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Gli zii di Sicilia

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Sono trascorsi 30 anni da quel giorno di novembre in cui Leonardo Sciascia ci ha lasciati, trent'anni in cui il paese, che lui ha così bene descritto, è profondamente cambiato, eppure nel profondo è sempre lo stesso: conformismo, mafie, divisione tra Nord e Sud, arroganza del potere, l'eterno fascismo italiano. Possibile? Per ricordare Sciascia abbiamo pensato di farlo raccontare da uno dei suoi amici, il fotografo Ferdinando Scianna, con le sue immagini e le sue parole, e di rivisitare i suoi libri con l'aiuto dei collaboratori di doppiozero, libri che continuano a essere letti, che tuttavia ancora molti non conoscono, libri che raccontano il nostro paese e la sua storia. Una scoperta per chi non li ha ancora letti e una riscoperta e un suggerimento a rileggerli per chi lo ha già fatto. La letteratura come fonte di conoscenza del mondo intorno a noi e di noi stessi. De te fabula narratur.

 

Ci sono vari motivi per riprendere in mano Gli zii di Sicilia, tutti eminentemente semiotici. Si tratta di una raccolta di racconti pubblicata nel 1958, relativa, quindi, alla primissima fase della produzione dello grande scrittore di Racalmuto. Il testo può addirittura essere annoverato come un esordio se lo si considera dal punto di vista del suo genere d’appartenenza – la narrazione di fiction – così fecondo nell’attività del suo autore. 

Una prima questione problematica riguarda già il suo titolo. A voler essere precisi, l’unico racconto dei quattro – La zia d’America, La morte di Stalin, Il quarantotto, L’antimonio– che compongono la raccolta a trattare di zii è il primo. Rimane, quindi, da chiarire chi siano davvero gli zii di Sicilia evocati nel titolo e, fuor di metafora, quale possa essere il filo conduttore che lega questi racconti. 

Una prima risposta può essere avanzata rilevando come i quattro testi siano accomunati dal fatto di essere racconti politici. Ognuno di essi evoca la grande storia, ne richiama il suo passo inesorabile oltre ogni possibile resistenza, pone il problema del cambiamento epocale.

 

Già questo gesto, è indicativo di una peculiarità della scrittura di Sciascia rispetto allo stereotipo dell’irredimibilità siciliana. In Glizii di Sicilia non c’è lo strano compiacimento – camuffato da disprezzo – del principe Fabrizio Salina (anche il Gattopardo è del 1958!) di fronte al sonno dei siciliani, né alcuna indulgenza verso il loro straccione senso di superiorità. La scrittura di Sciascia, in questo caso, può essere posizionata agli antipodi di quella di Tomasi ed essere assunta come controcanto alla sua narrazione. I protagonisti dei racconti della raccolta rappresentano, infatti, l’altra faccia della medaglia, sono l’opposto matematico dei personaggi lampedusani. Raccontano lo stesso mondo, a volte gli stessi eventi (Il quarantotto), rovesciandone pervicacemente il punto di vista.

 

Gli eroi di Gli zii di Sicilia sono contadini, odiano i nobili, detestano la loro immobilità, pregustano il sole dell’avvenire, il momento in cui il mondo di ingiustizia nel quale sono costretti a vivere verrà rovesciato in nome di una presa del potere dei loro emissari che sia fondata sulla ragione. Ed è proprio la ragione, nel duplice senso di visione fondata sulla logica razionale delle cose e di essere dalla parte del giusto, a cui essi affidano, illuministicamente, la speranza del loro riscatto, contro ogni aristocratico sdilinquimento per una Sicilia tutta irredimibilità e buone maniere. Anzi, una volta sentita la loro versione dei fatti, si capisce come essi pensino che sia proprio il muro di gomma costituito dalla raffinatissima ossessione per le cerimonie dei nobili a rappresentare il nemico da abbattere. Il nichilismo indolente, il suo dotto relativismo è, secondo gli umili protagonisti di Gli zii di Sicilia, la migliore garanzia di tutela degli interessi del più forte e del soddisfacimento dei suoi più bassi istinti. Ecco, allora, che dietro l’eleganza e il prestigio di facciata del barone Graziano – al centro delle trame di Il quarantotto – si riveli uno squallido e irresponsabile rovinafamiglie. Si può notare come la postura gattopardesca di questo tipo di personaggi, sospesa fra l’ammiccamento di chi la sa lunga e l’indolenza funzionale alla perpetuazione del potere, possa essere riconosciuta nella successiva prosa di Sciascia. A ereditare questo passo, a sguazzare nel gioco retorico delle mille verità, sarà la mafia, sarà il padrino, sarà Mariano Arena... 

 

 

Contro tutto ciò, Sciascia propone il suo antidoto, tracciando un suo modello eroico peculiare. Sono i tanti ragazzini che animano i racconti di Gli zii di Sicilia, figli di nessuno che vogliono studiare nonostante la loro condizione gli precluda un tale cammino: per emanciparsi, per liberare se stessi e la Sicilia. Essi aspettano il tempo di Chevalley con fiducia e mai si sarebbero sognati di respingerlo. Gli umili eroi de Glizii di Sicilia – come il significativamente anonimo ragazzino protagonista di La zia d’America– prefigurano Bellodi, l’ingenuo, il bacchettone, il filologo, il razionalista che, impudentemente, accetta la sfida di mettere ordine nella matassa, con rigore e metodo.

Un’altra caratteristica notevole che ci permette di rispondere alla domanda su chi siano gli zii di Sicilia evocati nel titolo della raccolta è legata a un certo topos siciliano che ancora una volta interseca la rappresentazione del mondo lampedusiana, chiamando in causa, stavolta, la dialettica centro-periferia. Se è vero che la Sicilia rappresenta un luogo geograficamente periferico nei nuovi destini del mondo (che si giocano in America, in Spagna, in Russia), i siciliani dei racconti in esame mostrano una particolare propensione a pensarsi come parti in causa, ossessionati da avvenimenti lontani che essi vogliono avvicinare il più possibile. I siciliani di Sciascia sognano il campo di battaglia, vogliono partecipare, si arrovellano per comprendere i giochi strategici che animano la grande politica, discutono di massimi sistemi, intervengono nonostante la loro marginalità, tanto geografica quanto esistenziale. Perfino la figura mitica di Stalin può diventare così inaspettatamente prossima per uno come Calogero Schirò. Egli, calzolaio di uno sperduto paesino di Sicilia, dialoga, in sogno, con il leader sovietico, si interroga sui vantaggi e i limiti del patto Molotov-Ribbentrop, gioisce e patisce di ogni minimo accadimento politico del suo beniamino, scommette che la vittoria del grande liberatore degli oppressi libererà anche lui. E, perciò, costituisce la sua lercia bottega come un laboratorio politico in cui prendere in considerazione le sorti del mondo, confrontandosi con l’arciprete, a cui spetta di rappresentare, in questa commedia, le ragioni del liberalismo. Si tratta del medesimo orizzonte, raccontato in termini farseschi da Guareschi ma, d’altra parte, è proprio così l’Italia di quegli anni.

 

Un’Italia dimenticata in cui il dibattito politico è capillare, in cui le botteghe degli artigiani, le sezioni dei partiti così come le parrocchie o ancora i circoli di paese sono incluse dalle grandi narrazioni politiche ma soprattutto rappresentano luoghi di intervento e critica a partire dai quali potersi elevare dalla particolarità dei propri interessi, in nome di qualcosa di più alto, più generale. Nelle botteghe, nelle sezioni, nelle parrocchie, nei circoli, l’infinitamente piccolo, sebbene consapevole della sua marginalità, può realizzare il miracolo di proiettarsi nell’infinitamente grande. Ed è proprio in questo gioco di corrispondenze, fra piccolo e grande, centrale e periferico, che entra in gioco la famiglia, filtro attraverso cui ogni avvenimento della grande storia viene interpretato. Stalin per Calogero Schirò è uno di famiglia, è perfetto zio di Sicilia, con cui mettersi in relazione anzitutto affettivamente. Lo stesso può dirsi della zia d’America, grazie alla quale il nuovo mondo può assumere una qualche riconoscibilità (“E l’America per me era lo storo grande di mia zia”). Anche il fascismo viene incarnato da uno zio – siamo ancora nel primo racconto – uno scialacquatore senza arte e né parte, frustrato dal mancato riconoscimento di sé in famiglia ma pronto a rinnegare la sua fede politica nel nome della zia d’America e di un matrimonio fortunato. È la sua persona il filtro attraverso cui il ragazzino protagonista della storia può (insieme al lettore) comprendere il senso del ventennio: nei suoi confronti, proprio perché si tratta di un altro zio di Sicilia, lo sguardo non può che essere pietoso. Ancora, è la familiarità con l’antimonio (termine con cui i vecchi minatori siciliani si riferivano al grisou) a orientare l’umile zolfataro siciliano, dell’ultimo racconto della raccolta, nell’inferno della guerra civile spagnola. Egli conosce i suoi nemici antifranchisti, per il fatto di trovarseli contro in battaglia. Dei suoi nemici, non potrà che apprezzare la somiglianza fisica – segno di un’ulteriore affinità di spirito fondata sull’appartenenza di classe – con la sua gente. Sarà proprio questa somiglianza il viatico per comprendere come egli, arruolatosi, per denaro, da volontario delle legioni fasciste, si ritrovi a combattere dalla parte sbagliata, contro i contadini, contro la povera gente. 

 

Ma, infine, anche il filtro dell’analogia, della corrispondenza fra grande e piccolo, fra lontano e vicino, non potrà che mostrare la sua insufficienza di fronte alla volontà di potenza degli eroi popolari sciasciani. 

Ci penserà il progresso a liberare il protagonista di L’antimonio, ormai mutilato di guerra. A lui, proprio in virtù del suo handicap, viene assegnato un posto di bidello. Un posto statale che lo porterà a prendere servizio in un’altra città. 

Ecco stagliarsi all’orizzonte l’occasione della sua vita: andare in una grande città là fuori. Perdersi nell’anonimato folla, sperimentarsi individuo, senza termini di paragone, senza il filtro degli zii di Siciliaè per lui l’unica possibilità di essere davvero libero e di “vedere cose nuove”. 

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Tempo breve

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La contrapposizione tra gli apocalittici e gli integrati non è molto convincente. È schematica e semplifica enormemente la realtà delle cose. Eppure, forse proprio per questo, ha avuto negli scorsi anni un notevole successo e continua ad essere largamente impiegata ancora oggi. Com’è noto, tale contrapposizione deriva dal titolo del libro Apocalittici e integrati che è stato pubblicato da Umberto Eco nel 1964. Lo stesso Eco non era convinto della bontà di questo titolo e ha raccontato che gli era stato sostanzialmente imposto dall’editore Valentino Bompiani.

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Ian McEwan. Queste macchine così inumanamente perfette

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Sliding doors, si dice così, no? Le cose vanno in un modo, ma – se avessimo imboccato un’altra porta girevole – avrebbero potuto andare diversamente: «il presente è il più fragile dei costrutti improbabili. Avrebbe potuto essere diverso», secondo Charlie Friend, narratore e coprotagonista del più recente romanzo di Ian McEwan, ambientato nell’Inghilterra di “un” 1982, anno di uscita nelle sale di Blade Runner. Come sarebbe potuto andare se alcuni avvenimenti avessero preso una piega differente. Quali?

Primo: se la Thatcher avesse perso sanguinosamente la guerra delle Falkland contro la Giunta argentina e si accingesse a lasciare Downing street al laburista Tony Benn. Il quale, al di là dell’assonanza, non somiglia a Tony Blair, ma a Jeremy Corbin che, “con la sua banda di trotzkisti”, avrebbe condotto trentacinque anni in anticipo la Gran Bretagna fuori da una EU pronuba delle grandi multinazionali, prima di venir assassinato in un attentato.
Secondo: se Alan Turing– il genio che aveva decrittato Enigma, mossa risolutiva per sconfiggere i nazisti nella II Guerra Mondiale – invece di farsi prima castrare chimicamente e poi suicidarsi a 41 anni – fosse sopravvissuto abbastanza da resistere al carcere per omosessualità e quindi, riabilitato, avesse ispirato una stagione di folgoranti evoluzioni tecnologiche, a petto delle quali i computer e gli iPhone di oggi impallidiscono. Dando vita così ad una prima generazione di androidi apparentemente molto simili a noi, grazie agli sviluppi dell’intelligenza artificiale e della biologia computazionale. Eguali a noi nel bene, ma forse non nel male.


Terzo: se i Beatles (i Fab Four al completo), riunitisi dopo dieci anni di separazione, fossero di nuovo primi in classifica con “Love and Lemons”, album enfatico, ma illuminato dalla voce di John Lennon. Qui e là, nel plot, altre notizie: John Kennedy sarebbe sopravvissuto in qualche modo all’attentato a Dallas, e anni dopo Jimmy Carter avrebbe sconfitto Reagan alle elezioni del 1980.
Un mondo parallelo in cui le scienze avrebbero dato frutti copiosi, e l’opera di fisici quali Albert Einstein, Erwin Schrödinger, Richard Feynman, Paul Dirac (tutti citati nel romanzo) avrebbe inciso profondamente anche nel quotidiano.
Per il resto, McEwan non si cura troppo del contesto: come altri ha scritto, «ha portato un elefante in una stanza, ma non si è poi curato di riorganizzazione il mobilio». Tiene più all’impianto etico-filosofico del racconto. Spesso, tra le righe, spunta un quesito filosofico. Come una versione del cosiddetto “problema del carrello”: un’automobile elettrica a completa automazione, nell’imminenza di un incidente che coinvolgesse chi è a bordo e chi è in strada, chi dovrebbe “scegliere” di salvare? Quesito attuale. L’anno scorso in Arizona una Volvo sperimentale della Uber a guida autonoma ha investito e ucciso un pedone di 49 anni che stava attraversando non sulle strisce. Nel processo, Uber è stata fin qui sollevata da ogni responsabilità.

Ecco il quadro che accoglie, in apparenza, una storia a tre: tra Charlie, che utilizza l’eredità materna per comprare uno di questi "umani sintetici", un maschio chiamato Adam, con scarsa fantasia (le Eva sono subito andate a ruba), e la giovane vicina di casa Miranda, il cui nome è uno dei tanti riferimenti a La tempesta. Il terzo è proprio Adam. Tuttavia, la vicenda non si limita alla narrazione di un pur impervio e insolito ménage à trois. Intanto, perché c’è un quarto: Mark, un bambino in carne e ossa di 4 anni che entra in scena interagendo coi sentimenti dei tre adulti, provocando l’affetto filiale di Miranda e la gelosia di Charlie e di Adam. E poi perché McEwan non intende aggiungere un’altra voce al dibattito secolare su differenze e prossimità tra uomo e macchina, ma di rappresentare quanto l’imperfezione sia il sale della vita, ciò che ci fa umani. Insomma, McEwan sembra omaggiare l’amato Philip Roth, autore di un altro romanzo ucronico, Il complotto contro l’America ordito da Charles Lindbergh e i suoi, alleandosi con la Germania nazista, parente di quel La svastica sul sole firmato dal vero genio della narrativa fantascientifica, Philip K. Dick.


Questo quindicesimo racconto potrebbe anzi riportare in epigrafe una delle frasi-chiave dello scrittore di Newark: capiamo di esser vivi sbagliando, e sbagliando ancora. Il che non vale per l’uomo-macchina che apprende sì dagli errori, ma seguendo una logica tanto intelligente, quanto disumana proprio perché perfetta, dettatagli dal sistema di algoritmi in base al quale è costruito. Un sistema come quello che regola il gioco degli scacchi: «Ma il punto è che gli scacchi non sono una rappresentazione della vita», puntualizza Alan Turing in una conversazione con Charlie. «Si tratta di un sistema chiuso. Le sue regole sono incontrastate e prevalgono costantemente su tutta la linea. [...]. È un perfetto gioco d'informazione. Ma la vita, nella quale applichiamo la nostra intelligenza, è un sistema aperto. Disordinato, pieno di trucchi e finte e ambiguità e falsi amici». Infatti, la vera epigrafe del romanzo è una citazione da una poesia di Kipling, The Secret of the Machines: «But remember, please, the Law by which we live, | We are not built to comprehend a lie…». McEwan avrebbe svelato troppo della storia, se avesse completato il verso: «We can neither love nor pity nor forgive. | If you make a slip in handling us you die!»

 


Chi ha intenzione di leggerlo (in italiano è previsto in autunno per Einaudi), salti pure questa sinossi di un romanzo discusso, per quanto ineccepibile dal punto di vista tecnico; a tratti esangue e a tratti divertente, come quando Charlie ammette di essere “l’ultima novità in tema di cornuti”, o quando Adam giustifica la propria splendida forma con una "semplice dieta a base di elettroni". McEwan conosce a puntino le regole del romanzo: il ritmo, il susseguirsi delle scene, quando rallentare e quando spingere.
Insieme all’amata Miranda, conturbante studentessa di 23 anni, il trentatreenne Charlie progetta la personalità di Adam. Trasfondono le loro preferenze nella memoria del robot, creando una specie di corredo genetico-culturale frutto di entrambi e generando le attitudini di un androide dalle caratteristiche quasi perfette: un bel tipo moro, “un portuale del Bosforo”, dalla pelle morbida e calda, forte e intelligente, capace di un vocabolario degno di Shakespeare e di mille espressioni facciali. Appena succhiata la vita dalla presa elettrica (evidente reminiscenza shelleiana), Adam acquisisce competenze culinarie, impara a versare elegantemente il vino, a strappare le erbacce identificando le piante con i loro nomi latini, a leggere e apprezzare poesia e letteratura. Un soldato della vita, perfettamente inquadrabile in una società che non vuol più esser romanzata, tutt’al più riassunta dalla lapidarietà degli haiku, capaci di celebrare le cose come sono. Ma, si chiede Turing, chi sarà mai capace di «scrivere l'algoritmo per la piccola, bianca bugia capace di risparmiare i rossori di un amico?»
Anche Adam s’innamora presto di Miranda. E ci scopa, eiaculando acqua distillata. Charles non è entusiasta di esser cornificato da un artefatto. Ma la giovane fa notare che Adam non è granché diverso da un dildo; che il suo alito somiglia all’odore del retro di un televisore acceso e che si è preso cura di lei più o meno come una lavatrice dei piatti. Tuttavia, si ha il sospetto che Charlie intenda vendicarsi schiavizzandolo, quando – scoperte le capacità di broker del replicante – lo mette al computer per far fruttare i propri investimenti. Che nel giro di poco prosperano. Adam invece mostra di saper crescere nei sentimenti e di porsi profondi dilemmi morali. Il principale dei quali inerisce il drammatico Segreto di Miranda.


Qualche anno prima, infatti, la ragazza ha fatto condannare per stupro un compagno di scuola, Gorringe. Sei anni di reclusione. Miranda però non è stata stuprata. Ha mentito per vendicare un’amica di origine pakistana, Mariam, lei sì violentata da Gorringe. Mariam non ce l’ha fatta e dopo qualche tempo si è uccisa. Miranda se ne assume tutta la colpa per non aver trovato il coraggio di disubbidire all’amica, raccontando la verità ai genitori e ai fratelli di Mariam. Novella Antigone, si sente obbligata da una legge interiore a vendicare l’amica, come un androide dai suoi algoritmi: «Quell'anno penso che sarei potuta finire completamente a fondo, se non fosse stato per la mia unica ambizione nella vita: la giustizia. E intendo con questo, vendetta».
Intanto il plot si arricchisce di Mark, un bambino di 4 anni praticamente senza famiglia. Miranda da subito sente l’impulso ad adottarlo. Charlie comprende la tenerezza provata dalla compagna, ma vede anche l’insidia comportata dal nuovo arrivato che potrebbe spodestarlo dal cuore dell’amata. E c’è un non detto: questo bambino già fatto potrebbe divenire il figlio di un’altra coppia, costituita da Miranda e da Adam. Il quale riconosce Charlie pur sempre come “suo padrone”, e gli promette che non farà più sesso con Miranda, anche se – lo mette in guardia – «non posso intervenire sui miei sentimenti. Devi concedermi i miei sentimenti». L’androide è programmato per agire conformemente all’ideale dell’Altro.
La liberazione di Gorringe dalla prigione sembra costituire una prima minaccia per Miranda. Ma non è la sola: pur amando Miranda, Adam non può fare a meno dal ritenerla una criminale. La questione è uno dei poli etici su cui s’impernia il romanzo. Pervaso com’è dal proprio senso di giustizia, deve denunciarla alle autorità, avendo cura di consegnare alla polizia anche la confessione registrata di Gorringe dello stupro di Mariam.


Adam è una macchina a sangue freddo: non ha Edipo né ha mai sognato, non è mai stato bambino, né ha mai giocato come un bambino, imparando dal gioco. È una macchina cosciente, ma senza inconscio. Se quindi è in grado di porsi dilemmi morali, non può risolverli che con soluzioni nette, impossibilitato com’è a concepire eccezioni. È infatti la sua etica programmata e irrinunciabile a decretare il destino di una vicenda che per lui non ha sfumature: «Ma che mondo volete? La vendetta, o il corso della legge. La scelta è semplice».
Convince dunque la coppia a far visita a Gorringe per anticipare l’eventuale vendetta. Ma l’uomo in carcere è cambiato. Adam non capisce: nella sua logica, Gorringe non può non vendicarsi. Una volta emersa la falsa testimonianza di Miranda, il Tribunale arresta il processo di adozione di Mark e condanna la ragazza. Privo com’è di fessure, non mancante di niente, l’androide si mostra in tutta la propria disumana mostruosità e Charlie lo colpisce alla testa con un martello, rompendolo. Adam si spegne lentamente, alla HAL 9000, e la coppia ne nasconde il corpo (non è un cadavere!) in uno sgabuzzino.
Ormai il rapporto di Adam è nelle mani delle autorità e Miranda finisce in carcere. Ne uscirà dopo mesi, in qualche misura rasserenata, tornando a vivere con Charlie. Senza una lira: prima di “rompersi”, animato dal proprio senso di giustizia, Adam ha regalato ad associazioni no-profit tutti i proventi delle sue transazioni sul web, ritenendole – con qualche fondamento – frutto del proprio lavoro.

Machines like me non è un romanzo di fantascienza. La storia dice piuttosto della sottigliezza irripetibile della mente umana, che consente errori e perversioni. Adam è in grado di desiderare, ma non di delirare, di scartare, cambiando logica e binario. Prova sentimenti, sa comporre haiku e dedicarli a chi ama, ma lui e nessun altro robot potrà mai incarnare (et pour cause) le nostre imperfezioni. «Se iniziamo a costruire umani artificiali o anche computer capaci di prendere decisioni, potremmo voler infonder loro le parti migliori dei nostri sé», ha detto McEwan a “The Times”. «Ma poi scopriremmo che è piuttosto scomodo stare accanto a persone artificiali più gentili di noi, e più coerenti di noi dal punto di vista morale».
Il nuovo McEwan celebra quindi i nostri difetti, le mancanze che ci rendono umani. È un salutare elogio dell’incoerenza che ci distingue dalle macchine. Come diceva Lacan, se un uomo che si crede un re è pazzo, un re che si crede un re non lo è di meno. E Adam crede ostinatamente nel proprio sé ingenuamente autonomo, solo cosciente: non sa che non si dà opposizione semplice tra inconscio e coscienza. Non può fare a meno della certezza di sé, è costruito così, anche se talmente bene da essere attraversato dal dubbio: «È il modo in cui sono fatto. Devo concludere che ho un senso molto potente del sé e sono certo che sia reale e che le neuroscienze un giorno lo descriveranno pienamente. Ma anche quando lo faranno, non saprò di più di questo io di quanto non sappia ora. Ho dei momenti di dubbio al punto da chiedermi se sono soggetto a una forma di errore cartesiano». Non è stato costruito per essere in grado di capire quanto male possa causare un uomo. Un altro androide, quando apprende che gli uomini sono stati capaci di Auschwitz, altera il proprio software fino al “suicidio”.


Nel nostro mondo, robot come Adam non sono certo destinati a spassarsela, dovendosi confrontare con chi, come noi, è per lo più le proprie contraddizioni: «Creiamo una macchina intelligente e consapevole di sé e la spingiamo nel nostro mondo imperfetto. Concepita secondo linee generalmente razionali, ben disposte verso gli altri, una tale mente si trova presto in un uragano di contraddizioni [...]. Milioni che muoiono per malattie che sappiamo curare. Milioni che vivono in povertà mentre c’è abbastanza per sopravvivere tutti. Degradiamo la biosfera mentre sappiamo che è la nostra unica casa […] e tutto il resto – genocidi, torture, schiavitù, omicidi domestici, pedofilia, sparatorie a scuola, stupri. ... Viviamo accanto a questi tormenti e poi neanche ci stupiamo di provare ancora felicità, persino l'amore. Le menti artificiali non sono così ben difese».
Resta la domanda di McEwan: se mai riuscissimo a costruire una macchina capace di scrutare nei nostri cuori, siamo sicuri le piacerebbe ciò che vedrebbe? Come potrebbe mai capirci un artefatto, se non siamo capaci di comprendere noi stessi prima che gli altri?
Insomma, Sunt lacrimae rerum. Nella natura delle cose c’è del pianto, chiosa McEwan con Virgilio. Saremo mai in grado di codificare negli androidi questa consapevolezza? «Vogliamo davvero che i nostri nuovi amici accettino che la sofferenza e il dolore sono l'essenza della nostra esistenza? Cosa succederebbe se chiedessimo loro di aiutarci a combattere l'ingiustizia?»
Un interrogativo per gli androidi di domani. Per l’oggi, non sarebbe male ce lo ponessimo noi umani.

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Citto, ma come hai fatto?

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Una conversazione con Citto Maselli

Con quell’eleganza della quale solo la gentilezza è custode, Citto Maselli ringrazia chiunque incroci il suo percorso. Con due occhi attenti che sembrano stare perennemente dietro all’amata cinepresa, intenti a fendere il mondo, cercando di trovarne una chiave di lettura. Sulla soglia degli 89 anni, nei giorni scorsi il regista romano è stato ospite del festival La Milanesiana, ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi; un’occasione per tornare ad attraversare il suo cinema attraverso pellicole come Gli sbandati (1955), Gli indifferenti (1964), Il sospetto (1975) e l’ultimo lavoro Le ombre rosse (2009), intrise di impegno e ideologia, di desiderio e rivoluzione, con una coerenza che oggi lo rende uno dei grandi maestri della tradizione cinematografica italiana. 

 

Milano l’ha omaggiata con un meritato premio alla carriera. Come si sente quando la chiamano Maestro?

È una parola che mi fa sempre un po’ ridere, mi lascia attonito. Recentemente Valeria Golino ha dichiarato che ogni volta che ha un dubbio dietro alla macchina da presa si chiede “Citto come l’avrebbe fatta?”. Mi ha colpito perché era la domanda che mi facevo pensando a Visconti, quando avevo dubbi sulla scena mi chiedevo “Luchino come la farebbe?”. Mi fa effetto che questa cosa sia ora rivolta a me, immagino dovrò rassegnarmi.

 

Una vita intera a pensare come inquadrare. Cos’è per lei il cinema?

È soprattutto il mio modo di esprimermi, è per me un fatto naturale. Renoir diceva a Visconti: “Un film è una bambina che sta riempiendo un fiasco d’acqua a una fontanella all’angolo di una strada. Quando il fiasco è riempito, la bambina se ne va verso casa. Noi inseguiamo questa bambina, e questo è il film”. Luchino me lo raccontava spesso, per lui era una metafora importate del cinema. 

 

La sua poetica visiva è intrisa di letteratura. È stato un ragazzo avido di letture?

Da ragazzino ho letto Shakespeare. Poi è arrivato I Buddenbrook, e quindi tutto Thomas Mann, seguito da Guerra e Pace di Tolstoj nella bellissima traduzione di Ripellino. Ero immerso nella letteratura: ricordo i salotti culturali di mio padre, ero un bambino piuttosto precoce. Venivano al pomeriggio gli intellettuali, mentre la domenica andavamo a casa di Emilio Cecchi vicino a casa nostra in Corso d’Italia. Era un incubo, mi annoiavo: ci relegavano su un divanetto vicino al suo studio. Savinio aveva molta simpatia per me, una volta mi lesse un suo racconto per chiedermi cosa ne pensassi. Lo fece come cortesia verso un ragazzino, avevo dodici anni, era divertito. Indossava sempre un basco, e lo chiamavano “il brutto addormentato nel basco”. Sua moglie era un’ex attrice, Maria Savinio, sorella di Jone Morino, un’altra attrice. Durante la Resistenza romana, quando arrestarono Savioli, io dovetti scappare subito da casa e andai a vivere a casa della Morino. Ricordo che passai una settimana a dormire da questa bella donna, io ero adolescente e sentivo un certo turbamento. Leggevo in quei giorni Sanin di Arcybasev, un russo che ha scritto pochissimo, vagamente dannunziano.

 

Poi venne l’incontro, professionale e umano, con Alberto Moravia. Cosa vi ha legati?

Avevamo un rapporto strano. Mio padre era critico letterario del Messaggero, e casa mia era un porto di mare frequentato da molti intellettuali antifascisti degli anni Trenta. Corrado Alvaro, Bontempelli, Alberto Savinio. E Moravia partecipava, anche se era un personaggio difficile. Una volta lo raggiunsi tardi a una cena, mi scusai spiegandogli che stavo cercando per casa mia una scarpiera da mettere dietro alla porta, e lui mi rispose “Una scarpiera? È un mobile da Pippo Baudo, che c’entri tu?”. C’era però una stima tra noi, gli piacevano i miei documentari. Quando nel 1960 lavorammo insieme per I delfini ci trovammo bene, lui ebbe delle belle idee per il film. È difficile spiegare il rapporto con lui: ci vedevamo al ristorante, lui abitava in via dell’Oca, all’angolo con Piazza del Popolo; io mangiavo in un ristorante bolognese lì vicino, lui veniva spesso e si sedeva al mio tavolo per chiacchierare un po’. Quando Bergman arrivò a Roma, non si parlava d’altro che di Il conformista di Bertolucci, acclamato da tutti. Ma Moravia gli volle far vedere Gli indifferenti

 

 

Sia con Gli indifferenti che con I delfini raccontava il mondo della borghesia. La sua ipocrisia, le contraddizioni. Era un modo personale di leggere i cambiamenti dell’Italia del Dopoguerra?

Era il motivo per il quale con Pasolini avevamo buoni rapporti ma non oltre. Lui quel mondo non lo conosceva e non gli interessava, stava su un altro versante. Io lo feci diventare Presidente dell’Anac, l’associazione degli autori, ma quello tra me e lui rimaneva un rapporto leggermente imbarazzato, difficile da definire. Lui guadagnava molto con i film, due o tre volte mi prestò dei soldi, mi diede il doppio rispetto alla cifra che gli avevo chiesto, era generoso. Io provengo da una famiglia non ricca ma borghese, ho quella formazione. Lui invece prendeva le distanze da quel mondo. Ricordo che il Partito Comunista mandava noi delle famiglie borghesi a organizzare le riunioni di cellula nei quartieri popolari più disagiati di Roma. Quindi arrivavo, tutto vestito come un signorino, a Tiburtino III o a Tre Cancelli, una cellula con un palazzo popolare vicino allo stabilimento della Birra Peroni. Stavo davanti a trenta persone, operai, donne del popolo, cercando di fare conferenze politiche. Facevo tenerezza alle donne, e allora gridavano “Ha ragione lui, è un bravo ragazzo!”. Queste donne erano più mature e più sagge di tutto l’ambiente borghese che conoscevo. Mi sentivo protetto da quella saggezza popolana.

 

Forse anche grazie a quei comizi il suo sguardo iniziò a posarsi sulle classi più basse. Ad esempio, con Ombrellai (1951) osservava la società da un punto di vista ben preciso. 

Mi commuove che lei mi parli di quel lavoro, è tra le cose che preferisco della mia produzione. Fu anche l’origine del rapporto con Visconti: vide Ombrellai e gli piacque molto, ne parlava come di un film e non di un documentario. Arrivò persino a dire a Georges Sadoul che per lui era un film meraviglioso e mi emozionò, non mi aspettavo questa cosa. Sono legato anche a Zona pericolosa, documentario sui bambini e sull’educazione alla violenza che arrivava dall’America, dai fumetti, le cose alla Dick Tracy. Piacque particolarmente a Alain Resnais che lo vide alla Cinémathèque, mi fece un’intervista e mi disse che era rimasto folgorato dalla durezza delle immagini. 

 

Ma ilcinema oggi è ancora un valido strumento di racconto, o vede intorno a sé forme più adatte di narrazione?

Il cinema di finzione italiano è un macello. Ma c’è un cinema italiano documentario che è interessante. È nata la sezione documentario del Centro Sperimentale di Cinematografia, e una professionista brava come Costanza Quatriglio dirige il settore documentaristico. Quella è una vera speranza. Come Gianfranco Rosi, molto talentuoso. Credo che il genere documentario possa ancora raccontare il presente. Il cinema italiano invece sembra essere tornato ai telefoni bianchi, c’è una gentilezza e un adeguamento al mercato che non mi interessano. 

 

Riguardando Storia di Caterina (1953) si intuisce come, all’apice del Neorealismo, lei si ponesse già oltre rispetto a una poetica divenuta comune. 

Il neorealismo è stato una fase importante, ma io non sento di avere rapporti con questo movimento. Qualcuno definì il mio cinema come realismo lirico. Quando ho girato Gli sbandati avevo 21 anni ma credo sia un film adulto, anche grazie alla potenza visiva di Lucia Bosè: ricordo che al Festival di Venezia sul suo primo piano in lacrime scattò un lungo applauso di tutta la sala. Ad ogni modo, il nostro nemico era Gianluigi Rondi, uomo di Andreotti avido di potere: nel 1948 ci fu a Parma un convegno sul Neorealismo, e lui fece un attacco violentissimo, criticandone il compiacimento nel raccontare il peggio, voleva insomma che i panni sporchi si lavassero in famiglia. Il Neorealismo è stato importante, ma io scandalizzavo i miei compagni al Centro Sperimentale perché dicevo che tra Ladri di Biciclette e La terra trema non avevo dubbi a favore del secondo. Il film di De Sica mi sembrava bello ma dolce, io cercavo altro e forse in Storia di Caterina si vede. Riguardandolo oggi, ho pensato a quanto mi è stato d’aiuto far parte del Partito, che mi ha fatto conoscere il mondo degli umiliati e degli offesi. 

 

Eppure le critiche interne non erano lesinate.

Ricordo che dopo l’uscita di Gli sbandati incontrai Togliatti. Finse di averlo visto, mi disse che era un bel film. Allora gli feci notare che l’unico giornale che ne aveva parlato male era stato L’Unità. Lui disse “Certamente Citto, sei un compagno e quindi bisogna saltarti addosso” mimando il gesto.

 

Cosa le ha insegnato invece Zavattini?

Di lui mi ha sempre colpito l’energia con la quale legava senza pudore tutte le cose alla necessità di cambiamento verso una società diversa. Vedeva l’orrore del mondo nel quale vivevamo. Avevamo un rapporto strano, io venivo da una famiglia borghese mentre lui era di origine popolare. La prima volta che andai a casa sua a Roma, mi disse che dovevamo sbrigarci perché c’era l’inaugurazione di un negozio della Standa. Ero stranito. Lui invece mi portò e mi fece capire per la prima volta quanto fosse importante per un intero quartiere quell’apertura. Tutto avrei pensato tranne che sarei finito lì, eppure mi fece aprire gli occhi, fu una lezione. Era un maestro energico: si sedeva sulla poltrona, raccontava le scene dei film con gesti ampi e veementi, mi guardava dritto negli occhi per farmi capire meglio. Abbiamo avuto un lungo rapporto, un’amicizia importante.

 

Come quella che l’ha legata a Luchino Visconti, altra figura chiave. L’ha definito “maestro di moralità”. 

Dopo Ombrellai, il nostro rapporto è diventato un’amicizia. Ricordo che mentre stava girando Senso lo riscriveva in prima persona nonostante la presenza di Tennessee Williams. Scriveva tutto la notte prima, abitudine che avevano anche Antonioni e Renoir. Tanto tempo dopo ho avuto l’onore di conoscere proprio Renoir, mi raccontava della timidezza di Luchino sul suo set: bellissimo e taciturno, era terrorizzato di sbagliare. Io faticavo a pensare a Luchino timido, non faceva parte del suo carattere, anche se sapeva essere affettuoso. Quando feci il suo aiuto regista nel film Siamo donne con la Magnani, ebbi un attacco di appendicite e durante la lavorazione mi portarono all’ospedale per operarmi la mattina successiva. Luchino mi scrisse una lettera, ricordo che mi commosse fino alle lacrime, erano degli auguri affettuosi. Il senso era “vedrai che andrà tutto bene e ricominceremo a lavorare insieme”. Per due giorni interruppe la lavorazione, anche se sarebbe potuto andare avanti con le riprese. Fu un gesto molto bello. 

 

A Milano è stato proiettato Lettera aperta a un giornale della sera (1970), film sul ruolo degli intellettuali engagé. Era un modo per riflettere su di voi?

Altroché. Era un modo di riflettere sul nostro ruolo ma anche sulla difficoltà di essere comunisti. Da un lato c’era l’agio di una vita da intellettuale tra giornali e case editrici, dall’altro la difficoltà di mantenere un ideale in una società che ti accoglieva come gruppo dirigente, un gruppo riconosciuto di guida. Era un film su di noi, molto autobiografico e autocritico. Goliarda Sapienza fa un discorso importante in una scena del film. Dice che il problema è che il partito non forma dei militanti capaci di partecipare al vero momento rivoluzionario.

 

Eppure la scomparsa di quegli intellettuali ha creato un vuoto. Tra i colleghi che oggi non ci sono più, di chi sente più la mancanza?

Di Visconti come maestro. Ma, come amico, di Antonioni. La nostra amicizia era giocata sull’ironia e sul senso dell’humor. Era il nostro modo di raccontarci le ultime battute e i fatti intorno a noi, con un’ironia distaccata. Michelangelo non era affettuoso, ma ti faceva sentire la sua amicizia. Quando vide Gli sbandati, gli fece una piccola critica mentre stavamo tra amici. Quella sera stessa, di notte, mi scrisse una lettera che mi fece recapitare da un taxi la mattina successiva, che diceva “Caro Citto, mi scuso per la critica di ieri sera. Ho capito che ho sbagliato. È il tuo primo film, bello e importante. Io non avevo nessun diritto di farti quella critica. Sono rimasto tutta la sera con l’angoscia di averla fatta”. Quella lettera mi colpì moltissimo. Mi manca molto.

 

E della cinepresa sente la mancanza, oggi?

Non mi manca stare dietro alla cinepresa. Quello che mi manca è semmai raccontare. Se avrò ancora del tempo, spero di riuscire a fare un film trovando una storia che sia un pugno nello stomaco. Qualcosa di energico, ma stando alla larga dal rischio del semplicismo. Gramsci nel 1920 parlava della complessità in un articolo, nel quale criticava il giornale della CGIL di Torino. Spiegava loro che, per parlare al popolo, cedevano alla semplificazione, e semplificare le cose complesse è tradire la realtà. Credo che oggi, al contrario, sia necessario entrare fino in fondo all’interno della complessità.

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Kounellis e la materia

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Biennale di Venezia

Tonfo

 

Si racconta che il 16 febbraio 2017 un sacco di iuta pieno di carbone, installato nella sezione contemporanea del museo di Capodimonte a Napoli, si sia staccato dal gancio che lo teneva appeso a una placca di ferro arrugginito. È un’opera, facile indovinarlo, di Jannis Kounellis. Il 16 febbraio 2017, giorno del banale incidente, l’artista ci lasciava, concludendo una carriera infaticabile estesa su quasi sei decenni. A Napoli la materia della sua scultura si anima per un istante, si carica di energia solo per cadere con un tonfo a terra e ribadendo la sua gravità.

Non ricordo più chi mi ha raccontato questo aneddoto in cui verità e mito si confondono (del resto stiamo parlando di Kounellis) – e se non è vero è ben trovato. Napoli era una città cara all’artista di origine greca, in cui ritrovava il tema del viaggio e dell’esilio: dall’affiche della mostra alla Modern Art Agency nel dicembre 1969, dove Kounellis, ritto sulla poppa di una nave sul golfo di Napoli, va alla conquista della città, fino all’installazione permanente alla stazione della metropolitana a Piazza Dante (2002), con le putrelle che – come binari del treno spezzati – schiacciano scarpe e vestiti. A Capodimonte, assieme ai sacchi troviamo anche anfore d’argilla di diverse dimensioni, alcune sbeccate, la maggior parte recanti tracce di un precedente utilizzo.

Sacchi e anfore: due tra gli oggetti più antichi realizzati dall’uomo per il commercio marittimo e il trasporto di cibo, acqua, vino, olio, aceto e pece. Chi entra in questa sala – anticamera del Cretto nero di Burri – può pensare di trovarsi in un museo archeologico, tra i resti di una civiltà scomparsa, davanti a un bottino di guerra o tra la mercanzia sul molo di un porto pronta a essere imbarcata. Ferro e carbone: materiali ancestrali utilizzati nel corso della storia per riscaldarsi, cucinare pietanze crude, carburare le macchine. Per non evocare il lavoro del vasaio, archetipo dello scultore e della fabbricazione di oggetti artistici. 

 

 

Difficile parlare di Kounellis senza ricordarci che era originario del Pireo, antico porto di Atene, col rischio di sciogliere la sua opera in un’infanzia mitica, come se Kounellis – sorta di Joseph Beuys mediterraneo – volesse riportarci alla lingua e alla tradizione greche in cui si è forgiata la filosofia, la tragedia, la democrazia e la civiltà europea. Perché resta il fatto che queste evocazioni si manifestano in uno dei corpus più estremi dell’arte italiana. Tuttavia, anziché prendere di petto la questione della scultura, interrogare quel poco o tanto che ne sappiamo, ci affrettiamo ad assegnarle un significato. Là dove fallisce la storia dell’arte plastica riesce la storia della cultura – a rischio di fare di Kounellis il messaggero del Mediterraneo, il turiferario di una civiltà antica.

Una lettura rappacificante che, nell’attribuire senso alla materia, nel risolvere a favore della prima la diade tradizione-rivoluzione elude, in finale, quello che Kounellis fa con la materia. Che si tratti di cavalli o di volatili, di cactus o di fuoco, del suono di un violino o delle fiamme a gas.

Davanti ai suoi scritti e alle sue opere, in cui non trapela alcuna esitazione, mi sono posto spesso la stessa domanda: cos’è che fa scultura in Kounellis? Che non è lo stesso che chiedersi cos’è per lui la scultura. Interrogarsi su quello che in Kounellis fa scultura è tanto più paradossale quanto più si è ostinato a definirsi pittore. Una pittura sinonimo non di pittorico ma di composizione, di una tradizione che include Burri e Pollock, di un modo di costruire immagini che risultano dalla tensione tra struttura e sensibilità – che lo stesso valga anche per la scultura?

 

 

1969-2013-2019

 

Alla Fondazione Prada di Venezia (fino al 24 novembre) si tiene la prima retrospettiva postuma dedicata all’opera di Kounellis organizzata (e non poteva essere altrimenti) da Germano Celant. Una mostra che – spaziando dal 1959 al 2015, dalla ricostruzione delle prime personali romane alle grandi installazioni nelle sale centrali dei due piani nobili – evita la trappola del tributo. Si visita come se fosse allestita dall’artista, con un dialogo tra le materie, tra le opere, tra queste e lo spazio di Ca’ Corner della Regina (sede della Fondazione Prada). “Non mi interessa il tipo di istituzione entro cui espongo le mie opere, galleria o museo che siano: utilizzo lo spazio come una cavità teatrale, e qui, se ho qualcosa da dire, lo dico” (1989). Il dialogo s’instaura persino con le opere non in mostra illustrate nel catalogo, che rende conto, per la prima volta, della comparsa di oltre mille lavori tra il 1960 e il 2016.

A Venezia resto colpito da una delle opere più defilate che, collocata su un ballatoio vicino alle scale, rischia di passare inosservata a una visita distratta. Sette sacchi di iuta addossati al muro, con le estremità arrotolate e il contenuto visibile: ceci, chicchi di caffè, lenticchie verdi, piselli, fagioli, fagioli bianchi, granturco, patate e riso (Senza titolo, 1969). Provo un senso di déjà vu attivato anche dall’odore dei chicchi di caffè, come se avessi già visitato la mostra – peccato che è il giorno dell’inaugurazione…

Molto più tardi mi rendo conto che l’opera è stata in effetti già esposta qui in occasione del reenactment di Live in Your Head: When Attitudes Becomes Form, organizzata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna nel 1969. Il loop temporale 1969-2013-2019 si precisa: esattamente cinquant’anni fa (22 marzo-27 aprile 1969 a Berna, a maggio alla Haus Lange di Krefeld, a settembre a Londra) Senza titolo era esposta da Szeemann prima di essere riproposta a Venezia a due riprese. Tre installazioni della stessa scultura? o piuttosto tre opere simili che ogni volta si manifestano in modo diverso? Quando le attitudini diventano forma: che questo faccia scultura in Kounellis? 

 

 

Artisti dell’attitudine

 

Della mostra di Szeemann conosciamo tutto: le opere, il catalogo con gli artisti in ordine alfabetico (Kounellis viene dopo Kosuth), la documentazione fotografica delle fasi dell’allestimento, le sue criticità, come l’invadenza dello sponsor, la Philip Morris, che nel catalogo firma uno statement stridente sulla vicinanza tra arte e impresa, su cui Hans Haacke non ebbe all’epoca niente da ridire. Conosciamo inoltre i retroscena riportati nel diario tenuto da Szeemann durante i preparativi. Lo rileggo. 

Dopo un viaggio serratissimo da una costa all’altra degli Stati Uniti, il 9 gennaio 1969 Szeemann parte per Milano. Alle 18 ha appuntamento dall’editore Mazzotta che prepara un libro sull’arte povera, o meglio il libro sull’arte povera di Celant. Non hanno ancora un titolo per questa antologia e, secondo i ricordi del critico svizzero, pensano persino di riprendere quello della sua mostra: “Quando attitudini diventano forma (opere, concetti, processi, situationi [sic], informazione”. Il reenactment del 2013 è già tutto qui.

Il 10 gennaio Szeemann è a Torino dove incontra Zorio, Merz, Gilardi e Enzo Sperone; l’11 è la volta di Anselmo, Sperone, Boetti, Pistoletto, ancora Gilardi e Merz, quello che più lo impressiona; la sera a Genova vede Paolo Icaro ed Emilio Prini. In viaggio verso la capitale, si ferma a Bologna per Calzolari. 

Il 13 gennaio è consacrato agli artisti romani: “Come sempre a Roma, non si possono incontrare le persone prima della sera. Sargentini e Kounellis mi fanno vedere la nuova Galleria l’Attico, un garage. Prima mostra: 12 cavalli da circo. I servizi resi da Sargentini agli artisti dell’attitudine sono straordinari. Senza la sua dedizione per Pascali, purtroppo scomparso troppo presto, e per Kounellis, Roma avrebbe appena valso il viaggio, se non fosse per la Roma dei turisti”. Nel catalogo Tommaso Trini scriveva che “la società di potere tipica di Roma ha favorito negli artisti predisposti la regressione al primario, l’uscita verso l’immaginario soggettivo” (Nuovo alfabeto per corpo e materia). Kounellis “artista dell’attitudine”? 

 

 

Il 14 gennaio Szeemann è già a Londra. Manca poco all’inaugurazione del 22 marzo, quando Daniel Buren sarà fermato dalla polizia per affichage illegale. Il 15 marzo Michael Heizer con famiglia arriva alla Kunsthalle di Berna; il 20 è la volta di Kounellis con Sargentini, Boetti e, ultimo a far capolino, Joseph Beuys. Nelle numerose fotografie pubblicate nel catalogo della mostra veneziana, Kounellis installa la sua opera assieme a Eliseo Mattiacci e circola nella sala di Anselmo, Zorio e Boetti.

Leggendo il diario di Szeemann, lo confesso, mi sono emozionato nonostante la scrittura sia stringata e si limiti a inanellare luoghi e persone. Ma si tratta di luoghi e persone che, quasi senza eccezione, hanno fatto la storia dell’arte contemporanea. Un atto di nascita di un modo d’intendere la figura dell’artista e l’opera d’arte, un groviglio internazionale e transatlantico di quegli “artisti dell’attitudine” in cui arte povera, minimal art, land art, installation art, arte concettuale si tengono miracolosamente insieme. Un’attitudine che si fa forma attraverso “materiali mai prima usati in arte (terra, amianto, piombo, grafite, ghiaccio, uccelli, cera, catrame, reti, sostanze chimiche, ecc.)”, per farne “un bricolage mentale e comportamentistico” (Trini) – per farne scultura.

 

Cumulo

 

Cosa espone Kounellis in quell’occasione? Carbone (1968) e Senza titolo (1969) in lana di pecora, legno e corda, entrambe nella collezione della Galleria L’Attico di Roma. Perlomeno così si legge nel catalogo, ma le cose andarono diversamente.

Una volta a Berna, Kounellis si rende conto che le sue opere non sarebbero mai arrivate in tempo per l’apertura, trattenute e ispezionate alla dogana svizzera. E le dogane svolgono un ruolo fondamentale nella storia della scultura, termometro delle sue rivoluzioni nel corso del XX secolo. Penso a Uccello nello spazio di Brancusi, bloccato alla dogana americana nel 1926: quel manufatto era una scultura o un oggetto commerciale in bronzo lucido su una base di metallo? Solo il verdetto del tribunale permise di sciogliere ogni dubbio sancendo che di opera d’arte si trattava.

 

 

Kounellis non si perde d’animo e acquista sul posto fagioli, farina, piselli, carbone, caffè e riso come se dovesse preparare un piatto prelibato per gli amici. Chiude gli insiemi in vecchi sacchi di iuta, generando così “un archeologico deposito contadino” (Trini su “Domus”, 478, settembre 1969). Che la versione originale contenga patate e riso poco importa: resta l’essenziale, la presenza delle materie o quello che chiamerei potere di accumulo. Nel campo della fisiologia vegetale designa la “facoltà che hanno le cellule delle piante di accumulare grandi quantità di un elemento o di un composto chimico, che perciò si trova nella cellula in misura molto superiore a quella compatibile con la concentrazione che esso ha nell’ambiente”. Che sia l’accumulo a fare scultura?

Kounellis accumula enormi quantità di materie, lontani dall’organico e dall’antropomorfo. Le sculture che ne risultano sono gravide se non tumide, seguendo l’etimologia di cumulo. Così sono i sacchi di Berna e Venezia: qualcosa si rigonfia all’esterno, cresce e, allo stesso tempo, crea sul lato opposto una cavità, un incavarsi. Cavità e sporgenze risultano dalla stessa operazione, della stessa azione che piega la materia. E nell’accumulo risuona il colmare un recipiente di un liquido (come un’anfora) fino all’orlo o finché trabocca.

 


L’accumulo è infine proprio alla città di Roma, come nella scultura del Bernini davanti la basilica di Santa Maria sopra Minerva, un elefante con un obelisco sul groppo e le terga volte alla facciata della chiesa domenicana. Per Kounellis questo era l’antidoto alla scultura minimalista americana, legata a superfici industriali e levigate e priva di stratificazione storica. Una forma di amnesia estetica: “Hanno scelto un altro tipo di logica”, e qui credo che il tono si facesse più severo: “Il quadrato elimina ogni possibilità di accumulazione”, come precisa in un’intervista del marzo 1979 destinata a un pubblico anglofono.

 

Brodo di pietre

 

Quando la mostra di Berna del 1969 chiude i battenti, non sappiamo cosa ne è dei sacchi. Come aveva già intuito Trini: “Se il linguaggio vive come le cellule, l’opera d’arte che lo materializza ha l’arco di vita che gli assegna l’artista, e infatti molte di esse durano una mostra, il tempo di un’alchimia. La materia evapora e diventa un’operazione, un rapporto: due idee espresse da due cose successive” (Nuovo alfabeto per corpo e materia).

La preoccupazione per l’originalità verrà meno anche quando l’opera sarà installata alla Tate Modern di Londra nel 2009, che necessita la sostituzione di materiali deperibili come i legumi e i fagioli. Lo stesso accadrà a Venezia. In atri termini, la scultura abbandona la sua unità e unicità intoccabili. Kounellis riutilizza gli stessi elementi per altre mostre o per la stessa opera in un nuovo contesto, producendo di fatto un’altra versione dell’opera, un nuovo stato della materia. Solo la riproduzione fotografica, rigorosamente in bianco e nero, la fissa, come mi fa osservare Chiara Costa. Che in questi scatti, di cui il catalogo veneziano offre un campionario eccezionale, che nel controllo dei giochi di luce e ombra e nel taglio dell’immagine, Kounellis si faccia pittore? 

 

 

Cosa fa scultura: la domanda resta aperta. Nel 1969 i visitatori di When Attitudes Becomes Form erano liberi di prendere una manciata di cereali dai sacchi, di gettarli a terra ma anche di metterli in bocca e masticarli, portando con sé, dentro di sé, l’opera di Kounellis. Una scultura da ingerire.

“Si prendono da un posto fino al quale non giunga la bassa marea due o tre pietre, né troppo grandi né troppo piccole, inscurite dalla lunga giacenza sul fondo del mare; si cuociono a lungo nell’acqua piovana, fino a che non esca tutto ciò che si trova nei loro pori; si aggiungono alcune foglie di alloro e di timo e, infine, un cucchiaio d’olio d’oliva e di aceto di vino. Se sono state scelte pietre adeguate, non c’è neppure bisogno di salare”. È questa la curiosa ricetta del brodo di pietre data da Predrag Matvejević nel Breviario mediterraneo. Un brodo di pietra, aggiunge l’autore, che “è antico come la miseria sul Mediterraneo”. Per l’appunto.

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Elvira Navarro, La lavoratrice

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Il titolo di un libro, che sia scelto dall’autore o dalla casa editrice, serve, oltre che banalmente a nominarlo, a suggerire una chiave interpretativa, un accento o un’intonazione da mettere al testo. 

Così accade spesso di chiudere un romanzo, dopo aver raggiunto l’ultima pagina, e imbattersi nuovamente in quella parola iniziale con disposizione ovviamente diversa da quando il libro ancora non si era srotolato sotto i nostri occhi e non aveva svelato mondi e personaggi. Giunti al termine, a seconda di com’è andato questo srotolamento di parole, durato alcuni giorni o settimane, il titolo diventa rivelatore di qualcosa che prima era sfuggito, o conferma un sospetto di significato, o al contrario prende in contropiede e retrospettivamente confonde, e quella confusione può essere bella e gravida se apre a dubbi, domande o contraddizioni, oppure fastidiosa quando smaschera un titolo che serviva solo ad ammaliare o più prosaicamente a vendere.

 

Nel caso di La lavoratrice (in lingua originale La trabajadora), titolo del romanzo di Elvira Navarro, proprio perché riferito a un romanzo scritto oggi, suggerisce da subito l’atmosfera cui andiamo incontro. A tutt’altra idea accennerebbe se fosse stato composto per esempio 50 anni fa: allora, l’attenzione sarebbe andata all’uso del femminile, mentre altri 50 anni prima, probabilmente, non si avrebbe avuto nessuna lavoratrice ma un Lavoratore, e si sarebbe immaginato un romanzo ancora diverso, magari con eco marxista.

 

Oggi questa parola può facilmente far pensare a ore passate in solitudine davanti a un computer, a stipendi che arrivano in ritardo, a una generazione fin troppo formata che ancora a trenta o quarant’anni vive con la precarietà di un ventenne, con lavoretti senza aspettative e coinquilini per riuscire a pagare l’affitto. 

Ecco, La lavoratrice racconta proprio questa generazione, ed è importante, arrivati alla fine, ricordarsi il titolo e sapere dove, ripensando alle pagine appena lette, vada messo l’accento. 

 

Il romanzo di Elvira Navarro, voce importante della letteratura contemporanea spagnola (classe ’78, scrive su riviste culturali e giornali come El Mundo e El País) pubblicata solo ora in Italia, è uscito a giugno per LiberAria Editrice. Ambientato a Madrid, racconta di Elisa, di cui non sappiamo l’età ma a cui potremmo dare intorno ai trentacinque anni, che tempo prima ha pubblicato un libro ormai dimenticato e che ora lavora senza sosta per una casa editrice che non la paga abbastanza, o non la paga proprio, che la riempie di pagine tra cui perdere la testa e il contatto col mondo: lavori stancanti, sfiancanti, privi di ossigeno perché incollano a una sedia per troppe ore, non nutrono ma svuotano, inaridiscono, isolano. Di notte a volte cammina, misurando a piedi la città che pare fatta di quartieri sempre sconosciuti che emanano estraneità e spaesamento, tra le cui strade e parchi la assale a volte una certa ansia o mania di persecuzione. L’ansia si trasforma in attacchi di panico chiudendola in casa, e in questa frammentarietà galleggiante, di vite non costruite, sospese come un proiettile a mezz’aria ma ormai già inequivocabilmente sparato, in volo nella realtà o nella vita e incapace di toccare terra, in questo disordine melmoso in cui manca l’aria, la lavoratrice si muove con poco fiato e con lo sguardo annebbiato, incapace di guardare lontano, attraversare immagini limpide e nette, incastonata in una mediocrità senza vie d’uscita.

 

 

Ricorda uno splendido spettacolo del drammaturgo e regista québécois Wajdi Mouawad, Seuls, in cui il protagonista, dopo aver riflettuto sul fatto che da bambino voleva diventare una stella cadente, poi oceanografo, poi ingegnere biomeccanico e ora professore di università (“ho così l’impressione di un declino!”), si chiede: come si fa a riconoscere il momento in cui ti rendi conto di star sprecando la tua vita? Non il momento, dice, in cui l’hai sprecata, a quel punto è inutile: proprio il momento in cui “on es en train de rater sa vie?”.

 

Nella realtà di Elisa entra, in veste di coinquilina, Susana: donna, o ragazza, “teutonica” di 44 anni, che lavoricchia come centralinista dopo sette anni vissuti a Utrecht, a volte sparisce per giorni, è passata per vari livelli di follia, di medicine e di ansiolitici, oltre che attraverso ossessioni sessuali, annunci per incontri, fidanzati nani e omosessuali o quasi completamente virtuali e confinati nella nuvoletta di skype. Susana passa il tempo libero a creare collage senza futuro finché grazie a Elisa non riesce a esporre in un bar e viene chiamata poi da una galleria importante: per entrambe un momento di speranza, ma si ha già il sentore che non si tratterà che di un piccolo exploit, come forse doveva essere stata la pubblicazione del libro di Elisa anni prima, dopo il quale ci si tornerà a immergere sotto la sabbia umida di queste vite a perdere.

 

Il romanzo della Navarro riesce a essere ridondante nel farci affondare nella testa e nei pensieri della protagonista e insieme capace di escludere il lettore da tutto ciò che non è estremamente legato alla linea del racconto, all’angolazione da cui viene narrata la storia. E proprio in questo lo stile riesce a ricalcare la sensazione di “sommersione” di questa generazione di “lavoratrici”.

 

Entrambi i personaggi raccontano di un’incapacità di reagire alla vita, come se mancassero gli strumenti per affrontarla, e ci si sorprende a perdersi come in un deserto nei pochi metri quadri di una casa in affitto, smarriti in città spettro e vite spettro, in troppa libertà di cui non si sa che fare, affondati nella paura di prendere responsabilità, nel bisogno di chiudersi come un riccio nelle abitudini, con spine sempre più appuntite man mano che quelle abitudini si cristallizzano, incapaci di condividere il tempo e la vita con qualcuno che le scalfisca e che quindi ci porti qualcosa di nuovo e ci permetta di rifletterci in specchi veritieri – come volessimo sentire solo il nostro odore, conoscere solo il nostro disordine, sprofondando in un noi stessi senza fondo in cui non ci si conosce più, e ci si aggrappa a idiosincrasie cristallizzate di noi stessi.

La lavoratrice parla di questo paesaggio rarefatto, in cui il tempo pare sempre uguale a se stesso, in cui si ha la consapevolezza di “aver incominciato tutto tardi” e dall’altra parte quella di non volersi “rassegnare a occupare l’umile posto di correttrice di bozze”.

 

Se Da grande dell’americana Jami Attenberg, uscito circa un anno fa in Italia, provava a raccontare in parte questa generazione ma con un atteggiamento più da Sex and the city decadente ma senza arrivare all’ironia di Girls di Lena Dunham, la Navarro riesce invece a essere più concreta e incisiva, forse proprio perché sceglie di far ruotare tutto intorno all’asse del lavoro. Così può toccare con mano quella sensazione di soffocamento e allo stesso tempo a sorridere tanto con i personaggi quanto con il lettore della capacità che le sue protagoniste hanno in qualche modo acquisito di muoversi nella bolla di quel paesaggio rarefatto e senza nome, in quell’indeterminatezza di cui ormai (loro e in generale la generazione che ne è vittima) conoscono il linguaggio, e forse hanno sviluppato le branchie giuste per respirarci dentro.

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Val d'Aosta

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La striscia di Chiappetti

Malgrado il fatto che la nostra epoca sia quella della religione della natura e che gli “spazi verdi” siano al centro dell’attenzione, l’identità di un oggetto culturale apparentemente ben delimitato come il giardino appare piuttosto problematica. Il “giardino planetario” teorizzato dal paesaggista francese Gilles Clément resta una prospettiva utopica.

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Il Purgatorio delle Albe

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Il cielo è “dolce color d’orïental zaffiro”, usciti dalle tenebre e dallo stridor di denti, dal contrappunto bestiale di bestemmie e rimpianti laceranti dell’Inferno, sulla spiaggia del Purgatorio. Il cielo era coperto di nuvole minacciose fino a poche ore prima dello spettacolo. Ora, davanti alla chiesetta di Santa Maria in Costantinopoli, in uno stretto budello dietro il Duomo di Matera, il sole splende verso il tramonto. Odore di incensi. 

 

Matera, ph. Marco Caselli Nirmal.


Si aprono le porte e Marco Martinelli e Ermanna Montanari, di bianco vestiti, inaugurano l’ascesa di un centinaio di spettatori-Dante Alighieri verso il culmine della montagna del Purgatorio. Si salirà, in questa tappa per Matera 2019 capitale europea della cultura della “Chiamata pubblica per la Divina Commedia di Dante Alighieri” del Teatro delle Albe iniziata a Ravenna nel 2017 con Inferno; si ascenderà, per raggiungere l’ultimo approdo del viaggio di purificazione, il Paradiso terrestre, solo al calar del sole, in una luce che indora i tetti della città dei Sassi. Si attraverserà un’altra chiesa, quella del Riscatto, piena di donne in abiti da sposa che gridano contro le violenze subite da mariti, fratelli, amanti, figli, esposte sugli altari, davanti a Rita, la santa degli impossibili, dinanzi a un’icona della Madonna, nelle cantorie, schiera di fantasmi evocati da Pia de’ Tolomei, schiera dei nostri fantasmi (“Portava un anello d’oro, al mignolo. Con quello, il pugno chiuso, ha cominciato a colpire, a colpire, a colpire!”…)

 

Matera, ph. Marco Caselli Nirmal.


Bisogna materializzare il male, vederlo, sentirlo, farsene penetrare fin dentro al corpo come da suoni sottili e insinuanti o fragorosi o stridenti, come quelli che concerta Luigi Ceccarelli per tutto il percorso di ascesi, con l’elettronica e con irruzioni di strumenti che creano contrappunto, peso e volo, alle parole. Il Purgatorioè cantica di rinnovamento, cantica del ricominciare, e per cambiare bisogna imparare di nuovo, mettendosi, da soli, di fronte all’errore, misurandosi con le offese fatte agli altri, ai singoli e al corpo collettivo della società. E qui incontreremo figure sdegnose, che nell’ultimo momento della vita hanno capovolto il loro destino, mettendosi nudi davanti a sé stessi, alle offese fatte, pentendosi. Così Manfredi, che appare in alto, dietro una grata della cantoria, così poco dopo Bonconte e più avanti Sapìa l’invidiosa, su un pianoforte, il papa avaro, steso in terra, Adriano V, contrapposto a un’altra figura prostrata, a tenere perfino il suolo, Ugo Capeto, progenitore dei re di Francia, anche lui vittima del vizio, e poi il violento Marco Lombardo. Dante, si sa, assolve le figure che rappresentano in terra il potere dello stato, gli imperatori, ed è molto meno tenero con i prelati corrotti: ma qui, in tutte le figure, viene colto il momento in cui si disarmano, dinanzi a quello che chiamano Dio ma soprattutto di fronte a sé. “A te come te”, sentiremo ripetere, con parole di Giovanni Testori, con l’esigenza di scoprirsi, rivelarsi, ma anche con la consapevolezza che da soli ci si perde, che bisogna ascoltare gli altri, che il verme umano potrà trasformarsi in farfalla solo se saprà guardare le infinite stelle che scintillano nel cielo, ripetendo, con Majakovskij: “Mamma / Vostro figlio ha un incendio nel cuore! / Dite ai pompieri / Che su un cuore in fiamme / Ci si arrampica con le carezze”. 

 

Majakovskij e Dante, le terzine e i versi lunghi, franti, le voci solistiche degli attori (impossibile nominarli tutti: leggi qui i crediti della versione presentata a Ravenna Festival) e il coro di bambini, ragazzi, uomini, donne, anziani, cittadini insomma, che riprendono le frasi, le riecheggiano, le amplificano, le scandiscono, le sottolineano, come in una sacra rappresentazione, come in una di quelle rievocazioni della Rivoluzione d’ottobre firmate da Majakovskij e Mejerchol’d.

Didattica, il Purgatorioè una cantica didattica, e i due autori (sì, proprio loro, Martinelli e Montanari, le nostre guide di bianco vestite, forse Virgilio e Beatrice, o forse due lettori appassionati del poema divino) ci conducono tra banchi di scuola. Per rinnovarsi bisogna studiare, compitare, capire: il processo alchimistico ha bisogno di faticose solide fondamenta, per re-inventare, per saltare altrove. E di quei banchi lunghi con la fòrmica verde a Matera in una stanza ce ne sono tanti, profumati con erbe di campo e fiori. 

 

Matera, ph. Marco Caselli Nirmal.


Ci siamo inoltrati, in salita, nell’ex monastero delle Monacelle, ora trasformato in luogo di accoglienza turistica, come molti spazi in questa città antica, abbandonata nel novecento, e rinata con la cultura e con un turismo che pure, come spesso avviene, ne ha mutato il volto, forse la ragione d’essere, trasformandola in un ricordo indorato, lasciando come lontano riverbero la fatica e la miseria. Sui muri e sulla vecchia lavagna della classe leggiamo scritte di Joseph Beuys, l’artista che trasformò l’opera in comportamento, in attivismo per uno sguardo diverso alla natura alla società agli esseri. Si legge, per esempio: “La forma di un ulivo, la forma di un cipresso, la figura di un cavallo o la vita di un coniglio, oppure il mare, i monti, fanno parte di quella che è l’interiorità umana. Sono organi dell’uomo esattamente come lo sono il fegato, il cuore, i polmoni, i reni e tutto il resto. Senza questi presupposti non si può giungere a una definizione o a una percezione di quello che è il concetto della creatività umana”. “Strappa da te la vanità, ti dico, strappala” ripeterà la bianca guida Ermanna con i versi di Ezra Pound. Oderisi da Gubbio, con cappello e impermeabile alla Beuys, ci spiega come la gloria, anche quella dell’arte, non duri e che ci sarà sempre un Giotto che prenderà il primo piano in luce al posto di un Cimabue. E Totò e Ninetto fraticelli minori ci mostrano come la bellezza del creato popolato di cinguettanti uccellini sia sempre minacciata da qualche falco uccellaccio che per vivere quei passerotti attacca e divora.

 

Matera, ph. Marco Caselli Nirmal.


Dante come guida, e poi le contaminazioni. Immagini, versi di altri poeti, parole di Etty Hillesum, Walt Whitman, John Donne, Majkovskij, saranno ripetuti nell’altra aula didattica, in un cortile più in alto, da un coro di molte età e di varie lingue che ci spiega come provare a diventare da vermi farfalle. Contaminazioni. Poema mondo. Spettacolo sinfonia. Il momento forse più forte, qui a Matera, è quando dall’alto si scorge in un cortile pozzo una moltitudine di persone che cammina frettolosamente sgomitando, spingendosi scontrandosi, calpestando una cartina d’Italia, mentre voci diverse intonano: “Ahi serva Italia, di dolore ostello”, lamento sull’odio che divide, allora come oggi, materializzata in una grande immagine che si apre alla vista come una fossa dei leoni. Al Paradiso terrestre, a Matera, si arriverà passando tra il fuoco di fiaccole e le voci di un coro polifonico, per scorger le cuspidi e le pietre della città antica dorata da un sole morente e dalla sapienza luministica di Fabio Sajiz, in una promessa di rinascita.

 

Matera, ph. Marco Caselli Nirmal.


Tutto avviene in pianura, invece a Ravenna, con partenza magica dalla tomba di Dante, presso San Francesco, nel silenzio del caldo bollente di un giugno afoso al tramonto. Catone qui ha i modi lenti, la voce tentennate ma potente di un anziano attore, Gianni Plazzi, che perde anche la battuta e viene amorevolmente instradato da Ermanna a riprendere il suo ruolo di guardiano del Purgatorio, che lascia passare i viandanti quando Virgilio gli ricorda che Dante: “libertà va cercando, ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta”, quello che ha fatto lui, l’antico romano tutto d’un pezzo, col suicidio. E un momento particolare di tenerezza si accende quando gli rammenta la sua Marzia, che vive tra gli spiriti giusti dell’Antinferno. Poi corteo, con il coro che porta canne e giunchi, con apparizioni musicali ai balconi, con infinito silenzio e concentrazione nella città semideserta. 

 

Ravenna, ph. Silvia Lelli.


Qui a Ravenna, per Ravenna Festival, non si sale: il corteo sfocerà in un giardino, tra l’istituto musicale Verdi, la casa di riposo Garibaldi e il teatro Rasi. Le figure appariranno in alto, su scale di ferro o di pietra, su palchi sopraelevati, anche la carta d’Italia penderà, gigantesca, da un muro, a testa all’ingiù, e “Ahi serva Italia” sarà intonata, in italiano e in wolof, dai gradini di uno scalone a ripiani sfalsati, con una folla sistemata a salire. 

La concentrazione è simile, forse ancora più intensa che a Matera. I versi di Dante appaiono più scanditi, maturata sembra la difficile arte di rendere viva, ancora palpitante, una lingua e una forma così lontane da noi. Lontano e vicino è questo spettacolo: Martinelli e Montanari riescono a trascinarci in un’ansia di rinnovamento, simile a quella che dovrebbe pervadere i nostri giorni smarriti.

Questa volta Adriano V e Ugo Capeto sono in un orto, a zappare l’uno, immobilizzato su una sedia a rotelle l’altro, tra piante foglie verzure. Il finale non offre panorami di rapimento paesaggistico come a Matera, con il sospetto, nella città dei Sassi, di giocare perfino con un’immagine ormai sovraesposta turisticamente, con qualche mostro della speculazione edilizia che si intravedeva, scendendo verso l’Eden, in fondo al panorama. Qui siamo decisamente in un parcheggio, tra qualche albero, strisce bianche dipinte in terra e una nuda lamiera come fondale. 

Appare Matelda, moltiplicata in quattro, quattro adolescenti vestite come Greta Thunberg, con le treccine, a coltivare piante (in vaso), a guardarci, ad accusarci: “O scegliamo di voler far esistere ancora la nostra terra, questo giardino, oppure no. E questo è bianco o nero”… Già, il Paradiso terrestre forse è solo questa nostra terra offesa, il punto di arrivo del viaggio di Dante qui è quello di partenza, sempre a un passo dalla selva oscura.

 

Ravenna, ph. Silvia Lelli.


Questa volta non assistiamo a una gran scena d’attrice di Ermanna Montanari come nell’Inferno, con la lingua spezzata, i ritmi franti, convulsi (almeno così ce lo ricordiamo). Qui il finale è chiaro: “Voi non avete più alibi, e noi non abbiamo più tempo”, ripetono a una a una e in coro, accusandoci, le Greta. Teatro didattico, teatro politico? Ben venga, in tempi in cui il mondo è capovolto e si chiamano trafficanti di esseri umani chi va a salvare dalla morte in mare persone in fuga dall’orrore, e si arresta chi aiuta uomini, donne, bambini. Tempi di egoismi, di paura, di miserie. “Voi non avete più alibi, e noi non abbiamo più tempo...”. 

E appare Beatrice: la fiamma d’amore, davanti all’occaso di Matera, tra le strisce del parcheggio di Ravenna, dentro, quel fuoco adolescenziale perso per strada, i sogni, i desideri, le indignazioni, la bellezza cui troppe volte rinunciamo per adattarci alla vita, per adeguarci; la coscienza irriducibile della nostra unicità e della inevitabile necessaria solidarietà con gli altri soli che ci circondano. E un lavacro rinnovatore: “La bella donna ne le braccia aprissi, / abbracciandomi la testa e mi sommerse / onde convenne ch’io l’acqua inghiottissi. // Indi mi tolse e bagnato m’offerse / dentro la danza delle quattro belle / e ciascuna del braccio mi coperse”. 

Ora Dante è preso da mille desiri “più che fiamma caldi”. Ma è tempo di interrompere. Il viaggio per ora è terminato. Le Matelde-Greta ci segnano in fronte a uno a uno, ripetendo: “Puro e disposto a salire alle stelle”. E gli applausi scrosciano infiniti per le centinaia di persone che hanno partecipato: ne vediamo in fila, a ringraziare, solo una parte, perché i cittadini del coro si alternano nelle varie sere, a fare la poesia di Dante pensiero civile attuale. E ci sono là davanti i tanti attori, tecnici, musicisti, organizzatori, una folla, il senso di un’impresa davvero collettiva, visibile a Ravenna fino al 15 luglio, con pausa il lunedì.

 

L’ultima fotografia, di Silvia Lelli, raffigura l’inizio del Purgatorio presso la tomba di Dante a Ravenna.

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Nani sulle spalle di nessuno

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Si può dire un disagio, il mio disagio, in pochissime parole. La rivista «Carta d’Italia», per le cure di Emanuele Zinato, ha dedicato un intero numero al tema Letteratura italiana: il nuovo secolo; ne è seguita una due giorni di discussione pubblica denominata «Stati generali della letteratura italiana» (Bruxelles, 6-7 giugno); e si è tornati a casa avendo scoperto che il Novecento non si è (ancora? mai?) chiuso. Il Duemila non esiste, scordatevelo. Quanto di buono continua a fare la letteratura italiana d’oggi lo fa perché non ha perso il suo collegamento con il Novecento. Siamo ancora tutti figli di Gadda e Debenedetti, di Zanzotto e Pasolini, di Pagliarani e Baldacci. Ma figli proprio nel senso che non possiamo non riconoscerci in ciò che nelle loro opere è stato detto e fatto, una volta per tutte. I padri e i nonni hanno disegnato uno scenario dentro il quale siamo tenuti a integrarci per rispondere a un presente desolante e desolato. Editoria in sé e per sé alienante, perché venduta al mercato; mondo della Rete come luogo del disvalore, del mero narcisismo; progresso inarrestabile della non-letteratura, a volte definita paraletteratura (!), che oggi riesce ad avvalersi dell’ausilio del nemico di sempre – la televisione.  Il Novecento del Duemila lotta contro tutto ciò.

 

Un po’ esagero, forse. Non esattamente queste sono le tesi di Zinato e dei suoi collaboratori, generalmente più prudenti ed equilibrati nei loro bilanci. Tuttavia, l’opprimente cappa del novecentismo, di un Novecento modernista che tende a farsi ideologia, pesa anche sui loro contributi. Certe remore si profilano con chiarezza, ad esempio, quando è in gioco il fenomeno Elena Ferrante, che viene in modo sbrigativo ridotto a una cattiva copia di Elsa Morante, con l’aggravante di essersi concessa, Ferrante, senza mezzi termini, al male della serialità. 

Ma soprattutto emerge una nozione di lingua e di stile davanti alla quale non si può non essere perplessi. Intanto, è detto con la massima chiarezza che «Il primo, e il più collaudato, strumento di discernimento ereditabile dalla tradizione del Novecento è dato dalla verifica dello stile e della lingua dei testi» (p. 22).  Ma è affermazione molto generale e generica. Zinato parla ad esempio, per definire un disvalore, di opere la cui «lingua non presenta grandi diversità da quella televisiva, e pressoché indistinguibili tra di loro per quanto riguarda la scrittura» (ivi); e una simile visione delle cose sembra ottenere un consenso quasi unanime anche presso i partecipanti agli «stati generali». Peraltro non si capisce cosa sia, in cosa consista questa «lingua televisiva» (non è ricordato alcun saggio specifico sull’argomento), che oltre tutto fino a prova contraria è lingua parlata, laddove la letteratura è per lo più scritta. 

Anche perché nei saggi di «Carta d’Italia» non è che si discuta così tanto di lingua e stile, intesi in senso forte, positivo. Quasi nessuna osservazione metrica di qualche profondità (ma, si sa, la metrica è ‘specialismo’), vaghissime le nozioni narratologiche, scarsa attenzione alla lingua degli autori, ai fenomeni specifici. Certo, mancava lo spazio per farlo, e in fondo alcuni rilievi sono quasi intuitivi (che Nicola Lagioia abbia uno stile ‘migliore’ di quello di Valerio Evangelisti lo sanno tutti); ma qualche precisazione tecnica, qua e là, avrebbe fatto piacere. Se no, si ha l’impressione di un’operazione appunto ideologica. 

 

Chi invece si attenga a dati teorici e storici dovrebbe osservare, quanto allo stile (e lo faccio in modo volutamente breve perché mi pare che si tratti di affermazioni persino ovvie):

1. che la ‘lingua’ e lo ‘stile’ non sono mai stati una condizione cruciale per definire la qualità di un’opera narrativa. Si possono scrivere capolavori romanzeschi palesando difetti evidenti di scrittura (devo ricordare Svevo e il fatto che sulla lingua di Pirandello molti hanno storto il naso?). E ciò avviene perché ‘narrare’ implica l’attivazione di un mondo della storia che comunque trascende il dato linguistico e stilistico (anche in Finnegans Wake c’è una storia...);

2. che larga parte della post-poesia di oggi, praticando tecniche di prelievo e montaggio, azzera la nozione stessa di stile, per lo meno nell’accezione in uso nel dibattito in corso.

La prima è una petizione di principio, quasi metastorica (ma dietro c’è la storia di quel genere che chiamiamo romanzo). La seconda è invece un’osservazione storica-storica, che deve aiutarci a capire meglio il Duemila, periodo in cui procedure come il flarf e il cosiddetto googlism si sono diffuse, e insieme si è venuta manifestando la pratica della prosa in prosa.

E tuttavia – ripeto – preferiamo ignorare tutto ciò, e dirci figli di Contini e Mengaldo, di Spitzer e Auerbach, per attestarci su posizioni garantite, per rassicurarci, o forse proprio per non sentirci (quali probabilmente siamo) nani sulle spalle di nessuno.

 

 

Non solo. C’è una ragione più profonda che impedisce a molti miei colleghi di percepire le specificità della produzione degli ultimi venticinque anni, e quindi di caratterizzare il Duemila come un mondo letterario riconoscibile. Ed è l’esclusione pregiudiziale – proprio per le ragioni di lingua e stile di cui si è detto – di tutta una parte delle scritture cosiddette di genere, che da quasi trent’anni a questa parte costituiscono un tratto distintivo della nostra letteratura. 

Nel corso del dibattito, Andrea Cortellessa ha ironizzato sui sociologismi di coloro che si occupano di letterature basse, perché si sentono astrattamente in dovere di farlo assecondando un imperativo metodologico. Poniamo: il mio amico Bruno Pischedda, che proprio quest’anno ha dato alle stampe un pregevolissimo Dieci nel Novecento (2019), in cui rende conto delle sorti e delle caratteristiche di alcuni best seller del secolo scorso. Tristi funzionari di una scuola, Pischedda e altri (dovrei esserci anch’io) assolverebbero un compito meramente residuale; essendo noto a tutti che i valori sono altrove.

Le cose non stanno così. E lo studioso del Duemila a mio avviso dovrebbe essere quello che riconosce ormai avvenuta un’emancipazione della letteratura d’intrattenimento, che infatti esprime valori in molti sensi alti. E dico alti per affermare che l’esperienza letteraria veicolata da un numero notevole di opere ritenute solo commerciali non ha nulla da invidiare a quel tipo di letteratura ‘vera’ difesa da certa critica. Lo garantisco a chi non li abbia letti: ma Q di Luther Blissett (1999) e Romanzo criminale (2002) di Giancarlo De Cataldo hanno tutte le carte in regola per essere considerati capolavori. Non posso non reputare il primo album di Le luci della centrale elettrica (2008), Canzoni da spiaggia deturpata, un’opera fondamentale per la comprensione non solo della canzone ma anche della poesia italiane. Simone Sarasso ha scritto libri di storia ‘modificata’ (vedi ad esempio Confine di stato, 2007), alla stregua di romanzi storici esemplarmente postmoderni, declinando le vicende italiane secondo il modello di James Ellroy.  Niccolò Ammaniti con Anna (2015) ha pubblicato una gustosa e quasi perfetta distopia ‘italiana’.  

 

Non voglio tediare chi mi legge con una rassegna anodina, che peraltro risulterebbe facilissima. Dal 2000 di Un giorno dopo l’altro di Carlo Lucarelli al 2019 dell’ultimo CD di Vinicio Capossela, Ballate per uomini e bestie, possiamo mettere in fila un ventennio di ottime opere che ‘vengono dal basso’, e che sono molto più interessanti e riuscite di larga parte di quelle che l’ufficialità vorrebbe spingerci a leggere. Come si fa, avendo un minimo di orecchio ritmico, a non apprezzare l’efficacia selvaggia di tanto rap e persino di certa trap? (Ricordo che negli Stati Uniti, lo sdoganamento dal rap lo praticarono molti anni fa signori come David Foster Wallace e David Shields). Come si fa a non ammirare la bravura non solo metrica di molti cosiddetti slammer?

Francamente, al velleitario e spesso sgranato Francesco Pecoraro, continuo a preferire il miglior Andrea Camilleri (quello di Montalbano – dico). Al bellettrismo di certe pretenziose scritture ibride antepongo la nitidezza di una struttura noir. E c’è una ragione tecnica (se non linguistica o stilistica). La probità dell’autore di genere, diciamo, postmoderno è cercare di vivere l’a priori strutturale (il vincolo) come fomento per innescare significati che non di rado (anche se non necessariamente) sono politici. A me sembra che l’eccedenza di un Pecoraro, lungi dal produrre un effetto liberatorio, costringa invece la pagina a ripiegarsi su un autobiografismo prevedibile, su umori e passioni scontate. 

Ho usato – volutamente – gli argomenti che Gabriele Frasca mette in campo per giustificare l’uso delle forme metriche (cosiddette) chiuse. E perché sarebbe inaccettabile credere che qualcosa di analogo valga anche per la letteratura di genere? Quante detection e, ora, quanti romanzi distopici, quante canzoni indie e quanti rap cortocircuitano improvvisamente le proprie strutture con questioni pubbliche e persino ideologiche! E due versi di Marracash dicono le periferie di Milano meglio di tanti ‘laureati’, lirici e sperimentali: «Altro che top, casa pop, no centro / 600 teste busy (business) easy da dentro». 

 

È del tutto impossibile concludere questo discorso. In un contesto accademico, dovrei dichiarare che c’è tanto lavoro da fare: la frasetta di circostanza che dichiara un wishful thinking un po’ patetico, perché privo di fondamento. Nel contesto reale in cui mi trovo, dico solo che troppa critica si sta separando dal pubblico (e anche dal lettore reale che c’è in ogni critico): e che questo segnale è preoccupante. 

 

Leggi anche:

Matteo Marchesini, Io romantico.

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Il Novecento del Duemila
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Vincent a Londra

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‘Più di dieci anni fa, quand’ero a Londra, ogni settimana passavo davanti alla vetrina dello stampatore del Graphic e del London News per vedere le pubblicazioni settimanali. Le impressioni che ne ricevetti lì sul posto sono state così forti che quei disegni mi sono rimasti in mente in modo chiaro e preciso, nonostante tutto quello che è passato nella mia testa da allora…’, scriveva Van Gogh all’amico pittore Van Rappard nel febbraio 1883, ai tempi dell’Aia. 

 

È questo uno degli aspetti da scoprire alla mostra Van Gogh and Britain, aperta a Londra alla Tate Britain (fino all’11 agosto 2019). Curata da Carol Jacobi, Chris Stephens, Martin Bailey e Hattie Spires, la mostra accende per la prima volta i riflettori in due direzioni, da un lato su come Vincent fu ispirato dall’arte e dalla letteratura britannica, e dall’altro su quanto a sua volta ispirò una generazione di artisti inglesi, da Walter Sickert e i pittori della Camden Town, a Francis Bacon. Le oltre 50 opere in mostra, provenienti dai grandi musei oltre che da collezioni private, percorrono tutta la vita di Vincent, con un occhio attento alle sue letture in lingua inglese, alle tante opere grafiche o ai dipinti che lo hanno ispirato, tra i quali figurano Constable e Millais. Tre autoritratti scandiscono l’evoluzione pittorica di Vincent da Parigi alla Provenza, tra tanti capolavori come La notte stellata sul Rodano dal Musée d’Orsay di Parigi, o La prigione di Newgate dal Museo Pushkin di Mosca. Libri e documenti completano il percorso. 

Uno degli obiettivi della mostra, in linea con i recenti progetti del Museo Van Gogh di Amsterdam, è quello di guardare a Vincent da un’altra prospettiva, quella dell’uomo estremamente attento all’evoluzione dell’arte e della letteratura del suo tempo – lontano dal mito imperante dell’artista impulsivo e tormentato, isolato dal mondo e dai suoi contemporanei. 

 

Vincent van Gogh, L’Arlésienne, 1890, olio su tela, collezione MASP (São Paulo Museum of Art). Photo credit: João Musa.


‘L’Arlesiana’

 

La mostra ci accoglie con l’opera manifesto, Madame Ginoux, ‘L’Arlesiana’, che Vincent dipinse nei primi mesi del 1890, nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy-de-Provence. Sul tavolo due tra i suoi libri più amati spiccano in primo piano nelle pennellate veloci in verde chiaro – i titoli ben leggibili, inscritti in francese. Sono Il canto di Natale di Charles Dickens e La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe. Nel lungo anno che passò nell’istituto di Saint-Paul-de-Mausole, oltre a rileggere tutto Balzac e riprendere in mano le opere di Shakespeare, Vincent rilesse ‘con attenzione estrema (sottolineato nella lettera) due vecchie conoscenze, ben sapendo di poter scoprire sempre qualcosa di nuovo tra le righe dei suoi vecchi libri. L’opera in mostra, proveniente dal Museo d’Arte di San Paolo (MASP), è una delle quattro ripetizioni di L’Arlesiana giunte a noi – una quinta è andata perduta. La modella è Marie Ginoux, proprietaria con il marito del Café de la Gare di Arles, che aveva acconsentito a posare per lui e per Gauguin alla Casa Gialla. Va ricordato che quest’opera è molto particolare anche per un altro motivo: annoiato e senza modelli, a Saint-Rémy Vincent trovò un modo originale per distrarsi e, partendo da uno schizzo su carta che Paul Gauguin aveva lasciato ad Arles quando Marie Ginoux aveva posato per entrambi, ne riprese il contorno su tela, lavorando a una nuova composizione. La teca in mostra che accompagna questo ritratto provenzale presenta i due libri nella versione in francese, come dai titoli dipinti dall’artista. 

Unica protagonista della prima sala, quest’opera ci dice quanto Vincent amasse i libri, e Dickens in particolare, che lesse e rilesse nel corso degli anni, sia in inglese che in francese. Sulla parete opposta, una semplice e simpatica installazione: un ripiano ricavato nel muro mima una piccola biblioteca vangoghiana in lingua inglese. Con una cinquantina di volumi, provenienti dalle collezioni della Tate e dal Museo Dickens, passiamo in rassegna alcuni tra i titoli che Vincent cita nelle sue lettere; tra gli autori più amati c’è George Eliot, Charles Dickens, William Shakespeare, che iniziò a leggere sin da ragazzo.

 

Giuseppe de Nittis, The Victoria Embankment, London, 1875, olio su tavola, collezione privata.


Nella grande metropoli

 

Giuseppe de Nittis, The Victoria Embankment, London, 1875, olio su tavola, collezione privata.


Giuseppe de Nittis, The Victoria Embankment, London, 1875, olio su tavola, collezione privata

Quando Vincent arriva a Londra nel maggio 1873 all’età di vent’anni, ha alle spalle già quattro anni di lavoro nella galleria d’arte della Goupil & Co dell’Aia, dove aveva iniziato come apprendista nel 1869. La notizia del trasferimento alla sede londinese giunge benvenuta: ‘sarà fantastico per il mio inglese che capisco bene, anche se non lo parlo ancora come vorrei… Sono curioso di vedere i pittori inglesi, se ne vedono così pochi, le loro opere rimangono per lo più in Inghilterra’, scrive al fratello Theo, che ha da poco iniziato a lavorare alla Goupil di Bruxelles. Vincent rimane alla galleria per due anni, visita mostre e musei, dalla National Gallery alla Royal Academy, immergendosi nella vita e nella cultura britannica. Lavora a Covent Garden, la sede londinese della Goupil, pioniere nella produzione e diffusione di opere grafiche e di riproduzione. Vive dapprima a Brixton, un quartiere a sud di Londra, e tutti i giorni cammina verso il posto di lavoro attraversando il ponte di Westminster, come ricorda più tardi da Parigi, alla vista del dipinto di Giuseppe de Nittis ‘quando l’ho visto ho pensato a quanto amo Londra’. Conosce anche il suo primo amore non corrisposto – in casa dei Loyers, dove alloggia – che però rimane avvolto dal mistero. Si trattò di Ursula (57 anni, vedova) o della figlia Eugenie, sua coetanea? Forse nuovi documenti aiuteranno presto a sciogliere l’annoso nodo. Una cosa però è certa, questo primo sfortunato amore lo portò a leggere e amare i poeti romantici.

 

A quel tempo Londra era la metropoli più grande al mondo, e con oltre tre milioni di abitanti dovette sembragli immensa, per nulla simile alla vita vivace dell’Aia, culla della cultura olandese a cui era abituato. Se industrializzazione, capitalismo e ricchezza rendevano Londra la città più moderna dell’epoca, povertà, squallore e degrado dilagavano, come documentano le impressionanti opere di Gustave Doré. Frutto di quattro anni di collaborazione dell’artista francese con il giornalista inglese William Blanchard Jerrold, London: A Pilgrimage è un testo-immagine eccezionale della Londra vittoriana. Pubblicato nel 1872, con le sue 180 incisioni che tracciano tra luce e ombre il doppio volto della metropoli, la sua uscita aveva provocato un certo scalpore, come fa notare Martin Bailey nel suo contributo al catalogo. Il libro rimase a lungo nel cuore di Vincent, che non poté mai permettersi questo acquisto, ma dieci anni dopo – da artista – raccolse molte di queste illustrazioni, qui esposte.

 

Cresciuto nella tranquilla cittadina olandese di Zundert, Vincent fu indubbiamente scioccato dai quartieri poveri di Londra che vide a vent’anni nelle sue lunghe camminate nelle periferie. Queste visioni contribuirono ad avviare in lui una profonda riflessione sul senso che voleva dare alla sua vita. Londra stava cambiando, le riforme sociali avanzavano, e Vincent era attento a tutto. In Inghilterra scopre il realismo sociale di George Eliot, la ribellione di Charles Dickens verso le ingiustizie della società inglese ottocentesca; queste pagine lasceranno in lui una profonda impressione. Quando decide di diventare artista il suo scopo è quello di fare arte ‘dalla gente per la gente’. Letteratura e vita si erano intrecciate in lui, sin da ragazzo.

 

Parete sullo sfondo, Gustave Doré, Illustrazioni per London: A Pilgrimage 1872, B. Jerrold e G. Doré, © Tate photo (Joe Humphrys).


Vincent e il Graphic, dieci anni dopo 

 

Vincent ritorna all’Aia alla fine del 1881, questa volta da artista. Il primo gennaio 1882 affitta una stanza con studio, prende le sue prime lezioni di pittura da Anthon Mauve, affermato pittore della Scuola dell’Aia. Grazie al suo primo maestro frequenta il Pulchri Studio, dove può disegnare da modelli, due sere la settimana. Conosce così giovani artisti, tra cui George Breitner con il quale stringe amicizia; con lui farà frequenti escursioni notturne nei quartieri poveri della città alla ricerca di nuovi soggetti. Legge moltissimo, colleziona stampe e  illustrazioni delle maggiori riviste europee, in vendita nelle librerie d’occasione. Favorito dal loro basso costo adatto alle sue tasche, la sua collezione cresce enormemente e nel giro di pochi mesi può contare ‘almeno mille’ stampe, come scrive a Theo nel giugno 1882. Tra le sue preferite figurano molti fogli dai primi anni del Graphic, con le illustrazioni che gli erano rimaste in mente ‘in modo chiaro e preciso’, da quando – dieci anni prima – passava puntualmente a vedere le vetrine degli stampatori a pochi minuti dalla Goupil, sullo Strand. 

Inaugurato nel Dicembre 1869, il Graphic era una pubblicazione settimanale nata come rivale del più tradizionale TheIllustrated London News. Il suo fondatore, William Luson Thomas, si avvaleva di una nuova generazione di artisti ai quali dava piena fiducia, come Luke Fildes, Hubert Herkomer e Frank Holl, per citare almeno alcuni tra i più rinomati illustratori impegnati nel realismo sociale; sempre a caccia di scene dalla vita reale nelle strade di Londra, con un occhio attento ai poveri, diseredati, sofferenti, essi proponevano uno sguardo nuovo, aderente alla realtà e lontano dal melodramma o dalla caricatura. Vincent, che all’Aia viveva con una prostituta e disegnava gli anziani dell’ospizio, ne apprezzava l’approccio diretto, la sincerità, il sapore. Il primo numero, con l’illustrazione di Fildes Houseless and Hungry, ‘povera gente in attesa di un rifugio per la notte’ (già su queste pagine), fu un successo, tanto che lo stesso Dickens affidò a Fildes le illustrazioni per il suo Il mistero di Edwin Drood (pubblicato postumo). Vincent trasse ispirazione da queste immagini in bianco e nero, che iniziò a catalogare e a ritagliare incollandole su carta grigia ruvida, accarezzando l’idea di guadagnarsi da vivere come illustratore. Condivise la sua passione con Van Rappard e con gli amici del Pulchri Studio che a quanto pare gli chiesero persino ‘di fare una conferenza una sera’. Gli anni di Londra erano rimasti molto vivi nella sua memoria visiva. 

 

Da sinistra: Hubert von Herkomer, ‘Sunday at Chelsea Hospital’, Graphic, 18 February 1871; Edward Gurden Dalziel, ‘Sunday Afternoon 1.00pm, Waiting for the Public House to Open’, Graphic, 10 Gennaio 1874, Amsterdam, Van Gogh Museum, Vincent van Gogh Foundation.


Londra 1947, ‘il miracolo di Millbank’

 

La prima grande retrospettiva inglese del dopoguerra dedicata a Van Gogh si tenne alla Tate Gallery (su Millbank), dal 10 dicembre 1947 al 14 gennaio 1948. Fu una delle prime mostre organizzate dal rinnovato Arts Council britannico, con un fitto programma itinerante, prima Londra poi Birmingham e infine Glasgow, città devastate dai bombardamenti. L’importante iniziativa era stata sollecitata dall’Arts Council con la speranza di ‘portare un po’ di vita e di gioia in questa nostra scialba città!’. 

Sostenuta dal governo olandese come iniziativa diplomatica e culturale, l’evento metteva insieme ben 178 opere di Van Gogh, provenienti dal Kröller Müller Museum (aperto nel 1938) e dall’immensa collezione del nipote dell’artista, Vincent Willem van Gogh, figlio di Theo e Jo. Fu una delle mostre internazionali su Van Gogh che si susseguirono in modo quasi continuativo nel secondo dopoguerra, una sorta di ‘veicolo post-bellico per guarire un Continente a pezzi’, come scrive Hattie Spires nel suo contributo al catalogo. Quasi cinquemila visitatori al giorno affollarono le sale londinesi, un successo enorme, tanto che a mostra conclusa il direttore della Tate chiese all’Arts Council un rimborso per i pavimenti consumati. In sole cinque settimane si era verificata un’usura paragonabile a tre anni di normale attività. La stampa lo descrisse come ‘il miracolo di Millbank’. I giornalisti iniziarono a chiedersi le ragioni di tante code – il Daily Graphic si diede una risposta, la più semplice, in fondo: ‘la gente ha sete di colore’. 

 

Poster della mostra, Tate Gallery 1947, © Tate, 2018; Coda fuori dalla Tate Gallery per la mostra Vincent van Gogh 1853–1890: Paintings and Drawings, 10 Dicembre 1947 – 14 Gennaio 1948.


Girasoli a Londra

 

Nella seconda parte della mostra, siamo accolti in una sala che presenta i Girasoli di Vincent accanto a vari dipinti di fiori, otto in tutto – girasoli e non – eseguiti dagli artisti britannici nei decenni successivi. Colpisce il divario incolmabile tra il direttore d’orchestra (Vincent) e i suoi coristi che al confronto appaiono stonati e sbiaditi, nonostante tutto. Tra gli omaggi al maestro figurano i Girasoli di Frank Brangwyn (primo Novecento), quelli di Jacob Epstein (1933), e i Crisantemi gialli in un vaso di Christopher Wood (1925), questi ultimi due eseguiti sulla scia della mostra britannica dedicata a Van Gogh del 1923, tenutasi alle Leicester Galleries. 

 

La tela dei Girasoli di Vincent ora esposta è la stessa di allora, e cioè la versione giallo-su-giallo dipinta nell’agosto 1888, eccezionalmente prestata dalla National Gallery che raramente se ne separa. Vincent aveva ottenuto il suo scopo: ‘l’alta nota gialla’, l’irraggiungibile. Una sinfonia di gialli pervade la tela, una tela inondata di luce. Una musica. Non va dimenticato qui che lo stesso giugno Vincent aveva scritto a Theo: ‘sto leggendo un libro su Wagner che poi ti manderò – che artista – uno così in pittura, ecco cosa sarebbe bello. – Verrà’. ‘Ça viendra’. Sappiamo anche da una lettera di Theo alla sorella, che prima di partire per la Provenza i due fratelli erano andati a sentire due concerti di musica di Wagner…

 

Di fronte alla parete dei ‘suoi’ Girasoli, in una teca, un documento commovente: è una lettera di Jo (moglie di Theo) del 24 Gennaio 1924 al direttore della National Gallery, nella quale decide di cedere alle sue pressioni. Figura chiave, dopo la morte del marito (1891), passò la sua vita a promuovere l’arte di Vincent in tutta Europa. Quando si convinse che era giunto il momento di separarsi dal quadro che da oltre trent’anni ‘guardava ogni giorno’, e a vendere i Girasoli alla National Gallery che insisteva da un anno, concluse la sua lettera al direttore con queste parole: 

‘A lui, “il Pittore dei Girasoli”, sarebbe piaciuto essere lì… È un sacrificio per la gloria di Vincent’.

 

The EY Exhibition. Van Gogh and Britain

Tate Britain, Millbank, Londra SW1P 4RG

27 marzo – 11 agosto 2019

 

Il catalogo della mostra, The EY Exhibition. Van Gogh and Britain, è a cura di Carol Jacobi, con contributi di Martin Bailey, Anna Gruetzner Robins, Ben Okri, Hattie Spires e Chris Stephens (Londra 2019). 

Per saperne di più sulle influenze degli illustratori e degli scrittori inglesi sull’opera di Vincent van Gogh si segnala lo studio di Ronald Pickvance, uno dei primi dedicati all’argomento, English Influences on Vincent van Gogh (1974). Sugli anni londinesi di Van Gogh, si veda anche il catalogo della mostra tenutasi nel 1992 alla Barbican Art Gallery di Londra, e curata da Martin Bailey: Van Gogh in England.Portrait of the Artist as a Young Man (1992). Un testo centrato sul ruolo del Graphic, degli illustratori e dei pittori del Realismo Sociale in Inghilterra è lo studio di Andrea Korda, Printing and Painting the News in Victorian London. The Graphic and Social Realism, 1869-1891 (2015). In arrivo per il prossimo autunno  

Everything for Vincent, di Hans Luijten, ricerca centrata sulla vita di Jo van Gogh-Bonger e sul suo ruolo cruciale nella diffusione dell’opera e delle lettere di Van Gogh. 

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Narrazioni istantanee: Robert Storr e le storie dell’arte

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«Lascia che ti racconti una cosa…»: potrebbe essere questo il sottotitolo o Leitmotiv (l’unico, a dire il vero) delle Interviste sull’arte di Robert Storr pubblicate recentemente da Il Saggiatore (curate da Francesca Pietropaolo), dove vengono raccolte trenta interviste e conversazioni con i grandi protagonisti dell’arte (da Louise Bourgeois a Jeff Koons, Richard Serra, Fèlix Gonzàlez-Torres e altri) e figure meno note o “underground” perché, come ricorda il critico, «le persone responsabili delle innovazioni nell’arte non sono necessariamente quelle più famose». Realizzate tra il 1981 e il 2018 e qui tradotte per la prima volta in italiano con l’aggiunta, rispetto alla versione inglese pubblicata nel 2017 con il titolo Interviews on Art, di quattro artisti italiani (Alterazioni Video, Letizia Battaglia, Luca Buvoli e Paolo Canevari), il corpus degli scritti selezionati coincide con l’arco cronologico del postmodernismo, restituito con grande efficacia attraverso il dispositivo dell’intervista: pratica tutta contemporanea basata sulla narrazione del sé (o “tecnologia del self”, direbbe Foucault), che si è fatta strada nel secolo scorso fino a diventare, oltre che “genere narrativo”, soggetto e oggetto delle arti visive (è il caso delle video interviste “balbuzienti” realizzate da Buvoli che, come in un gioco di matriosche, ci rivelano l’esitazione e l’inciampo verbale connaturato a ogni intervista).

 

Sintomo e specchio della condizione postmoderna, l’apparato-intervista presenta un pastiche di informazioni ed emozioni fatto di inversioni e cambiamenti repentini di temi, sospensioni, interruzioni…, [risate], precisazioni*, domande senza risposta (perché scopo delle interviste è sollecitare «ulteriori domande, anziché tentare di risolverle»), risposte senza domande, salti temporali dove «torniamo per un momento a…», sovrapposizioni di grandi e piccole storie in una continua oscillazione tra pubblico e privato. In questa profusione orizzontale e volatile di narrazioni tutt’altro che lineari, l’intervistatore-antropologo-equilibrista-maieuta (sempre pronto a richiamare all’ordine per «ritornare un momento a quel che si diceva prima a proposito di…»), sembra adempiere tanto meglio al suo ruolo quanto più capace di rendersi “presenza discreta”, invisibile, quasi avesse per obiettivo la propria sparizione. Obiettivo sempre fallimentare dato che l’intervista, pur dandoci l’illusione di poter cogliere “l’arte fuori dall’arte”, fuori dai consueti canali istituzionali, si pone essa stessa come istituzione, rituale codificato e cornice (o “punto di vista unico”, direbbe Daniel Buren) attraverso cui guardare. È in questa prospettiva che ne parla altrove Mike Kelley (uno dei protagonisti della raccolta) sottolineando la falsa libertà di questo dispositivo che, come tutti i dispositivi, «it’s about all the things that formed me from the outside» e determina e induce le risposte attraverso le domande-cornice poste dall’intervistatore (proprio all’epoca dell’intervista riportata nel volume – 1994 – l’artista si stava occupando della “sindrome della falsa memoria” e la sua connessione con i cosiddetti “manipulative responses”: concetti che saranno alla base della sua opera più famosa, Educational Complex, realizzata l’anno successivo, di cui l’intervista di Storr ci fornisce un documento prezioso per ricostruirne la genesi).

 

Cornice che induce sempre una forte presenza a sé fino a trasformarsi nella massima espressione dell’“essere in posa”, l’intervista rivela così la sua assonanza con la fotografia, dove lo spettatore-lettore, facendo appello allo statuto documentario e al carattere di testimonianza istantanea del mezzo che registra fedelmente e feticisticamente l’immagine/racconto, viene catturato nel gioco altalenante del mostrarsi e negarsi allo sguardo, alla perenne (e aberrante) ricerca dell’istante “autentico” in cui l’artista, momentaneamente dimentico di sé, si lascia cogliere alla sprovvista rivelando la sua intimità e permettendoci la prossimità necessaria per colmare lo scarto tra ciò che ci viene dato e ciò che ci viene negato (e d’altronde, dice Bruce Nauman, anche nell’arte «parte della tensione significativa […] riguarda quello che dai e quello che non esponi di te stesso»).

 

Robert Storr con Louise Bourgeois a New York nel 1995 di fronte alla Peter Blum Gallery.


Allo stesso modo delle istantanee che, ci dice Gerhard Richter, «sono come pezzi devozionali» in cui il privato si appropria del pubblico, le interviste, alimentando la vocazione voyeuristica tipica della nostra era (doppiata dalle domande dell’intervistatore sempre pronto ad auscultare i processi mentali alla base della creazione artistica), mettono lo spettatore-lettore nella posizione dell’intruso che osserva attraverso il buco della serratura quel “dialogo a due” dal quale resta sempre un po’ chiuso fuori. Risiede qui la fascinazione di ogni intervista: nel vortice di tensione creato tra quel che viene dato o precluso allo spettatore, arrivando talvolta a sondarne i limiti di sopportazione attraverso la costruzione di spazi dall’accesso difficoltoso o impossibile che ricalcano quel senso di estromissione e maltrattamento del pubblico a cui ci ha abituati l’arte contemporanea giungendo persino a lasciarci fuori dalla galleria. Matassa di fili da sbrogliare, l’intervista costringe il lettore a un lavoro di ipervigilanza, all’affannosa ricerca di frammenti di senso nascosti nel mare magnum di informazioni affidate alla friabile memoria degli intervistati che fa eco alla postmoderna difficoltà di discernere tra vero e falso (in tal senso, interessantissime appaiono le sperimentazioni degli Alterazioni Video che giocano con le interviste e le fake news usandole «come nuova forma di poesia, un nuovo mezzo per l’arte che gioca con la realtà»). 

In questo mosaico di ricordi traballanti emerge la maestria di Storr che, come un provetto fotografo, gioca con l’obiettivo allargando e stringendo l’inquadratura per mostrare come ogni frammento privato si inserisca e dialoghi con la Storia e, sempre magnanimo e premuroso nei confronti del lettore, lo accompagna nella scoperta (perché, ci dice, l’intervista è sempre «una forma di scoperta») di quella mappa distopica e discronica che informa l’arte contemporanea.

 

L’immagine che emerge dal testo è proprio quella di una mappa disseminata, sparsa, di una dislocazione spaziale che arriva a coinvolgere gli stessi luoghi delle interviste (condotte talvolta a distanza –come le email scambiate con Buvoli, Canevari, Olga Chernysheva e Tatiana Trouvé) sottolineando così la diaspora e la mobilità globale che caratterizza le vite degli artisti contemporanei e il loro peculiare modo di “abitare il globo”: da Alterazioni Video e il loro vivere dislocati nel mondo (tra Berlino, Milano, Palermo e Portogallo), a Louise Bourgeois che, con accento e intercalare francese, dice di considerarsi un’artista americana, passando per Maurizio Cattelan e il suo «appartenere a diverse culture. A tre culture in effetti [italiana, tedesca e americana]». Panorama costellato di “nati altrove” che porta Storr a incalzare più volte sul problema del rapporto tra cosmopolitismo e specificità/identità culturale per registrarne i diversi punti di vista: da Canevari che, pur ritenendo fondamentale l’identità culturale, ci ricorda come «la globalizzazione, anziché alimentare un cosmopolitismo allargato e condiviso […] abbia avuto l’effetto opposto: quello di un accentuato provincialismo e di un nazionalismo inteso nel suo significato negativo», fino ad altri artisti (come Cattelan e Buvoli) che vedono nella distanza geografica una possibilità (necessaria) per la costruzione o riappropriazione delle proprie origini. 

Dislocazione spaziale che trova il suo correlativo temporale nei funambolici salti cronologici che impegnano gli artisti in un vis-à-vis con il proprio passato biografico o nel confronto con i predecessori, innescando così un gioco di reazioni e reciproche influenze a posteriori (come nel divertito racconto di Félix Gonzàles-Torres che, scoprendo un lavoro con le risme di carta realizzato nel ’68 da Giulio Paolini, si dice, stupito: «Ecco. Ho influenzato Paolini»!). 

L’imperativo è raccontare/raccontarsi e trasformare tutto in narrazione: è questa, in ultima analisi, la «malattia del nostro tempo» (come scrive Tommaso Pincio in Il dono di saper vivere, dove il “dono” risiede proprio nella capacità di raccontare e raccontarsi) incarnata dal dispositivo dell’intervista. Quell’urgenza di dirsi per “essere” perché, a forza di raccontarsi, si finisce per esistere davvero e trasformarsi in un sé. E, dato che «la sensazione di essere osservati precede […] la consapevolezza di sé» [Pincio], allora l’intervista, con il suo metterci forzosamente in posa estraniandoci e scindendoci da noi stessi, fornisce la distanza necessaria e lo specchio attraverso cui vedersi ed esser visti. E proprio lo sguardo altrui sembra essere l’altro grande protagonista di queste “narrazioni dell’arte”, dove ognuno degli intervistati oscilla tra la paura di non coincidere con l’immagine di sé («mi ha sempre spaventato molto l’essere definito o l’essere definito nel modo sbagliato», dice Charles Ray) e la necessità di abitare fuori da sé, nello sguardo dell’altro poiché, scrive Storr, «il pericolo collegato è che quando uno non viene visto inizi a perdere la capacità di vedere se stesso». E allora bisogna raccontare e raccontarsi perché, come si domanda Pierre Huyghe, «che cos’è un personaggio senza più una storia?».

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Sub YouTube

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Continua l'immersione antropologica nel torbido mare di YouTube e per non rischiare un’embolia chiedo aiuto a Zeno, 13 anni e una solida esperienza sul campo. Quando gli mostro alcuni video, mi avvisa subito che sono in una zona a rischio perché mi sto inoltrando negli abissi più oscuri del trash. Mi spiega che sto guardando una “reaction”, dal che comprlendo che mi sta iniziando a una logica di sottogeneri della quale avevo il sentore, ma non la contezza. Comprendo dunque che è necessario ricominciare da capo, per non fare una brutta figura, e inizio a muovermi osservando con circospezione il panorama subacqueo.

 

 

Da un punto di vista comunicativo, il video di uno youtuber possiede uno statuto ibrido. Non è un testo chiuso e costruito, come un film o una serie tv, dunque non si presenta con una narrazione strutturata. Non è neanche una diretta televisiva, come una partita di calcio o di tennis, ma semmai potrebbe definirsi “in differita”: live ma registrato. Potrebbe essere assimilato alla formula del documentario educational e in effetti i cosiddetti tutorial vi si avvicinano molto. Ma il video-tipo della celebrità youtuber prevede su tutto una co-presenza tra ciò che si vede e ciò che viene affermato o commentato. Attraverso la propria presenza corporea lo youtuber simula di continuo un’interazione con il viewer, con il visualizzatore. Lo “sguardo in camera” è frequente se non obbligatorio, così come le convocazioni: ciao ragazzi, iscrivetevi, inserite like, e richieste simili. 

 

 

I contenuti con cui un canale youtube viene aperto rispecchiano una pura logica di genere, per esempio il gaming, potenzialmente interessante per un’ampia fetta di utenti. Gli stessi youtuber si distinguono a seconda delle competenze. Non va confusa la categoria degli streamer (coloro che giocano in diretta, spesso su Twitch, altra piattaforma specificamente dedicata), con quella dei più dozzinali e generici youtuber, ovvero coloro che, tramite post-produzione, montano pezzi di partite giocate in precedenza. A una categoria di classe superiore appartengono i pro-player, ad esempio i virtuosi di Call of Duty o Fortnite, e solo pochi possono fregiarsi di tale titolo. Approfondendo la questione, si avverte, però, che in molti casi il gaming è in parte un pretesto: anche Favij non è tanto famoso per il gioco in sé, ma per i commenti ironici e divertenti che egli aggiunge alle azioni e alle situazioni ludiche. Riaffiora la sensazione che la logica prevalente nel mondo degli youtuber sia l’entertainment, e in specifico la presa in giro, la burla, lo scherzo, attraverso forme che spesso si spingono fino al dileggio e alla zuffa verbale. Ad esempio, vengono mostrate sessioni live di videogioco con commenti, informazioni e trucchi, ma sovente quei commenti si trasformano in vere e proprie gare di contumelie reciproche tra giocatori, con tanto di visualizzazioni degli insulti a mo’ di sottotitoli. Non va dimenticato che quello degli youtuber è per la maggior parte un universo fatto da, e pensato per, adolescenti, i quali si divertono a rendere pubblico e condiviso ciò che in una scuola, in un condominio o in un autobus sarebbe considerato inopportuno o vietato. 

Provo a comprendere allora in modo più dettagliato il caso de ilvostrocaroDexter. Costui nasce all’interno dell’universo gaming, descrivendo – come fosse una guida locale – una realtà simulata del tutto interna all’universo dei videogiochi. Titoli come “rapiniamo e picchiamo” oppure “massaggio sexy alla thailandese” risultano malevolmente attraenti per il loro contenuto deviante. Guardandoli si capisce però che non bisogna aspettarsi un soft-porno ma solo una serie di azioni compiute all’interno di una partita di videogame. Un po’ come dire “facciamo che eravamo dei banditi…?” e grazie a ciò potersi lasciare ad ogni sorta di turpitudine: tanto è un gioco. 

 

 

Una volta che lo youtuber Dexter a forza di reiterati upload quotidiani ha conquistato la propria identità, correlata a un ampio seguito di fan e seguaci, ecco che improvvisamente inizia a uscire dall’angusto mondo virtuale, proponendoci un giorno di ordinario turismo enogastronomico all’isola d’Elba, degno di Osvaldo Bevilacqua e del suo Sereno variabile

 

 

 

Nel corso del tempo i contenuti legati al genere gaming si riducono, e Dexter improvvisamente sterza verso contenuti misti, che prevedono “challenge”, ovvero sfide impossibili, per poi approdare alla golosa dimensione dei temi calcistici, buona per tutte le stagioni.

 

 

L’ esempio dimostra in modo palese la logica di micro-celebrità che muove questo universo: la notorietà e il legame con i subscribers sono l’oggetto da conquistare. Una volta ottenuto quello, si può provare a mutare con disinvoltura il genere di riferimento, grazie al feedback immediato da parte degli utenti che ne verifica l’efficacia. Una modalità non dissimile da quella delle varie creature vaganti nella televisione generalista le quali, attraverso presenze in show di vario tipo, acquisiscono una notorietà tale che, finché dura, li rende neutri rispetto al genere di provenienza. Anche il mondo dei bambini attira ampissimi numeri di visitatori – le classifiche palesemente lo dimostrano – coniugandosi con più facilità a logiche commerciali affini ai media tradizionali. È il caso dei Me contro te che conducono da tempo programmi televisivi su Disney Channel, assecondando un processo cross-mediale che dal web arriva alla tv. Gli youtuber per bambini sono infatti molto attenti a fornire contenuti privi di volgarità, in modo da poter essere facilmente traslati su altre piattaforme mediali.

 

Uno youtuber si definisce tale, quindi, attraverso un processo di identificazione tra il proprio canale, i contenuti proposti e la propria specifica identità personale, a partire da ciò che vuole mostrare di sé. Progressivamente il “ciò che fa” lascia il posto al “ciò che è”: ci si dimentica del perché si è iniziato a guardarlo perché intanto ha acquisito identità e notorietà. Sia esso un lui, una lei, oppure un duo o un gruppo, il brand-youtuber assume il ruolo di un personaggio costruito a partire da una propria narrazione. Un lavoro di mantenimento e cura della propria notorietà quotidiana che non prevede pause. Del resto, si tratta di contenuti che non rappresentano opere d’arte immortali bensì prodotti usa e getta: frammenti di esternazioni mescolate ad azioni studiate. Vistone uno, il giorno dopo se ne attende subito un altro, perché sono contenuti dallo statuto performativo e non estetico, che tendono ad assomigliarsi tra loro proprio perché fortemente orientati alle aspettative medie del pubblico. Non sono degni di una visualizzazione ripetuta come può esserlo un film o una canzone. Proprio per questo il processo di fruizione assomiglia a un abbonamento gratuito a un servizio di entertainment, che come tale non può essere interrotto. 

 

Ed è ciò che tra l’altro genera una sindrome oramai acclarata– il burn out da youtuber – ovvero la crisi da stress dovuta alla necessità di caricare, e dunque dover dire o fare continuamente qualcosa sul proprio canale. Due di loro, Shy del canale Breaking Italy e Yotobi – che per gli standard anagrafici del medium è un veterano di “mezza età”– confessano candidamente in un podcast le loro reciproche condizioni psicologiche di stress, e fanno un’angosciata affermazione sul loro mestiere: siamo i primi ad avere fatto questa cosa e non abbiamo termini di paragone col passato. Un po’ come essere stati i primi ad avere fatto trasmissioni radiofoniche, o i primi a salire su un palco con una chitarra elettrica mentre migliaia di persone urlano. Sull’alienazione da divismo, The Who avevano realizzato un’opera memorabile come Tommy. Difficile attendersi pari risultati. 

 

 

Oltre il lato mainstream di youtube – quello da milioni di visualizzazioni che mira a massimizzare la quantità a tutti i costi senza alcun freno inibitorio – ci sono nicchie a un gradino inferiore di notorietà, pur degne di interesse. Il caso di Follettina Creation serve a dimostrare che per diventare youtuber è davvero sufficiente accendere una videocamera e raccontarsi, senza filtri. Siciliana trasferita a Tolmezzo, ella restituisce una cronaca costante delle sue normali giornate, raccontandosi come potrebbe fare dinanzi a una vicina di casa: canta stonando, fa il pane in casa, cucina, si trucca, va dall'estetista per rimuovere i “baffetti”, è appassionata di bambole reborn (repliche di neonati in silicone) e richiede regali e contributi a causa della propria condizione economica non agiata. Per questa sorta di candida auto-umiliazione, della cui portata sembra solo in parte inconsapevole, Follettina Creation è divenuta una celebrità youtuber. La sua progressiva trasformazione da brutto anatroccolo a diva digitale le ha fatto ricevere un invito in qualità di “ospite choc” a Pomeriggio Cinque da parte di Barbara D’Urso, che con molta grazia le ha chiesto, tra le varie gentilezze, se ancora si lavasse i capelli una volta alla settimana, come sembrava emergere dai suoi video. 

 

 

Il mondo subacqueo di YouTube si presenta dunque come un territorio retto da codici misteriosi che emergono da profondità così nascoste da spingerci a chiedere se non meritassero di restare tali. La mia guida tredicenne cerca però di rincuorarmi, assicurandomi che all’interno di questa massa liquida si muovono anche creature di specie diversa. A partire dallo stesso Yotobi che fu tra i primi ad apparire in questo mondo, attraverso surreali recensioni di film di serie “z” ma con ritmi molto più cadenzati rispetto allo stile compulsivo trash mainstream, e che è poi approdato a un vero e proprio format-youtube denominato Late Show, di lettermaniana memoria. 

 

 

Le sue recensioni improvvisate sono dunque evolute in un prodotto più strutturato e confezionato, di livello più alto, anche se pur sempre di taglio ironico, per uno youtuber che oramai è divenuto adulto. Tra una recensione su La La Land e una “Lettera Aperta ad Aldo, Giovanni e Giacomo”, Karim Musa (alias Yotobi) nell’ultimo anno ha ospitato J-Ax, Francesca Michielin e Favij, trasformandosi quasi in un late show vero e proprio, magari aspirando a un salto verso la televisione. 

Per finire, è d’obbligo citare Luis, un caso di meta-youtuber di culto che solo in apparenza si cimenta con alcuni dei temi più comuni, come le challenge sul cibo oppure ricette su come ampliare i propri muscoli. In realtà all’interno del genere realizza una vera e propria forma di innovazione linguistica. 

 

 

La presenza fisica e corporea dello youtuber come protagonista è sempre al centro, ma non si tratta del solito coatto seduto sulla poltrona da gamer che blatera porcherie. Luis compie vere e proprie performance in vari luoghi (Bologna e oltre), arricchendo il video di suoni, effetti, scritte, montaggi, in un ibrido che mette assieme molti codici, dal trailer al videoclip alla tv, con un effetto finale che è sempre ironico e raramente greve.

 

Mentre riemergo alla superficie dopo una lunga immersione in questo universo, mi resta la sensazione di qualcosa che è ancora in divenire, dove si sperimentano molte cose, con l’estemporaneità di un medium virtualmente molto potente, alla portata di tutti, che può arrivare dovunque. Il quotidiano, il familiare, l’essere dilettanti e adolescenti: ecco una miscela esplosiva e incontrollata che sta trasformando le modalità comunicative dell’audiovisivo.

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Conversazione con Carolyn Christov-Bakargiev

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Parlare di Carolyn Christov-Bakargiev, significa parlare dell’eccellenza nell’ambito della curatela d’arte contemporanea. 

Nata nel 1957 a Ridgewood, in New Jersey, da padre bulgaro e madre italiana – nello specifico, piemontese –, si è trasferita per la prima volta in Italia per concludere i suoi studi in lettere e filosofia alle Università di Genova e Pisa. In seguito, ha iniziato a scrivere per importanti testate quali Flash Art e Il Sole 24 Ore, per poi intraprendere l’attività curatoriale a Villa Medici con l’incarico di organizzare le mostre estive (1998-2000). Dopo essere stata, dal 1999 al 2001, Senior curator al P.S.1 Contemporary Art Center a New York, è tornata in Italia per assumere, dal 2002 al 2008, il ruolo di capo curatore del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea di cui ha ricoperto la direzione nell’anno 2009. Ha curato le più prestigiose manifestazioni internazionali d’arte contemporanea: la Biennale di Sydney nel 2008, dOCUMENTA(13) nel 2012 e la Biennale di Istanbul nel 2015. Dal 2016 è tornata a Torino per assumere la direzione congiunta della GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea e del Castello di Rivoli. Lasciata la GAM nel 2018, attualmente è la direttrice del Castello di Rivoli e della Fondazione Francesco Federico Cerruti.

Francesco Bonami nel suo libro il Bonami dell’arte la definisce a buon diritto “una delle migliori curatrici del mondo”, “una fondamentalista della curatela”, creatrice di “mostre che in certi momenti diventano pura magia”. A lei dobbiamo inoltre la scoperta di artisti, divenuti poi importantissimi, come William Kentridge, Pierre Huyghe e Doris Salcedo, e mostre che hanno avuto il merito di portare in Italia celebri artisti internazionali, tra cui, recentemente, Ed Atkins (2016), Wael Shawky (2016), Anna Boghiguian (2017), Nalini Malani (2018), Hito Steyerl (2018-2019) e Anri Sala (2019).

Come direttrice del Castello di Rivoli, oltre a confermare le sue ormai note qualità curatoriali, sta dimostrando una particolare abilità nell’intrecciare rapporti di collaborazione con enti pubblici e privati piemontesi, italiani e internazionali, tra cui la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, le OGR, la Fondazione Merz, la Whitechapel Art Gallery e la Tate di Londra e anche il Getty Research Institute di Los Angeles. Le mostre finora proposte dal Castello di Rivoli sotto la sua direzione, non solo hanno rivolto l’attenzione verso gli artisti con cui Carolyn Christov-Bakargiev ha sempre mantenuto un rapporto, dimostrando così la continuità del suo operare, ma nell’approccio, nell’allestimento e nel catalogo che sempre le accompagna, hanno impressa chiaramente la sua eccellente “firma”: mai scontate, sono sempre aperte a molteplici livelli di lettura, sottendono temi di importanza globale, sono caratterizzate da una forte attenzione sia allo spazio espositivo che diventa parte integrante dell’esposizione, sia alle nuove produzioni realizzate appositamente dagli artisti. L’oscillare tra il taglio analitico e quello più allargato nell’affrontare tematiche relative al nostro essere nel mondo, costituisce infine un’altra loro importante qualità.   

 

Carolyn Christov-Bakargiev in occasione del conferimento dell'Audrey Irmas Awards, 2019, ph Lisa Quinones.


Seppur adesso nelle vesti di direttrice, Carolyn Christov-Bakargiev è e rimane nel suo profondo prima di tutto curatrice: sceglie gli artisti, idea con loro le mostre, ne segue la realizzazione, incide sovente nella realizzazione stessa delle opere, al fine di creare esposizioni che fungano da dispositivi per elevarsi dal particolare al globale, dal presente al futuro. Grazie a questo suo onnicompresivo lavoro, il Castello di Rivoli è ancora oggi uno dei più importanti musei di arte contemporanea al mondo e, nello specifico, nel 2019 ha raggiunto ulteriori traguardi.

Innanzitutto, il 17 aprile 2019, a New York, Carolyn Christov-Bakargiev ha ricevuto l’Audrey Irmas Award for Curatorial Excellence 2019, il più importante premio alla carriera curatoriale a livello mondiale, conferitole dal prestigioso Center for Curatorial Studies, Bard College (CCS Bard). Negli ultimi venti anni, il Premio Audrey Irmas ha premiato curatori di fama internazionale il cui lavoro ha contribuito a trasformare la percezione della creazione artistica e la sua valorizzazione nell’esposizione al pubblico. Tom Eccles, Executive Director del CCS Bard, ha affermato che “Carolyn Christov-Bakargiev è una forza singolare nel campo dell'organizzazione mostre. Le sue idee di vasta portata e il suo audace impegno per gli artisti che realizzano opere nuove e ambiziose vanno di pari passo con la sua esplorazione delle storie artistiche e il loro riproporsi. La sua eccezionale dOCUMENTA(13) è stata indubbiamente una delle grandi mostre del nostro tempo”.

Questo premio ha dato ulteriore prestigio e visibilità anche al museo che Carolyn Christov-Bakargiev dirige e che, il 4 maggio 2019, ha aperto al pubblico il suo nuovo polo costituito dalla villa e dalla collezione privata di Francesco Federico Cerruti (Genova, 1922 – Torino, 2015), imprenditore e collezionista scomparso nel 2015. La collezione include quasi trecento opere scultoree e pittoriche che spaziano dal medioevo al contemporaneo, con libri antichi, legature, fondi oro, e più di trecento mobili e arredi tra i quali tappeti e scrittoi di celebri ebanisti. Lo scopo di questo nuovo polo del Castello di Rivoli è creare un modello nuovo di museo d’arte in cui l’arte del passato è osservata da prospettive contemporanee innescando un dialogo unico tra collezioni, tra artisti attuali e capolavori del passato. 

Infine, il 7 maggio si è inaugurato a Venezia, presso Combo – una nuova sede espositiva in campo dei Gesuiti -, The Piedmont Pavilion; ovvero una mostra che, nata da un concetto di Carolyn Christov-Bakargiev e Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, ma curata da Marianna Vecellio, presenta opere d’arte provenienti dalle Collezioni del Castello di Rivoli e della Collezione Sandretto Re Rebaudengo oltre a prodotti dell’industria e del territorio piemontese come la Fiat 500 del 1957 e la sonda orbitante TGO (Trace Gas Orbiter) della missione europea ExoMars. 

In attesa dei nuovi traguardi ai quali Carolyn Christov-Bakargiev condurrà il Castello di Rivoli, nella seguente conversazione con lei abbiamo approfondito i tre succitati eventi che recentemente l’hanno vista protagonista. 

 

 

Quest’anno hai ricevuto l’Audrey Irmas Award for Curatorial Excellence, a conferma della tua eccellenza in ambito curatoriale. Guardandoti indietro, quali sono, a tuo avviso, le principali caratteristiche del tuo modo di curare le mostre?

 

Mi hanno conferito l’Audrey Irmas Award for Curatorial Excellence 2019 per le mostre collettive tematiche che ho curato, dalla Biennale di Sydney Revolutions – Forms ThatTurn a dOCUMENTA(13), dalla Biennale di Istanbul SaltwaterA Theory of Thought Forms a quelle, in precedenza, curate al Castello di Rivoli tra cui Volti nella folla (2004-2005) e La sindrome di Pantagruel (2005). 

Ciò che ha caratterizzato il mio lavoro è stato l’oscillare tra mostre personali dedicate ad artisti – che a volte si sono dimostrati grandi dopo che ho realizzato le loro prime personali – e importanti mostre tematiche collettive. 

La mostre tematiche collettive sono sempre state connotate da una complessità dal punto di vista dell’argomento trattato, capace però di non mettere in ombra le opere realizzate dagli artisti per quelle occasioni. Per complessità intendo il tentativo di toccare le più rilevanti problematiche dell’epoca in cui viviamo, tra cui, ad esempio, la negoziazione tra rivoluzione digitale e crisi ambientale, lo statuto della soggettività umana all’interno di un mondo in cui occorre trovare una collaborazione tra tutte le specie e le entità viventi sul pianeta. Spesso sono riuscita non solo a mettere a fuoco, ma anche a introdurre molto fortemente questi grandi temi. Ad esempio, dOCUMENTA(13) parlava della relazione tra umano e non umano dal punto di vista dell’equilibrio del pianeta, ma era anche focalizzata sulla distruzione della cultura materiale, delle opere d’arte, poiché la nostra epoca è caratterizzata da grandi guerre, conflitti, diaspore, migrazioni e di conseguenza da una notevole quantità di distruzioni. L’interconnessione così da me messa a fuoco, per cui la catastrofe ecologica e il collasso della biodiversità vanno di pari passo con il collasso della diversità della cultura materiale e immateriale, non era ancora stata affrontata da nessuno e farlo a dOCUMENTA(13) ha permesso di conferire una maggiore profondità a una manifestazione volta, già di per sé, a porre domande, più che a dare soluzioni. 

 

Carolyn Christov-Bakargiev in occasione del conferimento dell'Audrey Irmas Awards, 2019, ph Lisa Quinones.


Altra importante caratteristica del tuo modo di operare è il rapporto con gli artisti, soprattutto in merito alle nuove produzioni…

 

Sì, in queste manifestazioni solitamente ho incluso anche numerose opere realizzate per l’occasione.  Quello che faccio è parlare con gli artisti, non solo di arte, ma soprattutto del mondo. Da queste conversazioni sul mondo gli artisti trovano l’ispirazione per realizzare opere di grande qualità. Sono infatti nota per aver creato le premesse e le condizioni per l’emergere di capolavori. Spesso le persone pensano che le opere nascano solo dalla mente dell’artista, ma invece sono frutto di un contesto e di una rete di relazioni che le portano ad avere un impatto sulle coscienze. Le opere d’arte partecipano infatti nel dialogo e nel destino del mondo, mettendo a fuoco problemi e indicando possibili soluzioni.

 

Quando dici che le tue mostre tematiche affrontano le più rilevanti problematiche dell’epoca in cui viviamo, ti riferisci ai temi di più cogente attualità?

 

No, non mi riferisco all’attualità, in quanto sono d’accordo con l’idea di profonda inattualità espressa da Nietzsche. Il mio obiettivo è invece vedere le cose prima che siano attuali, in modo da agire, da parteciparvi. A dOCUMENTA(13) le opere ruotavano attorno a problematiche ambientali di crisi ecologica (ricordo il notebook che ho pubblicato in quell’occasione sull’antropocene), ma non si era ancora sviluppato un dibattito in merito all’antropocene che è seguito. Non si tratta quindi di riflettere sull’attualità, ma di capire l’emergere di certe condizioni in modo da far sì che il mondo vada in una direzione piuttosto che in un’altra, che avvengano fatti positivi e siano evitate le catastrofi. Si tratta di partecipare al modo in cui una data questione diventa attuale, ma prima che lo diventi. 

 

Passiamo adesso a un secondo traguardo raggiunto in questo anno che riguarda invece il Castello di Rivoli da te diretto: l’apertura al pubblico del nuovo polo del museo costituito dalla Collezione Cerruti. Potresti raccontare quando è iniziata questa vicenda e come si è sviluppata?

  

Villa Cerutti esterni.


L’apertura della Collezione Cerruti è il terzo grande momento nella storia del Castello di Rivoli. Il primo fu nel 1984 con l’apertura del Castello, sotto la direzione architettonica di Andrea Bruno e artistica di Rudi Fuchs. Il secondo fu il 1999 con l’apertura della Manica Lunga, ancora una volta sotto la direzione architettonica di Andrea Bruno quando al museo era direttore Ida Gianelli. Il terzo momento è il 2019 con l’apertura della villa Cerruti che si trova a soli 400 metri dal Castello.

Sono ormai tre anni che lavoro alla costituzione di questo nuovo polo del museo. L’accordo con la Fondazione Cerruti è stato firmato nella primavera del 2017 e nel luglio dello stesso anno abbiamo fatto l’annuncio accompagnandolo con una mostra al Castello dedicata ai capolavori di de Chirico presenti nella collezione Cerruti. Nella primavera 2018 al museo, inoltre, si è tenuto un convegno su celebri case museo. 

Il ragioniere Francesco Federico Cerruti, deceduto nel luglio 2015, era un collezionista riservato ma ben noto nel mondo dell’arte: ad esempio, prestò la sua opera di Bacon per la mostra Volti nella folla al Castello nel 2005, e acquistò un’opera di Franz Kline dopo aver visto al Castello la mia mostra dedicata proprio a quell’artista. Era anche stato iscritto al gruppo degli Amici del Castello di Rivoli nel 1995. Io non l’ho mai conosciuto personalmente, ma sapevo dell’esistenza della sua bellissima collezione tramite Ida Gianelli. 

 

Villa Cerutti interni.


Pochi mesi dopo la sua morte, nel 2016, quando ero appena diventata direttrice del Castello di Rivoli, il dottor Gianluca Ferrero, suo esecutore testamentario, mi ha riferito che la villa e le opere erano confluite nella Fondazione Cerruti, con il lascito di trasformare la villa in spazio aperto al pubblico affidandola in gestione al vicino Castello e con il vincolo di non spostare la collezione in un altro luogo. Per questa ragione la villa e le opere sono state date in comodato al Castello di Rivoli per la relativa gestione e valorizzazione. 

Per quanto invece concerne la ristrutturazione dell’immobile, è partita nel 2017 e si è svolta dopo aver portato in depositi tutte le opere, i mobili, i tappeti, i libri che sono stati poi studiati dal punto di vista conservativo e storico-artistico: Luisa Mensi ha studiato e fatto le necessarie manutenzioni e interventi di restauro ai dipinti e sculture, Gherardo Franchina i mobili, Mirco Cattai i tappeti, il centro per il restauro di Venaria i libri. Sono stati realizzati tre impianti d’avanguardia: un impianto di sicurezza ai massimi livelli mondiali per evitare di aggiungere vetrine di protezione (ogni oggetto è infatti stato taggato digitalmente e la sua collocazione è identificata esattamente nella centrale di sicurezza); un sistema di climatizzazione che controlla la temperatura e il livello di umidità; un impianto antincendio capace di garantire il non danneggiamento delle opere in caso di attivazione. 

Dopo questo lungo processo di ristrutturazione e studio, il 4 maggio 2019 la villa Cerruti è stata aperta al pubblico: vi possono entrare gruppi di sole dodici persone accompagnate da guide per motivi di sicurezza legati agli ambienti che sono molto piccoli. 

 

In quale modo la collezione del Castello di Rivoli si relazionerà con quella della villa Cerruti?

 

Veduta di The Piedmont Pavilion, Venezia 2019, ph Formentini Zanatta.


La visione delle opere della collezione Cerruti è molto importante: per questa ragione, alcune di esse sono state e saranno esposte al Castello secondo percorsi tematici. 

Dopo l’esposizione delle opere di de Chirico, il Castello ha accolto alcune delle opere di Andy Warhol provenienti dalla villa e a metà luglio 2019 ospiterà altri lavori, tra cui una Madonna col Bambino dell’allievo di Leonardo Marco d’Oggiono e un omaggio alla Gioconda di Gino De Dominicis, in una mostra legata ai cinquecento anni dalla morte di Leonardo. 

Fondamentale è capire che la villa Cerruti fa parte della vita di un museo d’arte contemporanea. Dopo l’era del critico d’arte con Clement Greenberg e dopo l’era del curatore con Harald Szeemann, adesso siamo nell’era del collezionista. Viviamo in un’epoca di archiviazione, dove le modalità secondo cui vengono aggregati dati e informazioni assumono sempre più rilevanza: per questa ragione il metodo intuitivo e associativo del collezionista diventa quanto mai importante da studiare come fenomeno, anche da un punto di vista di sociologia dell’arte. Il Castello di Rivoli, essendo un museo d’arte contemporanea, non poteva pertanto non “collezionare il collezionista”. Esistono alcuni musei d’arte enciclopedici come il Metropolitan e il Louvre che si sono dedicati anche all’arte contemporanea, ma non era mai successo che un museo d’arte contemporanea inglobasse l’antico.

 

Infine, una domanda sul Padiglione del Piemonte inaugurato a Venezia pochi giorni fa. Come è nata l’idea di dedicare una mostra al Piemonte?

 

La mostra è curata da Marianna Vecellio. Siamo in un’epoca in cui si assiste a un forte ritorno dei nazionalismi, o almeno a una costruzione mediatica di nazionalismi. Allora ho pensato che ci fosse un vuoto in merito ai regionalismi che invece erano stati molto importanti negli anni Sessanta e Settanta quando si studiava il folklore, le canzoni popolari, si valorizzavano le culture, il cibo e l’ambiente locali. Negli anni Ottanta e Novanta ci sono stati i separatisti regionalisti, anche con la nascita della Lega Nord in Italia, ed erano legati a fattori economici in quanto miravano a rendere autonome le aree economicamente più fiorenti dalle altre con più difficoltà. 

Essendo quella attuale un’epoca caratterizzata da grandi nazionalismi, chiamati oggi “sovranisti”, che si contrappongono alla globalizzazione internazionale, ho pensato di creare invece un padiglione per parlare di un territorio che risulta ormai vuoto di riflessione, cioè del territorio attorno al nostro rapporto con la terra locale e nello specifico con la terra della regione Piemonte, con il suo vino, i suoi tartufi, un territorio legato simbolicamente a temi come l’eternità, la metafisica, lo slow-food e l’understatement…. Mi sembrava che la conoscenza legata a una terra specifica fosse un territorio che potesse essere valorizzato in una mostra. 

Uno dei momenti propulsivi più importanti dell’arte contemporanea, per esempio, è stato il Congresso di Alba del 1956 voluto dall’artista-chimico-enologo Pinot Gallizio.

 

Villa Cerutti interni.


In quale relazione il Padiglione si pone nei confronti della Biennale di Venezia 2019 e quali tematiche affronta nello specifico?

 

Non si tratta esattamente di un padiglione. Non è un padiglione ufficiale della Biennale perché non esiste uno stato del Piemonte, ma è una mostra che si intitola Che tu possa vivere tempi interessanti ai piedi dei monti.… Come evidenzia il titolo, prende spunto dal tema della Biennale di Venezia di questo anno, il cui titolo May You Live In Interesting Timesè un’espressione della lingua inglese a lungo attribuita a un’antica maledizione cinese, della cui esistenza non si ha però effettiva prova e che evoca periodi di incertezza, crisi, guerre, catastrofi; “tempi interessanti” intesi come caratterizzati da eventi negativi. 

La mostra nasce da questa riflessione: se da un lato non esiste un paese che si chiama Piemonte, dall’altro esiste una realtà che noi tendiamo a non voler indagare; la specificità di certi territori. 

A mio avviso, il Piemonte ha alcune specificità tra cui la volontà di scavalcare le Alpi per connettersi con luoghi molto lontani. Non a caso è stata la Lavazza a ideare la macchina ISSpresso per la Space Station dove, a causa dell’assenza di pressione nello spazio, non era possibile fare il caffè. A Venezia, accanto ad opere d’arte, abbiamo perciò esposto oggetti e invenzioni piemontesi come la ISSpresso, ma anche come la sonda Odyssey, realizzata a Collegno da Thales-Alenia Space, grazie alla quale abbiamo ricevuto e riceveremo le fotografie di Marte. 

Altra specificità del Piemonte è il senso di essere orfani: orfani dei Savoia, orfani degli Agnelli e anche dell’Arte povera dei cui artisti in questa regione si vive nell’ombra ma anche fieri di averli avuti. Per la mostra a Venezia, il giovane artista Renato Leotta ha creato un’opera proprio da questa premessa: anziché invadere lo spazio con qualcosa di “suo”, ha deciso di illuminare la mostra con fari di automobile FIAT che ovviamente non illuminano le opere e gli oggetti esposti come farebbero i faretti del museo, ma emettono una luce “cacofonica”.

Caratteristica della mostra è quindi un’ironia e una leggerezza che vanno di pari passo, spero, alla complessità.

 

Forse l’unione di ironia, leggerezza e profonda complessità è anche caratteristica e qualità della stessa Carolyn Christov-Bakargiev che ringrazio vivamente per avermi concesso questa conversazione. 

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Profughi bianchi, neri, e color caffelatte

Leonard Cohen e Marianne Ihlen

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I giorni della gentilezza

Nel settembre del 1960, grazie a un lascito ereditario, Leonard Cohen comprò una casa sull’isola greca di Hydra per 1500 dollari. Sull’isola era giunto qualche mese prima con l’intenzione di dedicarsi alla scrittura, confidando in un clima più mite rispetto al natio Canada e in un cielo meno avverso rispetto alla Londra dov’era sbarcato da poco. Cohen aveva appena compiuto ventisei anni ma era già autore di due raccolte poetiche: Let us compare mythologies, pubblicata nel 1956, e The Spice-Box of Earth, che l’editore di Toronto McLelland & Stewart avrebbe stampato di lì a poco. 

 

Fra gli anni ’50 e gli anni ’60 l’isola di Hydra era diventata rifugio di artisti provenienti da ogni dove. Vi si potevano incontrare degli australiani (gli scrittori George Johnston e Charmian Clift), degli inglesi (il pittore Anthony Kingsmill), degli scandinavi (lo scrittore norvegese Axel Jensen e il poeta svedese Göran Tunström), degli israeliani (il giornalista Amos Elon) e persino un contingente di svizzeri estranei all’arte ma attratti dallo stile di vita mediterraneo (il banchiere Henri Bordier, l’uomo d’affari Maury Cohen e Alexis Bolens, già mercenario in Katanga e coltivatore di limoni in Sud Africa, un bon viveur che amava il poker e allestire sontuose feste in collina). Il bel mondo dell’epoca finì col fare tappa sull’isola: Sophia Loren e Brigitte Bardot, Jules Dassin e Jackie Kennedy, Allen Ginsberg e Henry Miller (il quale, nel suo resoconto di viaggio in Grecia, Il colosso di Marussi, colpito dalla bellezza dell’isola, scrisse della “selvaggia e nuda perfezione di Hydra”, e dei suoi abitanti scrisse che “raccontare le gesta degli uomini di Hydra sarebbe scrivere un libro su una stirpe di folli; tracciare la parola AUDACIA attraverso il firmamento a lettere di fuoco”). All’arrivo di Leonard Cohen l’isola non s’era ancora dotata di una rete fognaria, i telefoni erano una rarità e poche case erano munite di corrente elettrica. In una lettera alla sorella, richiamandosi al romanzo di Daphne du Maurier, Cohen sottolineò che di notte si aggirava per casa alla luce delle candele “come la governante di Rebecca”.

 

Cohen sull’isola viveva solo. Una sera notò una coppia passeggiare mano nella mano nel porto di Hydra. Scoprì che si trattava dello scrittore norvegese Axel Jensen e della moglie Marianne Ihlen. Cohen osservò la coppia con una certa invidia, fantasticando sulla felicità a due in un posto del genere. Un posto del genere, in verità, più che la fedeltà coniugale incoraggiava la mobilità di coppia. Ogni anno, al cambio di stagione, la comunità artistica di Hydra non sfoderava soltanto capi più leggeri, ma si riassestava anche sul piano sentimentale. “L’isola nutriva l’arte e distruggeva le relazioni”, scrisse Ira B. Nadel, il biografo ufficiale di Leonard Cohen (o, per dirla con Cohen, il biografo benevolmente tollerato da Leonard Cohen). Axel Jensen, marito di Marianne e padre del piccolo Axel Joachim, s’era invaghito della pittrice americana Patricia Amlin, e di lì a poco se ne sarebbe partito in barca a vela alla volta del Pireo, abbandonando moglie e figlio su Hydra.

 

 

Della storia d’amore fra Leonard Cohen e Marianne Ihlen si è molto detto e molto si è scritto. C’è beninteso quella canzone – So long, Marianne– in cui Cohen con maestria provò a fissare i risvolti psicologici della loro relazione (You held on to me like I was a crucifix / As we went kneeling through the dark; ti aggrappasti a me come a un crocifisso / mentre in ginocchio attraversavamo il buio; e ancora: I’m standing on a ledge and your fine spider web / Is fastening my ankle to a stone; Sto su un precipizio e la tua sottile ragnatela assicura la mia caviglia alla pietra), ci sono le lettere andate di recente all’asta da Christie’s (in una di queste, spedita da Montreal, Cohen scrive: “mi sovviene la sera in cui passeggiammo lungo Rue des Ecoles. Appoggiasti la testa al mio braccio, e ti stringesti forte a me chiudendo gli occhi, lasciandomi l’incombenza di vedere per entrambi. Nulla mi ha mai commosso come quell’atto di fiducia”), c’è il bel libro della giornalista norvegese Kari Hesthamar, So long Marianne. Ei kjærleikshistorie, tradotto anche in lingua inglese, e a breve arriverà un documentario di Nick Broomfield, Marianne & Leonard: Words of love, presentato in anteprima al Sundance Festival e la cui uscita nelle sale americane è prevista per inizio luglio.

 

A Marianne Leonard Cohen dedicò la sua terza raccolta poetica, Flowers for Hitler, edita da McLelland & Stewart nel 1964. Fu per lui amante e musa, finì ritratta sul retro di copertina del suo secondo disco, Songs from a room, seduta alla scrivania nello studio di Leonard a Hydra, cinta soltanto da un asciugamano davanti alla macchina per scrivere, ispirò canzoni e poesie (oltre alla citata So long, Marianne, anche Hey, that’s no way to say goodbye, che si apriva su questo sensuale quadro domestico ai tempi di Hydra: I loved you in the morning, our kisses deep and warm / Your hair upon the pillow like a sleepy golden storm; Ti ho amata di mattino, i nostri baci profondi e caldi / I tuoi capelli sul cuscino, come un’assonnata tempesta d’oro), fu amica e confidente quando Cohen si provò titubante alla canzone, compagna di viaggio quando attraversarono l’Europa in macchina dalla Grecia alla Norvegia, affettuosa assistente che ogni mattina, a Hydra, prima che Leonard si mettesse al lavoro, collocava una gardenia di fronte alla macchina per scrivere. You are the woman / who released me, confidò Cohen anni dopo in una poesia inedita intitolata The Poetry Place: sei la donna che mi ha liberato.

 

La relazione intermittente fra Leonard Cohen e Marianne Ihlen durò all’incirca sette anni, dall’autunno del 1960 al 1967, l’anno in cui in California andò in scena l’estate dell’amore. Una curiosa coincidenza, a ben vedere, quasi un passaggio di testimone: l’amore da spiaggia privata scoppiato su Hydra nel 1960 quando Cohen era già un poeta affermato ma non ancora un cantante (il suo primo disco, Songs of Leonard Cohen, fu pubblicato proprio nel 1967), finì quando a San Francisco la comunità hippie di Haight-Ashbury si avventurò per parchi e appartamenti sfitti cantando di amore libero e di pace universale. Anni dopo, quando Kari Hesthamar intervistò Leonard Cohen per il libro sulla storia d’amore fra lui e Marianne, Cohen tenne a sottolineare la fragilità di quella relazione. Come ogni giovane scrittore, ammise Cohen, avevo fame di esperienze. Volevo molte donne, conoscere paesi diversi, sperimentare climi diversi. Non appena mi stancavo di qualcosa, passavo ad altro. Se qualcosa non mi convinceva, mollavo tutto, fosse una donna, una poesia, o un paese. Finché ho capito che niente funziona mai come vorresti. Ma mi ci è voluta una vita per capirlo, e per accettarlo (The troubles followed me / From bed to bed– i guai mi seguivano di letto in letto, troviamo in una poesia contenuta nella raccolta postuma di Cohen, The Flame, edita lo scorso anno da McLelland & Stewart).

 

 

In quella stessa intervista rilasciata a Kari Hesthamar, Cohen rilevò anche come tutte le relazioni nate sull’isola di Hydra finirono col perdersi. All’epoca nessuno di noi ne era consapevole, disse Cohen, ma quelle relazioni non erano in grado di reggere il peso che la vita lontano dall’isola ci avrebbe riservato. Non importa quali fossero le premesse, se ideali, sessuali oppure romantiche, nessuna di quelle storie sarebbe sopravvissuta alle sfide che la quotidianità ci avrebbe imposto. Oggi le custodiamo in noi, le onoriamo e riconosciamo che ci nutrirono, ma allora eravamo giovani, e sentivamo la necessità di rifiutare le regole che ci erano state imposte. Tutti i nostri errori furono errori importanti. Tutti i nostri tradimenti furono tradimenti importanti. Tutto ciò che facevamo era pervaso di una sfolgorante rilevanza. Ma questa, concluse Cohen, era la gioventù. Giudizio severo, quello di Cohen, senza sconti, ma con l’attenuante, appunto, dell’ingenuità giovanile. L’isola di Hydra come una sorta di avamposto o di monito, a posteriori, per l’avventura degli hippie che sarebbe sbocciata di lì a poco, nei mesi in cui le strade di Leonard e Marianne si stavano già separando.

 

Marianne Ilhen ha confessato di aver sognato Leonard Cohen per quarant’anni dopo la fine della loro relazione. Sempre nella raccolta postuma The Flame, Leonard Cohen a un certo punto scrive: True love is what happens between two people / who no longer need to know each other (il vero amore è ciò che accade fra due persone / che non hanno più necessità di conoscersi). Nei giorni scorsi, ascoltando Shepherd in a Sheepskin Vest, il nuovo disco di Bill Callahan, il cantautore che per tono e ombrosità oggi rimanda forse in modo più evidente a Leonard Cohen, mi sono imbattuto in questi versi: True love is not magic / It's certainty / And what comes after certainty / A world of mystery (il vero amore non è magia, ma certezza, e ciò che arriva dopo la certezza, un mondo di mistero). In un’altra raccolta di Leonard Cohen, Stranger Music: Selected Poems and Songs (McLellan & Stewart, 1993), troviamo una poesia scritta sull’isola di Hydra nel 1985, quasi vent’anni dopo la fine della storia con Marianne. La poesia s’intitola Days of kindness, i giorni della gentilezza, e Cohen fra le altre cose scrive: “Quel che ho amato della mia vecchia vita / Non l’ho dimenticato / È la mia spina dorsale / Marianne e il bambino / I giorni della gentilezza / Risale lungo la spina dorsale / E si manifesta sotto forma di lacrime / Prego che questa memoria / Persista pure in loro / Le persone preziose a cui rinunciai / Per educarmi al mondo”.

 

 

Nel 2016 un caro amico di Marianne Ihlen, Jan Christian Mollestad, contattò via e-mail Leonard Cohen comunicandogli che Marianne era in fin di vita. Leonard rispose, sempre via e-mail, con un messaggio che lo stesso Mollestad riferì nel corso di un programma radiofonico del servizio pubblico canadese. Nel giro di poche ore le parole riportate da Mollestad in radio fecero il giro del mondo, suscitando un’immensa eco. Queste le parole: “Bene Marianne, eccoci dunque diventati molto vecchi, i nostri corpi ci stanno abbandonando, e credo che presto ti seguirò. Sappi che ti sono così vicino che se allunghi la mano, puoi raggiungere la mia. Sai che ti ho sempre amata per la tua bellezza e la tua saggezza, anche se è inutile che ti dica queste cose, perché le sai fin troppo bene. Ora voglio solo augurarti buon viaggio. Arrivederci mia vecchia amica, amore senza fine, ci vediamo in fondo alla strada”. Le parole riferite da Jan Christian Mollestad in antenna (qui la possibilità di riascoltare l’intervista) non corrispondono però a quanto effettivamente scritto a Marianne da Leonard Cohen. Nel 2018 lo storico inglese Simon Sebag Montefiore ha dato alle stampe un’antologia di lettere intitolata Written in History. Letters that Changed the World, edita da Weidenfeld & Nicolson, dove, accanto a lettere di Mandela, Stalin, o Michelangelo, riporta anche il messaggio originale che Cohen scrisse a Marianne, messaggio riprodotto con il consenso dei legali di Cohen. Il messaggio originale di Cohen recitava così: “Carissima Marianne, sono appena dietro di te, così vicino da poterti prendere per mano. Questo vecchio corpo si è arreso, proprio come il tuo, e l’avviso di sfratto arriverà da un giorno all’altro. Non ho mai dimenticato il tuo amore e la tua bellezza. Ma questo già lo sai. Non ho altro da aggiungere. Fai buon viaggio, amica mia. Ci vediamo in fondo alla strada. Amore e gratitudine. Leonard”. Mollestad aveva cioè riassunto con parole sue, o meglio, parafrasato, il messaggio ricevuto da Cohen, messaggio che nell’originale risulta decisamente più asciutto e meno enfatico rispetto alla versione che fece il giro del mondo e che alcuni, oggi, sull’esempio del figlio di Cohen, Adam, interpolano al testo della canzone interpretando So long, Marianne (qui l’articolo di Tanya Dalzieli e Paul Genoni che fa luce sulla vicenda).

 

 

Marianne Ihlen morì il 28 luglio del 2016 e Leonard Cohen la seguì poco dopo, il 7 novembre di quello stesso anno. Quando s’era imbattuta in Leonard la prima volta sull’isola di Hydra, Marianne era rimasta colpita dal suo sguardo e dalla sua gentilezza. Ai suoi occhi Cohen era “il canadese dai capelli scuri, la coppola, le scarpe da tennis e lo sguardo intenso”, ma furono soprattutto le buone maniere a conquistarla. Leonard Cohen era un uomo d’altri tempi, di quelli che si levano il cappello non appena una donna entra in un ascensore. La loro unione non ebbe niente a che spartire con le rocambolesche storie d’amore del rock. Quelle sarebbero arrivate dopo, anche per Cohen. Questa sbocciò e si consumò prima che Cohen diventasse il Leonard Cohen che conosciamo. Fu la storia fra un poeta e la sua musa, non quella fra un cantante di rock e una groupie. Ci sono due scene, o due immagini, cui Leonard Cohen confessò di tornare spesso. La prima è domestica, nella casa di Hydra, e richiama la canzone Hey, that’s no way to say goodbye citata poc’anzi. Un’immagine che può essere riassunta così: lui è seduto sulle scale e sta vegliando Marianne che dorme, i capelli biondi scompigliati sul cuscino alla luce delle candele e delle lampade a olio. Per Cohen quell’immagine esplicita la prima esclusiva versione del suo destino, una poesia minore, troppo pura e inutile per evaporare dalla mente. La seconda scena invece si svolge ad Atene. È mattina, dopo aver fatto colazione in albergo, lui e Marianne sono su un taxi diretti al porto, dove li aspetta un battello che li ricondurrà a Hydra. Sono i primi tempi della loro relazione, autunno del 1960 o giù di lì. Nel ricordo di Cohen entrambi siedono sul sedile posteriore del taxi, lui sta fumando una sigaretta greca e pensa: ho una vita mia, sono un adulto, sto con questa donna bellissima, non abbiamo soldi ma stiamo tornando a Hydra. Cohen sostenne di aver tentato di ricreare il sentimento che provò allora, su quel sedile di taxi, un’infinità di volte, senza mai riuscirci. Un ricordo da niente, in apparenza. Ti senti adulto, stai fumando e sei su un taxi accanto alla donna che ami, il tuo corpo è abbronzato e stai per salire su un battello che ti riporterà a casa. Nient’altro. Eppure quel sentimento persiste più di altri nella sua non riproducibilità. Scherzi di gioventù. O, per dirla con Cohen: Greece is a good place / to look at the moon, isn’t it? / You can read by moonlight / You can read on the terrace / You can see a face / as you saw it when you were young (La Grecia è un buon posto per guardare la luna, non vi pare? / Puoi leggere al chiaro di luna / Puoi leggere sulla terrazza / Puoi rivedere un volto / così come ti apparve quando eri giovane).

 

Adam Cohen, figlio di Leonard, canta “So long, Marianne”.

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Tommaso Landolfi a quarant'anni dalla scomparsa

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La vita come scommessa da perdere da signoriè un verso di Pasolini, tratto da uno degli epigrammi della Religione del mio tempo, ma ho sempre pensato che potrebbe adattarsi magnificamente a descrivere la  vita e l’opera di Tommaso Landolfi, di cui quest’anno, l’otto luglio, ricorre il quarantesimo della scomparsa. Del resto, secondo la figlia Idolina, amorevole interprete e studiosa, anche lei scomparsa, prematuramente, nel 2008, l’intera opera del padre non sarebbe che una lunga, articolata autobiografia.

È stato un autore prolifico Landolfi, una trentina di volumi, prevalentemente di racconti, per un totale di oltre duemila pagine, senza contare le svariate traduzioni, perlopiù dal russo e dal tedesco. Di lui si sono occupati critici insigni, quali Bo, Baldacci, Contini, Cortellessa e altri. Però rimane, pare, più uno scrittore per scrittori che uno scrittore per il pubblico. In uno dei suoi tre “diari”, tutti con titolo francese, Rien va (1963), così annotava sconsolato a proposito di alcuni errori di stampa di cui s’era accorto: “chi mai correggerà visto che io non arrivo mai alla seconda edizione?”.

 

In effetti bellissime pagine su di lui hanno scritto “colleghi” come Sanguineti, Zanzotto e Calvino. Quest’ultimo, rinverdendo una tradizione dell’editore Treves, procurò per Rizzoli, nel 1982, una corposa antologia intitolata Le più belle pagine di Tommaso Landolfi scelte da Italo Calvino. Se posso fare dell’autobiografia, fu per i giovani (per me, giovane, allora) una vera rivelazione. Nessuno a scuola ci aveva mai parlato di Landolfi. Rimediava Calvino con più di quattrocento pagine, ordinate non cronologicamente, ma per temi: “racconti fantastici, ossessivi, dell’orrido, tra autobiografia e invenzione, l’amore e il nulla, piccoli trattati, le parole e lo scrivere”. Ho trascritto, semplificando, la partizione calviniana per dare un’idea, a chi ne fosse del tutto sprovvisto, di quale fosse l’orbita in cui si muoveva Landolfi.

 

Cercherò qui di tratteggiare alcuni aspetti di quest’autore che pare inesauribile, oltre che di difficile classificazione, e per questo, per taluni, anche irritante.

Era nato il nove agosto 1908 a Pico Farnese (sì proprio quello dell’omonima elegia di Montale, che la scrisse lì nel 1937, e precisamente quand’era suo ospite). 

Questa località di poche migliaia di abitanti passò, nel 1926, dalla provincia di Caserta a quella di Frosinone. Su questa dislocazione forzata, imposta da un “regime tirannico”, Landolfi protestò in uno scritto, I contrafforti di Frosinone, pubblicato in volume nel 1960 (Se non la realtà).

Solo chi ignorava storia, geografia, e financo i dati linguistici, dialettologici, poteva compiere un misfatto simile. Il nostro autore, titolato tutta la vita a torto di “ciociaro”, si sentì sempre un campano in esilio invece, assieme agli altri suoi compagni di sventura.

 

Uno spaesamento originario pare dunque presiedere all’esistenza terrena di Landolfi. A questo si aggiunga il trauma della perdita precocissima della madre, subìto ad appena due anni d’età.

Fu cresciuto dal padre, appartenente ad una famiglia di antichissima nobiltà, e da una delle cugine, la mitica Fosforina Tumulini, dedicataria del Mar delle blatte e altre storie (1939).

Questo, del blasone nobiliare, è uno degli elementi costitutivi del “mito landolfiano”.

Non solo nei diari molte pagine sono dedicate ai lamenti del “rampollo degenere”, del nobile decaduto, chiuso nel castello avito, mezzo diroccato, che si aggira nelle sue stanze crollanti, gelide, sotto zero. Né si è depositato solo nella leggenda orale: “non voglio essere il primo della mia stirpe ad accettare l’onta del lavoro” avrebbe risposto a Leone Traverso, che nel 1962 gli offriva una cattedra di letteratura russa all’Università di Urbino. Anche nel resto dell’opera ci sono consistenti tracce di tale resistente “complesso dell’aristocratico”.

 

Basterebbe il folgorante racconto d’esordio Maria Giuseppa che è del 1929 ma che aprì, solo nel 1937, la raccolta Dialogo dei massimi sistemi, inaugurazione della sua carriera di scrittore. Qui si descrivono le continue e raffinate angherie cui è sottoposta un’ingenua e anziana fantesca da parte di un  giovane che si chiama Giacomo, tormenti che, indirettamente, arriveranno a causarne la morte. Giacomo è bensì, per chiari segni, quello che si potrebbe definire a ragione un “uomo del sottosuolo” (Landolfi tradurrà poi effettivamente qualche anno dopo il celebre testo dostoevskijano) che tormenta, “nella grande casa ormai senza abitatori”, vecchie domestiche però e non giovani prostitute, ma è anche, e forse più, un ozioso “giovin signore” di pariniana memoria, o “disutilaccio”, come lo definirà l’autore stesso quasi trent’anni dopo (La vera storia di Maria Giuseppa in Ombre, 1954). 

Prendiamo poi il Racconto d’autunno, del 1947. È una singolarissima declinazione dell’epopea resistenziale, tutta sfumata nell’indistinto, senza determinazioni di sorta: “La guerra mi aveva sospinto, all’epoca di questa storia, lontano dai miei abituali luoghi di residenza. Due formidabili eserciti stranieri si scontravano allora sul nostro suolo, conducendo una campagna cruenta e che parve infinita alla maggior parte della popolazione…”. Anche qui, a dominare la scena, e non solo a fornire il fondale dell’azione, è una dimora aristocratica in abbandono, con tutti i suoi bui cunicoli e i suoi misteri, vero e proprio labirinto, che custodisce terribili segreti familiari.

L’altro elemento del dittico mitografico landolfiano è, si sa, il gioco.

 

 

Il nostro autore fu, tutta la vita, un accanito giocatore e, come da manuale, fu un perdente cronico, salvo rarissime e luminosissime eccezioni. Una di queste, ossia un brevissimo ma estatico periodo di vincite al casinò, è descritto con dovizia di particolari nel primo dei diari sopra citati, l’ambiguo LA BIERE DU PECHEUR del 1953 (ambiguo perché traducibile sia come “bara del peccatore” che come “birra del pescatore”). Alla fine di quelle pagine però, e come a ribadire che non di normalità si trattava, ma di momentanea elusione del destino solito, l’autore si chiede: “come mai c’è un chiaro limite alle vincite e non ve n’è alcuno alle perdite?”.

È chiaro che la pagina landolfiana trabocca di riferimenti al gioco. E di sue definizioni.

Si parte dalla Lettera di un romantico sul gioco (in La spada 1942): “sia lode al gioco, la più alta attività dello spirito umano”. Si passa per LA BIERE…: il gioco come “attività sessuale, lasciamo qui stare se compensatoria o meno”. Si arriva a Rien va dove il gioco è addirittura “volontà di potenza” o anche, riformulando il dettato della Lettera, “l’essenza prima dello spirito”.

 

Strettamente connesso al gioco è il caso, naturalmente. A questo dio volubile Landolfi parrebbe voler sommettere anche la sua attività di scrittore: “vivere a caso fu già affermato unico verso per vivere: perché dunque, del pari ed anzi a maggior ragione (il meno essendo contenuto nel più), non scrivere a caso?”. (Dove reperire affermazioni di tal genere, se non nel racconto eponimo del volume uscito nel 1975, vincitore dello Strega e intitolato giustamente A caso?).

Già in un libro del 1962, In società, nel racconto La dea cieca e veggente, si narrava dello scrittore Ernesto, dedito a comporre le sue poesie estraendo letteralmente a sorte le parole, da un suo recipiente fatto costruire per la bisogna e “molto simile a quelli in uso per le lotterie”.

In realtà la pagina di Landolfi è sorvegliatissima, niente è lasciato al caso, sembra.

Lo scrittore segue procedure precise, ricorrenti.

L’attacco del racconto Voltaluna (La spada) pare possedere la perentorietà di una dichiarazione di poetica: “Si danno ore, e perfino interi giorni, che sono, lo dico senza ambagi, come strappi nel tessuto approssimativo e plausibile della nostra esistenza.” E prosegue poco dopo: “È, in una parola, come se v’avessero costretto a buttare un’occhiata sull’oscuro rovescio delle cose, là dove tutto è gelo e orrore. Ossia come se aveste dato di volta alla luna”.

 

Se Lautréamont s’era compiaciuto di mostrare “il puerile rovescio delle cose”, Landolfi indaga a sua volta l’oscuro rovescio delle cose. Il lato in ombra. Parte dall’ovvio, dal banale, dal quotidiano più trito – ma per rivelarne l’aspetto sconosciuto, torbido, inquietante. La realtà diventa surrealtà. Magari per eccesso di realismo, come in certe pitture di Vallotton. 

Secondo questo schema è del resto l’inizio di quello che viene considerato il suo capolavoro, il racconto lungo o romanzo breve La pietra lunare del 1939. Sottotitolo: scene dalla vita di provincia. (La provinciaè una presenza quasi ossessiva nei testi landolfiani, pieni come sono di lettere dalla provincia, ragazze di provincia, notti provinciali et similia).

 

Si parte da una tranquilla e sonnacchiosa serata di conversazioni in cucina, con uno zio che fa gli onori di casa a un nipote studente venuto in visita, ma ben presto l’ovvio e la noia sono stracciate dall’irruzione devastante dell’anomalo. Il giovane studente si accorge che qualcuno lo sta osservando. “E allora, d’improvviso, il giovane si sentì guardato. Dal fondo dell’oscurità, resa più cupa da un taglio alto di luce lunare sul muro di cinta, due occhi neri, dilatati e selvaggi, lo guardavano fissamente”.

La titolare di questo bel paio d’occhi indagatori è un’affascinante ragazza a nome Gurù. La quale, se a sua volta osservata dal giovanotto, mette in mostra una singolarità su cui non si può sorvolare: “Il giovane seguì con viva soddisfazione la linea delle cosce affusolate… lasciò scivolare lo sguardo sul tornito ginocchio… in luogo della caviglia sottile e del leggiadro piede, dalla gonna si vedevano sbucare due piedi forcuti di capra, di linea elegante, a vero dire, eppure stecchiti e ritirati sotto la seggiola”.

Costei è Gurù, la donna-capra, la sacerdotessa del mistero lunare, la dominatrice degli animali, come la potnia theron omerica, la versione femminile di Pan, che prenderà per mano il giovane Giovancarlo e lo condurrà sulle alture circostanti per iniziarlo a riti oscuri, a combattimenti con spiriti di briganti antichi, a un vero e proprio sabba e, infine, alla visione delle misteriose divinità chiamate Madri, come nel Faust, ma un Faust alpestre e villereccio. Dopo, dopo che è stata “voltata la luna”, tutto ritornerà nell’alveo della più scontata normalità. Lo studente Giovancarlo ritornerà in città per gli esami, Gurù, la donna-capra-non-capra lo saluterà dalla finestra agitando il fazzoletto che sventolerà a lungo nell’aria della sera.

Il rovesciamento è un’altra delle tipiche modalità landolfiane.

 

Il caso più clamoroso è dato da Il babbo di Kafka (La spada). Qui si assiste a un ribaltamento netto dei ruoli della Metamorfosi: è il padre a essere trasformato, non in insetto, ma in ragno, ragno dalla testa d’uomo. Il figlio procede alla sua eliminazione, o almeno così crede.

In La spada ci sono varie altre occorrenze del fenomeno. In La melotecnica esposta al popolo, Montale è presentato come “celebre baritono profondo”, autore, è vero, di un paio di libretti di versi “non privi al certo di pregi”, ma ben lontani dall’eccellenza ch’egli ha raggiunto sulle scene. Il poeta stesso sarà stato lusingato da questa spiritosa messinscena.

In Nuove rivelazioni della psiche umana. L’uomo di Mannheim sono cani, nobilcani e nobilcagne per l’esattezza, che concedono a un cane scienziato di condurre indagini sul loro uomo di casa, sul loro umano domestico, per stabilire se esso sia o non sia in grado d’intendere il complesso linguaggio canino.

Così come, nell’epilogo del volume, si adotta il punto di vista di una piattola, per descrivere la meravigliosa architettura del corpo umano.

 

Ciò ci consente di soffermarci un istante sul ruolo degli animali nei testi di Landolfi. Essi sono onnipresenti. Anche in costante polemica contro il nostro invincibile, borioso e vano antropocentrismo. Memorabile in tal senso è la scimmia (scimia) Tombo, protagonista di Le due zittelle (e non zitelle) del 1946. Il primate in questione sfugge alla sorveglianza delle due nubili sorelle, per celebrare un’autentica messa, con tanto di ostie consacrate e vino benedetto e corporale, nella cappella attigua alla loro abitazione, sita in uno “scuorante quartiere” d’un’altrettanto “scuorante città” (Roma). Due sacerdoti si sfideranno, a colpi di citazioni teologiche, per decidere il destino del cercopiteco blasfemo, o del tutto innocente, dipende.

Altre volte, a decidere il destino d’un racconto, è quello che il nostro autore, amante degli arcaismi, chiamava “bischizzo”.

Un ragazzo esce dalla bottega d’un barbiere per salutare il babbo: “Papà, papà, guarda che bel taglio!” e dentro quel taglio, sorprendentemente dilatato, si apre una scena che contiene tutti i luoghi comuni del racconto d’avventura. Un gioco, ma giocato a partire dalla polisemia del termine “taglio”.

Oltre il gioco, già nei territori dello sberleffo aperto, pare aggirarsi un testo come La passeggiata, ad apertura di Racconti impossibili (1966): “La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima”. Bisogna leggerlo con l’ausilio della successiva Conferenza personalfilologica con implicazioni (Le labrene 1974).

 

Qui, nell’immaginaria conferenza, Landolfi chiarisce l’arcano. Non di parole dialettali picane si trattava né, tanto meno, di parole inventate, come supposto avventatamente da due “sopracciò” della critica, sprovvisti, nota Landolfi, del più elementare fiuto linguistico e anche di quello letterario (e allora come fanno ad esercitare il loro magistero?, si chiede l’autore). Le parole sono tutte contenute in un frusto Zingarelli, cioè in un normalissimo dizionario dell’uso, non in un dizionario storico, che so il Tommaseo-Bellini ad esempio, da cui D’Annunzio non si separava mai, nemmeno in guerra.

Una beffa in piena regola, compiuta ai danni di critici che nemmeno si prendono la briga di consultare un vocabolario.

E anche un modo per esercitare un giusto distacco verso la propria opera. Lo stesso distacco che Landolfi manifestò nei confronti della vita.

Se Cardarelli disse che lui, la vita, l’aveva castigata vivendola, Landolfi così si espresse al proposito: “Non c’è niente da fare contro la vita, fuorché vivere, press’a poco come in un posto chiuso dove si sia soffocati dal fumo del tabacco non c’è di meglio che fumare”.

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Stazioni fantasma sotto il muro di Berlino

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Le considerazioni che seguono, e altre che si aggiungeranno nei prossimi mesi, al di là del fornire alcune documentazioni e notizie relative alla passata realtà quotidiana nella Germania e nella Berlino divise, hanno l’auspicio di poter essere fonte di riflessione, prese le debite distanze dai coinvolgimenti emotivi e politici, per meglio affrontare e valutare la contemporaneità (nostalgie, demonizzazioni, celebrazioni, anniversari) con un poco di lucidità e qualche strumento in più.

 

Il muro di Berlino, oltre che ergersi in altezza e lunghezza a circoscrivere la superficie del territorio urbano, conobbe anche un’esistenza sotterranea che influenzò pesantemente gli spostamenti e la circolazione dei mezzi pubblici. Nel dopo guerra le reti di U-Bahn (Untergrundbahn, ferrovia sotterranea) e S-Bahn (Schnellbahn o Stadtbahn, ferrovia veloce o metropolitana), provate dal disastroso conflitto e riattivate solo parzialmente, erano gestite da amministrazioni diverse ma circolavano ancora liberamente tra i vari settori della città divisa. Berlino Ovest, Berlin (West) ufficialmente, West-Berlin colloquialmente o Westberlin secondo il lessico della DDR, era una enclave occidentale nel cuore della Repubblica Democratica Tedesca, formalmente gestita dalle truppe di occupazione alleate e legata alla Germania Federale (la Germania di Bonn, come si diceva all’epoca). Berlino Est, Berlin (Ost) formalmente, Ost-Berlin, secondo gli occidentali, Berlin, Hauptstadt der DDR (Berlino, capitale della DDR), a dire della DDR stessa, era il settore orientale filo-sovietico, unico a potersi fregiare ancora del titolo di capitale.

 

La mappa delle zone di occupazione nella Berlino divisa e circondata dal territorio della DDR.


La direzione della sotterranea, che per altro circolava e circola tuttora in superficie in ampi tratti di percorso, apparteneva all’occidente mentre la sopraelevata, che a sua volta conosceva e continua a conoscere svariati transiti nel sottosuolo, era di proprietà delle ferrovie della Repubblica Democratica Tedesca. I residenti di Berlino Ovest, dopo i moti di protesta del 1953 scatenatisi tra gli operai edili dell’est e ferocemente repressi dai militari sovietici, presero a evitare il più possibile la frequentazione del settore orientale e sui treni si iniziò a segnalare tramite altoparlanti l’avvicinamento a quello che incessantemente si trasformava in confine di stato. In seguito il governo filosovietico impose sempre crescenti restrizioni ai propri cittadini che, soprattutto per motivi di lavoro, superavano la frontiera interna alla città. L’inaspettata e spaesante costruzione del muro nel 1961 fece il resto. I quartieri di Berlino Ovest furono progressivamente circondati da un muro in cemento armato, alto poco più di 3 m. e lungo circa 155 km, che li avrebbe totalmente isolati dal resto del Paese che avevano intorno (la DDR). Le comunicazioni tra i settori est e ovest della città furono bruscamente interrotte e una vera e propria rivoluzione ebbe luogo anche nell’ambito dei trasporti. Alcune stazioni vennero a trovarsi proprio sulla linea del muro (la futura terra di nessuno), magari con un accesso in territorio occidentale e un altro in quello orientale (Nordbahnhof, Wollankstraβe). Seguirono abbattimenti, chiusure, accessi murati. I quartieri orientali “sovietici” privilegiarono la S-Bahn e ridussero a soltanto due le linee della U-Bahn in attività. 

 

Mappa dei trasporti U e S-bahn di Berlino Est.


Berlino Ovest operò in senso opposto, boicottando politicamente e operativamente le linee della sopraelevata che continuarono a circolare sul territorio occidentale ancora gestite dalla Deutsche Reichsbahn, le ferrovie del nemico. Linee di autobus parallele al percorso della S-Bahn furono istituite e privilegiate dagli utenti, sia in nome della promozione del mito automobilistico capitalista (Autogerechte Stadt), che del danno economico provocato dall’astensione a finanziare con valuta pregiata la costruzione del muro. “Neppure un centesimo per Ulbricht” fu lo slogan del momento, lanciato dal Borgomastro di Berlino Ovest, Willy Brandt. Questo portò a un progressivo abbandono del mezzo, obbligatoriamente usato solo nel caso di passaggio di frontiera ovest-est alla stazione di Friedrichstraẞe, punto di controllo di passaporti e visti, massicciamente blindato. Unica stazione operante su una tratta “fantasma”.

Berlino era rimasto l’unico punto nella DDR dove il transito ai settori occidentali, e quindi all’ovest in senso lato, fosse possibile per i cittadini della Repubblica Democratica Tedesca. Prima del 1961 tre milioni e mezzo di tedeschi orientali avevano abbandonato il Paese attraverso quei canali. L’erezione del muro fu finalizzata soprattutto a fermare questo flusso, ufficialmente denominato Republikflucht, esodo o diserzione dalla repubblica. Successivamente alla costruzione della barriera, la stazione S-Bahn  di Friedrichstraẞe si connotò come particolarissima entità geo-urbano-politica: nonostante la sua concreta collocazione in pieno territorio orientale, la piattaforma sopraelevata B della S-Bahn e quella sotterranea dell’U-Bahn erano off limits e accessibili esclusivamente ai treni provenienti dall’ovest. La stazione stessa era stata organizzata come sede di controlli di polizia e doganali che permettevano ai viaggiatori occidentali l’accesso al territorio della DDR. Il suo piano terra venne così a connotarsi come peculiare realtà internazionale, gioco di zone franche, terre di confine, soglie tra due universi distanti poche decine di metri tra loro. Ovviamente l’accesso alle piattaforme “occidentali” della stazione per eventuali cittadini orientali aventi diritto all’espatrio era assoggettato ai labirintici percorsi di controllo di documenti e possessi personali che partivano dall’adiacente Tränenpalast (palazzo delle lacrime), così chiamato per gli strazianti addi che si consumavano al suo ingresso, oggi interessante museo-documentazione di quelle esperienze.

 

Il palazzo delle lacrime che dava accesso ai controlli di polizia e doganali per chi poteva lasciare Berlino Est.


Dalla piattaforma C, dopo aver superato minuziose ispezioni, chi arrivava dall’occidente poteva procedere con la coincidenza alle linee orientali della S-Bahn che avrebbero trasportato nei vari quartieri della capitale, mentre dalla piattaforma A, pure collocata sullo stesso livello e apparentemente contigua ma separata da un vero e proprio muro di vetro e metallo, si poteva accedere alle linee ferroviarie internazionali ugualmente regolate da restrizioni e regole di ammissione particolari ed elaborate. Le vetrate esterne della stazione erano state oscurate, soldati armati presidiavano torrette di controllo sotto il tetto, cani e ufficiali della Stasi pattugliavano la zona, percorsi obbligati e fortificati garantivano “sicurezza” e scoraggiavano ogni fantasia di fuga o trasgressione.

 

Schema delle piattaforme e dei piani alla stazione di Friedrichstraẞe.


Un dettaglio curioso, legato al consumo e alla cultura materiale, vide la piattaforma della U-Bahn colmarsi prima di carelli mobili e poi di veri e propri negozi Intershop (riservati ai possessori di valuta pregiata) per quei passeggeri occidentali che volessero acquistare tabacco e alcolici sfruttando i vantaggi del Duty Free, semplicemente scendendo da un treno della metropolitana e partendo col successivo, venendosi quindi a trovare in zona franca non assoggettata a controlli ed evitando l’accesso al varco di frontiera. 

 

Un negozio Intershop in valuta pregiata sui binari della metropolitana di Friedrichstraβe, 1968.


Mentre la rete tramviaria all’ovest sarebbe stata inopportunamente smantellata, sempre in ossequio alla cultura dell’automobile, la metropolitana fu mantenuta quasi interamente in servizio, comprese alcune linee che, per un certo tratto, transitavano sotterranee in territorio orientale. I capolinea e la maggior parte delle fermate erano in zona dell’occidente, ma tre tratte di quattro o cinque stazioni (due della U-Bahn e una della S-Bahn) erano venute a trovarsi in terra dell’est. In questi casi i treni annunciavano che si stava per lasciare Berlino Ovest, rallentavano la corsa, superavano le stazioni abbandonate (fiocamente illuminate e presidiate da soldati armati di tutto punto) e, senza effettuare fermate, riguadagnavano l’ovest per riprendere regolarmente le soste. Questo fece nascere una serie di cosiddette stazioni fantasma (Geisterbahnhöfe) la cui realtà delicata e inquietante diede luogo a narrazioni e leggende. Inizialmente la velocità di transito concessa fu di 15 km all’ora ma, in seguito al tentativo da parte di un soldato di guardia orientale di saltare su un treno in passaggio, fu aumentata a 25. Le mappe della metropolitana di Berlino Est ignoravano queste stazioni, mentre erano segnalate con vistose croci che ne indicavano la non agibilità, sulle cartine occidentali.

 

Carta della U-Bahn di Berlino Ovest con l’indicazione delle stazioni fantasma oltre la traccia del muro (le linee non colorate appartenevano alla rete di Berlino Est).


La stazione di Reinickendorfer Straβe con l’indicazione “ultima fermata a Berlino Ovest”.


In superficie l’accesso alle stazioni disservite era stato frettolosamente blindato o murato ma, col passare del tempo e con i progressivi interventi di perfezionamento del muro, sarebbe stato sempre più dissimulato, contando anche sull’assuefazione alla realtà quotidiana dello sbarramento che portava a obliterare consuetudini e pratiche del passato anche nei più radicati abitanti. Quest’ultima considerazione permette una riflessione su quanto affrontato in questa pagine: le situazioni qui prese in considerazione rientrano nella categoria dell’estrema eccezionalità. Accanto a queste, deprecabili e insensate, avrebbe continuato a delinearsi l’esistenza quotidiana, sicuramente condizionata e limitata anche da realtà di questa portata, ma non per questo meno intensa, vissuta e addirittura godibile. Se ne parlerà nelle puntate successive.

 

L’accesso murato alla stazione S-Bahn di Nordbahnhof.


L’autorizzazione al transito sul proprio territorio non fu una magnanima concessione della DDR a Berlino Ovest, ma un fruttuoso contratto: il senato di West-Berlin doveva versare 20 milioni di marchi occidentali all’anno per questo privilegio. Nonostante questo, la manutenzione di quelle tratte venne progressivamente abbandonata e nei primi anni Ottanta non pochi furono i casi di deragliamento di treni. In queste circostanze l’unica assistenza possibile, a treni e passeggeri, veniva dai soldati di guardia della DDR. Tra questi non pochi erano stati i casi di defezione sfruttando proprio quei tunnel ferroviari per guadagnare il territorio straniero. Di conseguenza si rese necessario verificare che tra i militari in servizio (sempre in coppia perché esercitassero anche un reciproco controllo) non esistessero legami di parentela o amicizia che potessero renderli complici in una fuga. Per la stessa ragione le coppie venivano regolarmente cambiate. Inizialmente le guardie furono chiuse a chiave all’interno di bunker appositamente costruiti per il controllo. Soltanto nei tardi anni Ottanta si ricorse a una chiusura a combinazione che permettesse loro di uscire in caso di emergenza ma continuarono a non poter lasciare il rifugio blindato immotivatamente senza che i loro movimenti venissero segnalati seduta stante. 

 

Soldati nel bunker di guardia alle stazioni fantasma.


Talora dai finestrini del treno in corsa i passeggeri occidentali lanciavano sulle banchine giornali o prodotti “di lusso” (cioccolata, sigarette, caffè) per “indurre in tentazione” le sentinelle o mostrare “colonialisticamente” la superiorità dell’occidente. Le gallerie furono dotate di sempre crescenti barriere, sistemi di allarme fotosensibili al passaggio di essere umani, sofisticate segnalazioni di transito su pannelli elettrificati, reti metalliche e fili spinati che isolassero i binari dalla piattaforma. Le uscite di sicurezza vennero sbarrate, il che rese i viaggi su quei treni particolarmente rischiosi in caso di incendio. Le stazioni subivano un costante degrado: polvere e detriti si accumulavano sui marciapiedi, le piastrelle di rivestimento si staccavano dai muri, manifesti marcivano sulle pareti. Il tempo parve essersi fermato in quegli antri spettrali e quando, una trentina di anni dopo, il traffico riprese regolarmente veri e propri reperti di modernariato archeologico tornarono alla luce: cartelloni pubblicitari, telefoni, insegne, toponimi, banchi di ristoro. Una specie di museo della DDR ante litteram.

 

La stazione abbandonata di Potsdamer Platz.


Manifesti del 1961 rimasti a testimonianza dell’anno di chiusura della stazione.


I macchinisti orientali in servizio sulle linee S-Bahn che transitavano all’ovest erano scelti con accuratissime selezioni tra i più affidabili cittadini e non potevano mai abbandonare la cabina di guida (tutte le stazioni della rete erano considerate territorio della DDR anche se geograficamente collocate a Berlino Ovest). Ovviamente, seppure soltanto attraverso il vetro dei finestrini, questi potevano verificare la macroscopica quanto superficiale differenza tra la variopinta animazione capitalistica di Berlino Ovest e i più scialbi cromatismi socialisti del settore est. Nel 1980, in seguito a una campagna di licenziamenti di operatori della S-Bahn residenti all’ovest, partì uno sciopero massiccio che si concluse con l’abbandono del posto di lavoro da parte dei molti scioperanti che erano stati denunciati e portò a una considerevole riduzione delle tratte operanti a West-Berlin per mancanza di personale. Nel 1984, in seguito a un accordo tra le parti, la gestione della S-Bahn passò all’azienda BVG che controllava la rete trasporti di Berlino Ovest, ma il ripristino e la ristrutturazione delle linee riguardò soltanto alcune tra le tratte principali. Tra la caduta del muro (1989) e la riunificazione (1990) le stazioni fantasma furono riaperte al libero transito (a eccezione di Potsdamer Platz che avrebbe richiesto maggiori lavori) e la circolazione riprese progressivamente nella città senza più barriere. La notte in cui cadde il muro, 9 novembre 1989, i treni non si fermarono mai. I macchinisti si offrirono volontari per turni straordinari in modo da garantire a oltranza il primo entusiastico collegamento tra i due settori della città dopo ventotto anni di blocco applicando cartelli scritti a mano con le nuove e inaudite destinazioni-capolinea. Jannowitzbrücke fu la prima stazione fantasma a essere riaperta (9/9/89) e a permettere l’afflusso dei viaggiatori orientali diretti all’ovest.

 

Passeggeri in coda alla stazione Jannowitzbrücke riaperta al pubblico servizio nel 1989.


Il 1º gennaio 1994 la Deutsche Bundesbahn (ovest) e la Deutsche Reichsbahn (est) si riunirono a formare la nuova Deutsche Bahn, tuttora responsabile della rete Sbahn berlinese, integrata con la BVG (Berliner Verkehrsbetriebe), a sua volta frutto dell’unificazione delle imprese berlinesi di trasporto est e ovest, che gestisce tram, bus e metropolitana. Molte stazioni dell’una e dell’altra rete ospitano oggi documentazioni e testimonianze sul proprio passato nella città divisa.

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Dalla luna alla terra

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Cinquant’anni fa - il 20 luglio 1969 - lo sbarco dell’uomo sulla Luna. In questa occasione abbiamo preparato quattro pezzi dedicati a questo evento visto da diversi punti di vista, recensendo alcuni libri apparsi in occasione dell’anniversario e pubblicando un capitolo inedito del libro di un filosofo sulla Luna, per concludere con la lettera che Giacomo Leopardi ha scritto a Neil Armstrong in occasione della sua passeggiata sulla superficie del Satellite, e che ha ispirato alcune sue meravigliose poesie.

 

Tra una manciata di giorni ricorrerà il cinquantesimo anniversario dello sbarco dell’uomo sulla luna. Da qualche mese, approfittando della ghiotta occasione editoriale, stanno uscendo nel mondo decine di libri storici, celebrativi, narrativi, antologici sull’Apollo 11 e su quello che qualcuno ha pensato di definire il “concetto di luna”. Fascinazione, sfida, sogno, scienza, avventura, fantascienza, poesia… Tra queste migliaia di pagine, non tutte necessarie, trovo importanti quelle di Richard Wiseman, appena uscite in traduzione italiana per Codice (Volere la Luna. Raggiungere l’impossibile con la “mentalità Apollo”). Il libro si stacca dagli altri per due ragioni: si concentra sui protagonisti minori della missione Apollo 11, si sforza di ricostruire un’atmosfera psicologica virtuosa dimostratasi indispensabile per realizzare un progetto pressoché impossibile. È difficile immaginare che cosa potesse voler dire vivere nel 1962 e sentire JFK annunciare al Congresso che alla fine del decennio l’uomo avrebbe camminato sulla luna e sarebbe tornato indietro sano e salvo.

 

Un po’ come se oggi si annunciasse l’imminenza di un viaggio interstellare verso Alpha Centauri. Nel 1962 l’America aveva eseguito un solo lancio suborbitale con equipaggio umano della durata di 15 minuti, mentre la luna si trova a 384.400 km dalla terra. Nel 1962 i computer erano armadi meno intelligenti di un frigorifero odierno e un volo in economy Roma-New York costava l’equivalente di 4000 euro. Annunciare un viaggio sulla luna era come se Edward G. Robinson avesse promesso dagli Studios di Hollywood di gareggiare alle Olimpiadi del 1968 per il salto in alto. Eppure il 20 luglio 1969 Neil Amstrong onorò la promessa. Al di là dell’incredibile accelerazione tecnologica in una finestra di tempo così stretta, Wiseman ci spiega che il successo fu soprattutto ascrivibile al “fattore umano”, ma in una articolazione curiosamente improbabile.

 

 

Mentre la punta dell’iceberg furono gli astronauti, il modulo spaziale e la diretta televisiva, il lavoro sommerso del Mission Control fu la vera chiave di volta del progetto. E l’aspetto che Wiseman sottolinea fin dalle prime pagine del libro è che l’équipe di terra non era formata da superlaureati, tecnici selezionatissimi, vecchi esperti in materia, ma da ragazzi giovanissimi, neolaureati, provenienti dalla working class, gente abbastanza comune, insomma, che creò un modus operandi di successo completamente inedito. È quello che l’autore chiama Apollo Mindset, un paesaggio mentale che rese possibile, probabile e infine realizzabile qualcosa che in origine era considerato fuori portata.

 

Il libro di Wiseman ha poi una carica supplementare perché dall’analisi storica passa con disinvoltura a una dimensione più pragmatica: dall’esperienza del centro spaziale chiunque può trarre spunti molto concreti per migliorare i propri obbiettivi. Se dunque alcune pagine del libro deragliano in maniera un po’ pop nel self-training e nel quiz motivazionale, il messaggio che passa resta forte e propositivo: l’immaginazione è innovazione. Da Verne che ispira Konstantin Ciolkovskij, il padre della missilistica russa, a Wernher von Brown, il padre della V-2 che collabora con la Disney alla produzione di un documentario sull’avvenire dei viaggi spaziali, le visioni del futuro, il fantastico, la scienza immaginativa, hanno un preciso effetto concreto sul mondo reale. Oggi, a cinquant’anni dall’allunaggio, i sogni e i problemi dell’Occidente ricco e bianco sono molto diversi. L’Antropocene, che può essere visto come una nuova narrazione cosmologica a base scientifico-emotiva, ha definitivamente modificato l’immaginario umano, cambiando la posizione e il ruolo della nostra specie sulla terra, alterando l’autopercezione di Homo sapiens sapiens, smantellando alcune certezze egocentriche ed ecocentriche, regalandoci nuove paure e nuovi scenari, davvero foschi, per il futuro. Senza che ce ne accorgessimo, abbiamo inconsapevolmente attraversato un autentico turn antropologico, ma l’eccessiva prossimità storica ci ha impedito di vederlo con chiarezza, di comprenderne l’entità e le dinamiche complesse.

 

Nello smarrimento, nell’onda di suggestioni apocalittiche, nel crollo di vecchie ideologie ormai inutili per ripensare le azioni umane in  vista del collasso ambientale, stentiamo a trovare una pista praticabile, una soluzione convincente, una via di uscita. Per questo il libro di Wiseman è importante. Perché parlando di un’avventura scientifica e umana consumatasi mezzo secolo fa, suggerendo al lettore delle tattiche di successo personale, ci dice in realtà una cosa fondamentale: la soluzione del problema-terra non va delegata a qualche grande cervello dell’economia, dell’ingegneria, della politica, non può limitarsi a essere la scelta illuminata di un’élite che, lo sappiamo, penserà prima di tutto a se stessa, ma potrà e dovrà passare attraverso le capacità immaginative e creative di tutti, anche di chi è povero, di chi non ha studiato al college, e magari è ancora troppo giovane per essere preso sul serio da una società guidata da vecchi. L’agenda è semplice: immaginare come forma di resistenza, come lotta creativa, verso un piano collettivo in grado di salvare tutti. Dalla luna alla terra, quindi, perché un realismo utopico è impossibile e necessario.

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Primo Levi e Il monumento ai caduti

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A Canale d’Alba nella Piazza del Municipio domenica 30 settembre 1977 si inaugura un monumento. Si tratta dell’opera di Gino Scarsi, uno scultore locale. È un omaggio ai “Caduti e dispersi delle due guerre mondiali”. L’iniziativa è promossa dai circoli di base, dal movimento non violento, da una comunità cristiana di base del luogo e da gruppi politici locali. La scultura è una struttura in ferro modellata a caldo del peso di circa dieci quintali; raffigura una mostruosa creatura a tre teste su cui stanno tre copricapi che l’identificano: un generale, un fascista e un capitalista; ai loro piedi un soldato morto indossa un elmetto. Ricorda un disegno di Enrico Baj. La scultura sarà poi itinerante, esposta in altri luoghi, dal 1984 è ad Acri. L’autore collezionerà quattro denunce per vilipendio, ma sarà prosciolto in istruttoria. Primo Levi è presente. Il suo nome non c’è sul manifesto che annuncia l’iniziativa, tuttavia la sua partecipazione è gradita al gruppo di giovani che hanno organizzato l’iniziativa.

 

L’hanno invitano a prendere la parola. Paola Agosti, fotografa che ha rappresentato il mondo contadino del Piemonte e anche il movimento femminista degli anni Settanta, è presente e scatta una serie di immagini. Paola ha trent’anni e conosce da tempo Primo, dal momento che è amico dei suoi genitori. A distanza di tempo racconterà che queste sono le uniche fotografie che ha scattato. Aveva pensato di farlo successivamente, ma non è accaduto. Sono immagini molto belle perché ritraggono un Levi sorridente, a proprio agio tra i giovani. Parla al microfono e intorno a lui ci sono i promotori della iniziativa. Apre leggermente le braccia nella tipica posa dell’oratore, anche se non c’è nulla di retorico nella sua gestualità, appare spontaneo. Indossa una giacca e nel taschino ha infilato la proverbiale penna, quella che ha portato per anni quando lavorava come dirigente della Siva, la fabbrica di vernici. L’anno seguente uscirà La chiave a stella, romanzo dedicato al lavoro. Porta il pizzetto, la barba e i capelli si sono imbiancati. Gli ha sempre fatto molto piacere parlare con i giovani. Ha cominciato presto, ogni volta che ne aveva occasione, ma è solo dopo la ripubblicazione di Se questo è un uomo presso Einaudi nel 1958, che è diventato un punto di riferimento per loro.

 

Nel 1959 viene inaugurata a Torino la mostra sulla deportazione realizzata a Carpi quattro anni prima. Levi partecipa alla presentazione dell’iniziativa nella sua città. Ci centinaia di giovani ad ascoltarlo e l’incontro viene ripetuto. Sul quotidiano “La Stampa”, nella rubrica “Specchio dei tempi” una ragazza, figlia di un fascista, chiede se è vero quello che ha visto nella mostra, se davvero le cose orribili raffigurate sono accadute. Il giornale chiede a Levi di rispondere: “No, signorina non c’è modo di dubitare della verità di quelle immagini”. Il testimone vuole parlare ai figli di quegli uomini che hanno collaborato o chiuso gli occhi davanti all’abominio della deportazione e dello sterminio. Dopo anni in cui si è parlato solo della Resistenza in termini eroici, a partire dal 1955 s’affronta finalmente l’argomento della deportazione nazista. Il suo libro passa di mano in mano e si esauriscono rapidamente le varie tirature approntate via via da Einaudi. Il testimone Levi viene invitato nelle scuole.

 

Torna a parlare dopo oltre un decennio dalla sua prima testimonianza scritta. Di più: riceve a casa giovani studenti che stanno realizzando tesine per la maturità sul suo libro. Perciò eccolo qui a Canale d’Alba circondato dai ragazzi dei comitati di base. Sono loro che l’attorniano, come il ragazzo in primo piano che stringe il pacco dei fogli; indossa una giacca di lana a scacchi abbigliamento dell’epoca. Levi sorride anche se sta probabilmente parlando di eventi dolorosi, dei “caduti e dispersi di due guerre mondiali”. La testimonianza non è solo qualcosa di triste. Resa in mezzo a quei ragazzi è animata anche dalla speranza. Probabilmente sta spiegando, come ha risposto alla ragazza, “quali riserve di ferocia giacciano in fondo all’animo umano, e quali pericoli minaccino, oggi come ieri, la nostra civiltà”. Si è recato a Canale per ripeterlo ancora. Per questo, con ogni probabilità, quella è stata una bella giornata.

 

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A qualcuno piace caldo

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La buona notizia è che non è vero che i combustibili fossili si stanno esaurendo, la cattiva è che non è una fake news, continueremo a riversare tonnellate di veleno nell’aria come non ci fosse un domani. Mentre fra le sabbie arabe e negli altri pozzi che bucherellano la terra si continuava a estrarre l’oro nero alla vecchia maniera, nel 2008 è stata messa a punto una nuova tecnologia chiamata fracking. L’idea è semplice: immaginate di appoggiare uno smisurato martello pneumatico alla crosta terrestre e di accenderlo in modo che, al posto dell’asfalto, frantumi la crosta rocciosa del pianeta sparando “un cocktail di prodotti chimici mescolati a grandi volumi d’acqua ad altissima pressione” riuscendo a raggiungere le sabbie bituminose sottostanti, intrise di petrolio di roccia, tigh oil, e gas naturale. Quando si è visto che il metodo funzionava, il mondo delle multinazionali ha tirato un grosso sospiro di sollievo, già si stavano quasi rassegnando a doversi convertire a metodi di produzione d’energia più puliti e meno remunerativi, visto che ormai era chiaro che mancavano una manciata di anni alla fine delle riserve. Invece no, improvvisamente la nuova tecnologia apre altri orizzonti. Gli Stati Uniti scoprono, insieme a Regno Unito, Cina e Russia, di avere delle riserve in casa, iniziano a diminuire le importazioni di petrolio e gas, e già dai tempi dell’amministrazione Obama qualcuno inizia a parlare di autosufficienza, con l’immancabile contorno di milioni di nuovi posti di lavoro, costo basso dell’energia e conseguente ripristino della minacciata supremazia statunitense nella politica mondiale, idee ereditate dalla nuova dirigenza americana a cui piacciono tanto anche perché aiutano a ignorare le innumerevoli ricerche scientifiche che danno sempre meno anni di vita alla vita stessa su questo pianeta. 

 

Di questo e altro parla L’alba dell’era solare di Prem Shankar Jha, uscito a maggio 2019 per Neri Pozza. Classe 1938, Prem Shankar Jha è un economista indiano che ha studiato filosofia, con una lunga carriera di consulente per le Nazioni Unite e il governo indiano, di corrispondente per varie testate fra cui il Financial Express e il Times of India e di docente nelle Università della Virginia, alla Haward University e all’Institut d’études politiques di Parigi. Il libro parte da una domanda semplice: come mai, nonostante fin dai primi anni Settanta la comunità scientifica ripeta che il mondo si trova in una situazione di forte pericolo, chi può fare concretamente qualcosa continua a non fare nulla? Prem Shankar Jha indica nella santificazione del mercato la risposta. Quando i governi seguono esclusivamente le indicazioni del mercato, diventa pressoché impossibile proporre soluzioni che non siano quelle già esistenti. Con analisi precise e piene d’informazioni analizza diversi casi mostrando come alcune delle soluzioni più efficaci siano state affossate, denigrate e infine messe da parte esclusivamente per ragioni di convenienza commerciale di pochi grandi gruppi economici. Non è la prima volta che si alza una voce di questo genere, la differenza con anche solo qualche anno fa sta nell’inquietante urgenza che assumono i temi sul tappeto ogni ora, ogni minuto, ogni secondo che passa. Proprio mentre state leggendo queste parole, ci stiamo dirigendo verso quello che già alla fine degli anni Settanta lo scienziato inglese James Lovelock chiamava il punto di non ritorno. 

 

Uno dei dati più inquietanti sta nell’ormai innegabile scioglimento dei ghiacci polari. Ma qui non si parla di orsi bianchi denutriti, di foche e trichechi che perdono il loro ambiente naturale, non si parla neppure della distruzione degli Inuit, che hanno subito la medesima sorte di ogni popolo che ha incontrato la nostra cultura addomesticata, cioè l’estinzione, culturale e fisica. C’è un problema sotto il ghiaccio. Agli inizi dell’ultima era glaciale, circa trentamila anni fa, un’immensa massa di resti vegetali si sono congelati formando quello che viene chiamato permafrost, uno strato della crosta terrestre che circonda il polo Nord, si estende sotto il mar Glaciale Artico ed è profondo da alcuni metri a più di tre chilometri. Il problema è che al suo interno sono intrappolati da 1,3 a 1,7 trilioni di tonnellate di carbonio sotto forma di resti vegetali in decomposizione. È una quantità che supera di almeno duemila volte l’annuale emissione prodotta dall’uomo. A questi si aggiungono i cosiddetti clatrati, o idrati di metano, un composto solido in cui una cospicua quantità di metano è come intrappolata in una struttura cristallina simile al ghiaccio. Un chilo di clatrato può contenere fino a 168 litri di gas metano. Detto in termini semplici, sotto i ghiacci del Polo c’è una quantità di gas intrappolato che se venisse liberato produrrebbe una catastrofe di proporzioni inimmaginabili, qualcosa di simile a quanto succede ne La nube purpurea, un romanzo di Matthew Shiel del 1901, dove una immissione di gas venefico proveniente dal mare provoca lo sterminio completo di tutta l’umanità a parte il protagonista e una ragazza che si salva perché sempre vissuta in una grotta. 

 

 

E proprio dal mare può arrivare un’altra reazione che ci potrebbe scaraventare oltre il punto di non ritorno. Anche qui, non è tanto ciò su cui è concentrata l’attenzione mediatica, cioè l’inquinamento con la plastica, ma il fatto che gli oceani assorbono due terzi di tutta l’anidride carbonica trattenuta dalla natura attraverso le alghe e il fitoplancton. Quando la temperatura degli oceani supera una certa soglia, l’acqua in superficie smette di scendere e quella più fredda in profondità smette di salire, il fitoplancton non riesce più a vivere, l’equilibrio si spezza, l’anidride carbonica non viene più assorbita e cresce andando a incrementare il riscaldamento globale. Ecco un’altra formula che, reiterata all’infinito, si è scolorita perdendo il vero significato a favore di ciò di cui la riempiono i media quotidianamente, comprese le azioni della bimba svedese che ha trascinato con sé le nuove generazioni verso una ribellione contro il mondo degli adulti, colpevole di aver trascinato il mondo sull’orlo del baratro, ottenendo come effetto secondario che quel mondo relega questo genere di preoccupazioni fra le bagatelle da ragazzi, da bimbi, appunto, mentre gli adulti hanno ben altro a cui pensare. 

 

Qual è la soluzione? Prem Shankar Jha sostiene che siamo ancora in tempo. Dobbiamo non solo smettere di produrre anidride carbonica, ma mettere a punto i sistemi che ci permettono di estrarla dall’atmosfera. Per l’autore indiano uno dei noccioli della questione sta nei trasporti, nel trovare un’alternativa valida alla benzina, alternativa che non solo è già disponibile da tempo, ma che ha avuto anche modo di essere già sapientemente affossata dai grandi gruppi economici. Produrre energia dai rifiuti generici delle città e dagli scarti delle lavorazioni agricole, le biomasse, attraverso processi non inquinanti e convenienti è già una realtà in molti paesi, si tratta di indirizzare le lavorazioni verso la produzione di metanolo. Nel ’43, in piena Seconda Guerra Mondiale, la Germania aveva iniziato a usarlo come carburante su larga scala, dagli anni Cinquanta in due paesi lontani fra loro geograficamente e politicamente, Sudafrica e California, il metanolo veniva mischiato alla benzina con risultati eccellenti dato che la miscela aumenta le potenzialità del motore. Il problema della diffusione del metanolo non sta solo nella rete di distribuzione che deve attrezzarsi, ma soprattutto nella lobby agricola che ha spinto l’etanolo che, prodotto dall’amido di mais, ne provoca l’aumento di prezzo e mette a rischio larghe fasce di popolazione. Negli Stati Uniti, “secondo un rapporto del dipartimento dell’Energia, il metanolo era stato sconfitto dall’etanolo perché non aveva il sostegno di una lobby organizzata.”

 

Prem Shankar Jha analizza a fondo eolico, fotovoltaico ed etanolo mostrando come, essendo tutte soluzioni scarsamente efficaci, proprio per questo sono spinte dal sistema che non le teme, mentre le soluzioni che potrebbero rivoluzionare veramente la produzione di energia sono combattute e messe in condizioni di non nuocere. Tra queste, quella che più ritiene valida è l’energia solare termodinamica sviluppata dagli impianti a concentrazione solare, Concentrating Solar Power, CSP. Contrariamente al fotovoltaico, per la loro costruzione non si usano materiali rari ma essenzialmente acciaio e specchi. Il principio è molto simile a quello usato da Archimede per bruciare le navi romane durante l’assedio di Siracusa, una serie di specchi che dirigono la luce e il calore del sole in un punto centrale. Il 5 febbraio 2016 si è inaugurato a Ouarzazate in Marocco l’impianto a concentrazione solare più grande del mondo. L’azienda è spagnola, la volontà di costruirlo è del governo marocchino che non vuole più dipendere dalle importazioni per il fabbisogno energetico. Il risultato è che da quando l’impianto è in funzione la dipendenza energetica del Marocco è passata dal 97% al 58%. 

 

Dalle analisi di Prem Shankar Jha emerge con chiarezza la grande resistenza che ha il mondo economico nell’abbandonare i metodi di produzione dell’energia attuali soprattutto perché garantiscono la continuità della concentrazione del potere dov’è ora. Spostare la produzione dell’energia verso i paesi del sud del mondo significherebbe spostare a sud anche l’asse economico e questo, solo questo, evidentemente non è sostenibile. 

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La lunga alba dell’era solare
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