Quantcast
Channel: Tutti i contenuti con tag: Produzione
Viewing all 3499 articles
Browse latest View live

Ancora parole, quando è finita la benzina

$
0
0
Sottotitolo: 

Nell’ottobre del 2013 ero a Roma per un paio di giorni, c’era l’uscita del libro di un’amica da festeggiare, e alcune incognite sul mio secondo romanzo che sarebbe uscito a fine marzo del 2014. Ne volevo parlare con Severino, ero arrivata da Bologna con la speranza che potessimo ritagliarci un paio di ore insieme, anche se sapevo che era parecchio affaticato, la prima ischemia lo avevo colpito e, nonostante al telefono e per mail mi rassicurasse che la fisioterapia lo stava aiutando moltissimo, conoscevo per esperienza quanto la semiparalisi debiliti e rallenti.

Ero ospite da amici in via del Corso e ci demmo appuntamento davanti a Santa Maria in Vallicella, lì dove la strada si allarga per accogliere una fontana e una piazza davanti alla chiesa.

Quando scese dal taxi e ci abbracciammo, mi disse: “Be’ adesso non sono più in incognito”.

Alludeva a una conversazione che avevamo avuto tre anni prima, alla stazione di Torino dove era venuto ad attendermi al binario e probabilmente colpito da quanto poco simpatica fosse la manovra per fare scendere una persona in sedia a rotelle dal treno, mi aveva detto: “Sono anch’io un disabile, ma in incognito”, poi mi aveva raccontato le peripezie del suo trapianto di rene. 

 

L’empatia era il suo modo di stare al mondo, ci arrivava con le parole, ma partiva dalla sostanza della sua vita di cui, pur essendo così discreto, era anche altrettanto generoso. Aveva custodito quello scambio di tre anni prima, così come sono certa che avesse in memoria le parole e le storie di tutti i suoi scrittori, conservate con cura e vive all’occorrenza. Parole dette e parole scritte.

Andammo a sederci in un tavolino all’aperto di un bar in via del Governo vecchio, saranno state le quattro o quattro e mezza del pomeriggio e sulla città aleggiava uno scirocco caldo, di quelli che ti fanno confondere le stagioni e fanno ondeggiare anche le facciate di pietra striandole di ombre. Lo feci osservare a Severino e lui mi rispose che era stato molto colpito da come nel mio primo romanzo avessi descritto il paesaggio emiliano privo di vento, con il cielo che si confonde alla terra tanto è bianco, con una luce incerta e lattiginosa. Disse anche che non aveva mai letto una descrizione dell’ambiente padano di quel tipo. Io obiettai che di sicuro c’erano dei precedenti, perché questa cosa del cielo e terra che si confondono nell’afa è talmente caratterizzante che non ero di sicuro io la prima a notarla, o a scriverla. Concordammo e mentre ordinavamo un tè al bergamotto e un pezzo di crostata, ci domandammo quali autori potessero costituire dei precedenti. Come spesso in questi casi: il vuoto.

 

 

Allora cominciammo a parlare del mio nuovo romanzo, raccontai a Severino il lavoro che avevo fatto con Rosella, discutemmo dell’impianto generale e delle dinamiche di relazione fra i personaggi, gli esposi il mio dubbio: volevo che fosse esplicito il richiamo alle Affinità elettive di Goethe, ma premettere solo un’epigrafe mi sembrava poco, una cosa esornativa, rispetto al ruolo che volevo giocasse. Severino ci pensò un momento, uno di quei momenti di silenzio dilatato che con lui erano frequenti e mai spiacevoli, poi disse: “Celati. Solo che non mi viene in mente in quale racconto, ma deve essere nei Narratori delle pianure.”

 

Non si riferiva a L’amore normale, di cui stavamo discutendo e nemmeno a Goethe. La sua testa aveva continuato a lavorare sulla faccenda della descrizione del cielo padano, ed era arrivata in effetti allo scrittore che da qualche parte nella mia memoria si era depositato ed era inconsapevolmente riemerso mentre scrivevo quella pagina del mio primo romanzo, perché adesso, e non quando l’avevo scritta, mi venivano in mente certi passaggi di Condizioni di luce sulla via Emilia, che è una delle Quattro novelle sulle apparenze di Gianni Celati.

Condividemmo la gioia di questa agnizione, insieme al piacere per la crostata di mirtilli che era molto buona.   

 

Poi Severino mi chiese quali erano i brani delle Affinità elettive che ci tenevo a far figurare nel romanzo e, sollevando lo sguardo verso le ombre del tardo pomeriggio che cadevano oramai sui palazzi, disse: “Due quinte. Fai come se fosse un sipario. All’inizio e alla fine.”

“Senza virgolette, dunque?”

Severino ci pensò finendo il tè e annuì: “Senza virgolette”.

Era così semplice, eppure da sola non mi sarebbe venuto in mente. Pensai che fosse proprio quella la capacità maieutica che era stata attribuita anche a Socrate: tirare fuori le cose insieme, come se fossero sempre una conquista dell’allievo. E io nei confronti di Severino mi sentivo sempre un’allieva, anche se lui non si era mai presentato come un maestro. 

Parlammo ancora un po’ del romanzo e poi di episodi della storia romana antica, non so come finimmo lì, ma era ormai sceso il buio ed eravamo entrambi forse un po’ stanchi e rinfreddoliti. Severino si alzò e disse: “Bisogna che mi avvii verso casa. Ho finito la benzina”.

 

Ripercoremmo lo stesso tratto di strada verso piazza di S. Maria in Vallicella, dove avrebbe potuto riprendere un taxi, ma quando fummo davanti alla facciata della chiesa che riceveva ancora un po’ di chiaro sui timpani dei portali, Severino cambiò idea e si sedette su una panchina. Era un’ora bellissima infatti, e valeva la pena celebrarla con un po’ di silenzio.

Ce ne stavamo così, spalle al corso e occhi a vagare sulla facciata, quando Severino disse con un certo entusiasmo: “Ma è il Cantico dei Cantici” e vidi che guardava alle iscrizioni sui due portali laterali della chiesa, poi a voce più bassa aggiunse: “Tota pulchra es amica mea et in te macula non est” seguendo appena con gli occhi le belle capitali latine incise nella pietra bianca, perché era un testo che conosceva e portava dentro di sé, gli era bastato leggere l’inizio. 

Mi sorrise e disse: “Bisogna davvero che vada, ma questa non potevamo perdercela”. 

Erano le parole, il suo carburante, e anche il mio. 

Che bello, che fortuna immensa – pensai – avere un editore così.

 

Il testo è apparso in: Maestro Severino. Quello che ci ha insegnato Cesari, a cura di Giacomo Papi, ed. Belville, che ringraziamo.

 

Per ricordare Severino Cesari vedi anche i testi di Marco Belpoliti e Roberto Gilodi.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Per Severino Cesari
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Com’è fatta la Liguria?

$
0
0

Roccatagliata Ceccardi, Sbarbaro, Montale, Calvino, Biamonti, Sanguineti, Maggiani, Conte, Magliani. E poi tutti gli altri, da Novaro a Orengo, con in testa ovviamente Caproni, che s’inventò a tavolino la “linea ligure” non tanto in cerca di una vera “ligusticità” dei suoi scrittori, ma per farsi compagnia, per mettersi in coda affettuosa in un lignaggio di parola che vorrebbe riconoscere nel paesaggio scarnificato della Liguria e nella poetica umorale dell’omissione i tratti congiuntivi di una parentela.

Immagini: 

Phoebe Unwin

$
0
0

Riapre la stagione espositiva presso la Collezione Maramotti, che inaugura le attività autunnali presentando la prima personale italiana di Phoebe Unwin. Per l’occasione, la Pattern Room ospita il lavoro della pittrice nata a Cambridge, già in shortlist per il Max Mara Prize 2015, i cui lavori sono presenti anche nella collezione della Tate Modern. La Collezione Maramotti può essere considerata un osservatorio privilegiato sulla scena delle artiste inglesi contemporanee, grazie alla sinergia con la White Chapel Gallery e alle attività dell’omonimo premio, che dal 2005 seleziona e premia con residenze e progetti espositivi le artiste anglosassoni più meritevoli. Tra i nomi premiati ricordiamo Laure Prouvost, vincitrice del prestigioso Turner Prize nel 2013 e autrice del progetto GDM - Gran Dad’s Visitator Centre presso l’Hangar Bicocca di Milano nel 2016, ed Helen Cammock, vincitrice dell’edizione 2018.

Confermando l’interesse specifico verso la pittura, evidente anche dalla formidabile selezione di tele di livello museale esposte nelle sale della permanente, la Collezione sceglie un’artista che formalizza una sensibilità estremamente contemporanea, pur rimanendo fuori da ogni discorso cronachistico e da ogni volontà di commento della realtà contingente. 

 

Phoebe Unwin Approach, 2017 olio su tela / oil on canvas 183 x 153 cm © the artist Courtesy Amanda Wilkinson Gallery, London.

 

Unwin non lavora con fotografie o copiando dal vero. La sua ricerca si sviluppa partendo sempre da memorie personali, frammenti di ricordi, appunti, schizzi, sensazioni, che compongono una personale grammatica di forme, luci, volumi. Non mancano però tracce di figurazione, che rendono in parte riconoscibili i soggetti rappresentati, e che giungono a concludere un percorso creativo che nasce dall’astrazione per sfociare in una parziale figuratività, e che non si esaurisce in  forme di carattere realistico. Le campiture ampie (anche nei piccoli formati), la vibrazione del colore e il soft focus che caratterizzano le pitture dell’artista inglese evocano uno stato percettivo sospeso, dove gli oggetti vanno lentamente definendosi e il loro esistere travalica la dimensione temporale del dipinto. Viene da scomodare Henry Bergson, in questa esperienza percettiva dove la realtà materiale delle cose e la dimensione emotiva (in questo caso più che spirituale) della memoria si incontrano. In questa sensibilità senza frizioni, fluida, ovattata, c’è una piacevolezza estetica che si esprime nell’impalpabilità delle superfici, nel godimento del colore che pulsa e rende vive le forme: un muro di oscurità che incombe e di cui sembra di sentire il rombo in lontananza (Nightfall, 2017), una composizione dominata dal giallo (Field, 2018), un abbraccio (Approach, 2017). Un lavoro scandito da movimenti lenti, piccoli fremiti, improvvisi squarci luminosi, dove il conflitto sembra placarsi nel godimento pittorico e le figure si fanno tutt’uno con l’ambiente. Tele che producono un flusso avvolgente, nelle quali le composizioni restituiscono allo spettatore la percezione di un tempo dilatato, di quiete. Come aprendo gli occhi dopo il sonno notturno, ancora avvolti dalla sensazione di spaesamento, nel fugace lasso di tempo in cui le cose appaiono in una veste sconosciuta, prima che il mondo riacquisti connotati familiari. 

 

Phoebe Unwin Field, 2018 olio su tela / oil on canvas 183 x 153 cm © the artist Courtesy Amanda Wilkinson Gallery, London.


Unwin dichiara di essere interessata più all’emozione che la pittura può suscitare rispetto alla rappresentazione delle cose. Forma e contenuto sono posti sullo stesso piano e agiscono insieme, equiparati per importanza. L’impronta del lavoro è indubbiamente minimalista ma senza il ricorso alla ripetizione di forme e segni: ogni lavoro è un’occasione di esplorazione a sé, che si inserisce in un percorso coerente e irripetibile. Lo spazio esteriore ritrova le coordinate attraverso l’esplorazione delle geografie interiori, e acquista una nuova vita sulla tela attraverso un viaggio à rebours. Questo “inner landscape” produce una forma di sublime privata, che discende da quell’espressionismo astratto di matrice statunitense, meravigliosa intuizione che ripulì le visioni di ogni orpello lasciandole nude ed estatiche. Il sublime racchiuso nelle opere di Phoebe Unwin è un sublime intimo, fatto di momenti che fluttuano nel tempo e nello spazio di una vita e vengono prelevati dal flusso indistinto dell’esistente per brillare attraverso la luce della pittura. L’esterno e l’interno dissolvono i confini e disegnano una mappatura psichica dove spazio vissuto e lo spazio pensato si proiettano (e prolungano) l’uno nell’altro, dove la microstoria quotidiana costituisce l’archivio da cui attingere per rigenerare l’infinito discorso della pittura.

 

Phoebe Unwin Almost Transparent Pink, 2018 olio su tela / oil on canvas 51 x 41 cm © the artist Courtesy Amanda Wilkinson Gallery, London.


Nel lavoro di Unwind emerge l’idea che lo spazio possa essere vissuto appieno, dal punto di vista dell’esperienza, solo attraverso l’ausilio della memoria. Lo sguardo da solo non consente la comprensione dei fenomeni, quindi un approccio puramente ottico risulta fallimentare. L’azione dei sensi concorre a creare quell’insieme di frammenti che compongono l’esperienza della realtà e che ci restituiscono il mondo nella sua interezza. Riguardo al tema dello spazio e della visione, Unwin afferma: “Il campo del paesaggio è per me esso stesso un soggetto che oscilla tra un luogo osservato o ricordato e un luogo di energia o visione. Si tratta di un punto di partenza per l’astrazione e la figurazione in egual misura. Questi paesaggi riguardano dei luoghi ma anche l’atto stesso del dipingere: sono la registrazione di una risposta al colore e alla forma.”  Paesaggio inteso perciò anche con l’accezione di “field”, come campo di colore e come inquadratura, struttura visiva che organizza la visione, soggetto esso stesso di una metapittura.

 

Phoebe Unwin Headway, 2018 olio su tela / oil on canvas 51 x 41 cm © the artist Courtesy Amanda Wilkinson Gallery, London.


A far da contraltare alla partitura cromatica delle opere pittoriche ci sono le carte, disegni in bianco e nero dal tratto libero e aggressivo. Nei disegni la figura umana si palesa, pur rimanendo forma tra le forme. In assenza di colore, il dialogo tra profondità o superficie scarta verso la bidimensionalità del segno e la scala dei grigi, dei neri e dei bianchi determina le forme: “esplorare, dare forma attraverso il bianco e nero del carboncino (in passato ho lavorato spesso con il colore sulla carta) a contrasti di contenimento e aree selvagge, punti di vista oscurati, occultamento contro rivelazione”. Levità e freschezza rimangono intatte, la matrice figurativa si fa più chiara, quasi che la nettezza del segno grafico la costringesse a emergere dal biancore della carta, appare un urgenza del segno che si fa largo nello spazio del foglio. Un ritmo più alto rispetto alle tele, dove l’artista può lasciare che il colore a olio rivendichi il tempo che gli è necessario per tradursi in pittura, scegliendo il ritmo della propria andatura, dove la dicotomia tra solidità e trasparenza può dispiegarsi e la materia può esprimersi compiutamente, tra velature e blocchi di colore, minute epifanie, immagini che affiorano dalla corsa placida del pennello e galleggiano, come animate da una nuova vita ed emancipate, infine, dal giogo della memoria. 

 

Phoebe Unwin Diverted Pedestrian, 2018 olio su tela / oil on canvas 72 x 50 cm © the artist Courtesy Amanda Wilkinson Gallery, London.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
"Field" | Collezione Maramotti
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Sulla letteratura: liquidi, postmoderni e circostanti

$
0
0

Si è scritto parecchio quest'anno delle Lezioni americane pubblicate nel 1988; proprio dalla suggestione proiettata dall'opera postuma di Calvino si potrebbe cominciare per illustrare i libri di Daniele Maria Pegorari (Letteratura liquida, Manni 2018) e Gianluigi Simonetti (La letteratura circostante, Il Mulino 2018). Il primo reca come sottotitolo Sei lezioni sulla crisi della modernità, mostrando così, attraverso parole chiave che poi in parte riprenderemo, il riferimento calviniano; dal secondo si potrebbero estrapolare, come in parte è stato fatto dall'autore nelle anticipazioni sul domenicale del «Sole 24ore», alcuni caratteri (non necessariamente dei valori) della letteratura italiana a cavallo tra Novecento e nuovo millennio: velocità, ibridismo, stretto legame con un autore ad alta visibilità. 

 

Postmodernità, che sta in capo al saggio di Pegorari, e nella quale già stava immerso Calvino, risultandone anzi nelle sue ultime prove uno dei campioni in Italia, e di cui si è discusso a lungo dai contributi ormai classici di chiarificazione soprattutto letteraria da parte di Ceserani, fino alle ipotesi della fine di un ciclo culturale e storico in Berardinelli o di superamento con il concetto di ipermodernità in Donnarumma, può fare da sfondo o premessa a entrambi i libri di cui cercheremo possibili rimandi e reciproche integrazioni. Pegorari mette in fila i tratti caratterizzanti la postmodernità (o modernità liquida citando Bauman), rintracciandoli in primis nella “società di massa, la ciclicità del capitalismo e la sfiducia ideologica», da distinguere rispetto al postmodernismo, inteso in senso più limitatamente estetico. Un tempo che, riprendendo una definizione di Toynbee del 1947, indica “un'irreversibile svolta nella storia occidentale, collocabile intorno al 1875 e consistente nell'irrompere della società di massa, nella triplice forma di mass culture, mass education e mass movement.” Pegorari rafforza la pregnanza del punto d'origine citando l'inizio nel 1873 della prima crisi ciclica del capitalismo, il cambiamento dei rapporti di forza internazionali con il prepotente inserimento della Germania a fine Ottocento, nonché sul piano culturale i ripiegamenti del Decadentismo nelle sue varie vesti. Fatte tali premesse di lunga durata veniamo ai riflessi in ambito letterario e più contemporaneo. 

 

Della critica letteraria si sostiene che oggi, stante l'idea prevalente nell'editoria del libro come prodotto, dovrebbe osservare l'intera filiera fatta da autore, pubblicità e diffusione, lettura. Ne consegue che chi si occupa professionalmente di letteratura contemporanea non avrebbe da disdegnare nel suo arsenale critico il versante sociologico. Con la prospettiva però, scrive Pegorari, di essere “una critica letteraria della società”: in parallelo si auspica una letteratura che faccia dell'indagine conoscitiva della società una sua bandiera; ciò naturalmente con i suoi mezzi specifici, da sempre attrezzati alla complessità, pur nella coscienza della parzialità, e alla variazione straniante dei punti di vista attraverso l'attivazione della propria natura allegorica, del “saper parlare sempre d'altro.” 

 

 

Proprio il libro di Simonetti osserva il crinale ultimo del postmoderno (gli anni Novanta italiani), laddove cioè la letteratura pare mutata e quasi irriconoscibile allo sguardo umanistico, non rinunciando tuttavia nella prima parte ad indagarne il recente progredire storico. Certamente più impressionante risulta però la vastità dello sguardo panoramico sull'oggi, che abbraccia tutte le svariate tendenze, soprattutto narrative, del mercato editoriale, risultando in tal modo un buon compimento dell'auspicio di Pegorari. La paraletteratura, i generi di differente colore (interessante il rosso-noir degli ex-terroristi anni Settanta), il comico, il racconto dei giovani esordienti, quello storico e/o impegnato, sembrano infatti una serie di proposte che tentano disperatamente di attrarre i pochi e distratti lettori nella letteratura, ormai una nicchia dentro una più vasta e forse accattivante offerta culturale. 

 

Trascelgo, per necessità in un'opera tanto vasta ed esaustiva, i temi della velocità e della visibilità, due tratti calviniani che hanno subito una torsione non sempre virtuosa. La velocità è la vera “dominante formale, sviluppatasi più o meno inconsciamente accanto a un nuovo e più contratto modo di leggere e a un'accorta regia di mercato”; di qui uno stile quasi fatalmente sopra le righe e corrente sulle sensazioni (come nei Cannibali o nel noir tutta azione), parallelo alla comunicazione di massa, al montaggio e allo zapping, che hanno sedimentato un'antropologia di lettura lontana dalla tradizione letteraria. Quanto alla visibilità, vicina al cinema come ai video del web, appare un'altra qualità indispensabile, di superficie o di sostanza, per attrarre l'attenzione del lettore, magari se tradotta in ipertesto (una forma dell'ibridazione con inserimento di foto o disegni), su cui Simonetti si sofferma essendo elemento nuovo, seppur forse già invecchiato (che la rapida accumulazione dell'epigonalità pare un tratto spesso emergente). Ma la visibilità soprattutto deborda dalla pagina all'autore, che oggi è meglio sia personaggio e poco letterato: “Soprattutto, un autore onnipresente, multimediale e polidisciplinare, capace di esibirsi su palcoscenici diversi: giornalista, tecnologo, sociologo, sceneggiatore, attore, videoartista, blogger e infine scrittore.” Ed ecco anche l'enfasi sulla prima persona nel testimone (Saviano il cui motto potrebbe essere: “io non fingo”), dell'autore di autofiction (“fingo di non fingere”), del giornalista o del viaggiatore. 

 

Ne conseguono ulteriori osservazioni su un problema che ha assillato in Italia filosofi (Ferraris), scrittori (Siti, Moresco, Wu Ming), critici (Benedetti, Guglielmi, Giglioli, Federico Bertoni), ovvero quello del realismo. Nota Simonetti quanto il realismo, presunto e sicuro sinonimo di impegno, sia stato invece assai ibridato con il meraviglioso, l'epico, lo storico in chiave politica o umanistica (il New Italian Epic, Scurati per esempio), ma anche drogato da effetti di realtà (ancora il noir, “impasto inestricabile di materiale sociale e mediatico”). Pegorari a tal proposito adotta la formula, anche retoricamente efficace di riflessione, che sostituisce il pedissequo riflesso, cioè di letteratura come specchio del reale. Tanto più che il riflesso allude a qualcosa di labile ed ingannevole, mentre la letteratura è materiale resistente, ovvero dovrebbe essa stessa mantenere la “propria consistenza reale”, che “faccia attrito rispetto all'evanescenza di ogni cosa”. Siamo arrivati allora al giunto finale, con l'ultima lezione sulla Resistenza, che mette in campo ulteriori problemi quali quelli dell'equilibrio tra ricchezza e godibilità dell'opera (ecco l'indicazione del jazz) e dello spessore formale-linguistico, toccato più volte anche da Simonetti per esempio nel confronto con lo stile da traduzione o da intrattenimento.

 

Vale la pena però di chiudere a questo punto con l'apprezzamento della generosa proposta, propriamente umanistica, di Pegorari che ha il merito di rilanciare in chiave militante nuove parole per il millennio. Inoltre va sottolineato che il libro, pur agile e scorrevole, non rinuncia ad affondi di profondità storica capaci di chiarire via via in prospettiva i termini in questione. Quanto al saggio di Simonetti, già ampiamente ben accolto, si merita attenzione per l'ampiezza e la lucidità di uno sguardo in grado di fissare, attraverso tendenze di fondo formali, il presente letterario, così spesso caotico, in un notevole excursus tra alto e basso; la neutralità del regesto è tuttavia apparente e le simpatie che qua e là trapelano, per esempio per autori quali Siti e certo Mari, dicono anche in questo caso di un persistere alla vocazione dello specifico letterario tra la sovrabbondanza e l'estinzione. 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Pegorari e Simonetti
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Ricette immateriali. Cicatielli a ciambuttella col pulieo

$
0
0

La ricetta dell'Appennino irpino che sto per illustrare l'ho appresa in casa, da ragazzo, sulla tavola di mia madre. L’ho appresa poi nelle piazze del mio paese, o a casa di amici. E pure l’ho appresa, parafrasando Vasco Brondi, “alle feste dell’Unità che non ci sono più”, sono scomparse ormai da tempo nell’Appennino irpino. 

Insomma, è una ricetta semplicissima, composta da pochi ingredienti, una pasta col sugo chiamata cicatielli a ciambuttella col pulieo. I cicatielli sono fatti di pasta fresca, la ciambuttellaè invece un sugo di conserva di pomodoro a cui si aggiungono dei peperoni soffritti, in ultimo occorre un'erba aromatica selvatica, il pulieo, legata alla famiglia della menta.

Se ho scelto questa ricetta non è tanto per la tradizione, a cui pur sono legato, quanto perché il suo carattere conviviale mi ricorda una frase di Baudrillard in L’America: più triste di un mendicante, scriveva trent’anni fa il francese, dopo aver osservato le strade di New York all’ora del pranzo, “è l’uomo che mangia solo in pubblico”. 

Ripenso spesso a questa immagine di solitudine della grande metropoli, anche perché la mia ricetta è quella delle feste, dell’ospitalità e dello stare insieme. 

 

Favorisci, infatti, usano ripetere davanti alla tavola imbandita, nel loro dialetto spigoloso, i vecchi dell’Appennino meridionale. La parola favorisci risponde a un imperativo categorico, meccanico e rituale. Si invita l’ospite a scacciare insieme a noi la morte, poiché la sazietà dona la forza per affrontare il mondo. 

Dunque, mangiare insieme, in qualche modo, vuol dire non essere soli. Vuol dire accettare e essere accettati, è il riconoscimento reciproco di una matrice comune, di un senso comune dell’umano. E favorisci è un ormai desueto invito che implica inesorabilmente il restare, mandando all’aria ogni altro proposito. Qualsiasi cristiano deve favorire, e d’altronde cristiano, ricorda Carlo Levi nel Cristo si è fermato a Eboli, per i contadini significa nient’altro che essere umano.

 

Oggi non c’è quasi più traccia delle Zelinda di D’Arzo, di Zebio Còtal di Cavani, dei volti di Silone, di Jovine e Dolci, dei personaggi di Carlo Levi e Scotellaro, dei paesani di Meneghello. Quei volti sapientemente descritti restano negli ottuagenari o nelle vecchie fotografie analogiche che ritraggono un passato distante, più che lontano. L’abbondanza ha ingentilito i corpi e la medaglia si è capovolta: alla fame, come ben ricordava Vito Teti in Il colore del cibo, si è sostituita la dieta mediterranea

Tuttavia, basterebbe davvero poco per rivederli quei volti, e vederli negli occhi di altri giovani, per giunta. Dovremmo solo abbandonare le ultime dorsali irpine per le vicine terre di pianura del caporalato pugliese. Dopo Vallata e Candela, ecco Cerignola, Stornara, Orta Nova, ecco le campagne gremite di raccoglitori di pomodori polacchi, rumeni, africani. È lì vicino che la nostra storia, ci ha insegnato Alessandro Leogrande, si replica senza concedere alcuna farsa; è lì che, alla luce del sole, la nostra fortuna relativa diviene la sfortuna di qualcun altro. 

I corpi e i volti parlano chiaro, il corpo del mondo non mente, non ne ha bisogno, e magari anche i pomodori della nostra ricetta, del nostro piatto festivo e conviviale, qualche volta saranno venuti da quei luoghi di dolore e sfruttamento.

 

Ebbene, sono convinto che il cibo abbia in seno, al pari del linguaggio, le caratteristiche per costituire una sua archeologia del saper vivere. Seguirlo può spiegare molte cose su questa terra madre e sulla sua stessa discorsività. Se le antiche ricette, nelle loro stratificazioni, nei sedimenti, trattengono impronte, tracce, insieme a un relativo spazio di indagine, e finiscono per disegnare le fattezze di una civiltà solida e radicata; di contro la filiera della grande distribuzione del cibo porta dritta all’irrazionalità con cui, nell’ingiustizia globale, si continua a produrre e sfruttare, senza limiti né responsabilità. 

 

In fin dei conti, di mondi, ce n’è ben più di uno sul pianeta. Questa mia ricetta parla solo di quello agricolo, che non va rimpianto, bensì contestualizzato, poiché patrimonio necessario a ripensare l’odierna relazione uomo-ambiente. 

L’altro mondo in questione, invece, quello mediatico, liquido e superficiale, lo sappiamo bene, è abitato dai peggiori istinti di un eterno presente. Si impone ovunque e, avendo cura di uniformare o distruggere, laddove approda, occupa qualsiasi orizzonte. Alle sue spalle, svanite orme e tragitti, sopravvive un unico indistinto deserto, in cui non resta che perdersi. Più triste di un mendicante, è l’uomo che mangia solo in pubblico.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Il corpo del mondo
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Dürer. Melencolia I

$
0
0

L’autoritratto deve proprio coincidere con il volto dell’artista? Dopo tutto, un ritratto è qualcosa di molto più incerto di quanto sembri; come sostiene Hans Belting, il ritratto è immagine di un’altra immagine, cioè del volto, una superficie di per sé instabile, impegnata com’è nelle alterne fasi dello scambio sociale e, per questo, continuamente mossa dalla dinamica della mimica facciale. Erwin Panofsky e Fritz Saxl hanno scritto che Melencolia, I– una delle più celebri incisioni del Rinascimento – è l’“autoritratto spirituale” del suo autore, il pittore tedesco Albrecht Dürer. È una delle tesi portanti del saggio che essi dedicarono all’opera nel 1923, La «Melencolia I» di Dürer. Una ricerca storica sulle fonti e i tipi figurativi; il libro viene ora per la prima volta pubblicato in Italia da Quodlibet con un’introduzione di Claudia Wedepohl e uno scritto finale di Emiliano De Vito, che è anche il curatore dell’edizione.

 


Il sottotitolo dell’opera è più che una semplice anticipazione del contenuto del libro; come ribadiscono essi stessi nell’introduzione, i due studiosi si sono messi da “giovani esploratori” sulla strada aperta da altri – Karl Giehlow e Aby Warburg – verso l’interpretazione del capolavoro di Dürer; il loro intento è di “lasciar emergere con chiarezza la grande linea evolutiva” che conduce all’incisione, non tanto quello di “trovare una precisa e magari innovativa soluzione per ogni singolo simbolo”. In altre parole, i simboli letti non isolatamente, ma entro una storia di secoli, una “grande linea evolutiva”. 

“Il cane – o, se volete, il gatto, la mela … – sono il simbolo di questo o di quello”. Quando trovate una frase come questa, bisogna cominciare a dubitare del libro o dell’articolo che si sta leggendo. Chi imposta così il discorso vuole convincerci che ci siano simboli eterni, validi tanto per l’Egitto dei Faraoni quanto per l’età romantica, per oggi e per domani. Simboli al di fuori e al di sopra della storia. È in quest’ottica che Melencolia, I e la sua sequenza di oggetti simbolici (in una concatenazione per niente ovvia) sono divenuti l’ennesima palestra per cercatori di enigmi, prodigiosi scopritori di misteri nascosti, seguaci di Dan Brown (che effettivamente ne parla nel suo The lost symbol). Il fatto è che, davanti a certe immagini del passato vorremmo avere a portata di mano le istruzioni per l’uso – meglio se facili e rapide – che ci aprano la strada del significato; senonché per significato intendiamo qualcosa di semplice semplice, come in un gioco di società. Insomma, vogliamo misteri impenetrabili, ma con una soluzione a portata di mano, se possibile in corpo minore e in fondo alla pagina.

 

La cosa singolare è che il significato dell’opera di Dürer è dichiarato dall’incisione stessa, che reca un titolo (occasione per nulla frequente nel Rinascimento) a caratteri maiuscoli, su una targa sorretta da una sorta di pipistrello: Melencolia, I (il numerale è preceduto da un arabesco che rendo con una virgola); sulla destra, in basso l’incisione è datata 1514 e firmata col monogramma del pittore norimberghese.

Lo strano animale notturno reggitarga svolazza dunque su un cielo al crepuscolo. Una donna alata, dalla parte opposta, se ne sta seduta con la testa appoggiata a una mano. Il chiarore degli occhi spicca nella penombra; il pittore, mentre ne descrive l’immobilità, vuole mostrare che è ben desta: una stasi vigile.

 

 

Ed è sveglio anche il putto che, appollaiato su una macina da mulino, scrive qualcosa su una tavoletta; lo fa nel modo un po’ sognante dei bambini che giocano da soli. Accoccolato lì accanto, un cane invece dorme. Alcuni oggetti, tra loro ben diversi per dimensioni e funzione, sono abbandonati a terra o appesi al muro dietro alla donna alata; una “collezione di oggetti” – così la definì trent’anni fa Adalgisa Lugli – “rilevati con cura e precisione, come le lettere e le immagini accostate di un rebus”: una campana, una clessidra, una bilancia, una scala, un quadrato magico, una sfera, un poliedro, un calamaio, un compasso e un libro (in mano alla donna), strumenti per la falegnameria e per la misurazione geometrica.

Il lungo cammino intrapreso da Panofsky e Saxl inizia dalla Grecia antica e dalla teoria dei quattro umori (sangue, bile gialla, flegma e bile nera), la cui maggiore o minore prevalenza nel corpo umano determinerebbe quattro diversi “tipi psicofisici fondamentali, o caratteri”; nel melanconico, dunque, la complessione fisica (e psichica) è determinata dalla bile (cholé) nera (mélas). Se all’inizio si tratta di un approccio sostanzialmente nosologico, nel corso del tempo la teoria dei quattro temperamenti si apre a una visione molto più ampia che lega il corpo (e la psiche) ai quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco), alle età dell’uomo, ai colori, alle stagioni, ai pianeti. Ridestatosi nel Rinascimento – come gli altri dèi antichi – dopo il lungo sonno medioevale, sarà Saturno a dominare sul territorio segnato dalla “bile nera”. Si capisce, a questo punto, la ragione del numerale del titolo: la melanconia (malinconia) intesa come primo dei quattro temperamenti. 

 

La svolta avviene con Aristotele, che nei suoi Problemata si pone per la prima volta questa domanda: “Per quale ragione gli uomini che hanno dimostrato qualità straordinarie in filosofia, politica, poesia e nelle professioni tecniche si rivelano melanconici, e alcuni di essi lo sono a un punto tale da essere preda dei malanni derivanti dalla bile nera, come si racconta che sia successo – tra gli eroi – a Eracle?”. La melanconia adesso non è più tanto e solamente una malattia, ma uno stato spirituale del tutto speciale, se è vero che riguarda tutti i grandi uomini, e, tra quelli, anche gli artisti. La predominanza di questo umore favorisce però stati d’animo e comportamenti del tutto opposti: il melanconico è pigro, lento, impacciato, annoiato, rimuginatore, indolente e, naturalmente, è attraversato da pensieri cupi; ma, nello stesso tempo, egli è dotato di intuizioni brillanti, di capacità eccezionali, di una creatività fuori dal comune; un “singolare e divino dono” questa melancholia, come affermava nel ‘400 Marsilio Ficino, una delle fonti di Dürer. La melanconia, da malattia che era, va assumendo un’aura positiva: è probabile, ad esempio, che nella Stanza della Segnatura Raffaello abbia dipinto Michelangelo come melanconico. E, in tutt’altro modo, è significativo che un erudito del ‘500 affermi addirittura che i cani migliori sono quelli “che hanno un volto (sic) melanconico”.  

 

A questo spazio dell’azione, dell’attività febbrile, del pensiero raziocinante, si riferiscono in gran parte gli oggetti dispiegati nel silenzio che circonda la donna alata, la personificazione della Melanconia. Come disse Alberto Savinio, “in fondo, la differenza tra tristezza e malinconia è questa, che la tristezza esclude il pensiero, la malinconia se ne alimenta. Guardate come pensa la «Malinconia» di Dürer.”

La regione della melanconia, stato “invidiabile e inquietante” allo stesso tempo, è dunque territorio di contrasti, e Saturno stesso si presenta come il “demone dei contrari”. Luce e oscurità, ricchezza di idee e vuoto, creatività e attacchi di follia come quelli di Eracle: il melanconico, insomma, cammina sempre sul “sottile crinale tra due abissi”. Panofsky e Saxl ricostruiscono con un enorme sforzo di erudizione questo itinerario che, con attardamenti e accelerazioni, inizia in Grecia, percorre (anche attraverso la mediazione araba) il medioevo e arriva al Rinascimento e al pittore tedesco.

Come si vede, il problema non era quello di scoprire “una precisa e magari innovativa soluzione per ogni singolo simbolo”, ma di comprendere l’incisione entro un vasto orizzonte storico. In uno sguardo che coinvolge lo stesso Dürer: egli infatti conosceva bene l’argomento, se è vero che un amico (per lodarlo) lo descrive come melanconico, anzi affetto da una “melancholia generosissima”. 

Ecco perché, sostengono Panofsky e Saxl, Melencolia, I è anche un “autoritratto spirituale”; anche l’artista dovette sentirsi rivestito di debolezza e di potenza quasi divina: l’autoritratto di Monaco appare in questo senso come il contraltare dell’incisione del 1514.

 

 

Come spiegare la grande presa che l’opera ha avuto, tra gli altri, su pensatori come Walter Benjamin (a questo argomento è dedicato il saggio finale di De Vito)? Per non parlare di alcuni artisti contemporanei come Anselm Kiefer e Claudio Parmiggiani, affascinati dalla forma perfetta (e instabile al contempo) del poliedro dureriano. Il significato di Melencolia, I non consiste tanto nella vastità dei riferimenti culturali espliciti e sottintesi, e il suo cardine non coincide neppure con lo straordinario inventario di oggetti simbolici. Bisogna cercarlo, piuttosto, nell’“atmosfera complessiva” (sono Panofsky e Saxl ad adottare l’espressione).

 

E l’atmosfera di Melencolia, I ha il suo fulcro nel gesto della donna alata; i due studiosi, forti dell’insegnamento di Warburg (che nel 1905 aveva usato proprio un disegno di Dürer per coniare il concetto di “formula di pathos”), osservano dunque che lo “schema tradizionale” del malinconico (la mano appoggiata alla gota) assume ora “un senso completamente nuovo”: l’elemento inedito – e il punctum della scena – è dato dal pugno chiuso, che ora è “espressione della più intensa vita psichica”; il significato del gesto non è più solo “tetraggine, spossatezza e pensiero”. La postura del “gomito sopra il ginocchio e la mano sotto le gote” (sono parole di un altro pittore del Rinascimento, Giovanni Paolo Lomazzo) acquista ora la tensione imprevista di una energia trattenuta.

E pensare che, anni prima, lo storico dell’arte Heinrich Wölfflin vedeva nella figura femminile “completa apatia” e un “pervasivo malessere”: ennesima prova di quanto la decifrazione dei sentimenti descritti nelle immagini sia meno ovvia di quanto crediamo. 

Nell’incisione di Dürer, alla fine, c’è ben altro che il solo piano allegorico: la melanconia non è rappresentata tanto attraverso i simboli, ma è dipinta come situazione spirituale, e tutti i dettagli fanno la loro parte “in accordo con l’atmosfera” (per tre volte nella stessa pagina Panofsky e Saxl ripetono questa stessa frase). E veniamo come invischiati nella finta calma della scena, in quest’aria torbida e sottile, fatta di attese e di timori, di bagliori e di penombre.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Atmosfera
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Alessandro Berti: storia di cazzi neri e di bugie bianche

$
0
0
Sottotitolo: 

Il maschio nero come fantasma sessuale. L’uomo nero come incubo dell’uomo bianco, come corpo forte, muscoloso, “selvaggio”, rapinatore di donne bianche, come pericolo da dominare, da ridurre in schiavitù, da tenere a distanza, da linciare quando esce dai binari consentiti. Di questo parla Bugie bianche. Capitolo primo: Black Dick di Alessandro Berti, rappresentato in prima assoluta al teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno (BO) per Gender Bender, il bel festival diretto da Daniele Del Pozzo dedicato a film, idee, performance, mostre, spettacoli di teatro e danza sulle mutazioni che attraversiamo, una proposta del Cassero Lgbt Center sugli “immaginari prodotti dalla cultura contemporanea legati alle nuove rappresentazioni del corpo, delle identità di genere e di orientamento sessuale”.

Bugie bianche / Black Dickè uno spettacolo sul razzismo, sul machismo e sulla violenza in forma di raffinata conferenza, di pacata conversazione, che si tinge di ironia spinta fino al sarcasmo, si accende e porta per strade molto diverse da quelle che sembrava aver imboccato inizialmente. L’attore e autore viaggia negli stereotipi sul sesso del nero (si chiama Black Dick, non solo per pudore di non sparare la traduzione, cazzo nero, ma anche perché alterna italiano e inglese, smontando modi di dire, frasi fatte o gergali, rivelandone le parti nascoste). Berti ci prende per mano con un tono inizialmente didattico, che presto ci tradisce, ci trasporta nella violenza degli impulsi e del mercato, nella contraddizione di neri emarginati che per reagire all’oppressione dei bianchi si trasformano in clown, in menestrelli, in neri come li vogliono i bianchi, o in ribelli che indossano però tutti gli stereotipi forgiati dalla parte contrapposta. L’attore collega momenti storici e del presente apparentemente lontani, dai campi degli schiavi alla ribellione degli attori porno neri che rifiutano di indossare nei loro film la maschera del violento rapinatore, brutalizzatore di donne bianche con le treccine, attuando un vero e proprio sciopero, che impone alle case produttrici, rette per lo più da bianchi, di rinunciare a storie basate su figure troppo schiave di pregiudizi razziali, pena il rifiuto degli attori a interpretare quei copioni.

Salta dal linciaggio dell’uomo nero che ha rapporti sessuali con la donna bianca al turismo sessuale fino alla forma dominate di sesso odierna, quella della pornografia: 

 

Dovrei parlare del turismo sessuale, delle donne europee, americane, di mezza età, in Giamaica, Cuba, a Zanzibar, o del presunto viavai di signore, a Pietrasanta, davanti al centro d'accoglienza, che barattano un rapporto sessuale, in cambio di una ricarica da dieci? No, preferisco: guardare cosa fa la maggioranza. La maggioranza adesso, lo sapete, siete voi, siamo noi, sta davanti a uno schermo, guarda, clicca. Quindi vorrei parlare adesso qui, di un campo molto importante, del discorso sessuale, cioè la pornografia. La svolta smart ha reso il porno fruibile, da tutti, da tutte, a portata di dito, col dito col dito l'orgasmo è garantito, ha interpretato, a suo modo, quello slogan, di cinquant'anni fa.

[…]

In America, tra utenti donne di pornografia, la ricerca di categorie tipo black dick, black thug, black thugsfuckin rough, cioè cazzo nero, teppista nero, teppisti neri che scopano duro, da dieci anni è in crescita costante, esorbitante: del 300%, quindi la donna bianca americana does not date interracial, cioè non ci non va, poi davvero, con il nero, non tanto, secondo le statistiche, ma ha fantasie interrazziali, cerca in rete black dicks,black thugs, definizioni volgari che queste stesse donne, nella vita, non userebbero mai, così come i nomi dei siti, specializzati nel porno interracial, probabilmente non piacciono alle donne: blacksonblondes, cioè neri sopra bionde, blackscrewblondes, cioè neri intenti a chiavarle, le bionde, whatdowhitewomenwant, quel che le bianche vogliono, teensloveitblack, le ragazzine lo adorano nero, ma anche le più mature, a giudicare dal sito momgoingblack, cioè la mamma adesso è andata con il nero, e via così.

 

 

Il testo porta continuamente da un’altra parte, in un viaggio nella storia di uno sguardo, quello del bianco sul corpo nero. Dal porno “interracial” tra attori neri e attrici bianche, si arriva a Mohamed Alì, a Malcom X, al collaboratore gay di Martin Luther King e al suo outing davanti ai nonni, alle Pantere Nere e alla loro natura anfibia, di organizzatori di resistenza culturale e di assistenza nel ghetto, colpevoli spesso di violenza e machismo. E racconta di come quella cultura sia passata nel rap, nelle bande nere:

 

Le Pantere hanno perso, sul campo, l'FBI le ha divise, sconfitte.

E nel tempo il militante politico, degli anni ‘60, armato ma per selfdefence

Con sempre il codice penale con sé, delegato da una comunità,

Si trasforma, tiene solo l'involucro, il look e diventa, venti, trent'anni dopo,

La figura del Gangsta, da solo, violento, drogato

Del Rapper che scopa, che spara, che sniffa

Prima il membro politico, ora il membro virile

L'organo del partito, adesso organo e basta, esibito

La pistola è il mio cazzo, my rod, lo diceva già Cleaver, la verga, la lotta

Per l'uguaglianza diventa: la battaglia di ognuno per farcela, solo, isolato, laffuori, una guerra,

tra tutti, con tutti, cioè esattamente quell'agonismo bianco, self made man versus self made

man, che era stato, per secoli, estraneo, al retaggio, alla cultura dei neri.

 

E poco prima aveva notato:

 

Però sta storia dell'esser stati castrati, e devirilizzati, come schiavi, che è vero, non c'è dubbio, però: l'avete usata, maschi neri, dice Bell Hooks, come una specie di mantra, una scusa, per non muovervi da lì, e giustificare, la violenza, vostra adesso. Avete preso a modello proprio loro, i maschi bianchi, i padroni, che violentavano le vostre donne e linciavano voi! Alla fine, è il loro stesso modello che adesso, riproponete.

[…]

Cioè quindi secondo te piano piano, generazione dopo generazione, il maschio nero, sarebbe diventato, esattamente come il maschio bianco? Io dico solo che era il modello che aveva, di uomo libero, il capo, il maschio onnipotente, il maschio nero spiava: come il padrone trattava la moglie, le figlie, hot stuff here boys...

 

In questi brani il tono fa vedere lo spettacolo. Berti si rivolge agli interlocutori, in numero limitato per sentirli più vicini: parla con loro come se facesse un discorso, avanza dati, osservazioni, con ironia, e obietta alle proposizioni appena avanzate, dentro sé stesso. Il tono “naturale”, normale, da conversazione, si sgretola sotto le domande, sotto le destrutturazioni e gli slittamenti del linguaggio corrente, aprendo strade all’immedesimazione in pezzi più teatrali verso la fine. Con un gran paradosso, come vedremo. 

 

 

L’attore rievoca intanto vari personaggi della cultura black, fino a Eldridge Cleaver, ministro dell'informazione e portavoce delle Panthers, che nel 1968 scrive il libro di saggi e autobiografia Soul On Ice, anima in ghiaccio, lui che avrà un percorso di vita che va dal partito nero a Ronald Reagan e a varie forme di misticismo settario, esempio di nero che cerca le strade più eteroclite per sfuggire a una condizione di soggezione. E arriva fino all’abbraccio tra Trump e Kayne West, “tra il razzista del Klan ed il Rapper”. È un mulinello di notizie e di idee. 

Finalmente Berti si concentra sul racconto di una canzone, la canticchia, assumendo una maschera deliberatamente teatrale. Papa Was A Rolling Stone dei Temptations è un dialogo tra un figlio che chiede chi sia il padre, che non ha conosciuto, e la madre che risponde: “Son… Papa was a rolling stone. Wherever he laid his hat was his home. And when he died, all he left us was alone”: “Figlio, tuo padre era un vagabondo. Dove poggiava il cappello, là era la sua casa. E quando è morto ci ha lasciati soli”. E fa notare che alone suona come a loan, un’ipoteca, un debito.

Riprende il tono da conferenza confidenziale, Berti, e commenta:

 

È una canzone strana, bellissima, che dura sette minuti, una durata pazzesca per una hit, con un prologo musicale esorbitante, di quattro minuti, cioè più lungo della parte cantata, che il gruppo, The Temptations, si divide, in modo piuttosto strano, tra falsetti, pezzi più bassi, controtempi.

I cinque cantanti neri sono vestiti di rosa, ballano, scherzano, e sembrano interpretare con distacco, con ironia, una canzone il cui testo ripropone l'immagine di maschio nero traditore, debitore, giocatore, incantatore, inaffidabile, infantile, sempre in giro.

The Temptations sembrano essere autoironici, staccati, superiori. 

 

E subito svela come la band non fosse a proprio agio in questa hit, forse proprio per il testo. Cerca, Berti, in questo montaggio e smontaggio, la tinta originaria che sta dietro le incrostazioni, la realtà sotto le apparenze, le mistificazioni, il corpo nero mercificato, ridotto, ancora abusato, come nei linciaggi.

 

Quando ho cominciato a scrivere questa parte, dello spettacolo, in cui Bell Hooks e Cornel West dicono ai neri: sveglia, non cadete nelle trappole dei bianchi, non accettatelo il ruolo che vi offrono, di menestrello sessuale, ero a disagio perché questo progetto, nasce da una mia esigenza di difendere, proprio da questo, i maschi neri, qui oggi, da noi, da questo stereotipo. E parlare anche del fatto che succede, può succedere, che un nero invece, coscientemente o meno, sia a suo agio, in questo stereotipo, diventi: il cazzone, il machista, il sessista, che l'uomo bianco è sempre stato, e gareggi con lui a chi l'ha più lungo,

Bene, questa parte di lavoro mi imbarazzava, anche se la ritenevo necessaria, importante, e mi sono ricordato di episodi recenti, in cui artisti bianchi sono stati accusati di appropriazione culturale, cioè di usare una storia, un problema, legato a un gruppo minoritario, in un modo politicamente scorretto. 

 

E qui un’altra capriola verso di sé, verso la nostra cultura e il nostro rapporto con un mondo più vasto delle nostre piccole patrie, ora in una terra di mezzo tra la conferenza e la recita, con un’aria di confessione personale. Il politicamente corretto concede l’autorizzazione a parlare delle minoranze solo a esponenti delle minoranze medesime, e ad assurdi come quelli capitati al regista Roberto Minervini, che non ottiene un finanziamento per girare, lui bianco, un film sui neri in Louisiana:

 

Al che lui risponde, giustamente: ipocriti, siete tutti dei bianchi, chi decide, a chi dare sti soldi e a chi no, è bianco, e cerca un nero per fargli l'elemosina? Daiiii, lo sai benissimo che in questo paese, il cambiamento può essere solo top-down, dall'alto al basso, e io che uso quel po' di potere, che ho come bianco, per parlare di qualcosa che mi preme: l'ineguaglianza, tra bianchi e neri, in America, non ne posso parlare in quanto bianco, vaffanculo.

Ha ragione. Sono d'accordo con lui.

 

È tutta una questione di potere? Potere contro potere, fino alle cornate, alla lotta, alla battaglia. Impossible ricomporre le divisioni, colmare le distanze? 

 

 

E qui arriva il finale, tutto basato sul racconto di Strange Fruit, la meravigliosa triste canzone sui linciaggi, sui neri assassinati penzolanti a un albero, scritta da Abel Meeropol, un bianco ebreo e comunista e cantata da Billie Holiday (si sente in sottofondo, la canzone, mentre avanzano immagini su un piccolo schermo e l’attore torna a recitare e a canticchiare). Emozione. Orrore. Compassione. Forse voglia di ribellarsi. Magia di un teatro che diventa confessione di qualcosa di sepolto dentro ognuno di noi.

 

In questo pezzo e in quello sulla canzone dei Temptations, credo, stia il segreto che fa di questa conferenza sul fantasma sessuale del nero un vero grande spettacolo capolavoro. Berti in realtà recita mentre snocciola dati, all’inizio, facendo finta di condurti con discrezione in una realtà da conoscere meglio. Assume il ruolo insinuante del velaraccontoiolaverità e continuamente smonta il discorso costituito con colpi di scena linguistici e testuali, con ammiccamenti, con una ritualità sulla ricerca della verità, irta di salti, di deviazioni, di difficoltà, di rovesciamenti esercitati con virtuosismo attoriale consapevolmente dimesso. E poi recita questi due pezzi che ti stringono la pancia, il cuore, l’intelligenza, diventando, con la distanza della maschera, verissimo, portandoci nel cerchio magico emozionante della tragedia, noi, complici o semplici spettatori o sodali. Insinua l’idea che l’unica strada, contro il razzismo, contro il pregiudizio, contro una realtà ridotta a paure, spettri, incubi, e rivendicazioni, aggressioni, atteggiamenti di superiorità, l’unica via sia quella di costruire ponti verso gli altri, ascoltando. E allora anche questo spettacolo che parla di attori porno, di donne in calore, di bianchi che linciano o si fanno succubi e di neri che accettano le maschere deformate che vengono imposte loro e le rinforzano, in una lotta alla resistenza che si trasforma in aggressione, anche questo spettacolo diventa una tappa del teatro mistico di questo attore reggiano installatosi a Bologna, che preferibilmente mostra i suoi intimi intensi monologhi o scarni dialoghi in casa sua, lo spazio Casavuota in via San Felice. 

“Mistico” ho scritto, perché Berti indaga i misteri della vita. Lo ha fatto in Un cristiano, la storia del martirio di don Fornasini nella strage nazifascista di Monte Sole a Marzabotto, l’eroismo e l’altruismo di un uomo comune guidato da un’idea di relazione alta con gli altri che chiamava fede. L’ha fatto in quel bellissimo lavoro che è Leila della tempesta, l’intenso dialogo-scontro-ricerca tra una detenuta di fede islamica, arrestata per spaccio, e un monaco. La strada che unisce i due precedenti lavori, apparentemente a dominante tematica religiosa e sociale, con questo, dichiaratamente un’indagine che ruota intorno al sesso e alle sue rappresentazioni, è la necessità di incontro umano, che trasformi posizioni, figure sociali dominanti, vetuste, mortifere. Una ricerca di relazione, di anima, perpetrata senza esclusione di colpi.

 

La storia dei neri in America ci dice che questa paura deforma sia il bianco che il nero, ci cambia, ci rende qualcosa di meno, di peggio, di quello che siamo. Siamo runaway slaves, ormai tutti, e scappiamo, scapperemo, mischiati, braccati, e tra poco, servirà qualche cosa di più, di diverso.

 

Queste parole sentiamo dire verso la conclusione, quando la sua voce, fintorecitante, ci è suonata cristallina di note vere, che si scolpiscono dentro, a fondo. Come quando, subito dopo, dà la parola, ancora con lo stile finto documentario, a James Baldwin, in un testo ripreso da un’intervista della televisione olandese:

 

“Se non usate noi come un esempio, voglio dire: l'esempio americano…

Voi dovreste imparare da tutti gli orrori perpetrati dai vostri figli...

È questo che non siete capaci di accettare.

Voi lo chiamate un problema con la minoranza.

Ed è vero che i neri, o i non bianchi, sono una minoranza in qualsiasi capitale europea.

Ma noi non siamo una minoranza nel mondo.

Voi siete la minoranza.

È questo che non riuscite a guardare in faccia.

Sì, alla fine voi avete i razzi spaziali, le banche e le armi.

Ma quello che non avete più è: me.

Me, me, me.

Io, lo schiavo.

Io, il negro.

Io, il gatto nero.

Che credeva a tutto quello che dicevate, una volta.

Niente che tu possa fare mi convincerà mai che io ho meno valore di te, bambino mio.

Né in cielo né in terra. È finita.

Io ti ho sopportato per tanto di quel tempo, ora tu devi sopportare me.

E sono venuto per restare. Capisci?”

“Dobbiamo vivere la stessa vostra storia?”

“Spero di no.

Se fossi in voi, se fossi in voi studierei, la prenderei come una dimostrazione pratica…

E non fate quello che abbiamo fatto noi.

Non dovete costruire un'altra Harlem

Solo perché l'avete già fatto una volta.

Assolutamente no.

Non dovete fare quello che hanno fatto i vostri figli.

Dovete imparare da questo esempio, e capire che non è una questione romantica.

È una verità che non si può dire.

Tutti gli uomini sono fratelli, questo è il nocciolo della questione.

Se non la afferri così, non la afferri proprio.”

 

E il ritmo ci trascina, placido, cullante, come una verità sussurrata sottovoce, con arte che si esibisce per nascondersi e per lasciarci soli davanti alla nostra responsabilità. Una voce di quelle alle quali non si può impedire di sconvolgerci. Semplicemente.

 

Le fotografie sono di Daniela Neri

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Festival Gender Bender Bologna
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Per una nuova ecologia delle idee

$
0
0
Sottotitolo: 
Intervista a Nicolas Negroponte

Produrre un’intera auto con una stampante 3D. Coltivare oggetti come fossero piante, piantandone i semi e aspettando che crescano. Imparare una lingua straniera semplicemente inghiottendo una pillola, capace di produrre apprendimento direttamente a livello neuronale. Sono solo alcune delle “previsioni di futuro” – invero piuttosto ardite – che Nicolas Negroponte, leggendario fondatore del MIT Media Lab e pioniere degli studi di interazione uomo-computer, ha lanciato al suo pubblico negli ultimi anni. E per quanto lui stesso rifiuti con studiata discrezione il ruolo di aruspice dell’era digitale, è difficile non credergli, quando si ripercorrono i progetti e le visioni che il suo team ha prodotto dagli anni 70 a oggi.

Era ancora un giovane ricercatore del MIT, ad esempio, quando iniziò a sperimentare interfacce video sensibili al tocco e sistemi di riconoscimento vocale. I monitor erano ancora enormi scatole grigie e gli schermi pozzi neri lampeggianti di pixel fluorescenti, ma il futuro era già alla porta. «Era l’inizio di quella che avrei chiamato informatica sensoriale e tutti pensarono che fosse ridicolo» ha raccontato sul palco del TED qualche tempo fa. «Vennero pubblicati studi per spiegare quanto fosse stupido usare le dita. E la motivazione principale era che, toccandolo continuamente, lo schermo si sarebbe sporcato…». E ancora: libri elettronici, una telecamera montata su un’auto per tracciare e registrare i percorsi su strada, un programma informatico di gestione per servizi di taxi privato. Tutte idee che venti o trent’anni dopo si sono tramutate inesorabilmente in realtà. 

 

Oggi Negroponte continua a immaginare il futuro attraverso la tecnologia, ma la sua preoccupazione principale è diventata l’uomo, il suo ruolo sociale e il suo benessere reale e duraturo. Il diritto alla connessione, l’educazione dei più giovani, una cultura genuinamente collaborativa, ma soprattutto una nuova “ecologia delle idee” sono i temi che gli stanno più a cuore.

«C’è una enorme siccità, una vera e propria carestia di idee. La maggiore parte delle persone pensa che siamo inondati da idee, che non ne abbiamo mai avute così tante: visioni, opinioni, progetti sempre nuovi. Ma è un miraggio». Le migliori menti della nuova generazione, spiega, sprecano il proprio talento per progetti minimi e irrilevanti oppure vengono assorbite dalle grandi corporazioni della new economy. Abbiamo una app per ogni esigenza quotidiana, ma in pochi si dedicano davvero ai grandi problemi della comunità. Per farlo, suggerisce, bisogna tornare a fare (e farsi) domande assurde, quelle che farebbe un bambino di cinque anni. Come dorme una giraffa? Perché quando ci si guarda allo specchio la destra diventa sinistra ma l’alto non diventa il basso? Trovare risposte sempre più coraggiose o fantasiose a queste domande, come farebbe appunto un bambino, è per Negroponte la via per un nuovo modello di apprendimento. Per rieducarsi a pensare e in questo modo ricominciare a inventare. 

 

In più di un’occasione lei ha dichiarato che oggi l’accesso a internet andrebbe considerato un diritto universale, da garantire a ogni persona in ogni luogo. Allo stesso tempo, però, la questione della protezione dei dati personali sulle piattaforme digitali, strettamente legata alla “frenesia da connessione”, diventa sempre più delicata – basti pensare al caso di Cambridge Analytica e alla recente normativa europea GDPR. È possibile trovare un equilibrio tra questi due diritti, ugualmente importanti?

 

Confrontare la questione dell’accessibilità con quella della privacy può essere, in realtà, fuorviante. È un po’ come contestare la fotografia in base all’uso che se ne può fare, come la pornografia ad esempio. Certamente da un lato serve una sempre maggiore educazione al mezzo e al tempo stesso un sempre maggiore progresso del mezzo stesso, ma la violazione della privacy è solo uno dei possibili rischi che bisogna affrontare in questo processo. Insomma, terrei separate le due questioni. Non possiamo incolpare i processi di educazione e alfabetizzazione digitale in sé per i molti possibili effetti o ricadute che ne derivano.

 

In che modo il diritto universale alla connessione può essere garantito e da chi?

È una questione interessante. Certamente non saranno le grandi corporazioni a occuparsene. E probabilmente neppure i governi, perché sarebbero troppi gli attori in gioco. Dovrà invece occuparsene una qualche forma di settore pubblico globale. Un po’ come è avvenuto per la Convenzione sul diritto del mare o il Trattato sullo spazio extra-atmosferico, accordi globali su questioni che travalicano i singoli paesi, ma sulla cui importanza siamo tutti d’accordo: aria pulita, acqua non inquinata e così via. L’acqua pulita è un diritto per tutti e non è detto che solo i paesi che si affacciano su mari e laghi debbano esserne responsabili. È un problema globale, che è neppure così oneroso come si potrebbe credere, ma anzi potrebbe essere risolto in modo abbastanza semplice nell’ambito di un’economia globale.

 

Opera di Ian Cheng.


I dati rappresentano oggi un valore prezioso in ogni campo: non solo per gli esperti di marketing, ma anche sempre più per governi e istituzioni. Secondo alcune teorie di innovazione pubblica, è tempo che parte di questo valore economico venga “restituito” ai normali cittadini, ad esempio usando i dati personali come una risorsa comune per costruire servizi pubblici più efficienti. Utopia o possibile realtà? 

Ci sono molti modi per trasformare i nostri dati in un bene comune, ma per farlo occorre separare questa prospettiva dalla convinzione da parte dei singoli di poterne ottenere una qualche remunerazione. Sempre più le persone pensano: “Dovrei usare i miei dati personali per guadagnare qualcosa”. Ma è un atteggiamento sbagliato. Pensiamo all’Europa: nel complesso sul tema della privacy dei dati la legislazione è piuttosto avanzata, eppure ci sono casi di persone che muoiono perché la legge non consente di condividere i dati sanitari in modo da ottimizzare la ricerca di una cura. Bisogna quindi bilanciare bene i due aspetti: il bene pubblico è, appunto, pubblico, non individuale e bisogna essere molto severi nel valutare ciò che lo caratterizza. Il generale, il bene pubblico non è qualcosa di cui la gente si preoccupa molto: siamo diventati una società molto egocentrica: “io, la mia posizione, il mio lavoro, i miei successi…”. Ed è un modo di pensare molto americano o europeo, meno tipico invece delle culture asiatiche. 

 

Secondo alcune teorie, l’importanza crescente dei dati sta creando una sorta di “supremazia” del pensiero quantitativo, come se qualunque cosa possa o debba essere quantificata e valutata in termini numerici. Cosa ne pensa? Davvero tutto può essere convertito in dati?

A dire il vero non sono un grande fan delle misurazioni. Oggi tutti assicurano che misureranno l’impatto di ciò che fanno. Ma io mi chiedo: perché farlo? Se devi misurarlo, significa che non è così grande. L'impatto di qualcosa dovrebbe essere così evidente da non richiedere alcuna misurazione. Ora, l’auto-evidenza è una facoltà umana relativamente astratta e certamente possiamo capire molte cose dall'autoevidenza. Personalmente, quando si tratta di comprendere i fenomeni, preferisco un ragionamento molto più intuitivo, ovvero processi di pensiero che, diversamente dalla misurazione dei big data, non possono essere automatizzati.

 

Più di una volta le sue ricerche si sono rivelate quasi delle “previsioni”, considerate assurde all’epoca in cui vennero formulate. Sappiamo, tuttavia, che le previsioni non sono questione di magia, ma di decodificare e comprendere accuratamente i possibili sviluppi del tempo presente. Quali “assurde previsioni” possono essere fatte, oggi, in base alle tendenze attuali dello scenario digitale? 

Non direi che ho fatto o tantomeno che continuo a fare previsioni. Quello che ho fatto è stato essenzialmente estrapolare conclusioni possibili dalle condizioni esistenti, il che è decisamente più semplice. Penso ad esempio ad Alvin Toffler, che di fatto non ha mai prodotto nulla: ha letto, studiato e infine estrapolato i fatti. Ma lo ha fatto benissimo. Ecco, quello che facciamo è in fondo semplice: lavoriamo su un progetto nel laboratorio e immaginiamo cosa potrebbe succedere. E tuttavia, se proprio vogliamo parlare di previsioni, forse oggi la più importante è che il mondo digitale avrà solo un ruolo minore nel futuro a lungo termine. Il grande cambiamento – che pure, si potrebbe replicare, è comunque una sorta di digitalizzazione – va piuttosto cercato nel campo della biotecnologia, nelle sperimentazioni in biologia sintetica. Si tratta, a mio avviso, di un cambiamento enorme, grande quanto lo fu la rivoluzione digitale 30-40 anni fa. 

 

Questa intervista è tratta dal numero #2/2018 di ICS magzine, edito da Pomilio Blumm.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Intervista a Nicolas Negroponte
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Montalbano, siamo!

$
0
0

Ecco una nuova puntata di Montalbano. La stanza viene attraversata da lampi di luce azzurrina, da vecchia Tv con il tubo catodico. In questo caso però, a illuminare le nostre case, sono il mare e il cielo riflessi sulla pietra paglierina di una Sicilia barocca ma aspra, già in odore di Africa. E mentre lo spettatore siede sul suo divano low cost, si ritrova contemporaneamente a sorseggiare un calice di bianco gelido ai tavoli di Enzo ammare, con le onde a pochi metri dai tendoni azzurri mossi dal vento. La cosa ancora più straordinaria è che a Colchester, nella contea dell’Essex, una mia anziana conoscente sta guardando la stessa cosa, magari non la stessa puntata ma la stessa serie, con i sottotitoli in inglese e, tra una cucchiaiata e l’altra di porridge, si siede come noi ai tavoli da Enzo ammare. Su questo non possiamo non interrogarci perché, se un prodotto televisivo italiano, e in particolare il suo protagonista, può piacere contemporaneamente al pubblico italiano, già di per sé composito, e a un ottantenne dell’Essex, ciò vuol dire che possiede qualcosa che travalica i gusti nazionali accedendo a una dimensione molto più vasta.

 

Una convincente ed esaustiva spiegazione di questo successo ce la dà Gianfranco Marrone in un libro intitolato La storia di Montalbano (edizioni Museo Pasqualino 2018) che integra un’analisi del fenomeno, pubblicata dallo stesso Marrone nel 2003, con materiali e riflessioni nuovi. La figura del commissario, già famoso come personaggio letterario presso i cultori dei romanzi di Andrea Camilleri, diventa un vero e proprio “eroe sociosemiotico con la serie televisiva, di quelli che, dice Marrone, perdono l’aggancio ai testi e ai loro autori e cominciano a confondersi con gli oggetti e le persone del mondo dell’esperienza. Ne sanno qualcosa i molti che hanno potuto addirittura dormire nel letto di Montalbano, a Punta Secca, sulla costa ragusana, dato che da anni la famosa casa sul mare del commissario, quando non utilizzata come set della serie, diventa un bed and breakfast a uso dei turisti. Poco più in là, si possono mangiare gli altrettanto famosi arancini in un bar che, naturalmente, si chiama “Gli arancini di Montalbano”. 

 

Con ragionevole spesa, poi, sempre a Punta Secca, chiunque può pasteggiare a un tavolo dello stesso, riconoscibilissimo ristorante in cui abbiamo visto decine di volte il nostro commissario dimenticare le complicate indagini per dedicarsi alla buona cucina siciliana. Insomma, grazie soprattutto alla trasposizione televisiva, questo personaggio è diventato infinitamente più efficace, rispetto a qualsiasi assessore locale o agenzia turistica, nel rilanciare ex novo un’intera zona depressa della Sicilia meridionale e trasformarla in un brand, la “terra di Montalbano”. 

 

Nella parte del libro di Marrone scritta quindici anni fa, il fenomeno che appariva più importante era l’intertesto mediatico. Montalbano circolava in un gran numero di altri testi: versioni radiofoniche, cartoni animati, fumetti di autori diversi, libri-intervista, infiniti articoli giornalistici, siti internet. In realtà, negli anni successivi, fino a oggi, è assolutamente preponderante la versione televisiva, incarnata da Luca Zingaretti, che è un caso molto interessante di “traduzione-tradimento”. Rispetto all’umbratile, baffuto, vecchieggiante Montalbano dei romanzi di Camilleri, questo attore presta al commissario un fisico brevilineo, un cranio rasato, delle gambe stortignaccole ma nonostante questi difetti (che lo rendono più vicino allo spettatore medio italiano) ha un aspetto capace di far sognare le spettatrici italiane di ogni generazione: sorriso accattivante, bei lineamenti, occhi chiari malandrini, e un modo di fare con le donne, fascinoso ma sfuggente, che lo rende una preda irresistibile. 

 

 

Sempre, quando si passa dalle pagine di un romanzo a un adattamento filmico, il regista sceglie per noi l’aspetto che deve aver l’eroe o l’eroina. Come dice Umberto Eco (Dire quasi la stessacosa, 2003) parlando della trasposizione cinematografica di Ritratto di signora di Henry James, “io rimango libero di immaginare Isabel come la Primavera di Botticelli, come la Fornarina, come una Beatrice di stampo preraffaelita, e persino (de gustibus…) come una madamigella d’Avignone. Invece nel film Isabel è interpretata da Nicole Kidman. Ho la massima ammirazione per questa attrice, che trovo indubbiamente bellissima, ma penso che il film apparirebbe diverso se Isabel avesse il volto di Greta Garbo o le fattezze rubensiane di Mae West.” Nel caso di Montalbano il tradimento è stato evidentemente fruttuoso in termini di gradimento presso il pubblico tanto che, come sottolinea anche Marrone, l’attore non è riuscito più a scrollarsi di dosso il personaggio. Senza contare tutto il contorno di caratteri da commedia dell’arte: il vice Augello, l’ispettore Fazio, il centralinista Catarella, la fidanzata Livia, il medico legale Pasquano, insomma una galleria di tipi che trascende le storie. L’invenzione narrativa infatti, come dice ancora Umberto Eco, è solo una delle componenti della mitopoiesi. Tra gli esempi di Eco, c’è quello del tenente Colombo, le cui storie erano ripetitive al massimo e si conosceva fin dall’inizio l’assassino. Ma il pubblico le seguiva sempre con passione per vedere lui, il tenente dall’occhio di vetro e dal trench smandrappato, muoversi con astuzia attorno l’assassino upperclass di turno e inchiodarlo alle sue responsabilità.

 

Del resto, la feconda continuità fra gli studi Eco e quelli di Marrone per quanto riguarda questi eroi massmediatici è confermata dalla recentissima ripubblicazione degli scritti di Eco sulla televisione, e curati non a caso proprio da Gianfranco Marrone (Sulla televisione. Scritti 1956-2015, La nave di Teseo, 2018; cfr. anche in Doppiozero, Gianfranco Marrone, Intervista impossibile Umberto Eco). L’esempio di Colombo, anche qui contenuto, è forse quello più paragonabile, nella storia recente dei telefilm, al caso Montalbano. Come si è già accennato, anche il nostro Salvo, pur nelle attraenti vesti di Zingaretti, è un eroe tutt’altro che perfetto. Le rassegne stampa riportate da Marrone ci mostrano come il pubblico percepisca questo personaggio come un uomo dalle molte sfaccettature, a volte contraddittorie: “Macho, rude ma agnellino con le donne”, “un uomo ma non un macho”, “un protagonista ma non un vincente”, “problematico ma amante delle cose semplici, “riflette sulle passioni ma cerca di capirne le ragioni”, “focoso e passionale ma anche negoziatore e calcolatore”, “simpatico ma burbero”, “affronta il mondo con feroce tenerezza”, “meditabondo, cupo, introspettivo ma anche strepitosamente allegro, ironico e tagliente”, ecc. ecc. Insomma, conclude Marrone, un uomo-ossimoro, “che vive le passioni, le crisi, le debolezze e gli eroismi, le contraddizioni e le rivincite della gente comune” (p. 87). 

 

Nelle analisi contenute in questo libro, della cui ricchezza e precisione non posso dar conto qui, ma che indico come imprescindibili per chiunque voglia cimentarsi nell’analisi seria di una fiction televisiva, Marrone indaga anche le motivazioni profonde dell’agire di Montalbano. Esse non sono legate ai valori formali della legalità ma a quelli di una giustizia più umana, fondata sui sentimenti delle persone coinvolte. Quindi, pur perseguendo i criminali, quelli che infrangono la legge, Montalbano cerca soprattutto di combattere i cattivi, cioè quelli che sopraffanno i deboli. Si tratta, come si vede, di figure archetipiche, che ritroviamo anche nella cronaca più recente, se pensiamo al sindaco di Riace, Mimmo Lucano, forse non perfettamente in regola con le procedure, ma animato da un profondo anelito umanitario. 

 

Il Montalbano di Alberto Sironi, che firma la regia delle serie dalla fine degli anni Novanta, mantiene le sue radici nell’opera di Camilleri ma, come anticipato, se ne emancipa per quanto riguarda gli aspetti più crepuscolari, che non avrebbero probabilmente incontrato un successo così vasto. L’eroe dei romanzi di Camilleri infatti è un uomo in declino, depresso, che vive in una Sicilia descritta come degradata dal crimine e dagli abusi edilizi. Paradossalmente, più che a Montalbano, assomiglia ai protagonisti di polizieschi televisivi attuali come I bastardi di Pizzo Falcone, con Alessandro Gassman, e RoccoSchiavone, con Marco Giallini, eroi esistenzialmente più spiegazzati e sofferenti rispetto al Salvo Montalbano di Zingaretti. Quest’ultimo infatti, a parte qualche parentesi più introspettiva, sembra sempre al centro di quello che uno psicoanalista un po’ pop definirebbe un tourbillonlibidico: fisico super tonico spesso inquadrato a torso nudo, cibo, vino, donne che tentano di sedurlo (e spesso ci riescono), paesaggi struggenti, esotici, dove il degrado paesaggistico quasi non esiste e, dice Marrone, “avviene la costruzione mediatica di un ‘senso del luogo’ che potremmo definire mitologico, sganciato cioè da ogni imperativo rappresentazionale ma comunque produttore di significazione” (p. 180)

A mio avviso, il successo straordinario della serie ha portato, negli anni, a enfatizzare aspetti più commerciali, più attenti al gradimento del pubblico. Nelle ultime tre, quattro stagioni, le vittime sono quasi sempre giovani donne bellissime, di cui vengono mostrati con dovizia di particolari i corpi discinti e martoriati. Anche i resoconti autoptici del medico legale sono ricchi, in questi casi, di particolari macabri e scabrosi, come nella più deleteria cronaca nera dei nostri giornali quando si tratta dell’assassinio di ragazze. 

 

Dove porterà questa tendenza? Non lo sappiamo. Nel frattempo, stagione dopo stagione, vedremo invecchiare il nostro eroe, poiché i miti non tramontano ma gli attori in carne e ossa sì. E tuttavia, grazie alle infinite repliche (seguite ogni volta da milioni di telespettatori), Montalbano si ritroverà sempre un doppio corpo, come i re studiati da Ernst Kantorowicz: quello caduco di Luca Zingaretti e quello televisivo, eterno, che solcherà per noi il Mediterraneo con bracciate immutabilmente vigorose. 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Eroi massmediatici
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Cosa fa il governo per la cultura

$
0
0

È vero come dice il sottosegretario Vacca in risposta alle critiche sulla legge di bilancio (AG Cult 9 novembre) che la cultura è un investimento “e continueremo a puntarci”? Se guardo alle scelte di allocazione delle risorse compiute ho reazioni contrastanti.

 

La prima cosa che intuisco è che il Ministero ha a cuore il built heritage e che su questo dimostra di agire in continuità con il governo precedente.

 

Il Ministero ha dichiarato di aver varato un piano di investimenti per la sicurezza sui luoghi della cultura di 109 milioni a valere su 314 siti. Si tratta di un’operazione decisamente necessaria, stanti i cambiamenti climatici in atto e le condizioni idrogeologiche del nostro paese, e operata in continuità con il governo precedente. A febbraio 2018 infatti, l’allora Ministro Franceschini aveva firmato un piano sicurezza da 600 milioni ed è giunto il momento di “sbloccarne” una tranche. 

 

In più, la legge di bilancio 2019 prevede 500 assunzioni nel 2020 e altre 500 nel 2021 per il MIBAC, che si aggiungono alle 1000 realizzate fra il 2016 e il 2018. Non è poca cosa. In un Ministero in drammatica crisi d’organico nel quale l’età media è di 54 anni, è evidente che si tratta di una misura indispensabile, che vale 18,6 milioni nel 2020 e 37,2 milioni nel 2021. Certo, inizialmente il Ministro Bonisoli aveva dichiarato di voler assumere 6000 persone, e poi 4000, il che la dice lunga sulla dimensione del fabbisogno. Credo sia meglio così: mi sembra politica ben più saggia un piano di inserimento di 500 persone l’anno per tanti anni invece di un investimento massiccio in un colpo solo. 6000 assunzioni in un colpo avrebbero scombussolato non poco non solo il Ministero, ma il fragilissimo mercato del lavoro in ambito culturale. Mi auguro che questo trend di assunzioni continui e che sia l’occasione di un allargamento nel mix delle competenze richieste a introdurre anche figure amministrative e gestionali, soprattutto nei musei autonomi e nei poli e che le cenerentole delle cenerentole (gli archivi e le biblioteche) ricevano un po’ di ossigeno.

 

Faccio invece un po’ fatica a comprendere il senso delle altre manovre, che peraltro complessivamente valgono 25,6 milioni. È innanzitutto nella piccolezza delle cifre in gioco che percepisco la marginalità della cultura nella riflessione del governo e l’inappropriatezza dell’affermazione che “la cultura è un investimento”; quello che vedo è purtroppo una logica di “raschiamento di barile”, peraltro di pochissimo impatto per il bilancio dello Stato. 25,6 milioni di tagli sono tanti per il fragile mondo della cultura, non sono nulla per il bilancio dello Stato. Di che cosa stiamo parlando?  

 

Se guardiamo poi a dove sono stati ipotizzati i tagli, ci sono due categorie penalizzate: i diciottenni e i commercianti, librerie e esercenti cinematografici. L’effetto combinato dei due tagli penalizza di fatto le industrie culturali più delle istituzioni. Il primo taglio, il più corposo (20 milioni) mi dispiace, il secondo mi indispettisce. 

 

20 milioni su una dotazione di 290 sono un taglio del 7% al bonus cultura. Non abbastanza per essere una allocazione efficiente di risorse pubbliche, sufficiente per dare un segnale di sfiducia politica ai diciottenni. Un’occasione mancata. Con la disoccupazione giovanile che abbiamo e la crescita del numero dei NEET credo sia importante che il governo dia un segnale di attenzione. Avrei apprezzato la manovra se il governo avesse fatto questo ragionamento: taglieremo i 20 milioni perché i ragazzi non stanno usando il bonus e perché ci sono tanti furbetti. Li useremo per introdurre lo scontrino parlante, per rendere pubblici i dati e per vedere in quali parti d’Italia il bonus cultura è più utilizzato. Quello che avanza sarà redistribuito in quei territori, perché sarà il segno di una attenzione collettiva alla cultura: da parte di famiglie, insegnanti, operatori culturali. Meritano di essere resi visibili, meritano di essere premiati. Se il governo si comportasse così farebbe molto meglio alla cultura di quel che immagina. 

 

6 milioni scarsi di tagli al credito d’imposta sono invece un dispetto e basta. Penso che il governo non si renda conto che l’energia spesa per decidere il taglio è di molto superiore al beneficio che è stato ottenuto, un vero spreco e una inutile sciocchezza. I crediti d’imposta a librai ed esercenti cinematografici erano stati introdotti nel 2016 e nel 2017, ragionevolmente dopo un certo iter e tempo speso. Per chi ne ha goduto, una beffa oltre che un danno. Per i cittadini, non certo un incentivo ad apprezzare il risparmio. 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Cifre e numeri
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Latella: Aminta, la ferita

$
0
0
Sottotitolo: 

Qui racconterò la potenza della metafora teatrale e il suo fragile ritrarsi, però con anima di metallo resistente, di fronte ai cataclismi della realtà. Parlerò dell’Aminta, favola boschereccia del 1573, scritta dal più sonoro dei poeti antichi, Torquato Tasso, quello dalla sensibilità più malinconica, problematica, incrinato annuncio della coscienza infelice. 

Amintaè stata messa in scena nelle Marche terremotate da Antonio Latella, regista, direttore artistico della Biennale Teatro di Venezia. Il suo nome basterebbe ad assicurare una rivisitazione radicale e un qualche ribaltamento verso l’età contemporanea. Eppure, invece, quello che spicca, con forza invincibile, è la parola antica, musicale, organizzata in endecasillabi e settenari, lo stordente effetto incantatorio e risvegliante di versi orditi intorno al nucleo duro del testo, la ferita d’amore, immedicabile, sanguinante anche quando appare rimarginata. Una ferita simile ad altre che infligge la vita, come quelle che corrusche regole possono causare alla libertà dell’arte, o come quelle incise dal dovere nella carne viva del piacere. 

 

Tutto questo sta nel testo cinquecentesco, celato da una grazia incrinata dal dolore, una lacerazione ricomposta in forma smagliante, cantante, e perciò ancora più bruciante, incavata perché continuamente rimossa. Nella regia vista al teatro Lauro Rossi di Macerata, in prima assoluta l’8 novembre, non c’è Arcadia, non c’è quasi movimento, se non piccole esibizioni che rivelano abissi, che mettono in cortocircuito le scene, i personaggi, i desideri, nell’attento rimontaggio drammaturgico di Linda Dalisi. Nove personaggi più un coro sono interpretati con alcune significative sovrapposizioni da quattro attori quasi immobili, severi, in nero o con colori terrosi, nella scarna luce diffusa di Simone De Angelis dove ogni tanto un volto o un particolare risalta grazie a un faro che gira su un binario circolare, rendendo il luogo delle rivelazioni d’amore un’isola, incantata forse – come la “delizia estense” del Belvedere sul Po dove forse si rappresentò l’opera per la prima volta davanti alla corte – ma anche una sorta di prigione.

 

Camerino.


Ma prima di narrare la storia del pastore Aminta innamorato di Silvia, che non lo ricambia, persa nei riti adolescenziali della caccia, e dei mediatori che cercano di assecondare la naturale passione d’amore, la più vecchia e saggia Dafne, Tirsi, pastore, controfigura del Tasso, e i vari nunzi, che raccontano i fatti avvenuti lontano dal prato dei pastori, prima di inoltrarci nelle accelerazioni drammatiche della storia e di assistere alla trasformazione del dolce timido Aminta in satiro, con belle invenzione di regia, e di assistere alla doppia finta morte finale dei protagonisti, con conclusiva riconciliazione e trionfo dell’amore, prima bisogna parlare dell’occasione produttiva di questo spettacolo. 

Esso è targato stabilemobile, la compagnia di Latella, e Amat, Associazione marchigiana attività teatrali, diretta da Gilberto Santini, uno che ha lo sguardo attento ai fenomeni innovativi della scena (ricordiamo che propiziò alcuni spettacoli di Emma Dante e dei Motus, agli inizi delle rispettive carriere). 

Questa Amintaè stata preparata in residenza nel teatro di un paesino dell’entroterra maceratese, Esanatoglia, dalle parti di Matelica. Ed è stato presentato in prima nazionale l’8 novembre a Macerata per il progetto di MiBAC e Regione Marche “Lo spettacolo dal vivo per la rinascita dal sisma”. Riprendere a vivere dopo la ferita profonda del terremoto, che vediamo ancora non sanata (qui sta la metafora cui si accennava all’inizio). Macerata non porta segni visibili del cataclisma. 

 

Qualche settimana prima ero stato a Camerino per il premio di drammaturgia intitolato a Ugo Betti, ed ero stato portato in visita nella zona rossa, il centro storico della città dove nelle precedenti edizioni della manifestazione si teneva la premiazione. Questa volta eravamo per il convegno e la cerimonia nel campus universitario, non distante dalle casette di legno per gli sfollati e dagli spazi provvisori dove sono riprese le attività commerciali, con un’ombra di normalità rappresentata, il sabato pomeriggio, da adolescenti sciamanti tra paninoteche allestite in tendoni. Là nel centro era frastornante il silenzio, l’assenza di vita, le case ingabbiate in impalcature o in strutture di contenimento. Erano ancora visibili i colpi mortali inferti a edifici (e a esseri umani), come l’angolo di una casa squarciata e alcune travi del tetto ancora pendenti. Con incisioni profonde o apparentemente superficiali nelle facciate, con finestre aperte e non richiudibili perché si era spostato l’assetto dei muri, delle soglie, degli architravi. E quel silenzio innaturale, immoto, lancinante.

 

Camerino.


Rinascere attraverso la cultura. Latella in qualche intervista ha anche detto che tornare ai classici, alla lingua del Tasso, vuol dire ripensare l’odierno nostro modo di comunicare, sottrarsi all’orgia di parola insignificante che ci avvolge e travolge. Andare alle radici. In questo caso vi si avvicina con un poeta che introduce la modernità nella nostra letteratura, con la sua coscienza del conflitto tra desiderio e realtà, con i suoi slanci contro i muri dell’impossibile, con la sua malinconia. Aminta ama Silvia che non lo ama, e non servono mediazioni, atti dimostrativi d’amore per raddolcire la fiera fanciulla, che ha (giustamente, a giudicare da quello che ancora ci succede intorno) paura dell’uomo e dell’iniziazione alla vita adulta del sesso. Non serve nulla, l’amore, il soccorso, il sacrificio. Silvia, in fondo, è una che vuole procrastinare la fine del desiderio totale, senza soggetto. In questa incrinata favola ci sono personaggi più anziani, intorno, a consigliare: Tirsi, che ha ben cinque lustri più quattro anni, 29, come il Tasso quando scrisse l’opera; la più matura Dafne (35-40?). E c’è la furia sensuale del satiro, che lega Silvia a un albero, nuda, la avvolge con i suoi stessi lunghi capelli e con rami flessibili e sta per stuprarla. E ci sono i lupi, che Silvia caccia, ferisce, insegue nella selva, ma si sa che nel bosco la situazione può rovesciarsi, tutto può accadere. Silvia scompare, viene trovato un suo velo macchiato di sangue e si vedono i lupi allontanarsi. Silvia è morta? Aminta si uccide. Ma in questo mondo di pastori che si esprimono con la sprezzatura dei cortigiani le cose non sono mai univoche. Il colpo di scena che squarci le apparenze troppo definitive è sempre possibile, come nella vita, e il lieto fine, dietro le mascherate che lo hanno dilazionato, è sempre pronto a introdurre una (temporanea?) consolazione.

 

Aminta, ph Brunella Giolivo, da sx. Michelangelo Dalisi, Matilde Vigna.


È un rito, lo spettacolo. Un parlare incalzante per versi, dando principalmente con le voci la profondità del movimento. Michelangelo Dalisi è Tirsi, ossia il Tasso, e poi il coro, altri personaggi e Venere. Una figura asciutta, spigolosa, ascetica, con un dire apparentemente distaccato che diventa azione, partecipazione sapienziale colma d’esperienza. Gli altri tre interpreti provengono da quella meravigliosa esperienza di Latella ed Ert che è stata Santa Estasi, un viaggio con attori usciti dalle scuole, sul ciglio di incerte carriere, portati a maturazione facendoli misurare con le sproposizioni della tragedia greca. Emanuele Turetta è Aminta, pronto a trasformarsi in satiro, nel corto circuito di Linda Dalisi e Latella, a denudarsi, alla fine del primo atto, per mostrare cosa si nasconde sotto le timide, disperate parole di Aminta. L’amore è rapina, e con questo bisogna sempre fare i conti. Ed è messa in scena, rappresentazione di sé, come ci dicono Il lamento della ninfa monteverdiano del primo atto e soprattutto le altre scelte musicali di Franco Visioli nel secondo, Rid of me di P.J. Harvey e Vitamin C dei Can, cantate da Dafne e Silvia, da Giuliana Bianca Vigogna e da Matilde Vigna alla chitarra elettrica, che continua a strappare accordi quando racconta i lupi che sbranano Silvia. È lei stessa, Silvia, Matilde Vigna con chioma biondo platino, punk civilizzata ma non troppo, a rievocare la scena della sua morte presunta, trasformandosi nella messaggera Nerina. Sdoppiamenti? Finzioni? 

 

E sarà Aminta, presentandosi come Nunzio, a compitare luttuosi versi sul suicidio di Aminta, buttatosi in un dirupo alla notizia dello sbranamento dell’amata. Un burrone che riproduce i denti dei lupi che hanno ridotto a sole ossa, secondo quanto si crede, il tenero biondo corpo di Silvia. Metafore, dilazioni intessute sulla ferita d’amore, indossate con violento dire contemporaneo, ritualizzato dal metro, reso incalzante dall’accompagnamento rock. 

Gira intorno agli attori il faro. Evidenzia dettagli dei loro corpi, dei loro volti compunti, come a cercare di squarciare i veli con cui copriamo un sentimento, l’amore, che sa di natura e di abisso. 

Il piccolo feroce dio Amore e sua madre Venere incorniciano l’opera, nel prologo e nell’esodo: lui travestitosi per entrare nell’umile mondo dei pastori, lei che lo cerca, il figlio dall’aspetto bambino, docile, sanguinario, capace di colpire nei cuori e di scatenare incendi. Per tenerlo – inutilmente – a bada. Come Tasso tiene a bada la libertà del divertimento con regole classiciste, e allude a invidiosi che cercavano di imporgli consigli, di allontanarlo dai principi, di far vincere il dovere, anche in quella nuova età dell’oro dove il motto è: s’ei piace, ei lice. Insidiate, le parole di libertà, continuamente da un mostro dai mille occhi e dalle mille teste: l’onore. 

 

Aminta, ph. Brunella Giolivo.


Latella e i suoi perfetti giovani attori – più Dalisi che, meno giovane, è adatto a creare quello scarto generazionale che rende l’opera un piccolo moderno trattato di iniziazione – agendo la storia fanno riflettere a fondo sull’amore come ferita, come metafora, dando all’opera un’asciuttezza che la rende vicina a noi con tutta la sua distanza di Eden tormentato in versi. Come ha scritto qualcuno in un commento su Facebook è rock e cinquecento, è mood berlinese dei costumi di Graziella Pepe nella scena minimale ed espressivissima di Giuseppe Stellato e evocazione del manierismo, di un mondo perso tra i modelli e l’abisso di un futuro indecifrabile, che ripete i propri riti, indossa e dissolve i propri stereotipi, le proprie maschere, in cerca di vita, che scopriremo forse già irreggimentata. 

Una nota ancora per gli attori. È bello vedere una compagnia così partecipe del progetto e interpreti che sanno con maestria di sottrazione essere in continua metamorfosi vocale e fisica, pur mantenendosi apparentemente sobriamente quasi fermi. Francesco Manetti firma i movimenti, una sottotrama di piccoli spostamenti, scarti di sguardi, di posizioni di spalle o di scorrimenti di lato nel cerchio magico dell’isola. Un concento perfetto, in cui spiccano la distanza partecipata di Dalisi e la cupa partecipazione di Matilde Vigna a quel personaggio ritroso e ritratto che è Silvia, colta nel tentativo inane di opposizione al fosco movimento di un ingranaggio chiamato destino comune, nelle metamorfosi suggerite da regia e drammaturgia con quel gioco di amore rifiutato, di proprie morti annunciate per sottrarsi, di precipizio continuamente trattenuto verso un lieto fine forse improbabile.

 

Aminta, dopo il debutto marchigiano,si può vedere fino al 18 novembre al teatro Nuovo di Napoli, poi in tournée dal 10 gennaio a Lugano, Casalmaggiore, Trento, Milano (teatro dell’Arte, 17-20 gennaio), Roma (teatro India, 22-27 gennaio), Ravenna, Urbino, Ascoli Piceno.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Lo spettacolo dal vivo per la rinascita dal sisma
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

La Coop sono io?

$
0
0

Coop 70. Valori in scatola inaugura il 16 novembre alla Triennale di Milano. Sarà possibile visitare la mostra sino al 13 gennaio 2019.

 

 

Un padre entra nella cameretta del figlio e lo apostrofa: «Mi aiuti anche oggi a lavorare per la Coop». Padre e figlio si mettono al lavoro per cercare delle vecchie foto delle filatrici d’inizio secolo. Siamo nel 1974 e Ugo Gregoretti gira il primo spot pubblicitario per la catena Coop destinato alla televisione. Rigorosamente in bianco e nero, con un messaggio politico: «La Coop non mira al profitto, è al servizio del consumatore, vende prodotti di qualità al prezzo giusto». Sono le immagini che parlano. 

Seduti in quello che sembra un salotto, Gregoretti e il figlio ascoltano i canti delle filatrici trasmesse da un grande registratore a nastro magnetico, mentre cercano sui libri le loro immagini: «Quaranta lazzaroni mi comandano…». Cantano le voci. Il figlio domanda: «Quaranta?». Possibile? Il padre risponde che hanno detto proprio così. Siamo alla metà degli anni Settanta, nel bel mezzo della crisi sociale e politica dell’Italia, ed il messaggio comunicato dal filmato del regista data almeno un decennio o due prima. Vuole comunicare le radici del movimento cooperativo da cui nasce la catena di vendita Coop. 

 

 

Il figlio domanda ancora: «Ma cosa c’entrano le filatrici con la Coop?». Il padre risponde: «C’entrano, c’entrano. Sono gente che lavora». Questa è la gente che sostiene il movimento cooperativo. Poi il figlio trova la fotografia che cercavano, la strappa dal libro e la porge al padre. Un gesto inatteso, che corrisponde a un movimento analogo che compiranno entrambi, padre e figlio, nello spot dedicato invece alle mondine: strappano le piante dal vaso della madre per imitare il gesto con cui le mondine sradicano una delle erbe infestanti delle risaie; il coro delle mondine canta «Siur padrùn dalle belle braghe bianche…». La radice popolare delle Coop è in questi gesti che il pedagogo Gregoretti, guardando in macchina, conferma con i suoi slogan: «Gente che lavora, che ha creato la Coop».

Il tenente Colombo, magnificamente interpretato da Peter Falk, dieci anni dopo è invece già entrato nella favola del consumo. Arrivando in ritardo, come suo solito, per comprare un dono natalizio ai bambini, trova ancora aperto il supermercato. Dentro c’è Babbo Natale che sta facendo incetta dei doni da consegnare quella notte. Colombo con la sua svagatezza non lo riconosce subito («Ma ci siamo già visti?») o almeno finge. Siamo già entrati nell’epoca del grande consumo. 

 

Il giro di boa degli anni Settanta si è compiuto e l’Italia marcia verso la società affluente. Pasolini con la sua mutazione antropologica è scomparso da tempo e l’investigatore americano, seppur pop, ha preso il posto del pedagogo Gregoretti con i suoi occhiali grandi, la fronte spaziosa e il tono da maestro. Siamo entrati nel regno del colore, la televisione è non solo più il focolare degli italiani, ma la fonte principale dell’istruzione al consumo. 

La scelta del tenente Colombo è a suo modo delicata. Con i suoi modi ironici e comici, Colombo si rivolge a due consumatrici per capire il segreto del marchio Coop: «Vorrei capire», è la sua frase con cui abborda le due signore nel negozio. Sulla falsariga dell’indagine si intrufola dappertutto con il taccuino o con il giornale in mano. Fa domande, ma i protagonisti sono le consumatrici e il supermercato. 

Per quanto il consumo sia ancora soprattutto prerogativa femminile – «Lo devo dire a mia moglie», dice Colombo – un uomo si è infilato dentro i supermercati Coop. Con la scusa di aver perduto il cane entra dall’ingresso dei fornitori e assaggia una mela. La mela rossa sarà poi la protagonista di uno degli spot girati da Woody Allen otto anni dopo, nel 1993. Intanto l’attenzione si è spostata sul marchio Coop, il logo, inquadrato in primo piano: «Cosa vuol dire Coop?», chiede Colombo. Siamo entrati nell’epoca dei brand, se anche la regia del filmato punta sul logo. 

 

 

Esce allo scoperto il più efficace e longevo slogan Coop: «La Coop sei tu». Non è più nell’epoca del «noi», come faceva capire il filmato di Gregoretti, ma in quella del «tu». Un cambio di accento fondamentale che l’efficace slogan pubblicitario coglie perfettamente. Le filatrici e le mondine sono il «noi», anche se non è facile nel salotto di casa capire che il «noi» arriva sino al padre intellettuale e al figlio provvisto di enciclopedia ed aspirante pedagogo anche lui. Il cambio di passo avviene con il «tu», seconda persona singolare – singolare! Nel 1985 siamo in piena epoca del singolare. La televisione commerciale ha preso piede e il cittadino, il cooperatore che lavora, è ora un consumatore: un «tu». Non è ancora l’Io dei decenni seguenti, ma ci si è staccati dal collettivo. La Coop scopre il consumatore e cerca di convincerlo di appartenere a qualcosa di più ampio. 

 

Con i cinque minifilm girati a New York nel 1993 dal regista americano il cambiamento è già avvenuto. Woody Allen fa uno spot film, con tanto di sceneggiatura e ironie del caso. Fa il verso a se stesso, ed è paradossale. Sono cinque schegge cinematografiche dell’universo Allen: la mela gioca con l’ambientazione pseudosiciliana, ma è anche uno spot pseudopsicoanalitico, con tanto di seduta dall’analista e conseguente scena primaria. La mela rossa tiene il posto del sesso, rivelando ironicamente la chiave segreta del consumo. Lo dice senza dirlo, lo fa solo intuire – spot subliminare? La Coop mele così, mele di cui ci s’innamora, le ha nei suoi supermercati. 

Il secondo minifilm si svolge in una galleria o museo newyorkese a metà strada tra Jeff Koons e Maurizio Cattelan: in mostra pezzi di carne su cui i tre personaggi emblema discettano. «Costolette postmoderne!», esclama uno dei critici d’arte (due uomini e una donna). Postmoderna è anche la sceneggiatura dei cinque film. Ci sono gli extraterrestri che cercano un posto dove mangiare bene, e hanno la dritta del supermercato Coop, e poi un party dove ogni persona ha qualcosa di rifatto (parrucchino, naso, seni al silicone, eccetera), ovvero il non autentico. 

 

 

La ricerca dell’autenticità cominciata già a metà del decennio precedente diventa impellente. Dei cinque spot il più rivelatore è però quello di Giacomo Vitali, l’uomo spaventato dal mondo esterno, che dopo aver conosciuto Coop si rifugia lì dentro, si sposa, ha figli e li cresce tra un banco e l’altro dell’esposizione merci. Allen ha colto uno dei temi che poi saranno dominanti nei due decenni seguenti: l’insicurezza nel vivere. Se il modello pedagogico-Gregoretti era fondato sul mondo esterno, sul lavoro, se quello del tenente Colombo era spostato verso il consumo, ora è il supermercato stesso a diventare una «casa»; non solo nel senso della «casa-degli-italiani», come nello slogan della catena Standa durante la gestione berlusconiana, da cui entrare e uscire, ma nel senso del rifugio e protezione. La domanda di salvezza si sposta dall’universo sociale e politico a quello del consumo. Si identifica, seppur nel paradosso allestito da Woody Allen, sulla questione della sicurezza, non solo alimentare – tema su cui si insisterà negli anni seguenti – bensì totale. Oppresso dalla società Giacomo Vitali si trasferisce alla Coop e chiede asilo.

Nell’anno seguente – 1994 – il regista Paul Meyer realizza alcuni raffinati spot che vogliono riaffermare i valori della Coop. Sono brevi film che contengono già una dose di estetica vintage, una sorta di retrotopia musicale: Donovan, Frank Zappa, Velvet Underground.

 

La colonna sonora anni Settanta si rivolge agli ex giovani di vent’anni prima, i nuovi protagonisti del consumo postpasoliniano. Ma al tempo stesso, in modo forse inconsapevole, rivelano alcuni temi e problemi degli anni Novanta giunti alla loro metà. Coltivare sul balcone, l’utopia ecologista pre-chilometro zero, non è agevole, meglio rivolgersi alle verdure della Coop; il campeggiatore fai da te accende il fuoco sfregando un bastoncino, mentre la donna pratica ha comprato tutto alla Coop, che ama come lei la vita sana e naturale; il papà riempie la lavastoviglie mentre la figlia passa e ripassa sulla sua testa in sella a una altalena, mostra la difficoltà a vivere in città senza parchi giochi (la Coop li ha offerti alle città italiane nel suo compito sociale); i due innamorati che mettono il gomito nel piatto e versano il vino senza guardare il bicchiere, tutti presi dai loro sentimenti, sono l’avanguardia dei «distratti» di quel decennio. Per fortuna, come dice lo spot, che c’è la Coop: i consumatori possono distrarsi perché ci pensa Coop. Lo slogan rivela anche i problemi dei consumatori che ora sono costretti a essere informati, adulti e consenzienti, a tenersi aggiornati davanti alla valanga di notizie e contro notizie che affollano i mass media: chi non s’informa è perduto. 

 

 

Andando a zig zag in questo universo sempre più complesso, arriva la serie di minispot «Evitare le sorprese» costruite intorno a giochi di parole e figurativi: dalla scatoletta di pomodori pelati esce un uomo calvo, la faraona nel forno non è un pennuto ma la moglie del faraone dentro il suo sarcofago, e altro ancora. Siamo entrati nell’epoca dell’inganno possibile, della adulterazione, del vero falso. Il cibo è diventato centrale nella vita quotidiana, il cibo di qualità. E insieme a questo tutti i problemi che la complessità dell’inganno comporta. 

 

 

Coop si propone come un garante collettivo, ma non rinuncia a giocare con questi temi, con i paradossi e le ironie del caso. Interessante la scatoletta cellulare che trilla dentro la borsa della spesa e la donna risponde, poi compare il marito guardingo per controllare. La rivoluzione del «telefonino» è iniziata, con i cambiamenti di costume che porta con sé; e Coop propone anche il suo marchio nel mercato della telefonia mobile. 

Tra gli spot di quel periodo – anno 2005 – anche quello con i carrelli che corrono e finiscono schiantati contro il muro mandando all’aria i prodotti alimentari che contengono, mentre quello con il brand Coop si ferma di colpo ed evita il disastro. In modo indiretto anche questo spot introduce il tema del disastro, da quello di Černobyl′ al disastro ecologico, e persino quello economico incombente: la grande gelata del 2008 arriverà di lì a poco. 

 

 

Le pubblicità con protagonista Luciana Littizzetto mirano a sdrammatizzare con la comicità questo clima di timore imperante e giocano di nuovo con situazioni paradossali. Entra il tema degli animali, che occuperà il decennio seguente, con la scena dei polli che guardano la partita in televisione, la mucca in salotto come rassicurante presenza durante una visione di un film horror. La casa è tornata a essere il centro della comunicazione, la cucina di casa e il salotto, per quanto uno degli spot si svolge nel supermercato, per evidenziare la funzione calmante dello shopping – certificata dagli stessi psicologi. Comprare ha una funzione calmante e rassicurante contro lo stress della vita quotidiana: «Mi calma», dice la Littizzetto. 

Siamo all’inizio degli anni Dieci del secondo millennio. Le paure sono quelle dell’inquinamento e del consumo del pianeta, in ogni caso paure non più del «noi», ma dell’«io». Il giro di boa è compiuto. Ma la Coop sei sempre tu. O io?

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Coop 70. Valori in scatola alla Triennale di Milano
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

“Notti Magiche” e promesse mancate

$
0
0
Sottotitolo: 

Il trailer di Notti Magiche di Paolo Virzì è evocativo, emozionale, incomprensibile. Sono presenti una serie di soggetti, temi, elementi, che vengono presentati alternativamente e che non riusciamo a tenere uniti: il calcio sotto forma di Mondiali (Italia 90, come ci ricorda il commovente pezzo di Gianna Nannini, che ne fu colonna sonora), il mondo del cinema, una storia d'amore. E poi, ancora, da capo, campionato del mondo, una sceneggiatura, a cui si aggiunge un omicidio su suggerimento di una bionda che, mostrandoci una foto, ci dice che “l'hanno ammazzato loro”. A suo dire, conoscerebbe i colpevoli. “Immagini che non avremmo mai voluto commentare”, il cronista della partita chiosa così, e nello stesso momento una macchina precipita scenicamente da un ponte finendo nel Tevere. “Volete fare gli sceneggiatori, ma non sapete fare gli spettatori”, continua qualcuno. Calcio, cinema, incidente, omicidio, amore. Quante cose. Infine, il trailer culmina esplodendo, e sospendendosi allo stesso tempo, laddove era iniziato: il ritornello della hit sparato a tutto volume torna a farci sognare. Sembra funzionare, ma che film ci stiamo preparando a vedere è difficile da dire. In mancanza d'altro, ci attacchiamo a questo, come elemento che riconosciamo familiare: una musica che cattura, avvolge, emoziona. Ma si tratta di una musica speciale, fortemente connotata, è quella dei mondiali, e il titolo del film, in questo senso, regge il gioco.

 

https://www.youtube.com/watch?v=R6BbF3v8HIg

 

A guardare il trailer la scintilla della curiosità sembrerebbe non scoccare. Perlomeno non sul piano narrativo, se escludiamo una seduzione basica: quante storie ci sono dentro e come si tengono unite tra di loro? Ma è una domanda lasca, generica. L'impressione è che sappiamo troppo poco per volerne sapere di più. Si capisce che la storia riguarderà in qualche modo anche il cinema, ma non capiamo in nessun modo come. Le scommesse potrebbero iniziare al contrario, a partire da una scena che sembra emblematica, quasi fosse stata messa lì apposta. La macchina che rotola giù rovinosamente, proprio alle spalle dei distratti, ipnotizzati spettatori di Italia-Argentina. Potrebbe essere la metafora di una nazione; e ci crediamo, conoscendola. Un affresco sociale virziano. Nel calcio non facciamo fatica a individuare un sentimento di italianità. Ok, ci siamo. Italiani distratti a guardare la partita, il classico popolo di tifosi di calcio che neanche si accorge di un evento così eclatante. È un valido indizio, un'immagine chiave, forte, che potrebbe rivelare molto. 

 

E invece, difficile a credersi, il calcio è il vero grande assente del film. Le scene calcistiche presenti in Notti magiche sono né più né meno che quelle del trailer e, cosa ancora più rilevante, la stessa colonna sonora, regina del testo promozionale, non troverà nel film nessuno spazio. Al loro posto, una trama tripartita (in procinto di volgere in flashback per fare luce sugli eventi che iniziano un mese prima), che sarebbe stata il trailer perfetto: tre giovani sceneggiatori vengono convocati al commissariato perché coinvolti nelle indagini su un omicidio. Questo avrebbe fatto da collante tra gli elementi, conferendo unità al testo e suscitando la voglia di vedere cosa succedeva nella vita parallela dei tre finalisti al premio Solinas, ciascuno caratterizzato in modo diverso (operazione che da sempre a Virzì riesce particolarmente bene). Il tutto, sullo sfondo puramente ornamentale di Italia 90.

 

 

Ci saremmo aspettati che la “questione” calcistica avrebbe inciso sulla trasformazione degli eventi, anche solo in conclusione, a chiudere il cerchio della cornice, a ribadire almeno il suo ruolo di sfondo. Ma nel film non è così, e anche nel trailer è tutto sommato una forzatura. Dice talmente poco, e in maniera così frammentaria, che l'aspettativa di trama è oggettivamente bloccata da tutti i lati, e l'ingaggio avviene – di nuovo – esclusivamente in chiave musicale. Era strano pensare che l'omicidio riguardasse proprio gli sceneggiatori. Oppure che quello che sembrava un incidente (la macchina che cade) fosse in realtà un omicidio (che è la pista aperta dalla ragazza bionda). O ancora, che quella che sembrava una storia d'amore fosse più che altro un rapporto di amicizia – con un accenno di ménageà trois dagli echi truffautiani.

 

Forse da un'immagine così d'impatto (la caduta della macchina nella distrazione calcistica generale) ci saremmo aspettati di più? Avremmo piuttosto fatto meglio a ricordare che Virzì non è nuovo a ricavare i titoli dei propri film da frasi fatte: Baci e abbracci, Tutta la vita davanti, La prima cosa bella, Tutti i santi giorni, La pazza gioia… Versi di canzoni, proverbi, luoghi comuni. Notti magiche. Tutto qui: niente di meno, niente di più.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Dal trailer al film
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Quando il capitalismo è senza capitali

$
0
0

La ricchezza non è più prodotta solo dalle fabbriche, dagli oleodotti o nei megastore che vendono Tv di cinquanta pollici. La ricchezza è prodotta dalla nostra connessione alle piattaforme come Facebook. Un caso esemplare del capitalismo senza capitali tangibili dove la forza lavoro è valorizzata senza essere ricompensata con un centesimo.

Capitalismo senza capitale. L’ascesa dell’economia intangibile, di Jonathan Haskel e Stian Westlake (Franco Angeli): inchiesta sulla trasformazione del capitalismo globale.

 

La ricchezza non è più prodotta solo dalle fabbriche, dagli oleodotti o nei megastore che vendono Tv di cinquanta pollici. La ricchezza è prodotta da chi è interconnesso a una piattaforma – digitale e materiale, immateriale e logistica (i due aspetti sono inseparabili). Sempre, 24 ore su 24, sette giorni su sette, produciamo un valore. Siamo all’oscuro di quanto valore produciamo perché la nostra forza lavoro è occultata e la sua assenza è stata colmata ricorrendo alla finzione di un capitale che produce anche il suo antagonista: la forza lavoro. E, sicuramente, chi ne beneficia, non ce lo dirà mai e estrarrà gratuitamente questo valore per moltiplicarlo per cento o per mille. Facebook, ad esempio, attraverso il quale avrete avuto accesso anche a questo articolo.

 

Non è un mistero. Questa realtà è nota nelle neuroscienze e in economia. È il segreto della scuola neoclassica avere identificato, grazie alla Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith, le emozioni, i piaceri, i dolori, i sentimenti di un soggetto concepito tuttavia come un uomo razionale, astratto dalla storia, oggetto di una continua modellizzazione matematica complessa.

 

 

Il capitale umano è socializzato

 

Parliamo di tre premi nobel in economia: Amos Tversky e Daniel Kahneman nel 2002, Richard H. Thaler nel 2017 che ne ha proseguito il lavoro, Jean Tirole nel 2014. Alla base del loro lavoro c’è la critica all’economia che riduce le credenze e le decisioni alle regole logiche. Basano le loro teorie su un mondo ideale dove le persone agiscono come attori razionali che sfruttano ogni opportunità per accrescere il loro piacere o beneficio. Kahneman e Tversky hanno dimostrato nel 1974 e nel 1979 che in alcuni casi le scelte e i giudizi delle persone non possono essere spiegati secondo un modello logico predefinito.

 

Richard H. Thaler si è allontanato dall’idea per cui l’economia deve raggiungere la stessa precisione matematica delle scienze “dure” – sempre che queste ultime ne abbiano solo una. In caso contrario, i profeti della matematica economica si riducono a pensare ai loro soggetti come “ottimizzatori” il cui comportamento è prevedibile come la velocità della mela di Newton che cade dall’albero.

 

Thaler parla dell’effetto di dotazione [Endowment effect]. In psicologia sociale e nell’economia comportamentale, questo concetto descrive il valore che le persone attribuiscono alle cose solo perché le possiedono. Ciò permette di valutare le cose che già si possiedono molto di più dell'oggetto identico nelle mani di qualcun altro. La legge è equiparata a un modello comportamentale chiamato “volontà di accettare o pagare” [Willingness to Accept or Pay], una formula usata per scoprire quanto un consumatore o una persona è disposto a sopportare o perdere per diversi risultati. Per l’accademia di Svezia Thaler ha dimostrato il modo in cui alcune caratteristiche umane, i limiti della razionalità e delle preferenze sociali, “influenzino sistematicamente le decisioni individuali e gli orientamenti di mercato”.

 

Il cuore di questa visione del mercato è la possibilità dell’errore. La norma è soggetta a una continua revisione perché riconosce in sé l’errore e cerca di razionalizzarlo attraverso un percorso di adeguamento continuo a una verità che si trova sul mercato.

 

“Le stesse scelte possono dipendere dal nostro umore del momento, dal nostro stress o dalla nostra fatica – ha scritto Jean Tirole– Possono soffrire di procrastinazione, la tendenza a massimizzare il nostro benessere ad un certo punto a spese del nostro benessere futuro, a volte a costo di una riduzione del nostro benessere generale: non smettiamo di fumare o bere, guardiamo troppo gli schermi, facciamo troppo poco esercizio fisico e mangiamo troppo, non sempre risparmiamo abbastanza e non investiamo abbastanza nelle relazioni umane. Siamo vittime di molti errori cognitivi”.

 

In queste teorie il protagonista non è più l’homo oeconomicus, ma un soggetto molto più mobile e contraddittorio, vissuto e dolente che ha inglobato un’altra creatura delle scienze umane: l’homo socialis. All’individuo è riconosciuta l’appartenenza a una società. L’economia comportamentale oggi ragiona su un’antropologia che apre l’esperienza dell’essere al mondo alla trasmissione della cultura e delle convinzioni, alla ricerca dell’identità e alla cura dei problemi derivanti dall’appartenenza a un gruppo; al rompicapo della fiducia negli altri e persino alle “narrazioni” che circolano nelle reti sociali e modificano l’idea di autorità, influenzando la politica e il discorso pubblico, anche quello economico.

 

Cosa può la nostra forza lavoro

Conoscere l’economia comportamentale è necessario per comprendere il segreto del capitalismo contemporaneo. La psicologia, e le passioni, del soggetto sono al centro della scena economica e di quella politica. Le scelte imprevedibili rispetto alla classica analisi costi-benefici sono il risultato di una facoltà specialissima di cui le teorie analizzate non tengono in conto. È la forza lavoro, la facoltà a disposizione di ogni essere umano. Di solito è considerata solo come una capacità di lavoro.

 

La declinazione che ne ha dato Marx è affascinante. La forza lavoro è:

 

- la facoltà che produce tutti i valori d’uso;

- è incarnata nella “personalità vivente” di ogni essere umano;

- è la potenza generatrice incarnata nell’unità del corpo e della mente di ogni singolo eccede l’appartenenza sociale e il ruolo produttivo ed è sussunta;

- considera la vita come un mezzo per esprimere la sua potenza, non come strumento per appropriarsi di un oggetto, un bene, una merce sul mercato.

 

 

La filosofia della forza lavoro permette di comprendere l’intuizione degli economisti comportamentali su basi completamente diverse. La forza lavoro è il soggetto delle loro teorie, ma nella forma rovesciata di un capitale umano da valorizzare nel mercato, considerato il luogo dove le passioni del soggetto trovano cittadinanza. Ciò che vivo è il capitale (umano), non la personalità vivente della forza lavoro.

 

In Forza Lavoro, il lato oscuro della rivoluzione digitale e in Capitale Disumano, la vita in alternanza scuola lavoro ho operato un contro-rovesciamento: ciò che oggi è viva la facoltà di produrre tutti i valori d’uso in una vita, l’individualità sociale che eccede la mera capacità di calcolo, e di quantificazione, in un valore di scambio. Il capitale deve mettere al lavoro la facoltà della forza lavoro, la base del processo di valorizzazione che eccede ogni possibile quantificazione e, anzi, ne è la base produttiva, logica e storica. A sua volta la forza lavoro cerca modi non sempre lineari, né felici, per opporsi e resistere in uno scenario di impoverimento radicale, drammatica crescita delle differenze di classe.

 

 

Capitalismo senza capitali

 

Il problema della creazione del valore in un capitalismo che valorizza la forza lavoro è affrontato nel libro di Jonathan Haskel e Stian Westlake che definiscono il Capitalismo senza capitale una “economia intangibile” (Franco Angeli). Gli autori cercano di rispondere a queste domande: chi crea il valore? Chi lo estrae, chi lo distrugge e come lo si distribuisce in un’economia che ha individuato una nuova sorgente del valore nelle attività immateriali, cognitive, simboliche, linguistiche dell’essere umano?

 

Sono attività che non possono essere riducibili a cose, proprietà o beni materiali, né possono essere semplicemente scambiate come merci fisiche, ancorate a giurisdizioni specifiche, difficili da regolamentare e tassare. Per Haskel e Westlake il capitalismo è senza capitali tangibili. Ciò non esclude che i capitali siano ben più numerosi di quelli che rinviano a un immaginario che lo identifica con un oggetto: il denaro sonante in cui nuota zio Paperone. Questa ontologia del capitale, la sua astrazione o iper-realtà che integra e modifica il capitalismo reale, è stata definita come capitalismo cognitivo, capitalismo immateriale, capitalismo dell’astrazione, finanz-capitalismo, e molte altre formule suggestive.

 

Questo amplissimo dibattito permette di comprendere il senso del titolo del libro di Haskel e Westlake: un processo che ha deformato, e messo in crisi, i meccanismi familiari di un’economia di mercato. Prendiamo il caso dell’economia digitale: un prodotto o processo digitale intangibile può essere replicato e condiviso un numero infinito di volte senza costi aggiuntivi. Ciò ha reso possibile la rapida espansione commerciale dei giganti della rete come Facebook: l’azienda che non produce contenuti, ma guadagna sulla capacità della nostra forza lavoro di produrli in maniera gratuita. Un caso esemplare del “capitalismo senza capitali” dove la forza lavoro è valorizzata al massimo senza essere ricompensata nemmeno con un centesimo.

 

Haskel e Westlake raccontano anche le politiche urbane a cui porta questo modello economico basato sulla cooperazione produttiva e la fecondazione incrociata delle idee nelle metropoli diffuse di cui la Silicon Valley in California è il modello. I pionieri di un'economia immateriale traggono beneficio dall'intimità geografica, anche se il loro lavoro vola nella rete globale. Questo modello accelera radicalmente la polarizzazione sociale e l’impoverimento di massa. I padroni della rete si riuniscono in fortini ad alto reddito dove i costi degli alloggi salgono vertiginosamente e milioni di persone perdono la possibilità di accedere alla casta superiore in una società organizzata gerarchicamente. Sempre di più le cronache raccontano San Francisco, ad esempio. Una città dove si sono moltiplicati i miliardari digitali insieme a una crisi sociale e abitativa mai vista.

 

Questa organizzazione del capitale è lo straordinario motore che alimenta una diseguaglianza radicale e una profonda frustrazione tra gli esclusi. La destabilizzazione del patto tra gli istituti della democrazia liberale e costituzionale e quelli del capitalismo industriale è definitiva e irreversibile. La rabbia delle comunità che si sentivano lasciate indietro nella marcia verso la globalizzazione è stato un fattore significativo nell'elezione di Donald Trump negli Stati Uniti e nel referendum sul Brexit nel Regno Unito. Questa analisi, largamente sopravvalutata, va messa alla prova della crescita straordinaria registrata negli Stati Uniti sin dagli anni di Obama, e oggi di Trump. Se la disoccupazione è ai minimi termini, la crescita dei salari reali è molto in ritardo e irrilevante, in un’economia che produce precari a tempo indeterminato. Ovvero: riproduce le premesse della crisi di cui Trump è la continuazione, non il rimedio.

 

Tanto meno l’alternativa va individuata nel messaggio contraddittorio della Silicon Valley. Quel mix di libero spirito hippie e zelo imprenditoriale yuppie degli imprenditori alla Steve Jobs o Mark Zuckerberg è impotente, anzi è una delle cause, della produzione di diseguaglianze nel capitalismo senza capitali. Anche le sperimentazioni di un reddito di base universale condotte nella Baia di San Francisco non risolvono le contraddizioni dell’anarco-capitalismo di questa cultura che predica una libertà dell’individuo e la sua contemporanea dipendenza dall’economia delle piattaforme.

 

Haskell e Westlake si soffermano sulla democratizzazione della governance in uno stato innovatore che collabora con le multinazionali dell’innovazione, non sui rapporti di potere che impediscono tale democratizzazione. E nemmeno sulle cause di ciò che produce la ricchezza estorta alla forza lavoro costretta a inseguire la propria sopravvivenza in condizioni disperate. L’abisso tra chi ha e chi non ha, tra chi si percepisce imprenditore di sé e chi non è all’altezza di questo modello – la “disuguaglianza della stima” la definiscono Haskell e Westlake – colpisce tanto le condizioni di lavoro quanto quelle sociali e morali che devastano l’individuo costretto a stare sul mercato, valutato e punito a seconda della sua capacità di auto-governare la possibilità di errore ricorrente nelle sue condotte sul mercato.

 

Il riconoscimento della centralità della forza lavoro è la premessa di una trasformazione radicale che antepone all’impresa le donne e gli uomini che producono il suo valore. Prima del capitale umano, ovvero dell’incarnazione del corpo in un capitale fisso dotato di protesi come l’Iphone, viene la forza lavoro che  mette in relazione chi usa smartphone, Pc o i post su Facebook.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
L’ascesa dell’economia intangibile
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Una cioccolata per Mariella

$
0
0

Se potessi essere l’insegnante di ognuno di loro, se potessi trascorrere tre ore al giorno seduto accanto, con i libri sul tavolo, o uscire all’aperto in una bella giornata di sole, camminare come Socrate con i suoi pargoli, non credo ci sarebbero problemi. Il punto non è la loro estraneità alle conoscenze che propongo. Il malessere è svegliarsi alle sei di mattina, quando è ancora buio, con la pioggia battente magari e ritrovarci in 20, 25 chiusi in questa stanza. Con i neon che ci fanno male agli occhi.

Immagini: 

Ornamento, Juan Cardenas

$
0
0

Anamorfosi è “l’arte di rendere quasi irriconoscibile un’immagine attraverso una distorsione calcolata della prospettiva”. 

Nonostante la moglie del protagonista affermi che bisogna “rinunciare all’interpretazione”, la parola chiave del romanzo di Juan Cárdenas, seminata tra le pagine a più riprese, suggerisce il contrario. 

Ornamento– questo il titolo del primo libro pubblicato in Italia da SUR di un autore colombiano innegabilmente interessante – è esso stesso un’anamorfosi. Si tratta, leggendolo, di cogliere gli indizi per scoprire la prospettiva (o le prospettive) giuste. Si tratta, lasciandosi portare dalla strana e scomposta trama, di mantenere un leggero distacco per poter cogliere il dietro le quinte delle parole, o per dirla con Manganelli, l’ombra delle parole, pur correndo il rischio che, “come succede con l’anamorfosi, una volta rese comprensibili, le parole dicano molto meno di quello che suggeriscono nel loro stato deforme. L’aspetto rilevante dell’anamorfosi è la distorsione stessa, non la forma occulta”.

 

Cárdenas costruisce un mondo distorto eppure di poco lontano dal nostro, più vicino a una qualche piega del reale che al fantastico o alla distopia. 

Non c’è ambientazione precisa, si intuisce la Colombia in quanto riferimento topologico dell’autore ma potrebbe in fondo essere ovunque, una città fatta di laboratori tremendamente puliti e asettici e di quartieri degradati e affascinanti perché più vivi, ma lo stesso vissuti come fossero un sogno, come i vicoli misteriosi in cui scompare Laide in Un amore di Buzzati. Potrebbe essere un Occidente qualsiasi. 

 

In questa città qualsiasi di un Occidente qualsiasi, un medico riporta in un diario – in tono inizialmente scientifico, poi in parte più disorientato e umano – aspetti e momenti del suo lavoro e della vita privata. Veniamo a sapere della moglie artista – insieme frustrata e di successo; di un laboratorio asettico dove tutto è automatizzato e il personale umano è ridotto ai minimi termini; di scimmie ragno come personale di vigilanza; della sintetizzazione di un nuovo tipo di droga che riequilibra gli stati d’animo e provoca eccitazione sessuale ma che ha effetto solamente sulle donne; di quattro volontarie a cui viene per qualche tempo somministrata la sostanza, tre delle quali inizialmente non fanno che dormire; della paziente numero 4 che invece si lascia andare a racconti assurdi, forse un misto tra ricordi e sogni, fatti di frasi a volte apparentemente sconnesse, altre più fluide, ma che costruiscono sempre immagini improbabili. Così la prosa pulita e razionale del medico si alterna con i misteriosi e ovattati monologhi della paziente, che riesce infatti a costruire un rapporto particolare con il protagonista – il cui lavoro è appunto monitorare le reazioni delle quattro volontarie –, fino a scivolare all’interno del suo rapporto di coppia, rianimandolo per qualche tempo, poi dissestandolo, prima di sparire senza quasi lasciare traccia.

 

La sensazione dominante è di essere in balia di un’intenzione precisa ma insondabile dell’autore. Ma allo spaesamento si affianca l’intuizione di una sfida: è sottesa alla trama la necessità di una lettura attiva, di una caccia al tesoro che permetta di capire da che angolazione leggere e interpretare, lasciando quasi l’impressione di quelle lettere criptate da gioco di bambini, in cui solo alcune parole hanno un senso e tutto sta nel capire quale sia il criterio per riconoscerle.

 

Più volte nei monologhi della paziente appare il riferimento a “quella vecchia canzone che parla del famoso conflitto tra l’istinto e la ragione”. Questa è forse una delle angolature: un irrazionale femminile che si va a posare sull’universo asettico e pienamente organizzato ed efficiente maschile, talmente saldo nel mondo dipinto da Cárdenas da potersi nutrire dell’irrazionale come di uno snack, senza farsi penetrare troppo, o addirittura lasciandosene fagocitare per un tempo circoscritto e uscirne quasi indenne. È un razionale che ha bisogno dell’irrazionale e che necessita di una droga che susciti desiderio e appagamento sessuale (perché la realtà ormai non soddisfa più) in maniera però pulita ed eterea – senza nemmeno provocare un mal di testa –, che curi almeno i sintomi dell’isteria nascosta nella ricerca della perfezione – e lo faccia senza sporcare. 

 

 

A questo serve la nuova “droga intelligente che soddisfa le necessità e i desideri”, capace di controllare quel bisogno umano di rompere le simmetrie, provocando piacere ma riportando l’equilibrio dove manca (“se sei triste, ti tira su. Se sei troppo euforica ti calma e se hai bisogno di energia, te la dà”). Quando, poco dopo l’entrata in commercio della droga, un’orda di donne insorge reclamando più pasticche, l’autore sceglie un’angolatura precisa da cui raccontarlo: dall’alto, da lontano, come se si trattasse di un semplice effetto collaterale, che al massimo costerà qualche morto laggiù nel sottosuolo, tra le classi inferiori sporche e fameliche, ma che non intacca in nessun modo questo mondo dove ormai non si sente più niente, è tutto normalizzato e la droga, il piacere, l’irrazionalità sono solo ornamenti alla noia di una vita che è già morta.

 

Questa versione plastificata dell’esistenza è raccontata anche tramite la perfezione del corpo della madre della paziente numero 4, protagonista di molti suoi monologhi: una donna ancora bellissima, la cui pelle tirata e ritirata ha però bisogno di essere continuamente incremata altrimenti si disferebbe completamente. Non c’è qui la magia di un Dorian Gray ma l’ansia assillante di spazzar via l’odore di decomposizione della carne morente. Come gli stati d’animo devono essere sempre appianati, così il corpo è sottoposto al controllo e dominio della tecnica affinché non sia più ciò attraverso cui si vive e percepisce ma una piattaforma da modificare a piacimento per essere nel mondo ciò che aggrada esteticamente e istericamente di più. 

Droga e chirurgia estetica si propongono quindi come colonne portanti del capitalismo.

 

Continuando a cercare segnali e parole ricorrenti, risaltano il campo semantico del vuoto (“questo posto è troppo grande”, “così tanto tempo libero”, “togliere e riempire il vuoto con un’immagine svuotata”, “il vuoto vertiginoso dell’edificio” etc) e del disfacimento (“rovina”, “crepe nei muri”, “creature fisse”, “un museo che si sgretola è il ricordo della vita”…). L’horror vacui è l’effetto collaterale di una vita senza orpelli, senza niente di più del necessario a dar significato – e per questo ci si riempie di “esperienze”, d’intrattenimento che distragga dall’assenza dell’ornamento.

Sotto, lo squallore della marcescenza.

Anche il concetto di doppio, l’idea di coppia, torna spesso, come una “perversa simmetria” che deve essere rotta da un terzo elemento, il quale tuttavia finisce sempre per scomparire e lasciare che la perversa simmetria si ricomponga. 

 

Ornamento, per il dizionario Treccani, è “tutto ciò che, non richiesto da fini pratici ed esigenze funzionali, si aggiunge per conferire bellezza, eleganza, e quindi in genere ogni elemento decorativo”. In esergo, attraverso una citazione di Adolf Loos, Cárdenas annuncia la nostra epoca come la prima incapace di produrre un nuovo ornamento: “Presto le vie della città risplenderanno come bianche muraglie!”, come i muri spogli di un laboratorio, come le pareti esangui di vite disadorne e la pelle senza rughe di corpi senza vita.

 

La linfa di questo mondo, di questa possibilità del reale, è una violenza silenziosa e sotterranea, che scorre in ogni cosa, tra le mascherine, l’odore di disinfettante e i veli di plastica dietro cui “si intravedono i movimenti dei corpi”. Penetra nella vita con grazia, economia e geometria, proprietà che caratterizzano anche la prosa sapiente dall’autore, che aderisce con grande duttilità ai temi e ai personaggi – che va sondato e interpretato, come la realtà.

“Le opere d’arte non si portano a termine, si compiono, come una profezia, non precedono i fatti, sono azioni pure, non hanno altra finalità che non sia l’azione stessa, e una volta compiuta l’opera, una volta compiuta l’azione, ecco comparire il tempo della cosa. La cosa è ciò che muore, la cosa è ciò che si consuma, ciò che si sgretola, e da qui viene l’inutile sensazione della bellezza, l’effetto ornamentale, ciò che dura, è il fossile vivente dell’azione”.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Anamorfosi
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

M. Il figlio del secolo

$
0
0

La prima, fondamentale considerazione che bisogna fare sul libro di Antonio Scurati su Mussolini – il primo d’una trilogia, come da tempo annunciato – non può che essere un convinto apprezzamento. M. Il figlio del secolo (Bompiani, pp. 842, € 24), sta incontrando un notevole successo di pubblico: cosa non scontata per un libro che parla di storia, anche se inalbera fin dalla sovracoperta (ma non in copertina) l’indicazione «romanzo». Su questo punto torneremo più avanti; va detto tuttavia che, a differenza di quanto avveniva nel 1974 per La Storia di Elsa Morante, non si tratta di un sottotitolo vero e proprio, tant’è vero che non compare nel frontespizio. Sul verso, in compenso, cioè nella pagina del copyright, un’avvertenza non titolata di cinque o sei righe propone la definizione di «romanzo documentario», che forse si sarebbe potuta valorizzare di più. Fatto sta che grazie a Scurati un cospicuo numero di lettori si sono trovati a rinfrescare le proprie nozioni su vicende decisive della storia italiana del secolo scorso; anzi, in molti casi (la maggioranza, forse), le avranno qui apprese per la prima volta. L’effetto culturale complessivo è quindi largamente positivo. Di ciò non possiamo che rallegrarci, e darne merito all’autore. 

 

C’è stato, è vero, l’intervento critico di Ernesto Galli della Loggia, (Il romanzo che ritocca la storia, «Corriere della Sera», 13 ottobre) che ha contestato a Scurati alcuni errori. Nella sua risposta, pubblicata quattro giorni dopo, Scurati li ha ammessi quasi tutti; e meglio sarebbe stato togliere pure il quasi, giacché Galli della Loggia ha avuto facile gioco a replicare. Gli errori (quegli errori) sono errori e basta. Lettore tardivo, io avevo allora appena fatto in tempo a trasalire per l’attribuzione a Carducci del famoso intervento di Pascoli sulla «grande proletaria»; e particolarmente disdicevoli mi paiono sia lo svarione sul numero di vittime della Grande Guerra, nella voce biografica su Antonio Salandra, sia l’incongruo appellativo «professore» con cui Luigi Russo si sarebbe rivolto a Benedetto Croce.

 

Tuttavia non possiamo nasconderci che stiamo parlando di dettagli. Incresciosi finché si vuole, ma dettagli. Ben diverso sarebbe il discorso se a Scurati venissero imputate distorsioni nella presentazione delle grandi questioni storiche: se, per esempio, gli fosse mossa l’accusa di aver fornito un’immagine non attendibile del clima politico durante il biennio 1919-21, o di aver falsificato le dinamiche interne al movimento socialista, o di essersi inventato la psicologia del personaggio di Mussolini. Ma questo non è avvenuto. Insomma, Scurati propone una ricostruzione della storia che certo sarebbe ingenuo definire tout court veridica (esiste una«verità» storica?), ma che nella sostanza si attiene a quanto sostenuto da studiosi accreditati e autorevoli. Quindi ha compiuto un’operazione culturale meritoria: ha fatto in modo che molti italiani si documentassero su un’epoca importantissima del nostro passato recente. 

 

Ciò detto, possiamo considerare un po’ più da vicino il libro: che, come abbiamo visto, preferisce qualificarsi come romanzo, o romanzo documentario, anziché come biografia. M. Il figlio del secolo percorre un arco temporale di poco più di 5 anni, cioè dalla fondazione dei Fasci di combattimento (23 marzo 1919) alla rivendicazione del delitto Matteotti (3 gennaio 1925), da cui prende avvio la vera e propria dittatura. Sui 36 anni precedenti (Mussolini era nato nel 1883), le informazioni sono succinte e desultorie. La narrazione è segmentata in brevi capitoli, ciascuno dei quali contrassegnato dal nome di un personaggio (in pochi casi da due), da un luogo e una data, fatta salva una decina di casi in cui c’è solo un’indicazione generica di luogo (Milano, Fiume, Ferrara, Napoli, Roma). Attorno ai due nodi principali della storia, poi – marcia su Roma, 24-31 ottobre 1922, e assassinio Matteotti, metà giugno 1924 – la scansione si fa più fitta, la registrazione più circostanziata (ad esempio: Milano, via Lovanio, 27 ottobre 1922 // Sede de Il Popolo d’Italia, ore 2.40), senza nomi di persona, ma con titolazioni interne (In marcia; Cento ore terribili, A qualunque costo, Il paese opaco, Cloroformio, Il cadavere, Precipizio, Palude, La muta).

 

I segmenti focalizzati su un personaggio sono comunque oltre un centinaio. In poco meno della metà dei casi si tratta di Benito Mussolini; quindi seguono, intorno alla decina di occorrenze, Giacomo Matteotti, Amerigo Dùmini, Italo Balbo; un gradino sotto troviamo Leandro Arpinati, Nicola Bombacci, Margherita Sarfatti, Gabriele d’Annunzio; intestazioni sporadiche toccano infine a Cesare Rossi, Albino Volpi, Filippo Tommaso Marinetti, Pietro Nenni. Ogni segmento è seguito da una breve appendice, che riporta citazioni da articoli, lettere, telegrammi, documenti vari, di norma già ricordati e parafrasati nel testo. Nei brani di apertura e di chiusura, Mussolini parla in prima persona; in tutto il resto del libro il resoconto è condotto da un narratore esterno, che in genere si attiene alla relazione dei fatti, ma a volte lascia trapelare un chiaro giudizio. Si veda ad esempio il brano identificato con Nicola Bombacci/ Roma, 1 dicembre 1919/ Montecitorio, dedicato alla prima seduta del Parlamento dopo le elezioni che hanno registrato un’affermazione straordinaria del partito socialista. All’arrivo di Vittorio Emanuele III, mentre tutti si alzano gridando «Viva il re!», i socialisti rimangono seduti; e quando prende la parola, escono dall’aula. 

 

 

La scena è memorabile, il suo effetto teatrale fortissimo. I deputati dissidenti, usciti all’aperto sulla piazza di Montecitorio, si rallegrano, si congratulano e si abbracciano a vicenda. Le loro risate sono genuine, spensierate. Il sogno di una vita libera e giusta si avvera. Nel tiepido sole invernale di una piazza romana sono in questo momento i rappresentanti di un popolo tornato bambino. La gioia dura qualche istante. Poco dopo, onorevoli e senatori si accorgono con sgomento di non avere nessun progetto per il resto della giornata. I socialisti hanno conquistato l’Italia ma non sanno che farsene. 

Poiché quegli uomini non sanno che fare, vengono picchiati. Cominciano a picchiarli già nel pomeriggio, bande di nazionalisti… (pp. 153-154). 

 

Ora, quali sono le implicazioni di questa struttura episodica? Che cosa ci dà in meno, e che cosa in più, di un’esposizione organica e continuata? La prima conseguenza della strategia messa in atto da Scurati è senza dubbio una forte impressione di immediatezza. Ogni segmento è una scena, e una scena particolare; del passato vengono recuperate poche notizie indispensabili, e non c’è alcuna anticipazione riguardo agli sviluppi futuri. La storia sembra così procedere passo dopo passo davanti ai nostri occhi: cosa che in qualche modo avvicina il lettore alla condizione dei contemporanei, che ovviamente non potevano sapere cosa avrebbe loro riservato il futuro. A me pare che questo sia un effetto quanto mai salutare. In ogni fase storica, il presente ci si propone come un ventaglio di congetture e di possibilità. Con il senno di poi è facile giudicare; spesso, quindi, cediamo alla tentazione di ritenere i nostri predecessori – in questo caso, i nostri nonni o bisnonni – più sprovveduti, ingenui o miopi di noi, illusione fallace e presuntuosa, che induce a sopravvalutare oltre misura la nostra comprensione del presente. Ben vengano, dunque, i racconti di epoche passate capaci di restituirne i tratti di plasticità, imponderabilità e indeterminatezza che avevano agli occhi di chi le ha vissute.

D’altro canto, l’abbassamento della visuale al livello del presente, unito alla rinuncia a un tessuto espositivo d’insieme che avrebbe di necessità intrecciato narrazione e argomentazione, provoca anche un’altra conseguenza. Il carattere frammentario del racconto esalta il ruolo del lettore, chiamato a una cooperazione testuale più assidua e impegnativa del consueto. Come sempre accade, le lacune sono più o meno consapevolmente colmate strada facendo. Ma poiché parliamo di un libro di oltre ottocento pagine, la parte del lettore si sgrana e si dissemina, fin quasi a polverizzarsi; e in questo modo i vantaggi potenziali della costruzione a episodi finiscono per vanificarsi, al cospetto dell’investimento di tempo che la lettura richiede. Gli spazi bianchi non fungono più da cassa di risonanza che conferisce al detto una superiore ricchezza di senso: diventano semplici intervalli, cambi di scena d’un interminabile montaggio incrociato. E allora si finisce per sentire la mancanza di un’istanza interpretativa superiore, di un punto di vista sintetico. 

 

Non che i singoli segmenti siano privi di efficacia; a volte, anzi, risultano davvero ben ritagliati. Prendiamo ad esempio, il brano datato Fiume, 18 marzo 1920, intitolato naturalmente a Gabriele D’Annunzio. A sei mesi dalla presa della città, la situazione sembra senza via d’uscita. Mentre il Vate lavora di lima sulla Carta del Carnaro, la Costituzione che mai si tradurrà in realtà, a teatro va in scena la Fiaccola sotto il moggio, il dramma che lo stesso d’Annunzio aveva scritto nel 1905. Ma la recitazione è modesta, e i legionari non usano frequentare le belle lettere. Così a un certo punto è lo stesso poeta che, dal suo palco, d’improvviso esclama: «Interrompiamo questa noiosissima tragedia e cantiamo le nostre canzoni!»: e tutti cantano in coro Giovinezza, l’inno di Garibaldi, l’inno di Mameli. Un trionfo. Senonché i gusti della truppa presto s’impongono: ed ecco che dai cori eroici e battaglieri si passa a ‘A tazza ‘e cafè. «La canzoncina s’ingrossa, spaventosa, brutale, spietata, e seppellisce nella propria facile allegria i canti ufficiali. // Tutti si fanno dei segni. Perfino gli ufficiali ora trovano la cosa buffissima. D’Annunzio s’è fatto pallido. Il popolo gli insegna la sua canzone. Lui sembra aver capito» (p. 179).

 

Ecco: se questo libro fosse stato composto da un numero limitato di scene così, la sua efficacia sarebbe stata molto maggiore. Ma questo avrebbe richiesto un lavoro – certo non facile, e per certi versi perfino doloroso – di selezione degli episodi: e, insieme, una non meno ardua opera di concentrazione e distillazione verbale, tale da rendere i momenti prescelti assolutamente esemplari. In tal modo, i vuoti fra l’uno e l’altro sarebbero stati riempiti dalle ripercussioni (non solo emotive!) sulla coscienza dei lettori: i quali, a lettura ultimata, sarebbero stati stimolati a leggere altri libri sull’ascesa del fascismo (tema di un’attualità davvero bruciante), su Mussolini, sul ventennio – nonché a rileggere, dopo qualche tempo, il libro dello stesso Scurati. Che invece, così com’è, si legge, se si legge, una volta sola: cosa che non dovrebbe rientrare nella vocazione di un «romanzo», sia pur documentario. 

Una maggiore sintesi avrebbe anche a mio avviso consentito di mettere in maggior risalto il sistema dei personaggi. Se il glossarietto conclusivo, privilegiando l’informazione storica, individua quattro categorie (Fascisti, fiancheggiatori e affini; Socialisti e comunisti; Liberali, democratici, moderati e uomini delle istituzioni; Parenti, amici e amanti), sul piano narrativo si delinea una struttura sostanzialmente ternaria. Al centro il protagonista, nucleo e perno della vicenda, verso il quale l’autore – come ha scritto Daniele Giglioli sulla «Lettura» del 9 settembre (M. Il nome della sconfitta), «non mostra alcuna condiscendenza, non si dice ammirazione»: un singolare impasto di energia e mediocrità, di cinismo e spregiudicatezza, di furbizia e opportunismo, eppure dotato di una carica magnetica che sa sfruttare come nessuno.  

 

Attorno a lui si dispongono tre gruppi di personaggi: gli antagonisti, gli alleati, le donne. Al primo appartengono Matteotti, l’unico oppositore autentico, Nicola Bombacci, avversario inadeguato che finirà per diventare suo seguace, e per certi versi lo stesso d’Annunzio, modello rapidamente superato e accantonato. Il secondo comprende sostenitori e adepti, più o meno fedeli e suscettibili di diventare rivali: Italo Balbo, Dino Grandi, Amerigo Dùmini, Roberto Farinacci (più avanti ne arriveranno altri, come Rodolfo Graziani e Galeazzo Ciano). Il terzo è qui rappresentato soprattutto da Margherita Sarfatti, amante e ispiratrice, che rispetto al futuro duce riveste un ruolo quasi di pigmalione (ben diverso sarà, dopo la sua caduta in disgrazia, il ruolo di Claretta Petacci).   

 

Concludo. Scurati ha lavorato tanto, in primo luogo sul versante dell’informazione storica, e questo suo lavoro merita rispetto e riconoscenza, a dispetto degli errori che gli sono sfuggiti. Ma forse, come scrittore, non ha lavorato abbastanza. Ha preferito puntare sulla quantità, mentre la concisione è una conquista difficile, che richiede tanto tempo in più. E anche se non mancheremo di leggere scrupolosamente dall’inizio alla fine gli altri due tomi della sua biografia di Mussolini, nel nostro scaffale rimarranno, come paradigmi di narrazioni politicamente ispirate, altri libri. Una cronaca, dedicata alla caduta del governo Parri nel 1945 (ovvero come si passò dalla Resistenza all’Italia democristiana): L’Orologio di Carlo Levi (1950). Un’autobiografia per istantanee, ossessivamente laconica, ma capace di scolpire nel marmo il destino di una generazione: Servabo di Luigi Pintor (1991). L’analisi di un giorno, anzi di pochi minuti di un giorno – il fallito golpe del colonnello Tejero, 23 febbraio 1981 – che illustra l’avventurosa transizione della Spagna dalla dittatura alla democrazia: Anatomia di un istante di Javier Cercas (2009). Libri diversissimi fra loro, ma accomunati dalla capacità di rendere gli eventi memorabili per forza di messa a fuoco. Che è, se non l’unico, uno dei principali contributi che la letteratura può offrire alla storia. 

 

Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo, Bompiani, pp. 842, € 24.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Antonio Scurati
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Pendulum. Merci e persone in movimento

$
0
0

Il titolo, innanzitutto: “Pendulum. Merci e persone in movimento”. Le immagini in mostra alla Fondazione Mast di Bologna insistono a ricordarci che tutto si muove, velocemente. Lo spazio è un reticolo di relazioni: scambi commerciali, flussi migratori, interazioni biologiche e ambientali, trasferimento di conoscenze al di là di oceani e continenti. La velocità è lo specchio di un mondo che richiede modelli interpretativi sempre nuovi, capaci di porsi come dispositivi dinamici, adattabili a condizioni strutturalmente instabili. L’uomo inventa nessi, partiture, operazioni spaziali. Se tutto si muove, tutto funziona. Non riusciamo a immaginare un mondo immobile se non per farne il fermo immagine di una qualche catastrofe. Immobilità è impotenza, movimento è potere. 

 

Però c’è qualcosa, nella sequenza delle immagini esposte, che lascia perplessi. Le fotografie che Robert Doisneau ha dedicato agli stabilimenti Renault, le auto da corsa di Ugo Mulas, l’immagine del bianchissimo aereo Eclipse realizzata da Floto+Warner, le automobili di Luciano Rigolini, la distesa di container di Sonja Braas, soddisfano ma non seducono. Ne ammiriamo la perfezione formale, le prospettive stranianti o seriali, ma qualcosa sembra fuggire insieme alla velocità evocata. Lo sguardo passa oltre anche la grande immagine di Richard Mosse, dove centinaia di container vengono usati sia per il trasporto di merci che come abitazioni per migranti. Troppo perfetta. Siamo assuefatti persino alle immagini della metropolitana di Helen Levitt, che dialogano con gli schermi in movimento a ritrarre i pendolari di un mondo globalizzato fotografati da Jacqueline Hassink.

 

Floto + Warner, Sala verniciatura dell’Eclipse Albuquerque, NM USA, 2007 © Floto + Warner.

 

Eppure questa mostra riesce a produrre un sovvertimento corrosivo all’interno del suo stesso percorso. Due fotografi, infatti, propongono lavori che segnano una netta linea di demarcazione rispetto al contesto e allo stesso tema espositivo. Sono Yto Barrada e Xavier Ribas. Le loro opere non recano alcuna traccia di movimento. Lo scarto appare talmente evidente che si è costretti ad interrogarsi sul senso della velocità proprio mentre se ne constata l’assenza.

Yto Barrada fotografa un’installazione. Si intitola “Plumbers” (2014) ed è composta da dieci immagini di tubi che alle loro estremità hanno rubinetti e soffioni. La fotografa, nata a Parigi ma di origini marocchine, li ha acquistati nella Grand Socco Square di Tangeri. Ricordano l’idea di “object trouvé” dei surrealisti, un incontro tra una causalità esterna e una finalità interna capace di produrre uno scarto tra oggetto e percezione, suggeriscono un “détournement” psicogeografico. 

 

Questi oggetti, sculture?, installazioni?, vengono usati dagli idraulici marocchini per segnalare la loro disponibilità a prendersi in carico un lavoro. Non hanno altro scopo. “Sono macchine inutili, ma assolutamente belle”, racconta la fotografa in un’intervista. Ed è innegabile. Hanno un potere magnetico: fragili e forti allo stesso tempo, polarizzano lo sguardo dello spettatore. Yto Barrada le fotografa togliendo ogni traccia di profondità, in modo da annullare la percezione delle distanze. Osservandole, si respira un’aria da cantiere e da atelier. I tubi di Yto Barrada passano dal mercato delle pulci di Tangeri allo spazio di una galleria. Si trasformano in opera d’arte. L’intervallo che si situa fra queste due esistenze è la condizione che rende possibile la metamorfosi dell’esilità in forza. La fotografia ne sancisce la bellezza e allo stesso tempo ne marca visivamente la coscienza di un’emarginazione. L’immagine tende a farsi presenza desolata. I tubi e i rubinetti di Yto Barrada sono una fragile architettura eretta per circoscrivere un buco, per immortalare una cavità, lo spazio che separa l’idea di utilità da quella della pura bellezza. Appaiono chiusi in se stessi e privi di qualsiasi valore d’uso. Sono belli e nient’altro. E se pensiamo alle immagini in mostra, dominate dalla velocità e dal movimento, queste fotografie esprimono assenze così grandi da sgretolare ogni tipo di retorica ed enfasi. “Plumbers” lascia dietro di sé l’inquietudine di una sospensione, una velocità trattenuta dal peso di una coscienza colta nell’attimo di sorprendersi.

 

Sonja Braas, Container, 2015, dalla serie “Un eccesso di prudenza” , 2014-2017 © Sonja Braas.


Le immagini dello spagnolo Xavier Ribas, “Nomads” (2008), nascono invece dalla testimonianza di un evento preciso. Tutto accade a Barcellona il 24 febbraio 2004. Circa sessanta famiglie nomadi occupano un’area industriale dismessa. Nel giro di qualche giorno due uomini, con degli escavatori, demoliscono la pavimentazione in cemento del sito, spaventando gli occupanti e riuscendo infine a cacciarli. Sul posto, per mantenere sgombro il sito, rimane una striscia contorta di macerie. Se il dominio sullo spazio è un dominio politico, e politica significa scelta, si arriva al paradosso che, in nome del profitto, l’economia della produzione si perverte nel suo negativo di economia della distruzione. È questo il senso della “dissuasione” che si vede nelle fotografie. Nelle trentatré immagini di “Nomads”, Ribas enfatizza i caratteri della realtà: non vi è alcuna presenza umana, si vedono solo macerie. Ne risulta una geografia di forme che tendono a un caos privato della sua naturale fecondità. Qui la violenza corrisponde alla negazione del movimento e della velocità. Queste immagini si impongono per la forza interna del loro stile: il soggetto occupa tutta l’immagine. La maceria coincide con il fotogramma. Non ci sono margini di fuga. È uno sguardo che porta dentro di sé un riflesso tragico da cui non ci si può distogliere. Xavier Ribas ci obbliga a guardare dritto dentro la distruzione. 

 

Come Yto Barrada, anche il fotografo spagnolo mostra oggetti situati nello spazio, ma, mentre nella prima prevale una muta fascinazione, nel secondo balena uno squarcio che apre alla possibilità di una critica radicale. Entrambi paiono quasi pervasi da un impeto documentario. Nell’uno come nell’altro, sembra che il compito della fotografia sia quello di smascherare le apparenze, senza generare alcun mito. Esporre queste fotografie significa attribuire loro una profondità abissale. Lo sguardo si sofferma sulla loro ostinata presenza. Sembra che queste immagini resistano a essere interpretate. Restano mute dinnanzi ai nostri occhi. Insieme alla crisi della velocità, mostrano una realtà indiscutibile, la cui sovranità non può essere piegata dalle forze del mercato o dell’utilità. Si ha l’impressione che dinnanzi alla loro forza anche la funzione comunicativa del linguaggio perda la sua efficacia. Si guardano “Plumbers” e “Nomads” e ci si chiede cosa significa spostarsi, muoversi, essere veloci. Ma non esiste una vera risposta.

 

Luciano Rigolini, Automobili americane del 1963, © Luciano Rigolini.


Le foto di Yto Barrada e Xavier Ribas ostentano uno scarto ulteriore rispetto al tema stesso della mostra. Ciò che domina è il sentimento di una soppressione, attraverso un procedimento creativo che mostra l’effetto prima della causa. Tubi e macerie diventano i residui di un interrogativo irrisolto, che si ripresenta con insistenza: quale prezzo dobbiamo pagare alla velocità a cui ci siamo condannati?

Potere dunque non è semplicemente potersi muovere, ma decidere come muoversi e soprattutto quando giunge il momento di fermarsi. La citazione dal poeta Saint-Pol-Roux, che Urs Stahel pone all’inizio del catalogo, come un avvertimento, si stende sulle immagini di motori e forze che trascinano uomini e merci, come un’ombra scura. “L’uomo non conquisterà l’infinito con le macchine ma con se stesso. […]. L’ingranaggio vero siamo noi”. Saper guardare certe immagini, direbbe Georges Bataille, può insegnarci a “vedere ciò che eccede la possibilità di vedere” e “pensare ciò che eccede la possibilità di pensare”. Yto Barrada e Xavier Ribas lo hanno fatto.

 

Mostra: Pendulum. Merci e persone in movimento, a cura di Urs Stahel 

Fondazione Mast di Bologna

Dal 4 settembre 2018 al 13 gennaio 2019

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Fondazione Mast, Bologna
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

La malattia e i suoi nomi

$
0
0

Mia nonna materna è morta di cancro nella Jugoslavia degli anni sessanta del secolo scorso, ma il termine non era contemplato, né in pubblico né in privato. Nemmeno “brutto male” si diceva. Si moriva e basta, si alzavano gli occhi al cielo o si puntavano a terra, il perché della dipartita era un mistero che ai bambini appariva ancora più grande. Non ci si doveva pensare, l’uomo nuovo socialista non era previsto si ammalasse, fosse vulnerabile, perché questo ricordava la sua ineluttabile condizione umana dove la sorte collettiva si declina al singolare. Infatti, a Praga come a Dresda, tra tutti i libri vietati dell’epoca, proibitissimo era Riflessioni su Christa T. di Christa Wolf, la storia di una giovane donna malata, che tiene un diario e racconta la sua lotta con la leucemia.

 

Ogni periodo storico e ogni cultura si possono studiare, e forse un po’ capire, dalle modalità sempre diverse di dire e rappresentare, di chiamare la malattia, di definirla. Dunque, dalla sua diagnosi. L’annuncio dipende dai toni e dagli umori, dalla formazione e dalla postura del medico. Tra paziente e diagnosi si instaura un rapporto dialettico, ma non sempre il medico riesce ad essere farmaco. 

È questa relazione triangolare, che tutti ci riguarda, il tema di Diagnosi e destino (Einaudi), dove Vittorio Lingardi, a partire anche dai suoi ricordi di vita e dalla sua esperienza di clinico, scrive un testo veloce, che si legge d’un fiato, mentre intreccia testimonianze, testi letterari e storie mediche. Davanti a una diagnosi più o meno nefasta ritorniamo, per usare un’espressione di Elvio Fachinelli, come “i nostri arcaici”, siamo tentati di ricorrere a riti scaramantici e a pratiche magiche, abbiamo bisogno di tempo per collocare quanto ci sta capitando in un orizzonte di senso che permetta al nostro io di non perdere la sua centralità. La malattia fa gerarchia, interrompe la routine, rimette in riga affetti e valori, costringe a pensare al percorso di vita, alla relazione con le origini – in previsione del matrimonio molte coppie ora si regalano il test per stabilire il dna, per conoscere il codice genetico di un futuro erede, per rassicurarsi sull’identità e sull’eredità, per prevedere possibili malattie.

 

Opera di Wiebke Kackenmester.


Nel suo argomentare Lingiardi fa dialogare le esperienze e le riflessioni diverse di Susan Sontag e Virginia Woolf. Nel pamphlet, Malattia come metafora, uscito nel 1978, quando ribellarsi pareva la strada per cambiare anche il modo di vivere la malattia, per strapparla al senso di colpa di origine religiosa che l’accompagnava, per liberarla dallo stigma sociale che trattava il malato come un appestato, Sontag scrive “non c’è niente di più primitivo che attribuire a una malattia un significato”. Sarà un concetto che poi amplierà in L’Aids e le suemetafore e, anni dopo, a chi le chiede come fare senza risponde: “Si vive. Partecipi al tuo trattamento, hai speranza. Metafora è una parola in codice per falsa rappresentazione, sciocchezza. Idea sbagliata. Senza metafore la gente starebbe meglio”. Per lei metafora è una sofferenza aggiuntiva, un fattore di stress, qualcosa, si direbbe oggi, che rischia di diminuire, invece di accrescere, la nostra immunità. 

 

Nello scritto di Virginia Woolf, Dell’essere malati (1930), la malattia è invece “il grande confessionale”, l’occasione di una ricerca, dove il corpo schiavizza la mente e la letteratura può esplorare un nuovo spazio. “(…) spesso la malattia prende le sembianze dell’amore, e gioca sempre gli stessi vecchi trucchi, investe certe facce di divinità, ci fa aspettare, ora dopo ora, con le orecchie tese allo scricchiolio della scala, adorna le facce degli assenti (abbastanza normali quando in salute) di nuovi significati, mentre la mente imbastisce su di loro migliaia di leggende e romanzi, per cui non ha né tempo né libertà in salute”. 

Dimensione culturale e sociale e senso individuale rendono tuttora cruciali entrambi i testi. Perché la riflessione di Susan Sontag può aiutare il malato, gravato dalla richiesta continua di performance, dove anche al morente viene chiesto di reagire, a non sentirsi in colpa per essersi ammalato. A non vivere il suo stato come un deficit dovuto a qualche mancanza – non ho smesso di bere, fumare, tradire, mangiare –, perché l’odierna abitudine al controllo e alla cura del corpo, investe il soggetto della colpevolezza della sua fragilità. E quella di Virginia Woolf, che insiste sulla trasformazione del linguaggio, sulla necessità di dare spazio e tempo e parola al tema della malattia, accresce il potere del soggetto nel momento in cui rischia di diventare solo un oggetto. E lo invita a cercare e dare un significato intimo e privato al cambiamento imprevisto. Perché ognuno si confronta in modo diverso con la propria mortalità. Che deve integrare da solo.

 

Lo stesso concetto di privatezza è legato alle modalità di comunicare una diagnosi: una volta davanti al malato si taceva, oggi gli si snocciolano probabilità statistiche di sopravvivenza. Tutti dobbiamo firmare fogli incomprensibili al profano che la legge sulla privacy fa terminare con la domanda fatidica “a chi volete sia comunicato quanto vi capita”, con risvolti ben noti e drammatici quando la vita relazionale non è conforme alla norma sociale. Si proclama un approccio olistico, ma i medici di base, che potrebbero e dovrebbero riunire in un file solo la biografia medica del paziente, sono in via di sparizione. 

La malattia si trasmette attraverso il suo racconto. Il nostro bisogno di storie, di farci storie, nei momenti difficili non diminuisce ma aumenta. In una dimensione dove la soggettività, come ben indica la medicina narrativa, regna sovranissima nelle oscillazioni tra detto e non detto, bisogno di spiegazioni scientifiche, consolazioni e coccole. Questo è il compito difficile per il medico che ricerca un’alleanza terapeutica: utilizzare il meglio di quanto mette a disposizione la tecnica insieme all’ascolto di un altro, impaurito e denudato. Il chirurgo fiero del suo robottino che seziona con precisione millimetrica è la stessa figura che i parenti attendono in corridoio come messaggero di notizie, mentre la lunga formazione, seppure in modificazione per le giovani generazioni, non prevede nemmeno un esame dove si impara e fare un colloquio (in proposito tutti abbiamo aneddoti tragicomici).

 

Lingiardi ripercorre lo slittamento semantico da cancro a neoplasia, che scorre in parallelo alla possibilità di passare dalla vergogna all’accettazione individuale e collettiva − “negli Stati Uniti dei primi anni Cinquanta il “New York Times” rifiutò di pubblicare l‘annuncio a pagamento di un gruppo di sostegno per malate di cancro al seno. Le parole cancro e seno furono considerate impubblicabili (tanto che un giornalista suggerì di sostituirle con l’espressione disturbi alla gabbia toracica)”. Fa la storia di altre parole chiave – isteria, ipocondria, trauma, omosessualità – che hanno viaggiato insieme ai passaggi d’epoca mutando di significato. 

 

Quando a dover essere definita è la salute mentale di un individuo, il dibattito rimane aperto e interseca in parte la differenza di posizionamento tra psichiatria e psicoanalisi. Lingiardi, che nella sua esperienza professionale incrocia entrambi i ruoli, crede nella possibilità di inquadrare il paziente alla luce di categorie più generali senza dimenticare la sua unicità. Per questo ha recentemente curato, con la collega americana Nancy McWiliams, un manuale diagnostico, il Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM-2), non tanto una “tassonomia di disturbi” quanto “una tassonomia di individui che presentano un disturbo”. 

E in Diagnosi e destinoè Lingiardi stesso a inseguire una sintesi tra classificazioni diagnostiche e intermittenze poetiche.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Diagnosi
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Nel deserto di Dolores Prato

$
0
0

Nata a Roma dalla relazione tra una vedova e un avvocato che non la riconosce come figlia propria, presto affidata dalla madre a due zii residenti nella città marchigiana di Treja (questa la grafia prediletta dall’autrice per l’attuale “Treia”), Dolores Prato nel corso di tutta la sua lunga vita (1892-1983) si dedica con testarda determinazione all’atto pratico della scrittura, imbastendo narrazioni sempre refrattarie ai confini di genere (racconto, romanzo etc.), nemiche del diarismo come dello sfogo intimo e che spesso prendono il via dalla sua esperienza biografica per fuggire immediatamente altrove: nei territori aspri, solitari e resistenti della migliore letteratura. Il capolavoro dell’autrice, Giù la piazza non c’è nessuno, libro di 1058 cartelle completato a circa novanta anni, è una maestosa, dirompente ricerca sui luoghi i nomi gli oggetti le visioni di un’infanzia che inizia “sotto un tavolino” della casa degli zii cui viene affidata dopo l’abbandono della madre e si snoda per le vie e gli angoli di Treja, le case, i profumi, i cibi, le parole della città, attraversandone i paesaggi umani e naturali, le emarginazioni e differenze sociali ed economiche che si fanno differenze di presente e di futuro, le ingiustizie ataviche e le antiche nobiltà. Il testo ha una vicenda editoriale travagliata: esce per la prima volta in Italia in una versione ridotta e rimaneggiata da Natalia Ginzburg (1980) per essere pubblicato nella sua versione integrale, secondo la volontà di Dolores Prato, solo dopo la morte dell’autrice (1997, a cura di Giorgio Zampa, poi per Quodlibet in una nuova edizione ampliata e corretta nel 2009 e nel 2016). Da settembre 2018 il libro è disponibile nella sua versione integrale anche per i lettori francesi, pubblicato dall’editore Verdier col titolo Bas la place y'a personne, a cura di Laurent Lombard e Jean-Paul Manganaro, il più raffinato traduttore di scrittori italiani in Francia. Per questa occasione, Manganaro ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune domande sull’autrice e sul testo. Grazie alla sua scrittura indocile, dolente e musicale, all'attenzione vigile sulle ricchezze della lingua scritta e parlata, al suo situarsi sempre all’opposto delle idee convenzionali e degli stereotipi, Dolores Prato è, secondo Manganaro, un luminoso unicum nel panorama letterario del suo tempo e anche del nostro. Per l’assenza di polveri e per la sua originalità essenziale, Giù la piazza non c'è nessuno merita lo statuto di classico della letteratura. 

 

***

 

Lei ha tradotto in francese molti autori italiani del Novecento e oltre: Tomasi di Lampedusa, Gadda, Pirandello, Calvino, Del Giudice, Pasolini, Mari. Che cosa l’ha attratta della voce di Dolores Prato? C’è qualcosa che l’accomuna a quella di altri autori che ha tradotto e qualcosa che la differenzia?

Sì, ho tradotto 210 titoli italiani del Novecento e oltre, praticamente solo narrativa — pochissimi testi di riflessione e ancor meno poesia, direi per incapacità di fondo. Sono arrivato a Dolores Prato più di una ventina di anni fa, grazie a Vincenzo Consolo, che durante una conversazione citò il titolo: Giù la piazza non c’è nessuno, accennando un po’ alla storia del libro. Fu il titolo a esaltarmi, vi sentivo qualcosa di gioioso e di malinconico in misura uguale, sì, fu proprio il titolo a comunicarmi una sensazione di piccola follia, e, non sapendo nulla del libro, immaginai una figura femminile alla finestra mentre constatava che “in piazza non c’era nessuno”. C’è come una magia efficace in questo titolo, nella sua formulazione linguistica straordinaria. Comprai subito il libro, all’epoca l’edizione mondadoriana, cominciai a leggerlo e mi sentivo trascinato da una forza incredibile, dalla violenza fascinosa di questa voce, di questa scrittura, unica nel panorama di ciò che conoscevo, che snodava con un atteggiamento di certezza la serie ostinata delle incertezze di ogni vita. Qualcosa di identico mi era successo quando nel 1966 mi ritrovai sulla prima pagina della Cognizione di Gadda — da allora ho tradotto otto titoli gaddiani —, o, prima ancora, davanti a Baudelaire o a Céline: un furore che si innervava in un’intima dolenza poetica. Non mi sembra di aver mai pensato, leggendo Dolores Prato, ad altri autori ai quali accomunarla, in generale rifuggo dalle attribuzioni genealogiche, quando sento di essere davanti a una parola e a una scrittura la cui potenza crea tutt’intorno a sé come un deserto, un isolamento luminoso. Per me, quindi, niente che l’accomuni ad altri autori, né, di conseguenza, che la differenzi: mi sembra un unicum nel quadro complessivo della sua epoca, e direi di Gadda la stessa identica cosa. Ciò che mi è sembrato di scorgere tra le pieghe della narrazione è una comunanza di intenzioni e di conclusioni con Gadda riguardo alle riflessioni sulla lingua o sulle lingue parlate e scritte: le meditazioni lungo i diversi meandri del testo su questo problema specifico possono ricordare i risultati riflessivi di I viaggi la Morte di Gadda, ma da lontano, come un’eco comune, riconducibile probabilmente alla lettura, nell’una e nell’altro, di Leopardi. 

 

La traduzione francese di Giù la piazza non c’è nessuno dimostra che Dolores Prato è un’autrice da iscrivere in un orizzonte europeo. In che modo la sua scrittura può dialogare con la tradizione letteraria francese e con il pubblico di lettori francesi di oggi?

Sono personalmente molto contento, direi felice, che, dopo venti anni trascorsi a cercare di convincere e coinvolgere diversi editori d’Oltralpe, la traduzione francese possa aprire altri orizzonti geografici alla straordinaria esperienza letteraria proposta da Dolores Prato. In questo senso, un immenso ringraziamento va rivolto alla casa editrice Verdier e a Laurent Lombard, nonché all’editore italiano Quodlibet, che hanno reso possibile questa pubblicazione. Per rispondere alla sua domanda, mi sembra che la riflessione vada svolta in questi termini: pubblicare oggi un lavoro di una mole per lo meno impressionante, scritto da un’autrice ormai scomparsa da circa quarant’anni, implica il riconoscimento che ci si trova davanti a un “classico”, in tutti i sensi della parola, degno di apparire “alla pari” coi grandi nomi della letteratura nazionale e dunque internazionale, con un accompagnamento critico adeguato. Nel contempo, è proprio questa condizione di unicum irripetibile che la isola nel suo splendore e non le permette di collegarsi a tradizioni e a strutture fondamentalmente diverse. In tal senso, potrei anche dire che da Stendhal a Balzac, da Flaubert a Proust, da George Sand a Jean Giono, ci sia l’eventualità di un comune sentire il fatto letterario, ma questo è dovuto alle cognizioni intime e personali delle quali si è nutrita l’autrice, non a una sua volontà specifica. E sempre in questo senso, non c’è nemmeno la possibilità di una reperibilità nella sfera letteraria italiana, perché non ha antecedenti — forse, appena, lo Zibaldone leopardiano —, né avrà discendenti. La struttura stessa della narrazione impedisce qualsiasi tipo di mimesi: una lunga tiritera che si sviluppa come una favola costante, precisa e ondulante, come i nastri che certi giocolieri cinesi fanno volteggiare in sinuosi cerchi regolari e irregolari. Non dimentichiamo che proprio all’inizio del libro vengono evocate le “scantafavole di Scolastica”, che i “temi” a scuola la interessano non per quello che poi racconta, ma per il modo in cui possono cominciare a esistere, eccetera. Ecco: cominciare a esistere, il suo trauma maggiore, ripetere quindi la costanza di questo ricominciamento e riconoscimento della vita non avuta, attraverso la scrittura, che si dipana proprio come le numerose pagine dedicate al tessere, al cucire, al patch-work della vita, al ritornello costante della vita. 

 

 

Dolores Prato non amava le distinzioni di genere letterario (romanzo, racconto e così via): chiamava i suoi testi “lavori”, “libri” o ancora “narrazioni”. Quest’ultima definizione le sembra appropriata per Giù la piazza non c’è nessuno

Assolutamente. E ci sono due motivi fondamentali che mi sembrano rendere conto della specificità di questa connotazione. Il primo è che si sviluppa una tematica, o un filo conduttore, prettamente femminile, del narrare — che qui parte dalla figura già evocata di Scolastica —, e del narrare favole: in questo senso Dolores Prato somiglia allora a Sheherazade, la voce che narra, dalla mitologia greca a Perrault e a Sade, e che si confonde e si estasia nel femminile, in esso trova la sua perfetta elaborazione e maturazione estetica e poetica. Con Giù la piazza, viene raccontata, viene narrata la vita, nella materialità meravigliata, felice e costante dei ritrovamenti, nell’oggettività delle “cose” minime e massime, nello stupore sempre ripetuto della sua camera oscura, nell’insetto che si muove o non si muove, nella conoscenza progressiva e nelle sinestesie che l’avvincono alle certezze delle sperimentazioni. Il secondo motivo è dovuto al fatto che la scrittura, nell’ambito di questo snodarsi e annodarsi delle cose e delle riflessioni, è sempre attraversata da una potente oralità, che è come l’aleggiare della scrittura, la tensione tra mente elaborativa e corpo senziente ed emanante. Come il filo dei ricami. Ancora una volta, tutto è intimamente legato all’invenzione di una struttura mobile che non somigli a nessun’altra, non lasciata al caso, ma frutto di una riflessione considerevole sulla necessità di quanto l’autrice chiama l’elaborazione della sua resistenza: “nell’agone ho sempre vissuto, mai vincitrice, mai vinta, ma sempre resistente”. Grazie alle modalità di tale struttura narrativa si possono capire le numerose ripetizioni, i ritorni, i ricorsi che intercorrono lungo tutta l’elaborazione: di fatto siamo in presenza di una “ricerca”, in senso sia proustiano sia leopardiano, che, per cerchi concentrici, si allarga o si restringe sulla realtà sfaccettata della propria materia. C’è una sottesa tensione vichiana e anche nietzschiana in queste riflessioni. 

 

A proposito del filo e dei ricami, le pongo una domanda che Dolores Prato lascia in sospeso in un suo laboratorio di scrittura intitolato “io”: “Tutti dicono che ho fantasia. E io rispondo che non l’ho. Non riesco a inventare un raccontino. E allora come mai tutti lo dicono? Che sia fantasia quei nessi spontanei tra le cose e le idee, tra persone e parole? Quello scoprire i fili che legano tutte le cose? Questo improvviso annodare, sì, ce l’ho. Ma è fantasia questa?”.

Mi conforta molto la sua scelta della parola “laboratorio”, perché mi sembra che spieghi con precisione la “struttura” e la “ricerca”. E dire “i fili che legano tutte le cose”, e non “il filo”, spiega l’atteggiamento fondamentale della Prato di fronte all’immensa rete che noi stessi creiamo attorno alle cose: sensazioni, percezioni e affetti si mescolano in una tensione che crea nuove tipologie di realtà costantemente rielaborate. Si tratta di un percorso non più dialettico ma atomico, che trascende i fatti e prende corpo nella realtà delle parole pensate e scritte. “Le parole sono la realtà”, dice a un certo punto. C’è probabilmente una elaborazione di natura positivistica alla base del concettualizzare dell’autrice, attraversata però, in cento anni, dall’insieme dei momenti e movimenti artistici del Novecento: letterari, filosofici, pittorici, musicali, politici, che interferiscono e creano nuovi campi di approccio nella valutazione della materia, della materialità delle cose. Le complesse articolazioni che Dolores Prato riesce a creare, ad “annodare” — frutto di una capacità individuale dovuta proprio alla condizione in cui il vivere è risentito come solitudine affettiva —, offrono le condizioni di un immaginario che si inventa in ogni circostanza e che, inventato, diventa fantasia. La fantasia, in fondo, è come l’appetito, viene mentre la si costruisce. E questo “annodare”, e aggiungerei “dipanare”, confermano — e si pensi a tutte le pagine sul filare, circa il tessere e ricamare, circa il gioco dei fili —, una somiglianza molto più prossima con Aracne che con Atena. 

 

 

Poco prima ha citato come particolarmente significativa una frase tratta dal libro: “nell’agone ho sempre vissuto, mai vincitrice, mai vinta, ma sempre resistente”. In che modo si realizza questa “resistenza” da parte dell’autrice?

Evocavo il mito di Aracne e di Atena, proprio per descrivere uno degli atteggiamenti e dei temi di fondo di Dolores Prato, che si situa sempre all’opposto delle idee convenzionali, degli stereotipi. Fondamentale è l’incipit, questo ostinato mettersi al riparo non da un pericolo qualsiasi, ma dal pericolo, per lei assoluto, di essere nuovamente abbandonata: che da paura si trasforma poi, subito, in descrizione delle variazioni colorate del rifugio, anche di quelle fastidiose come le croste di pane. Ma l’atto si muta immediatamente nella presa di coscienza che, per vivere senza l’appoggio degli affetti, è necessario costruirsi una forma mentale in cui “resistere”: ciò diventa l’unico fronte contro l’impeto delle circostanze. Cito il primissimo esempio, ma nel testo questo atteggiamento mentale, che diventa anche attitudine fisica, è sempre all’opera: resistenza alla norma, all’autorità, quale che sia, alla lingua, resistenza che permette di scorgere e di percepire altre prospettive oltre quelle imposte, quelle consuetudinarie; resistenza quindi come necessità di vita contro chi vessa e offende tale necessità. La considerazione di lei, che percepisce i rumori del silenzio e vede i microbi e sente l’eco dei passi del bambino morto, rientra anch’essa nel confronto col reale degli altri, da cui svincolarsi, per riempire la propria soggettività e oggettività di contenuti che le diano forma e consistenza: diversità dagli altri che non l’amano. Questo permea anche la scrittura, che non appartiene più alla doxa ma straripa spesso nell’idioletto, ed è importante che quest’ultimo possa essere inscritto nell’area marchigiana. Perché si costituisce anche come motivo affettivo di appartenenza a qualcosa che sembra sfuggirle da ogni parte, se rapportato agli umani, e che ritrova soltanto nelle parole. Citavo prima questa espressione tratta dal libro, “le parole sono la realtà”: e la realtà, quale che sia, anche quella delle parole, offre le certezze di una costanza realmente attuata, contro ogni imprevedibilità. In questo si fonda anche il legame della scrittura come continuità a fronte delle lacerazioni del presente. Non essere uguale agli altri è oggettivare la differenza in quanto qualità.

 

La protagonista del libro, lei scrive nella postfazione all’edizione francese, è Treja (questa è la grafia usata dalla Prato; ma sotto il fascismo la città venne ribattezzata “Treia”, e alla forma del nome sono dedicate in Giù la piazza pagine molto belle: “A Treja nella sinfonia delle parole, la j lunga era quello che è il clarino in una banda: predominava. […] Treja, diventa Tre-i-a. Treja ha bisogno di quella mezza consonante; se non ce l’avesse, bisognerebbe dargliela perché è il suo popolo che ha bisogno dell’j lunga”). In quale rapporto sta questa piccola città di provincia con la voce narrante del testo e con gli altri personaggi: oggetti, uomini, animali, ma anche città amate e intensamente vissute dall’autrice, come Roma?

 

Se non proprio la protagonista, Treja rimane comunque il luogo nevralgico dal quale scaturisce la totalità possibile dell’iscrizione dell’io in un insieme dove si può e si deve “circolare”. È straordinaria la capacità di descrivere non la città ma la sua architettura in unione col paesaggio, e di immergere poi tutto negli sconfinamenti del cielo e del territorio: sicché piazze, vie, slarghi, palazzi non sono descritti come monumenti storici, ma come volumi puramente geografici ed estatici, volumi non in opposizione ma in confronto costante tra di loro. Ne sortisce una geometria del perfetto, in cui ogni luogo è riferimento alla possibilità della presa di coscienza e di una postura in cui elaborare se stessa e gli altri: così si descrive l’impervio e l’agevole come stati d’animo e sentimenti, prima ancora che come posizioni del corpo, anche se gli uni e gli altri non cessano di essere attraversati da linee di forza che implicano scelte e visioni, un qualcosa che contiene in sé un’indicibile magia che aureola la prosa, tenuta sempre in sospeso. Si pensi al grande e lunghissimo momento del funerale della compagna di scuola, dove la scena si svolge sul piano del percorso lineare, ma messo a confronto con i piani soprastanti della casa della zia e sottostanti alle Mura. Si sviluppa, attraverso lo sguardo supposto della zia e l’attesa della nuova stanza dei giochi, tutta una tematica ottica in cui l’idea di Treja è protagonista: Treja si ridefinisce in quanto realtà fondata, costitutiva, luogo di certezza geografica, storica, perfino archeologica. «Treja fu il mio spazio, il panorama che la circonda, la mia visione: terra del cuore e del sogno». Ma anche, su un tono perentorio: «Io non appartenevo a Treja, Treja apparteneva a me; essa non mi aveva chiamata, non gradiva la mia presenza per le sue strade, nelle sue chiese, lo vedevo benissimo e anche questo apparteneva a me». È il luogo dal quale tutto scaturisce e in cui tutto confluisce per ricominciare. 

 

Sempre a proposito di Treja, e per parlare di un altro testo di Dolores Prato, il laboratorio dei suoi Sogni (Quodlibet, 2010), ce n’è uno del dicembre 1968, quando ancora Giù la piazza non c’è nessuno non era in lavorazione nella forma che leggiamo ora, in cui l’autrice racconta una visita a una mostra fotografica e descrive il riconoscimento di pezzetti di Treja dentro alcune foto. C’è qualcosa di preparatorio, secondo lei, in questo sogno rispetto alle descrizioni e allo sguardo sulle cose che viene gettato in Giù la piazza

I Sogni, che ho letto un po’ di sfuggita, per non distrarmi da Giù la piazza, potrebbe essere considerato come un’impalcatura necessaria all’opera, necessaria nel senso che del sogno esiste la trascrizione autorale, e può dunque essere un punto di riferimento sia per l’autrice sia per i lettori. Però dire questo non basta: il libro dei sogni è uno sprofondare nella parte più intima, spesso indicibile, di sé e come tale va valutato; la trascrizione dei sogni non è una scrittura, è appunto una trascrizione, ma è anche un’interpretazione, il tentativo di fissare in una forma reale una strana irrealtà la cui natura profonda è di fuggire, non foss’altro, appena svegli. La sua natura è la fuga, o meglio, il fugace. Afferrare il fugace: un po’ come voler afferrare l’occasione, il momento di grazia, il kairós. Nel brano da lei proposto sono esaltati elementi discorsivi e interpretativi che aderiscono più al sentimento intimo che propriamente alla scrittura. “Il sogno consisté nel sogno di una emozione mai sentita così”; “L’emozione cominciò a montare investendo me interiore, me esteriore”; “L’emozione cresceva […] balbettavo per l’emozione. L’emozione straripò da me”; sino alla bellissima frase che conclude questa pagina: “Per dire il sogno dovrei essere capace di dire quella beatissima emozione che riconosceva un pezzettino solo di quel paese chiamato Treja.” È qui un’emozione felice, che da sola non basta a trasferire la trascendenza propria al sogno nell’immanenza specifica della scrittura; bisogna allora “essere capace di dire quella beatissima emozione” che colga appunto la fugacità del sogno e dell’emozione, sospendendola nel tempo e nello spazio, offrendole un tempo e uno spazio che esiste in noi in modo recondito. Credo che la cosa che più mi ha affascinato di questa narrazione è appunto il tempo, costantemente sospeso, in cui gli avvenimenti si espongono. Non si tratta più di scrivere memorie e ricordi, né di tuffarsi in un passato puramente autobiografico, come succede in Proust o nella Yourcenar, ma di riflettere e ridire un presente costante, avulso da sé e immerso in una universalità della cosa detta, in una sua immensità volumetrica che esclude il senno di poi, il sapere della vita avvenuta, ma di lasciare libera la potenza dell’innocenza, che si appropria gradualmente e contemporaneamente, nel momento stesso in cui avviene, dei suoi saperi, per snodarli e annodarli, per tesserli. Come un immenso presepe, dove sistemare personaggi e cose, pensieri e atti, nell’incoscienza di un presente ormai trascorso ma sempre incandescente. 

  

 

Lei ha rintracciato nel testo un’attenzione particolare per il “popolo”, che consentirebbe di inserire Dolores Prato tra gli autori italiani più coinvolti e in attrito con la realtà del proprio tempo, da Leopardi a Pasolini. Nel caso di Dolores Prato, quali caratteri ha questo coinvolgimento?

Le considerazioni sul popolo subentrano abbastanza tardi nella narrazione, ed è l’unico elemento, mi pare, che venga trattato in progressione, come se avesse bisogno di una maturazione, di una storicizzazione degli eventi. Il primo impatto è l’elaborazione del dato linguistico, che, formulato attraverso la lingua della zia e quella della cameriera Eugenia, si sviluppa poi a scuola, sempre paragonando per differenze il dire normativo e quello del più straordinario parlato locale. Ma c’è soprattutto il sostrato geografico: i contadini che vengono dalla campagna con i loro modi e costumi, il martedì e la domenica, gli operai dalle zone limitrofe del villaggio, anch’essi con vestiti particolari, e le donne con ornamenti precisi che fissano regole indeterminate e quindi inventive. E poi tutti i mercanti che offrono parole nuove, parole vive, col trionfo colorato delle bancarelle. Attraverso le riflessioni sulla lingua vengono esaminate le diverse situazioni storico-sociali che compongono il tessuto antropologico di Treja: la distinzione tra aristocrazia, ceto medio e popolo si configura con nettezza e precisione, inserita nella geografia urbana, secondo zone concentriche che vanno dal centro alla periferia; pur sentendosi culturalmente appartenere alla prima classe sociale, se ne distacca per simpatia ed empatia a favore dell’ultima, che Dolores Prato chiama popolo, quando questo nome aveva ancora un senso pieno, storicamente precisabile. Indubbiamente ci sono nel popolo un’anima e un corpo che non si ritrovano nelle altre classi sociali, e nell’atteggiamento che ne deriva non c’è soltanto l’invadenza dello spirito ribelle ma anche e soprattutto una ricerca bambinescamente precisa del senso del “giusto”: e si pensi alle numerose pagine sulle bilance che soppesano, sì, le materie, ma metaforicamente si iscrivono nella volontà di decidere tra bene e male; e tutto ciò che è bene e giusto diventa anche bello. Succede così che Giù la piazza appartenga alla letteratura universale — da Platone a Dostoevskij e a Gadda, c’è tale corrispondenza tra bene e bello, corrispondenza che è stata sempre un tema forte della speculazione letteraria. Nel caso della Prato, la “giustezza”, la capacità non solo di vedere, ma di dire e dunque analizzare, determina il passaggio decisivo da un anno all’altro, nel divenire di una maturazione che deciderà in seguito delle sue scelte politiche e giustificherà anche l’antisabaudismo ribadito a più riprese, anche se questo risvolto riguarda più Roma che il popolo di Treja: il rimprovero di fondo è l’aver tolto a Roma la sua funzione universale, facendone solamente una capitale. La simpatia col popolo ha anche a che vedere con la molteplicità degli esempi che vengono dal campo del lavoro, dall’homo faber, e quindi delle diversificazioni linguistiche e concettuali che può opporre all’apatia, all’acedia, alla sprezzatura della classe nobile, proposta qui nella sua atavica fissità, nelle sue certezze intransigenti. E c’è, per finire, nella difficoltà del vivere quotidiano, un’identificazione della bambina con le proprie difficoltà affettive: l’ammirazione per la polenta di Angelina e Boccio deriva da una complessa serie di percezioni e di sentimenti che sfociano tutti nella simpatia per la bellezza e perfezione del piatto senza il “riccio”. 

 

Dolores Prato è una scrittrice dotata di spiccata ironia e autoironia. Ci sono punti di Giù la piazza in cui a suo parere emerge con più evidenza e con risultati più felici questo aspetto spesso poco considerato della scrittura dell’autrice? 

Difficile reperire con precisione in quest’ambito qualche momento preciso, a tal punto tutto il lavoro ne è pervaso. Certo, si possono chiamare ironia e autoironia. Mi sembra però che ciò finisca con l’essere restrittivo: c’è nell’ironia qualcosa di meschino e di cattivo, di sprezzante. Forse meglio definire quest’atteggiamento come qualcosa di visceralmente umorale, frutto di intricate complessioni elaborate nel tempo e col tempo, di risoluzioni che tendono a evitare ogni facilità dell’essere, un’amarezza commista a malinconia che nasce quasi sempre da un sentimento insormontabile di infelicità, e l’humour appare allora come barriera al volersi perdere e all’essere costantemente “meravigliata”. Non so quale sia l’etimologia di “humour”, ma mi piace sentirvi qualcosa che ha a che vedere con l’humus, un fondo di terra e di terrestre che aderisce a un tutto particolare — quello stesso di Dolores Prato — che riesce a mettere assieme fiori e carta e la complessità delle opere e dei giorni nell’insieme delle loro variazioni: ci potrebbe essere in fondo qualcosa che finisce con l’accomunarla a Bouvard et Pécuchet, senza i lati negativi o grotteschi dei due personaggi flaubertiani. È un humour che nasce dalla crudeltà, non dalla cattiveria, dalla crudeltà necessaria a contrastare la crudeltà della vita strappata giorno dopo giorno a ciò che si crede essere un destino, e dunque anche crudeltà contro se stessi, nella verifica del proprio esistere nel complesso dell’umano — e la scena violentissima tra la protagonista e il patrigno è forse quella che meglio rende conto di tale situarsi. Ma non vi è nulla di feroce in questo atteggiamento dell’essere: la “meraviglia” costante dell’essere di fronte al creato e alla conoscenza come dato di fatto positivo, e non negativo, cambia appunto la percezione del destino. 

 

Fin dalle prime recensioni all’edizione integrale del volume, Giù la piazza non c’è nessuno colpì per la mole (1058 cartelle), la lingua composita (vernacolo treiese, italiano parlato dagli zii romagnoli, italiano toscaneggiante), la sintassi incalzante e imprevedibile. Quale è il suo giudizio su questi tre aspetti del libro?

Il libro comincia con la presa di coscienza della vita e finisce con la presa di coscienza degli affetti non vissuti nel profondo di una verità impalpabile. In realtà non comincia esattamente come potrebbe cominciare, e poi, in realtà, non finisce: la morte, nel finale, è quella degli altri, dello zio e della zia, che hanno definito e confinato nel testo il tempo vitale della protagonista. Potrebbe essere infinito, continuare all’infinito, ancora una volta leopardianamente nel naufragio che è comunque la vita, anche se è un naufragare “dolce”. La mole fa parte della struttura, come ho già detto, questo entretien infini con se stessa la distrae anche dalle forme concepibili, non può essere forma chiusa come un romanzo, con un inizio, uno sviluppo, una fine, per questo è stata da noi traduttori concepita come un lungo nastro che balla la sua danza dimostrativa, nella fluenza, nel fluire delle rappresentazioni che sono infinite. Per la sua stessa materia e per i luoghi che insaziabilmente percorre, la lingua non poteva che adeguarsi al sapere stesso dell’autrice e a tutte le varianti che lo compongono, alla geografia e alla storia che ne formulano il luogo natio, creando così un complesso plurilinguismo che l’accomuna ancora una volta allo spirito gaddiano, proprio in una lunga epoca di transizione dell’italiano in quanto lingua. Grande periodo di passaggio che attraversa la molteplicità delle esperienze linguistiche, dove la necessità del conoscere e riconoscere diventa fondamentale: e tuttavia non lingua del passato, ma lingua accolta nel suo divenire costante, nel suo farsi nuova, a torto o a ragione; grandiosità di una lingua scritta che non teme, crudelmente, di fare strada in se stessa, di fare strada tout court. Pluralità di lingue, sintassi, tutto è preso nel vortice del se stesso farsi lingua, alla ricerca di un io nel quale riconoscersi potente e rivalutarsi in profondità, contro l’inadeguato confronto dell’umano e con l’umano, andando al di là di quanto gli altri pensino. 

 

Come ha affrontato i tre aspetti del libro sopra citati da traduttore a quattro mani, insieme con Laurent Lombard, a partire dal titolo, che Dolores Prato preferì a Fiume disperso, proposto da Natalia Ginzburg? E in che senso, come avete affermato, la pagina di Dolores Prato può essere paragonata alla forma musicale della “fuga”? 

Ho già fatto cenno al mio incantato stupore, all’innamoramento immediato in me per la risonanza geniale del titolo. La lettura, poi, ha per me definitivamente accertato la “giustezza” della scelta. Non voglio qui rievocare la sgradevole situazione che si è creata al momento della pubblicazione con Natalia Ginzburg: mi sembra che Dolores Prato abbia risposto in modo “giusto”, con la perentorietà che le è propria, e non c’è nulla da aggiungere. Credo che in questo caso vi sia, tra tanti altri problemi già in parte riesumati, una sorta di confronto tra classi sociali e letterarie, cosa che, tempo prima, era già accaduta a Italo Svevo, come se fosse impossibile andare oltre all’accademismo, oltre alla parola normalizzata. Quando si evoca una forma apocalittica della vita, non si può scrivere come se si scrivesse La cavallina storna; c’è un’enfasi del corpo e della mente, che deve trasparire nella concitazione e negli strappi della stesura scritta. C’è in questa prosa un grandissimo equilibrio stilistico, e la mescolanza delle varie lingue conferisce al testo un ampio e alto valore sinfonico, una originale stranezza stilistica elaborata tra armonie e disarmonie, che fanno sì, deleuzianamente, che questa lingua sia scritta nella percezione del sentirsi straniera nella propria lingua. La fuga, già evocata come funzione fondamentale nella prosa della Prato, è il risultato della sospensione strutturale continua che essa pratica sia sul paragrafo che sulla frase, sulla pagina, creando un rincorrersi particolare delle parole che ne fanno, lo ribadisco, un unicum nella storia delle letterature. Traducendo, siamo stati molto attenti all’insieme di questi viluppi: sonorità varie, spostamenti in alto e in basso, il mondo guardato da una “piccola cosa”, le magnifiche pagine felicemente poetiche che invadono il campo con un cipiglio decisionale sempre rigorosissimo e fedele a se stesso: per noi, quasi un corpo a corpo con l’opera — e siamo stati felici del risultato conseguito. 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Una luminosa resistenza
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 
Viewing all 3499 articles
Browse latest View live