostri cuori. Quel mondo sta crescendo in questo istante” dice Buenaventura Durruti, l’eroe indiscusso di questa tragica rivoluzione che vuole realizzare una nuova umanità, senza padroni, certo, ma anche senza politici, patriarchi e pregiudizi.

 

Gerda Taro, Miliziana repubblicana in addestramento sulla spiaggia nei pressi di Barcellona, agosto 1936.


Gerda Taro, Miliziane repubblicane in addestramento sulla spiaggia nei pressi di Barcellona, agosto 1936.


Le foto di Gerda restituiscono la forza di questo particolare momento. Le sue miliziane ne sono un evidente esempio. La fotografa sta ai loro piedi: cinque donne tagliano l’immagine in diagonale, quasi come uno sfregio. E lo stesso accade con la bella miliziana in ginocchio mentre si sta addestrando: lo sguardo deciso rivolto dinnanzi a sé, in mano una pistola che pare un’estensione del suo corpo, pronta all’inevitabile durezza di uno scontro frontale. Il profilo scuro, che si staglia contro un cielo opaco, la trasforma nel simbolo di un istante indimenticabile ed eroico. 

Intelligenza ed eros si incontrano nel momento in cui il desiderio esige la rivoluzione e la rivoluzione libera il desiderio. Non importa se la morte è vicina. Quale mezzo migliore per testimoniare questa esperienza se non una macchina fotografica?

 

Con le sue immagini Gerda riesce ad elevare il gesto al di sopra del contesto, in uno stadio estremo di consapevolezza. La forza delle sue fotografie non risiede nella loro qualità estetica, ma nel tentativo di voler anticipare il futuro, quasi come se immaginasse la vittoria dei rivoluzionari. Gerda vive con le persone che combattono, fotografa bambini e contadini, ma anche scene di vita quotidiana, con il loro contenuto prosaico ed il tono dimesso. Non è semplicemente solidale con il soggetto, ma ciò che mette in immagine diventa parte di sé, come lei stessa è parte dell’evento che sta fotografando. Il celebre motto di Capa: “se le foto non ti sono venute bene vuol dire che non sei abbastanza vicino”, è indice del suo essere partecipe a un destino comune, manifesta una forma di responsabilità che coincide con il suo bisogno di autonomia e audacia, che si origina da una libertà di coscienza e azione possibile solo in certe situazioni eccezionali.

 

Gerda Taro, Soldati repubblicani, La Granjuela, fronte di Cordoba, Spagna, giugno 1937.


Gerda Taro, Vittime di un raid aereo all’obitorio, Valencia, maggio 1937.


Tre settimane dopo Guernica, nel maggio del 1937, fotografa le conseguenze delle incursioni notturne sulla popolazione civile di Valencia. Scatta in un obitorio: inquadra le ferite, i morti che non smettono di sanguinare, i sopravvissuti. Alcuni cadaveri di donne stese sui tavoli, con aria quasi serena, pare dialoghino a distanza con l’immagine delle miliziane. Questi morti, travolti apparentemente da un destino incontrollabile, sfuggono ad ogni ordine temporale, paiono non voler morire. Sono il volto in cui il tempo delle passioni e quello del pensiero possono coincidere. Fotografare significa non credere che la morte vinca sulla vita. Per questo le sue immagini riescono a conservare l’integrità di quel momento storico, tanto negli istanti euforici, quanto in quelli drammatici. Gerda è sempre presente a se stessa, ma le sue fotografie esprimono idealità che trascendono il suo particolare presente e riescono a farsi strada, ancora oggi, negli occhi di chi vuole e sa guardarle.

Se per Gerda, dunque, fotografare significa gettarsi a capofitto negli eventi ed aprirsi ad un mondo nuovo, per Vivian Maier ciò che conta è stare a una certa distanza. Per lei la verità è legata al silenzio, alla riflessione, alla solitudine.

 

Tutti conoscono la sua storia. Nasce a New York nel 1926 da madre francese e padre austriaco. Il suo primo contatto con la fotografia avviene nel 1930, in tenera età, poiché la madre divide l’appartamento con la ritrattista Jeanne Bertrand. In seguito trascorre l’infanzia in Francia e nel 1951 torna negli Stati Uniti dove lavora tutta la vita come baby sitter. “Disse che fin da giovane aveva scelto di diventare bambinaia perché le sembrava che le potesse garantire una certa libertà e perché qualcuno le dava un tetto sopra la testa”, ricorda Chuck Swisher, membro di una famiglia presso la quale lavorò negli anni Novanta.

 

Essere soli per Vivian Maier significa muoversi in continuazione. Solitudine e movimento coincidono. Camminare e guardare non sono disgiunti, fanno parte del medesimo gesto. Nella sua Rolleiflex entra ciò che vede per strada a New York e Chicago: un uomo raggomitolato su un marciapiede, due bambine che si abbracciano guardandosi negli occhi, un uomo che dorme sulla spiaggia. E molto altro: volti, strade, edifici. 

 

Vivian Maier, New York, 27 luglio 1954.


Vivian Maier, New York, 1952-1959.


Eppure Vivian non sviluppa che poche immagini. Sta qui il mistero del suo lavoro. Forse nell’idea la fotografia possa rappresentare la perfezione del gesto rubata a un mondo che la disconosce. “Ho scattato così tante foto per riuscire a trovare il mio posto nel mondo”, scrive Vivian. Eppure non è affatto ambiziosa. Non intende toccare alcuna vetta, bensì esprimere il desiderio di preservare, prima di tutto per se stessa, lo spazio di un altrove nel cuore del presente, lasciandosi sconvolgere fino in fondo dal suo silenzio. 

 

E se per gli altri le sue immagini sono il segno di una lontananza, di un segreto intraducibile, per se stessa costituiscono la forma di un’esperienza interiore, in una relazione così stretta con la vita, da poter essere talvolta lette come un profilo autobiografico. La solitudine non comporta paradossalmente un’esposizione di sé e della propria vulnerabilità? Il silenzio non può forse divenire spazio per un nuovo sguardo, che si lascia attraversare proprio in virtù della sua estraneità? Vivian fotografa per essere raggiunta, ma anche per marcare una distanza. Forse per lei è davvero l’unica possibilità di vivere, di far dialogare il mondo esterno e le voci che abitano dentro di lei. Vivian lascia parlare dentro di sé i soggetti che fotografa e nel contempo dà modo agli stessi di divenire il suo corpo, il suo sguardo, il principio della sua identità. Con un movimento analogo a quello dell’autobiografia, si preoccupa di comporre la frammentarietà degli istanti che va conservando senza mostrarli, in un tutto omogeneo. Ogni immagine diventa anche un momento della sua vita, non è importante che gli altri vedano. Fotografare è stare all’ombra dell’originale, ma è anche accogliere l’originale in una zona d’ombra, come se guardare fosse una sorta di appropriazione silenziosa.

 

Entrare in contatto con il mondo, desiderare di possederlo, per Vivian è conoscere se stessa. Scattare incessantemente per lei è amare ciò che guarda, non mostrarlo è un segreto che solo la fotografa può conoscere. Conoscenza ed eros per Vivian si consumano nel rifiuto di rendere pubbliche le sue foto. Non stamparle significa sottrarle ad una sfera economica e riproduttiva aperta ad un pubblico o ad un altro da sé, è la scelta consapevole di chi compie un atto autoerotico votato alla sterilità. Forse è per questo che in un’epoca che fa del mercato un elemento naturale e della riproducibilità un ideale imprescindibile, ci seduce la scelta spiazzante di conservare tutto in un posto segreto.

Il silenzio delle immagini, direbbe Erling Kagge, contiene in sé “lo stupore, ma anche una specie di violenza, un po’ come l’oceano o una distesa sconfinata di neve”. Così se per Gerda la fotografia è un occhio gettato nella tempesta, un’appassionata, disperata risposta che si spinge oltre ogni orrore e desolazione, per Vivian è un’isola in cui preservare la risposta al silenzio della sua vita. Per entrambe significa pensare e sentire l’esperienza immediata di ciò che le circonda; ognuna giunge a un contatto diretto con ciò che le sovrasta e le opprime. Eppure fotografare vuol dire generare occasioni di libertà da situazioni di costrizione.

 

Va sottolineato, infine, che i libri considerati non sono saggi, ma romanzi. Il loro merito, prescindendo dal giudizio della critica o da quello che il pubblico ha già accordato o potrà accordare, è quello di riproporre, all’attenzione di chi si interessa di fotografia, le storie di due donne così diverse, ma in fondo accomunate dal medesimo profondo bisogno di esprimere se stesse.

Per questo, le fotografe, mostrandoci due diversi modelli di formazione, possono ancora suggerirci sentieri mentali da imitare o da evitare, costringendoci comunque a riflettere.

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Donnellan: un vendicatore al tavolo da tè

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Ricordate il protagonista di Sottomissione di Houellebecq, quel disilluso professore universitario esperto di Huysmans? In François possiamo facilmente riconoscere una beffarda e trasparente rappresentazione del ceto medio intellettuale di sinistra: mentre i rivolgimenti della Francia distopica proseguono giorno dopo giorno, François continua a comprare Libération e a bere vino, e infine si scoprirà disposto a ‘sottomettersi’ ai nuovi dominatori purché la sua carriera accademica e la sua vita possano continuare.

In queste settimane, mentre la lettura della cronaca politica sposta ogni giorno di un poco il nostro orizzonte del possibile, rischiamo di incarnare François: continuiamo per lo più a portare avanti le nostre attività lavorative e intellettuali, come se non fosse in atto una sistematica erosione di alcuni dei diritti che reputiamo inalienabili e fondamentali. 

E persino il teatro – quel teatro che difendiamo con forza, e di cui siamo disposti a dichiarare l’utilità politica – rischia talvolta di diventare come la lettura di Libération di François: un rito per pochi, la confortante rassicurazione che la nostra vita, in fondo, non è tanto diversa da prima. L’impressione di un insanabile iato tra ciò che accade nelle nostre sale e quello che sta continuando ad avvenire fuori è, di volta in volta, più o meno forte; e non è un’impressione legata necessariamente all’oggetto o all’argomento della messa in scena.

 

 

Declan Donnellan, invitato al Piccolo Teatro per un’importante coproduzione internazionale, sembra essersi posto il problema: la star internazionale della regia shakespeariana ha infatti dichiarato, tra interviste e conferenze stampa, che la sua Tragedia del vendicatore ha molto da dire alla contemporaneità. Il testo di Thomas Middleton (un quasi contemporaneo di Shakespeare qui rielaborato dallo stesso Donnellan), contiene secondo il regista trasparenti similitudini con la politica attuale, e tocca nel vivo la questione del consumismo: “la natura umana ci fa sempre comportare nello stesso modo”, si legge nel libretto di sala, “e il consumismo non ha intaccato l’animo umano dai tempi più remoti?”. Qualcosa, in effetti, risuona. C’è un vecchio duca che non esita davanti a nulla pur di appagare le proprie voglie (il sempre ottimo Massimiliano Speziani); ci sono i rampolli della famiglia che non risparmieranno nessuno pur di ottenere potere; ci sono madri che, di fronte alla prospettiva del guadagno, sono disposte a rivedere il proprio sistema educativo in un batter d’occhio, e si rivelano pronte a spronare le figlie affinché diventino più disponibili e meno bacchettone. Ma il motore di tutto è la vendetta, tremenda vendetta: e se non fosse sufficiente il titolo dell’opera a ricordarcelo, e se non fosse sufficiente neanche il nome del protagonista (Vindice, qui un convincente Fausto Cabra) ci pensa una scritta a caratteri cubitali che viene proiettata sulla scenografia proprio all’inizio dello spettacolo. 

 

 

Difficile sostenere, in effetti, che sete di potere e desiderio di vendetta non siano questioni universali e sempre attuali. Ma è sufficiente, questa dichiarazione d’intenti, per aprire un vero dialogo con il contemporaneo, con il pubblico di oggi, con la vita là fuori? Lo spettacolo, ben recitato da una squadra di quattordici attori italiani, ha un’estetica tutt’altro che polverosa e paludata: Donnellan, da ottimo professionista, sostiene con ritmi a orologeria un’ora e cinquanta, divertendosi a giocare con una pennellata di dark, un pizzico di grottesco, e una spolverata di splatter; le scene e i costumi di Nick Ormerod non cercano una forzata attualizzazione, ma sono indubbiamente contemporanei. Quello che vediamo sul palco è ben fatto e funzionale alla storia: si aprono e si chiudono porte, intere stanze vengono sbalzate fuori con tanto di carrelli, compaiono dipinti proiettati di Tiziano, Piero della Francesca, Mantegna, in omaggio all’ambientazione italiana dell’opera. 

Eppure nulla, di quello che vediamo, ci comunica urgenza; abbiamo l’impressione, al contrario, di inseguire la complessa trama di Middleton con il solo scopo di sapere come va a finire, di perderci nella rete dei legami parentali e nei fili del diabolico piano di vendetta come potremmo perderci tra le pagine d’intrattenimento di un romanzo di Faletti. Guardiamo i personaggi, seduti a un tavolino, parlare di moralità mentre sorseggiano tè e ci domandiamo, in definitiva, perché mai tutto questo dovrebbe toccarci in profondità. 

 

Certo Middleton non è Shakespeare, e al testo manca forse la capacità far emergere a sbalzo dalle intricate vicende profili di sorprendente altezza e bassezza umana. Questo non toglie la sensazione, quando di esce dalla sala, di aver avuto di fronte una rodata operazione di raffinato mestiere; ma ci sono momenti storici in cui fare il proprio mestiere – anche se lo si fa molto bene – può non essere abbastanza.

 

La tragedia del vendicatoreè in scena al Piccolo Teatro Strehler fino al 16 novembre.

Le fotografie sono di Masiar Pasquali

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Fellini, antropologo e profeta

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«Comincia un grande futuro», scrive Tullio Kezich nell’ultima pagina della sua biografia felliniana, riprendendo uno dei tanti necrologi apparsi in occasione della scomparsa del grande regista. Quel futuro è il nostro presente: un quarto di secolo ci separa ormai da quel 31 ottobre 1993 in cui Federico Fellini cessava di vivere, dopo due settimane di agonia seguite dalle televisioni di mezzo mondo (con macabra ironia, qualcuno parlerà di “set felliniano”). 

In fondo, alla morte – non solo la sua – Fellini ci aveva preparati da sempre. La sua filmografia, dai Vitelloni in avanti, non è che una continua meditazione/esorcismo sul tempo che passa e consuma la vita e i sogni («Una mattina ti svegli, eri ragazzo fino a ieri e adesso non lo sei più») e sul mistero del “dopo”, al quale avrebbe voluto dedicare un intero film, quel Viaggio di G. Mastorna che non riuscì mai a realizzare. Eppure, io credo che se si montassero una dietro l’altra tutte le sequenze di feste banchetti parate sagre circhi matrimoni orge processioni capodanni carnevali dei suoi film, probabilmente avremmo in mano la più vasta meditatio mortis del XX secolo. Ora, se questo è quel che ci ha lasciato, quale futuro per Fellini?

 

I vitelloni.


Un Fellini “futuribile”. Nell’immaginario comune, la sua immagine è legata semmai al passato, alla nostalgia, al sogno, insomma al fellinismo. Un prodotto rigorosamente Italian Style, esportabile al pari della pizza e dell’alta sartoria. A pensarci bene, anche il (poco) cinema italiano davvero spendibile oltre i confini ha un retrogusto inequivocabilmente felliniano. Penso ovviamente a La grande bellezza (prontamente insignito dell’Oscar) e a un po’ tutta la filmografia di Sorrentino a partire da L’amico di famiglia. Ma penso anche a registi più insospettabili: a Nanni Moretti, per esempio (il “Sol dell’avvenire” in cartapesta di Palombella rossa, il Vaticano di Habemus Papam); oppure a Matteo Garrone, ai corpi grotteschi e disturbanti dei suoi primi film (L’imbalsamatore, Primo amore), al suo gusto per il fiabesco (Reality, Il racconto dei racconti), per non parlare del Pinocchio prossimo venturo, un progetto a lungo cullato da Fellini e diluito poi in altri film, a cominciare dal Casanova.

 

Pian piano, però, dal 1993 a oggi, tra omaggi e convegni (l’ultimo solo pochi giorni fa), il cliché dell’artista perso fra le sue rêveries si è andato via via appannando – o quanto meno problematizzando: «A ben vedere», ha scritto Emiliano Morreale, «Fellini non è identificabile con la dimensione della nostalgia. In lui, il passato è dapprima carico di una connotazione inquietante e addirittura orrorifica, e poi messo in scena come un vero e proprio repertorio». Possiamo insomma incominciare a considerare il regista riminese per quello che effettivamente è stato: un grande antropologo della modernità italiana, di quello strano oggetto continuamente sospeso «fra arcaicità e fantascienza», per usare un’espressione di Giulio Bollati. Studi recenti come quelli di Andrea Minuz (Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico, 2012), e, prima ancora, di Gianni Celati (Fellini and the Italian Male, 2009, solo in parte tradotto in italiano) hanno messo in luce la straordinaria capacità del cinema felliniano di penetrare l’identità (politica, storica, sessuale) italiana e i modi con cui essa si rappresenta, restituendone una visione critica “dall’interno”, con tutto il suo amalgama irrisolto di repulsione e attaccamento. 

 

 

Pensiamo ad Amarcord (1973). I primi quaranta minuti sono fellinismo puro (non a caso il film venne premiato con l’Oscar): il giovane Titta in calzoncini, la “Fogarazza”, le fantasie masturbatorie, i genitori, il nonno, i professori, lo struscio serale, l’eterna provincia, le musiche di Nino Rota... Poi però arriva il momento dell’adunata. Con un twist repentino, Fellini ci rivela che quasi tutti i personaggi visti fin lì, con i quali abbiamo ormai familiarizzato e simpatizzato – l’avvocato, i compagni di scuola, la tabaccaia, persino la “leggendaria” Gradisca – sono tutti irrimediabilmente, entusiasticamente, fascisti. E se all’inizio possiamo ancora sorridere dell’atmosfera farsesca, con i gerarchi a passo di corsa, i labari e i motti deficienti (“IMMARCESCIBILMENTE”), il divertimento cede il posto al disagio e infine al fastidio, durante la scena in cui il padre di Titta, antifascista, è costretto con la forza a buttar giù l’olio di ricino. Un fastidio non troppo diverso da quello che proviamo nella sequenza successiva, quando lo zio scapolo del protagonista – che poco prima abbiamo visto pavoneggiarsi in orbace ed esclamare, garrulo: «Mussolini c’ha due coglioni così!» – dopo essersi appartato con una turista straniera, torna dagli amici dichiarando con finta pudicizia che la donna, innamoratissima, gli ha concesso addirittura «l’intimità posteriore». Altro che elegia del passato: per dirla con Italo Calvino, Fellini «ci obbliga ad ammettere che ciò che più vorremmo allontanare ci è intrinsecamente vicino». 

 

E il Fellini “futuribile” di cui dicevamo all’inizio? Quello che non solo ci racconta ciò siamo diventati, ma anche quel che diventeremo? L’aggettivo “profetico” è stato utilizzato spesso, soprattutto per i suoi ultimi film. A rivederli oggi, non se ne capisce bene il motivo. Davvero la TV commerciale e rivistaiola del cavalier Lombardoni (sic!) raffigurata in Ginger e Fred (1985) o la “Sagra della Gnoccata” ne La voce della luna (1990) sarebbero delle prefigurazioni dell’Italia berlusconizzata di fine millennio che il regista non vide mai? Il Fellini degli anni Ottanta – corteggiato dai media, imbalsamato dalla critica, sistematicamente disertato dal pubblico – è un artista amareggiato e un po’ confuso, che fatica a comprendere il presente, figuriamoci il futuro: «Io sono tentato di stare a guardare tutti questi mutamenti con rispetto», dichiara in un’intervista del 1985. «Mi domando soltanto com’è successo, quando, dov’ero io quando accadeva. C’è questa nuova creatura umana, che apparentemente ci somiglia, […] ma che sa fare straordinariamente a meno delle cose alle quali noi siamo stati educati».

 

La voce della luna.

 

Anzi, rivedendo in questi giorni La voce della luna, più che dagli apoftegmi contro il fracasso della contemporaneità («Se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire»), rimango colpito semmai da quei personaggi in cui Fellini raffigura pezzi di se stesso: l’oboista Sim, che si è rifugiato in un loculo del camposanto per difendersi dalla musica (dal cinema?) «che promette, promette, e non mantiene mai»; l’ex prefetto paranoico Paolo Villaggio, ossessionato dall’idea che i vicini lo possano contagiare con «la loro orrenda malattia: la vecchiezza»; il folle disincarnato Roberto Benigni, “abitato” da una cacofonia di «schiocchi di frusta» e «migliaia e migliaia di voci» che non è (più?) in grado di decifrare.

 

«Ma dammi almeno un raggio di sole!», dice il produttore a Fellini nel finale di Intervista (1987). Il “Maestro” da cui tutti si aspettano un monito o un parere, ma che non riesce a dire nulla, è un’immagine ricorrente negli ultimi film del regista. In E la nave va (1983), Orlando (Freddie Jones), cronista a bordo di un piroscafo nel fatidico 1914, confessa sconsolato la propria impotenza allo spettatore: «“Io scrivo, racconto… Ma cos’è poi che voglio raccontare? Un viaggio per mare? Il viaggio della vita? Ma questo non si racconta, si fa, ed è già tanto”… È banale, eh? È stato già detto. E meglio! Ma tutto è stato già detto! E fatto!». L’Arte, quella con la Maiuscola, si riduce allo svago solipsistico e masturbatorio del feticista che, nel chiuso della cabina, riproietta ossessivamente le immagini della propria cantante preferita. Oppure trova spazio nei luoghi più inospitali: la sala macchine in cui i virtuosi dell’ugola si esibiscono a favore dei virtuosi del badile; e le cucine dove due vegliardi maestri di musica eseguono Schubert all’arpa di vetro fra le stie dei polli e il borbottare sommesso delle pentole.

 

 

Ecco, se c’è un film che merita la qualifica di “profetico”, fra gli ultimi diretti da Fellini, direi che è proprio E la nave va. Rivista a più di trent’anni di distanza, questa fantasia in stile belle époque, con il prologo muto alla Lumière e la nave allestita da Dante Ferretti che traversa un mare di plastica, mi pare che dica parecchie più cose sulla nostra contemporaneità di tutto il cosiddetto “cinema del reale” realizzato nell’ultimo decennio. Il transatlantico diretto nell’Egeo per spargere le ceneri del soprano Edmea Tetua, versione ammodernata della stultifera navis, non è forse un’allegoria perfetta dell’Europa (anzi, dell’Occidente) di oggi, che avanza compunta verso il proprio funerale? E i suoi ospiti, granduchi principesse aristocratici militari sceicchi attori intellettuali, un po’ comici e un po’ (melo)drammatici, che giocano a non capirsi e che proclamano soddisfatti «Siamo seduti sulla bocca di un vulcano!», non somigliano in modo preoccupante ai leader sovranisti, agli alfieri del capitalismo smart e ai loro portaparola, che sembrano accogliere gongolando ogni sentore di una catastrofe prossima ventura? 

Ancora: davanti all’apparizione, improvvisa e inspiegabile, di una folla di profughi serbi (siamo all’indomani dell’attentato di Sarajevo) sulla tolda della nave, gli scambi di battute fra capitano e passeggeri indispettiti («Il comandante è tenuto a raccogliere i naufraghi», «Fra quelli che lei definisce profughi, si nascondono professionisti dell’assassinio», «Ho dato ordine di isolare gli individui pericolosi») non richiamano alla mente altri scambi, altri profughi, altre navi? Infine il naufragio: per un istante sembra quasi che Orlando/Fellini stia rivelando le vere ragioni dello scoppio della Grande Guerra… ma poi tutto si consuma in una nebulosa di “si dice”, “pare che”, “altri sostengono”. Congetture che si elidono l’un l’altra come segni opposti di un’operazione algebrica: una prassi fin troppo familiare, in tempi di post-verità e fake news.

 

Intendiamoci, non voglio fare della «triviale simbologia profetica», per dirla con Furio Jesi. Però Fellini, che era stato in cura da Ernst Bernhard e aveva sfogliato Jung, conosceva il potere suggestivo di certi archetipi. L’aveva capito bene anche uno spirito laico e illuminista come Calvino, che, in occasione dell’uscita, riservò al film parole calorose: «Il transatlantico “Gloria N.” diventa un’immagine del mondo in cui ci troviamo sempre più stretti, in cui da un giorno all’altro scopriamo che distanze geografiche e sociali sono annullate […] ai cui problemi non si trovano soluzioni se non in affermazioni di principio che poi non si riesce a rispettare». E della catastrofe finale scrive: «Da molto tempo viviamo come cittadini di un giudizio universale a rallentatore. […] La sola cosa che possiamo fare è contemplare vecchie immagini di naufragi come per tranquillizzarci, dato che siamo sopravvissuti fin qui».

 

 

Insomma, il Fellini che sembra annunciare la fine del mondo (o soltanto la fine di “un” mondo: il nostro), porta con sé anche il contravveleno. Nel momento più drammatico, mentre il piroscafo cola a picco, la regia fa un passo indietro, svelandoci che in fondo è tutto un trucco: la nave è finta, il mare è di plastica, il cielo dipinto, il rollio generato da una colossale idromacchina. Senza dubbio, un modo di celebrare per l’ultima volta una tradizione artigianale del nostro cinema che nel 1983 era giunta al capolinea. Ma forse anche un monito rassicurante rivolto a chi vien dopo (cioè a noi): un’apocalisse non è una cosa seria, dopotutto, e una catastrofe può essere anche una possibilità di rinascita. Come quella della rinocerontessa malata d’amore e di dissenteria, che ritroviamo sana e salva, insieme a Orlando, a bordo di una scialuppa in mezzo al mare. «Lo sapevate che il rinoceronte dà un ottimo latte?», bisbiglia il cronista, rivolto alla macchina da presa. Sul significato riposto di quel latte si sono versati fiumi di parole e d’inchiostro. Io, che mi son già dilungato abbastanza, m’accontenterei di adoperarlo per brindare alla memoria di Federico Fellini.

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Innovazione

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